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Autore: Genziana_91    11/09/2020    7 recensioni
All'alba di un indefinito momento tra l'Età del Bronzo Finale e l'inizio dell'Età del Ferro, un popolo lotta fino all'ultimo uomo (e donna) per la sopravvivenza.
Dedicata a tutti quei popoli che la Storia ha cancellato dalla memoria.
Genere: Guerra, Malinconico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Antichità
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Il vento cessò all’improvviso e la notte calò prima del tempo. Le acque placide della grande madre Danu si macchiarono di sangue e fuoco, mentre un tamburo chiamava a raccolta le anime dei defunti. La sacerdotessa si recise i polsi e si abbandonò alla dea, invocandone l’aiuto. I nostri figli, le nostre donne e i nostri guerrieri fissarono il fiume aspettando un segno che non arrivò. Erano occhi enormi, aggrappati alla speranza di vedere ancora un’alba. Occhi che non erano pronti a morire.

Quello, però, era compito mio.

Radunai il villaggio nella grande casa, attorno ad un fuoco più imponente di tutti quelli che quella sala aveva mai visto. L’ultimo fuoco sarebbe stato il più bello e il più brillante di tutti. Presi il tamburo e ne assaggiai il legno consumato dall’uso, la perfezione con cui si adattava alla mia mano, la pelle dura e viva che fremeva, mentre il silenzio della sala ne faceva tremare la superficie. La sfiorai con un polpastrello, poi un colpo deciso, e i cuori degli astanti vibrarono in accordo.

Per un’ultima volta, cantai.

Cantai degli eroi del nostro popolo, di come avessero sfidato il tempo. Riempii i loro petti di storie e parlai loro del guerriero che morendo aveva vinto la morte, eternamente vigoroso nella sua armatura di bronzo; dell’uomo che con l’arguzia l’aveva ingannata, fin quando, sazio di vita, si era concesso al suo abbraccio. Narrai delle donne di fuoco e ferro che cavalcano in guerra, le cui voci terribili e meravigliose accompagnano gli uomini in battaglia, e delle tre sagge che tessono le vite degli uomini e che ne decretano la fine. Dipinsi davanti a loro, tra le lingue indomabili del fuoco e i colpi possenti del tamburo, la grande tela dell’esistenza, dove ogni filo fa parte del disegno, che, come la Madre Danu, è inarrestabile nel suo scorrere.
Quando l’ultimo battito lasciò il tamburo, il mio popolo era pronto a combattere. Era pronto a morire.

Allora i petti si riempirono di orgoglio, gli animi si gonfiarono di coraggio e quegli occhi che avevano avuto paura, adesso ardevano di un fuoco più brillante di quello nella grande sala. Armature vennero allacciate, schinieri stretti ai polpacci, lance e spade impugnati e scudi imbracciati. Le donne si schierarono spalla a spalla con i loro uomini, pronte ad alzare le loro voci terribili e meravigliose. In quella notte senza luna e alla luce di un lampo lontano, le mura de villaggio brillarono del bronzo di cento spade e del canto di mille guerrieri.Poi scese il silenzio ed un tuono sommesso riempì la notte più buia del mio popolo.

L’ultima che avrebbe conosciuto.

Strisciarono simili a lingue di bruma in un’alba di inverno, creature della notte, parto di un dio deforme. Apparvero, alla luce accecante di un lampo, nelle loro armature di ferro scuro, con i loro scudi neri e gli elmi a coprirne le fattezze che, di certo, non potevano essere umane. Non cantarono, non intonarono litaniené suonarono corni, ma qualcosa si mosse. Un fremito, un sussulto, forse un segnale. Lo sentimmo anche noi, con i fiati sospesi e i cuori immobili. Poi la fine ebbe inizio.
Vennero prima le frecce, dardi infuocati che si conficcarono nei nostri scudi, che incendiarono i nostri tetti. Fummo forti e non ci lasciammo intimorire, così rispondemmo al fuoco con il fuoco e il cielo si illuminò a giorno. Ne abbattemmo molti, nelle loro corazze nere. Caddero, ma altri ne vennero avanti, allora ci asserragliammo dietro le nostre porte, dietro le grandi pietre delle nostre mura. La terra tremò sotto i nostri piedi, un sussulto febbrile ci strinse il cuore nel petto, e le porte vacillarono. Caddero pietre e polvere, ma rimasero solide. La voce del tuono si confuse con gli sforzi dei nostri nemici contro le assi di possente legno. Aspettammo, le lance spianate e gli scudi serrati, fermi sui nostri piedi. Alla fine, le porte cedettero e i guerrieri di ferro si pararono davanti a noi, furie nere portatrici di morte.

I nostri guerrieri combatterono e caddero, e vidi la vita lasciare i loro occhi, i loro visi farsi attoniti mentre lo spirito fuggiva via. Altri però riuscirono a mantenere la posizione e li vidi spingere scudo contro scudo, animati da un fervore inumano, finché non fu impossibile distinguere i nemici dagli amici e fu un caos di fuoco e sangue. Sudore e morte si confusero in un abbraccio indissolubile e le grida divennero tutt’uno con il rombo del tuono, che, ormai furioso, riempiva un cielo squarciato dai lampi. Furono pochi minuti, o forse intere generazioni, quando, alla fine i nostri nemici abbandonarono la nostra porta e si ritirarono, un fiume oscuro e disordinato.

Respirammo, mentre una pioggia scrosciante lavava via il sangue dei nostri morti e dai nostri visi esausti. L’alba, opaca e grigia, schiariva il cielo sopra le nostre teste e grida di dolore e vittoria si levarono dal mio popolo. Avevamo combattuto con abbastanza ardore da vedere una nuova alba. Alzammo le nostre spade insanguinate al cielo, bevemmo la pioggia e la mischiammo alla birra. Le nostre donne cantarono una canzone dolce per i caduti e la Madre,per un istante, sembrò sorriderci.

I nostri nemici, però, erano ancora lì. Una massa malsana e compatta, i loro visi, resi furiosi dalla sconfitta, erano una maschera di ferocia. Si alzò di nuovo il vento e ci portò l’odore della loro rabbia. Ricomponemmo i ranghi, mentre la pioggia ci sferzava i visi ancora sporchi di sangue e sudore. Questa volta le porte non ressero a lungo ed una fiumana di morte piombò da ogni lato.

Combattemmo. Con il fuoco che bruciava nel petto, le donne gridarono e caddero accanto ai loro uomini. Scudo accanto a scudo, arti vennero recisi, corpi dilaniati e perforati. I capelli dei morti e dei vivi si insozzarono di sangue e fango, le corazze si sporcarono di morte, ma combattemmo. Nel furore della battaglia portammo molti nemici con noi, li trascinammo nell’oscurità della disperazione. Godemmo di un piacere perverso nel vedere i loro occhi spegnersi insieme ai nostri, nell’impregnarci le vesti del loro sangue mentre la vita ci abbandonava. Godettero le nostre donne nel bagnarsi le braccia nelle viscere dei loro stessi assassini, nell’affondare le unghie nelle loro carni nell’ultimo spasmo della morte.

Combattemmo. Come bestie ferite, riversammo in quell’ultimo sforzo la frustrazione di vite spezzate troppo presto, di un popolo spazzato via dalla memoria. La disperazione di fronte all’oblio, il terrore di essere dimenticati. Ci aggrappammo a quell’angoscia e ne facemmo la nostra arma più tagliente. Con quella lottammo fino all’ultimo respiro, fino all’ultima goccia di sangue. Inspirammo l’ultima boccata di aria e il vento ci portò l’odore del bosco, della terra umida e del muschio. Lo strazio di non poter sentire ancor il canto della rondine a primavera o il passo lieve dei cervi d’estate ci riempì il petto di una nostalgia furiosa. E così, con il cuore pesante e l’odore di muschio nelle narici, morimmo.

Il vento cessò all’improvviso e la notte calò prima del tempo.
   
 
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