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Autore: BellaLuna    15/09/2020    5 recensioni
[Sesta Classificata al "Wish upon a star" contest indetto da inzaghina.EFP sul Forum di EFP.]
Una volta, Livia mi chiese: "Come fanno le stelle ad avverare i desideri?". Era una domanda difficile a cui rispondere per un bambino di soli dieci anni che a stento conosceva il significato delle parole come speranza, e che era convinto da sempre che... esprimere certi desideri faceva più male che altro, perché nella maggior parte dei casi nessuno di essi veniva mai esaudito, e rimaneva sospeso da qualche parte, sopra la coda di qualche stelle cadente, o nel soffio di qualche soffione, o in fondo all’acqua di qualche fontana insieme alla monetina che qualcuno aveva lanciato.
Questa è la storia di come cambiai idea.
[Storia partecipante alla Challenge "Real life" indetta da ilminipony sul forum di EFP.]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Kidfic, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
- Questa storia fa parte della serie 'Figli delle Stelle'
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Infinite stelle splendono per infiniti cieli
 

§
 
Una volta, Anna mi disse che tutte le cose più strane che le erano successe nella vita, avevano avuto luogo durante un temporale estivo.
Lo disse con un tono di voce calmo e pacato, come se ormai si fosse rassegnata all’idea che se davvero ognuno di noi nasceva con addosso una sorta di maledizione, quella era la sua.
Quando me lo confidò la prima volta, ricordo che la guardai come se le fosse spuntata una seconda testa sul collo e risi fino a farmi male la pancia.
Non era da Anna fare certi discorsi, - lei che non credeva nemmeno a cose come l’oroscopo e prendeva costantemente in giro Livia per tutti i suoi sciocchi riti scaramantici prima di un concerto o di un esame universitario.
Eppure, a ripensarci ora, tutto mi appare estremamente più chiaro, così chiaro da farmi quasi paura.
Pioveva anche il giorno in cui mi lasciò, il 31 agosto del 2003.
Ricordo che, ritornato da uno dei miei tanti lavoretti part-time, la trovai nel soggiorno, tutti i suoi bagagli erano già stati sistemati all’entrata del nostro appartamento.
Era seduta su una sedia, con le cuffie del walkman nelle orecchie, e giocherellava con l’anello di fidanzamento che con tanti sacrifici ero riuscito a comprarle e a regalarle.
Il suo sorriso era triste, ma non c’era nessuna traccia di indecisione nel suo sguardo quando i suoi occhi incrociarono i miei, si tolse le cuffie dalle orecchie e si alzò in piedi, poggiando l’anello sul tavolo.
“Il nostro amico Yuri mi ha raccontato una storia buffa, oggi, sai?” esordì, mentre io la fissavo come un ebete, senza riuscire a capirci nulla, “La storia di un bambino che aveva paura del buio e della bambina che per aiutarlo gli ha insegnato i nomi di tutti le stelle.”
Fuori pioveva a dirotto, il rumore della pioggia che batteva sulle finestre era persino più forte del suono delle parole di Anna, dei suoi passi che si apprestavano verso la porta d’ingresso, dello strappo con cui vecchie ferite del mio cuore si andavano riaprendo e infiammando dentro di me.
Le parole mi restarono incastrate in gola, il loro sapore, quando deglutii, era amaro come fiele, caldo come cenere.
Anna afferrò uno dei suoi borsoni e se lo mise in spalla, e poi disse, prima di allontanarsi per sempre dalla mia vita: “Non è a me che avresti dovuto regalare quell’anello, Edo. Perché non sono mai stata io la tua ragazza dalle stelle.”
Uscì e si chiuse la porta alle spalle.
All’epoca, mi concentrai solo sul temporale estivo, di cui Anna mi aveva avvertito, e non mi resi conto di un dettaglio che non aveva nulla a che fare con la sua vita e tutto, invece, con la mia.
Se le cose più strane della vita di Anna erano sempre accadute durante un temporale estivo, le mie, chissà mai perché, accadevano sempre, per qualche motivo, durante il crepuscolo.
Quella sera però, le nuvole avevano invaso il cielo, e anche se avessi alzato lo sguardo verso il firmamento, non avrei scorto proprio nessuna stella.
Come un automa afferrai il walkman di Anna per ascoltare la canzone che stava ascoltando prima di lasciarmi.
Riconobbi la mia voce registrata che cantava: “Girl from the stars, take me away from all this darkness”.
Per tanto tempo, avevo pensato che il mio amore per Anna fosse simile a un Sole: lei era bellissima, splendente, piena di vita.
L’avevo associata spesso a una nuova alba, a un nuovo inizio, a una nuova primavera della mia esistenza, e facendo ciò avevo dimenticato la lezione più importante, ossia che le stelle più grandi, quelle che ardono più luminose, sono quelle che finiscono sempre per consumarsi più velocemente rispetto alle altre, e che alla fine, tutto ciò che si lasciano dietro è solo un gigantesco, spaventoso buco nero, un vuoto capace di risucchiare via ogni cosa.
Perciò, Anna aveva ragione, mi ero lasciato accecare dal suo splendore e catturare dalla sua orbita come un piccolo satellite errante solo perché ne avevo bisogno, solo perché ero spaventato dal gelo che aveva nuovamente invaso il mio cuore dal giorno in cui, per paura di rovinare tutto come al mio solito, avevo lasciato che Livia si allontanasse da me, proprio come avevano fatto volta dopo volta tutti gli altri.
Ma, nonostante ciò, era ancora lei la stella polare che stavo inseguendo, era ancora lei la mia ragazza dalle stelle.
Merda.
 

*
 
 
“Senti, Edo, secondo te come fanno le stelle ad avverare i desideri?”
 
 
La prima volta che incontrai Livia avevo dieci anni, vivevo in un piccolo paesino della Sicilia che si affacciava sul mare e frequentavo ancora la classe quinta elementare, nella stessa scuola di quella che poi, un giorno, sarebbe diventata la mia migliore amica.
Quell’anno, per la recita di Natale, la maestra ci disse che avremmo collaborato con i bambini di un altro corso, e assegnò a me la parte di una specie di menestrello che avrebbe dovuto accompagnare l’assolo della Vergine Maria quando quest’ultima, con in braccio il suo bambino/bambolotto, avrebbe intonato per tutto il pubblico presente la famosa “Tu scendi dalle stelle”.
A causa del mio carattere schivo e impertinente, che non mi rendeva simpatico né alle maestre né ai miei compagni, (per non parlare poi della mia pessima situazione familiare), non avevo mai ricevuto nessuna parte durante le recite scolastiche, - e ne ero stato sempre incredibilmente felice, tra l’altro – ma quell’anno, dopo che accidentalmente la mia maestra scoprì che non solo sapevo suonare la chitarra, ma che ne avevo anche una mia, il desiderio di fare bella figura con il preside e con l’intero paese fu più forte della sua diffidenza nei miei riguardi e io finii per essere coinvolto di malavoglia nel progetto, che mi avrebbe tenuto a scuola due ore in più ogni giorno dal 1° di dicembre fino al giorno dello spettacolo.
La bambina dell’altra classe a cui era stata assegnata la parte della Vergine Maria, era proprio Livia, la quale si presentò a me durante uno dei primi giorni di prove e ricordo ancora perfettamente che quando la vidi mi sembrò che una delle principesse delle fiabe fosse appena saltata fuori dalle pagine di un libro: era molto bella e il suo sorriso da solo sarebbe riuscito a illuminare a giorno l’intera aula magna, inoltre indossava un vestitino ridicolo di tulle rosa confetto, perfettamente abbinato alle sue scarpette color crema e a un gigantesco fiocco che aveva sulla testa e che doveva servirle per tenere a bada i suoi riccioli castano chiaro.
<< Ciao! Io sono Livia e ho dieci anni. Tu come ti chiami? >>
Aveva la pelle rosea e occhi da cerbiatta, così grandi da sembrare quasi sproporzionati sul suo visino così minuto.
<< Io sono Edo...ardo…>> non ero abituato a parlare con le bambine – specie con quelle carine –, così il mio primo approccio con lei fu dei peggiori, l’imbarazzo mi fece attorcigliare la lingua e affondare le mani nelle tasche dei jeans, la fissai per tutto il tempo come uno scemo, a bocca socchiusa, mentre lei mi raccontava com’è che la maestra della sua classe avesse deciso le parti da assegnare a tutti i bambini.
<< L’anno scorso è stata Greta a fare la Vergine Maria, ma, non so se te lo ricordi, il giorno della recita si è sentita male e ha vomitato sul palco, davanti a tutti. È stato bruttissimo, poverina. Quindi, quest’anno la maestra ha scelto me. Anche se avrei preferito fare uno degli angeli, come l’anno scorso, perché il vestito di scena è più bello. Tu che ne pensi? >>
Ricordo che pensai che fosse una bambina buffa, che sembrava che parlasse più velocemente di quanto potessero correre i suoi pensieri dentro la sua testa.
Mi fece sorridere, ma il livido scuro che avevo sulla guancia dovette trasformare ai suoi occhi il mio sorriso in una brutta smorfia e la spaventò tanto da farla arretrare da me di qualche passo.
Ecco perché stavo sempre lontano dagli altri bambini.
Tuttavia, non scappai a nascondermi in un angolo, – come avevo fatto spesso altre volte -, e invece, provando a scherzare, le dissi: << Ti prego, non vomitare sulla vecchia Nyx.>> a quell’epoca, era davvero quella la cosa a cui tenevo di più, l’unica cosa che fosse realmente mia.
<< Chi è la vecchia Nyx? >>
<< La mia chitarra.>>
Il suo sorriso splendente ritornò a illuminarle il volto. << Non lo farò. Ma tu per sicurezza stammi lontano 500 metri.>>
<< Il palco della scuola è largo solo 10 metri.>>
<< Allora tu stammi lontano 10 metri, e siamo apposto, Edo...ardo.>>
 
*
 
Quando sentii Livia cantare la prima volta, durante una delle nostre prime prove insieme, capii per quale motivo la sua maestra l’avesse scelta per la parte, e il motivo, a differenza di quello che lei mi aveva detto, non aveva nulla a che vedere con il fatto che Greta avesse vomitato sul palco l’anno prima.
Non avevo mai sentito nessuna bambina cantare con una voce come la sua, sembrava una creatura extraterrestre le cui note musicali erano avvolgenti e calde come degli abbracci, dolci e soffici come il bacio di una piuma sulla pelle.
Ricordo che pensai che se gli angeli avessero davvero avuto una voce per cantare, allora quella voce sarebbe di sicuro stata uguale a quella di Livia.
<< Allora, come sono andata? >> venne a chiedermi, allegra e saltellante, dopo che terminammo la nostra prima prova insieme.
<< Non lo so, ero distante da te 10 metri e non ho sentito niente.>>
<< Tu non sei un bambino molto simpatico, vero, Edo...ardo? >>
<< Non particolarmente, no.>>
In realtà, ero sorpreso e anche un po' divertito dal fatto che Livia si rivolgesse a me con tanta confidenza, che fosse gentile con me, anche se non avevo mai fatto nulla per meritarlo.
All’inizio, credevo che come il sorriso di cortesia delle maestre e quello di vagata spensieratezza degli altri bambini, anche quello di Livia fosse un sorriso falso, un sorriso di convenienza, che ogni giorno lei si sforzava di mostrare al resto del mondo e di indossare come accessorio, al pari dei suoi cerchietti buffi e dei suoi vestiti dai colori stravaganti. Ma, sebbene in quei giorni avessi provato più volte a smascherarla, a farle dei piccoli dispetti come nasconderle lo zaino o mangiare le sue merendine, non riuscii nemmeno una volta a far vacillare, anche di solo un centimetro, quel suo sorriso raggiante.
Sorrideva divertita anche mentre mi prendeva a colpi con una delle corone di cartone dei Re Magi, o quando minacciava di spaccarmi in testa la vecchia Nyx. E quando non erano le sue labbra a sorridere, (come per esempio, quando facevamo tuti insieme le letture del copione), allora a farlo erano i suoi occhi enormi, dello stesso colore del cioccolato al latte.
Prestandole maggiore attenzione ogni giorno, mi resi conto che lei era vera, non fingeva, non aveva schemi, né secondi fini, che il sorriso che indossava non era affatto una maschera o una messa in scena come quella che stavamo organizzando, ma la realtà.
Livia era fra quelli che si offrivano spontaneamente per badare ai bambini più piccoli, mentre le maestre prendevano in disparte quelli più grandi per far provare loro le scene più difficili. Molte volte, l’avevo anche vista rimanere a scuola per aiutare le sue compagne di classe a imparare le battute, e vedevo il modo buffo in cui cercava sempre di tirare su di morale chi, durante le varie prove, finiva per combinare qualche pasticcio.
Non ci misi molto a rendermi conto che tutti, lì a scuola, la adoravano, perché Livia assomigliava a una piccola stella cometa che attirava intorno a sé altri satelliti più piccoli, i quali, abbagliati dalla sua luce, sembravano brillare di conseguenza.
Ricordo che in quei giorni smisi finalmente di farle la guerra e finii anche io per desiderare di poter essere suo amico, desiderai che la sua luce e il suo calore riuscissero a riscaldare anche il vuoto e il gelo che una casa sempre troppa silenziosa e troppo vuota avevano finito per disseminare dentro di me.
Per questo, quando toccava a noi di provare insieme, mi impegnavo sempre con tutte le mie forze, e mi sforzavo anche di mostrarmi più gentile con lei, con le maestre e i compagni, evitando di rispondere loro sempre a tono o con fare insolente.
Solo una volta presi in giro il mio compagno di classe Toni, dicendogli che la coreografia dell’asinello era cambiata, e che avrebbe dovuto girare a destra e non a sinistra, e così ci ritrovammo sul palco con la testa dell’asinello che andava da un’altra parte rispetto al suo culetto.
Ci furono molte risate, e poi la maestra mi rimproverò, ma ne valse decisamente la pena.
<< Perché hai fatto quello scherzo a Toni? >> mi chiese Livia, aiutandomi ad appendere per tutta la sala le stelle gialle di cartone che avevamo realizzato insieme agli altri, proprio come la maestra mi aveva ordinato di fare per punizione.
<< Ha toccato la vecchia Nyx senza il mio permesso.>>
Livia fece roteare gli occhi al cielo, però poi mi sorrise: << Allora se l’è meritato! >>
Quella volta, anche se non avevo uno specchio per osservarmi, capii dal suo sguardo che anche il mio, di sorriso, doveva avere la forma giusta, perché i suoi occhi color cioccolato presero a brillare come luci di natale.
 
*
 
Il pomeriggio della recita, l’aula magna della scuola elementare era piena di genitori e nonni e parenti vari di tutti i bambini.
La sala sembrava essersi trasformata nella piazza del paese, con luci colorate che pendevano dal soffitto, canzoni natalizie sparate a palla dagli impianti stereo e donne anziane che si urlavano contro per riuscirsi a sentire l’una con l’altra.
A lungo sbirciai da fuori le quinte per scorgere la figura alta e magra di mia madre sugli spalti, ma lei non si presentò mai. Avrei dovuto saperlo, ma ci restai male ugualmente.
Poi però sentii la mano di Livia stringersi intorno al mio braccio.
Le avevano attaccato un velo azzurro sopra la testa, lasciando fuori solo due ciocche ricce di capelli che le incorniciavano il viso.
Aveva ragione, il vestito della Vergine Maria non era proprio un granché.
<< Ora capisco perché Greta l’anno scorso ha vomitato. >> mi disse, presa da una strana agitazione che le faceva scaricare il peso del corpo prima su un piede e poi su altro.
Le puntai un dito contro con fare minaccioso: << Ricordati del nostro accordo: niente vomito sulla vecchia Nyx.>>
In tutta risposta, Livia mi strinse il braccio così forte che pensai che avesse voluto staccarmelo: << Me la sto facendo sotto dalla paura, Edo. Sono seria.>>
<< Ma se solo qualche minuto fa, hai tenuto tutto un discorso di incoraggiamento per i tuoi compagni di classe! >>
<< Vero... ma è più facile quando a essere spaventati sono gli altri e non tu, non lo sai? Che faccio? Che faccio? E se mi dimentico le battute, o cado, o inizio a cantare fuori tempo? >>
<< Andrà bene. Non guardare loro, guarda me. >> per infonderle un po' di coraggio le presi la mano e la strinsi nella mia, e allora, come se fosse stata in grado di vedere al di là della mia finta maschera spavalda, lei sorrise scuotendo la testa e poi mi sistemò il basco da cantastorie che la maestra aveva abbinato al mio costume da pastorello.
 << Va bene. Ma allora tu stammi vicino e guarda verso di me, così sarà più facile! >>
Non sarebbe stato un problema per me, perché nessuno, dacché ricordavo, mi aveva mai mostrato la stessa gentilezza né la stessa dolcezza di quella bambina, che ogni pomeriggio per le prove arrivava a distribuire esuberanza e gioia natalizia.
Sarebbe stato inevitabile, per me, guadare solamente lei, come sempre.
<< D’accordo.>> le dissi, e qualche minuto dopo il sipario si aprì ed eravamo in ballo.
 
*
 
Alla fine, con grande gioia di tutti, nessuno vomitò su nessuno, la recita fu un successo di battute dimenticate dai bambini a cui le maestre bisbigliavano da dietro le quinte, coreografie distrutte all’ultimo secondo, (ma stavolta non per colpa mia), e canzoni urlate a squarciagola capaci di risvegliare anche i morti.
A un certo punto, il bambino che interpretava Giuseppe per sbaglio staccò la testa al bambolotto che interpretava Gesù e ci fu un attimo di panico generale quando la testa cadde e rotolò sul palco, fino a quando Livia la riacciuffò, la riattaccò al corpo e poi, alzando il bambino verso l’alto, urlò “Miracolo!” e tutti gli angioletti intorno a lei iniziarono a cantare in coro “Alleluya! Alleluya!”.
Da dietro le quinte potetti godermi tranquillamente la scena di una delle maestre più anziane che si strozzava letteralmente dalle risate, piegata in due sulle ginocchia, con il volto in fiamme mentre una delle maestre più giovani le sventolava vicino al viso il copione della recita per farle prendere aria.
Poco dopo quella scena, fu il nostro turno e, fuori da ogni previsione, la nostra esibizione andò strabene.
Livia non sbagliò una nota e guardò verso di me tutto il tempo, lanciando solo di tanto in tanto un’occhiata verso il pubblico, come se stesse cercando qualcuno.
Io, dall’altro canto, ero contento di avere solo quella parte e di dovermene stare semplicemente zitto e seduto su una finta balla di fieno a suonare, perché ero convinto che se fossi stato costretto ad alzarmi e parlare, probabilmente sarei morto d’imbarazzo.
La recita si concluse con tutti noi bambini che, formando una catena umana, alzavamo le braccia e facevamo l’inchino mentre il pubblico applaudiva.
Quando il sipario si chiuse davanti a noi, la mia maestra corse per prima ad abbracciare me e Livia.
<< Oh, grazie, Signore, grazie! Che gioia! Non avete sbagliato niente! Questa giornata è salva! >>
Io rimasi paralizzato dall’imbarazzo, – era la prima volta che la mia maestra mostrava dell’affetto per me -, mentre Livia, più che ricambiare il suo abbraccio, cominciò a darle pacche sulla schiena come se volesse consolarla.
Quando la maestra se ne andò, ci guardammo un attimo negli occhi per poi scoppiare anche noi a ridere a crepapelle fino a farci venire le lacrime e Livia gettò via il suo velo urlando con la vocina stridula dei bambini più piccoli: “Alleluya! Alleluya!”
Poi mi prese per mano e mi trascinò giù dal palco, verso gli spalti.
<< Vieni, ti presento una persona speciale! >> mi disse, pimpante e solare come sempre.
Io quasi non inciampai sul suo costume e persi il cappello durante la corsa.
Quando arrivammo a destinazione, davanti a noi c’era un signore anziano molto elegante, dal ventre prominente e il viso rubicondo, che non avevo mai visto. Se avesse avuto la barba lunga e il vestito rosso, sarebbe sembrato un perfetto Babbo Natale. Aveva anche gli stessi occhi dolci di Livia.
<< Edo, lui è mio nonno, viene da un paese incantato chiamato Livorno e ha centocinquanta anni. >>
Ormai, avevo capito che con le unità di misura la mia amica aveva qualche problema.
<< Bugiarda.>> le dissi, tirandole scherzosamente una ciocca di capelli, << Nessuno è così vecchio, Livia.>>
<< Invece sì, ti dico.>>
Il nostro stupido battibecco venne accompagnato dalla grossa risata del signore di fronte a noi, il cui viso così come la testa mezza pelata si erano accesi di rosso mentre noi bisticciavamo.
<< Peccato che il prossimo anno sarete alle scuole medie! Altrimenti, avrei proposto alle vostre maestre di farvi fare un duetto comico per la prossima recita. A proposito, siete stati entrambi molto bravi! >>
Il nonno diede a Livia un buffetto sulla testa e a me una pacca sulla spalla, cosa che mi fece sentire estremamente orgoglioso, più di tutti gli applausi dei genitori sconosciuti che avevamo ricevuto alla fine.
Tutto intorno a noi, anche i nostri compagni avevano raggiunto i loro parenti, le maestre sul palco parlavano fra loro, con enormi mazzi di fiori fra le mani.
Le luci natalizie che erano state sistemate in tutta la sala, e che erano state dimenticate e accese solo ora, diffondevano nell’ambiente un alone bianco e luminoso.
Mentre Livia spiegava a suo nonno di come quello scemo di Nicola avesse staccato la testa al Bambino Gesù, io mi persi ad osservare uno dei bambini più piccoli correre in braccio a sua madre, mentre lei gli sorrideva, gli accarezzava i capelli e poi lo faceva sedere su una delle sedie pieghevoli di legno per sistemargli il costume da pastorello.
Mi chiesi, anche se solo per un secondo, dove potesse essere la mia, di madre.
L’ultima volta che l’avevo vista era stato due giorni prima, ma per mia madre non era una novità quella di picchiarmi, poi sparire, e poi tornare supplicandomi di perdonarla in ginocchio in un mare di lacrime.
Al tempo, credevo che fosse colpa mia, perché ero nato nel momento sbagliato, quando mia madre era troppo giovane, troppo inesperta per prendersi correttamente cura di me.
Eppure, non riuscivo a togliermi dalla testa un pensiero terribile, un pensiero che avrebbe sin da allora iniziato a seminare gemme di gelo dentro il mio cuore di bambino.
Perché mia madre mi aveva dato alla luce, se sapeva fin dall’inizio che non sarebbe stata in grado di amarmi?
<< Hey Edo...! >> sentii la voce di Livia richiamarmi e io sobbalzai voltandomi nuovamente verso di lei, nella speranza che non avesse scorto nel mio sguardo nessuno dei mostri con cui ero costretto a lottare ogni giorno, quando tornavo nella mia casa fredda e vuota, e al buio tremavo dalla paura che uno di quei giorni mia madre si fosse definitivamente stancata di me e non sarebbe più tornata indietro.
<< Dimmi...>>
Vidi la fronte di Livia aggrottarsi mentre, con una mano stretta a quella di suo nonno, iniziava a lanciare sguardi confusi per tutta la stanza.
Era una bambina sveglia, e sapevo che non ci avrebbe messo molto tempo per capire la verità, e infatti non mi sorpresi quando alla fine mi chiese: << Ma... nessuno dei tuoi è venuto...? >> nel pormi quella domanda la vidi adombrarsi, stringersi nelle spalle, lanciare occhiate incerte a suo nonno, che adesso aveva poggiato entrambe le sue mani sulle spalle della nipote.
Io mi limitai a scrollare le mie e ignorare il masso che pesava sul mio cuore di bambino.
<< No... mia mamma lavora fino a tardi.>> le spiegai, non scendendo nei particolari.
Livia si limitò a lanciarmi un sorriso triste e a bisbigliare: << Capisco.>> ancora leggermente a disagio, lanciando un’altra occhiata verso suo nonno.
A quel punto, sapevo che era arrivata l’ora di tagliare la corda. Presto sarebbe diventato buio, e volevo arrivare a casa prima che ciò accadesse. Così salutai Livia e suo nonno, e mi voltai per andare a recuperare la vecchia Nyx dal palco, quando Livia mi riacciuffò la mano e mi disse: << Ti va di venire con noi in un posto speciale? >>
Stava sorridendo quando me lo chiese ma, per un attimo e per la prima volta dacché la conoscevo, mi accorsi di come il sorriso stesse in realtà vacillando sulle sue labbra e mi resi facilmente conto anche del fatto che c’era una luce particolare nei suoi occhi, qualcosa che silenziosamente stava cercando di dirmi che aveva riconosciuto la mia solitudine perché era uguale alla sua.
In effetti, nemmeno i genitori di Livia erano venuti alla recita, sebbene lei fosse addirittura la protagonista.
La stretta della sua mano, il suo sorriso triste, la luce che traballava nei suoi occhi scuri, tutti quei piccoli dettagli stavano cercando di comunicarmi una storia di cui conoscevo già perfettamente la trama.
Era molto semplice in realtà: tutti i pomeriggi che Livia aveva passato a scuola, restando alle volte molto più a lungo degli altri, non era dovuto al fatto che amasse particolarmente dedicarsi allo spettacolo ma perché, proprio come me, anche la sua casa doveva essere simile a un castello di ghiaccio, in cui ogni suono doveva essere stato risucchiato via dalla desolazione della solitudine.
Chissà chi erano i suoi genitori, mi chiesi angosciato, chissà cosa facevano... e perché i grandi non imparavano proprio mai?
Visto che non mi ero ancora deciso a rispondere, Livia cercò subito il supporto del suo Babbo Natale personale.
<< Poi ti riaccompagneremo subito a casa, vero, nonno? >>
<< Ma certo.>>
Non avrei dovuto: crescendo avevo imparato a ergere solide barriere di ghiaccio intorno a me, per non lasciare che le persone si avvicinassero e mi ferissero, eppure, nessuna di queste cose sembrava essere sufficientemente forte per allontanarmi da Livia, perciò, con uno strano formicolio alla pancia, accettai.
 
*
 
Il posto speciale di Livia era la spiaggia.
Suo nonno ci portò a lungomare del paese, arrivammo proprio quando era ormai il crepuscolo e l’acqua si era tinta degli stessi colori caldi del cielo, un tripudio di rosa e di arancio e di rosso.
Livia corse sulla battigia piroettando su sé stessa, spalancando le braccia, e tirando fuori la lingua come se volesse assaggiare l’aria salmastra e fredda che ci circondava.
Tirava vento dal mare, ma era una brezza gentile, di quelle che ti smuovono appena i capelli e più che sverzarti il viso pare accarezzartelo.
Si stava bene per essere dicembre ma, del resto, da noi gli inverni non erano mai così rigidi, ed era un altro il gelo che io temevo davvero, quello che avrei trovato una volta rientrato a casa, una casa che sarebbe stata troppo buia e troppo vuota e troppo silenziosa, persino a Natale, persino quando tutto il paese si illuminava a festa e fuori sembrava non esserci altro che gioia e speranza.
Livia si sedette sulla sabbia asciutta e poi picchiettò lo spazio vicino al suo per dirmi di fare lo stesso.
Quando fummo spalla contro spalla, mi chiese: << Ti piace il tramonto, Edo? >>
<< No.>>
La delusione dovuta alla mia risposta si poteva facilmente leggere sul suo viso, visto il broncio che aveva assunto: << Perché no? >>
<< È triste.>>
<< Triste? >>
<< Beh... un altro giorno che muore, non si dice così? >> dovevo averlo sentito in qualche film, solo che non mi ricordavo quale.
Livia emise un verso a metà fra la sirena di una polizia e un gatto che miagola scontento: << Che cosa brutta da dire, Edo...ardo. Io invece lo trovo molto bello, e molto romantico.>>
<< Romantico? >> quando diceva quelle cose, mi ricordavo che era una ragazza e stupidamente arrossivo di conseguenza.
<< Già.>>
<< Ma fra poco sarà tutto buio.>>
<< E allora? >>
<< Niente.>>
<< Hai paura del buio, Edo? >>
Mi irrigidii, incerto su cosa dirle, contrariato con lei e con me stesso e con il fatto di essere stato colto in flagrante: << Forse.>>
Sapevo che molti bambini alla mia età avevano ancora paura dei mostri che nel buio sgusciavano fuori da sotto i loro letti, ma non avevo idea di come poterle spiegare che non erano quelli i mostri assediati nel buio che temevo io, bensì quelli che, durante certe notti, vedevo danzare dentro gli occhi vacui e spenti di mia madre.
Livia non rise di me, ma mi mostrò quel suo sorriso caloroso, che era capace di far sciogliere anche il gelo che si era insediato dentro il mio cuore e di riempirlo di qualcos’altro, qualcosa a cui non sapevo ancora dare un nome.
Poi la vidi alzare gli occhi verso il cielo: << Sei davvero un bambino strano, lo sai? Non sorridi mai, chiami la tua chitarra per nome e hai paura del buio.>>
Offeso, colpii la sua spalla con la mia: << Beh, nemmeno tu sei tanto normale, guarda...>>
Stavolta, riuscii a farla ridere e di nuovo mi sentii come se la primavera avesse iniziato a germogliare dentro la mia pancia.
Era una sensazione nuova, stranissima, che faceva paura, ma che era anche stranamente piacevole.
<< Visto che ormai siamo amici ti svelerò un segreto, Edo. Le vedi tutte quelle stelle che hanno iniziato a splendere lassù nel cielo? Ho letto in un libro che tutte quelle stelle sono come dei piccoli soli, proprio come il nostro. Perciò, non essere triste, Edo, sorridi! Perché proprio in questo momento, infinite stelle stanno sorgendo o tramontando su infiniti cieli di infiniti mondi a noi sconosciuti! Non è straordinario? >>
Feci come mi disse, e con titubanza alzai il mio viso verso il cielo fino a quando i miei occhi non si scontrano con uno spettacolo mozzafiato, quello dell’universo.
La notte si era aperta, tutta sopra di noi, come un manto blu che qualcuno aveva steso di proposito sopra le nostre teste.
Dalla spiaggia il cielo era così limpido e le stelle parevano così vicine da poterle toccare, una per una, infiniti e distanti piccoli soli che splendevano per infiniti cieli ancora sconosciuti, proprio come aveva detto Livia.
All’improvviso, il buio non mi sembrò più così terribile, non mi faceva più così paura, e il tramonto non sembrava più così triste.
Persino il sorriso che sentii nascermi spontaneo sulle labbra, sembrava pesare di meno, sembrava fare meno male, nonostante i lividi che nascondevo ancora sotto tutti i vestiti, sotto la pelle.
Fino a quel giorno, avevo sempre creduto che il tramonto fosse come un sipario che calasse al termine del giorno, mentre non avevo mai prestato attenzione allo spettacolo che, invece, aveva sempre spalancato per me ogni sera proprio sopra la mia testa.
Troppo preoccupato a tenere lo sguardo basso per non attirare l’attenzione degli altri, non aveva mai alzato gli occhi verso le stelle.
Riabbassai lo sguardo solo quando sentii la manina di Livia ritornare a stringersi nella mia.
<< Buon Natale, Edo.>> mi disse, piano, come se la sua voce fosse stata trasportata fino a me dall’eco che rimbalzava nell’acqua.
<< Buon Natale, Livia.>>
Il sole rosso concluse la sua orbita e affondò nel mare come un relitto, trascinando via con sé ogni colore e facendo calare su di noi una notte luminosa, con solo una piccola falce di luna che brillava in lontananza circondata da un mare di stelle.
Per qualche minuto, Livia mi indicò una per una il nome di ogni costellazione che conosceva, fino a quando suo nonno venne a riportarci alla realtà: << Dobbiamo tornare a casa, Livia.>>
<< Va bene! >>
Mi alzai in piedi e poi tesi la mano a Livia per aiutarla.
Lei sorrise, mi abbracciò e poi mi chiese, così dal nulla: << Senti, Edo, secondo te come fanno le stelle ad avverare i desideri? >>
Non ne avevo idea, perché in realtà non ero mai stato uno di quei bambini che esprimeva i desideri, nemmeno a Natale: avevo capito da tempo che esprimere certi desideri faceva più male che altro, perché nella maggior parte dei casi nessuno di essi veniva mai esaudito, e rimaneva sospeso da qualche parte, sopra la coda di qualche stelle cadente, o nel soffio di qualche soffione, o in fondo all’acqua di qualche fontana insieme alla monetina che qualcuno aveva lanciato.
Ma poi pensai a Livia, alla piccola stella del nostro spettacolo di Natale che da quando mi aveva catturato dentro la sua orbita, era riuscita non solo a insegnarmi a non avere più paura del buio, ma anche a sciogliere frammenti di ghiaccio che per tanto tempo avevo lasciato che si insidiassero dentro il mio cuore, ferendomi, e non permettendo così che la luce di una nuova primavera potesse venire a riscaldare il mio inverno.
Quella sera del 23 dicembre 1990, Livia aveva esaudito tutti i desideri che avrei potuto soffiare via insieme alle candeline di compleanno e a soffioni, o quelli che avrei potuto recitare silenziosamente e ad occhi chiusi dinanzi alla scia di una qualunque stella cadente.
Aveva realizzato anche quei sogni che non sapevo neanche io di desiderare.
“Forse è così che funziona, allora”, pensai, ricambiando il suo abbraccio e respirando il suo profumo di gelsomini.
<< È una magia...>> le risposi, ridendo di me e di lei, e del mondo folle in cui eravamo costretti a vivere, e nel frattempo ricordandomi della chitarra che avevo lasciato nel cofano dell’auto di suo nonno. << Ed è anche un ottimo argomento su cui scriverci sopra una canzone, che ne pensi? >>
 
 



 
FINE
 



N/A: La canzone che viene citata all’inizio dal personaggio di Anna “Girl from the stars”, (e poi vagamente accennata dal nostro protagonista nel finale) è una citazione del libro “Scarlett” di Barbara Baraldi, dove appunto uno dei protagonisti dedica questa canzone alla ragazza di cui è innamorato. Mentre nel descrivere la recita scolastica mi sono ispirata a un episodio davvero accaduto della mia real life: tanto tempo fa, andai infatti a guardare la recita di natale del mio fratellino che, all'epoca, frequentava ancora l'asilo e quello che riuscirono a combinare in un'ora quei bambini fu straordinario, mai assistito a uno spettacolo involontariamente comico più divertente di quello!
Chiusa questa piccola parentesi, passiamo alla storia che si divide in due momenti, quello presente, con la scena in cui Anna lascia Edo, e quello passato, in cui vediamo il primo incontro fra il nostro protagonista e Livia, ossia il momento in cui lei, appunto, diventa la sua ragazza dalle stelle.
Tutta la storia gira intorno a queste benedette stelline, perché nasce da un contest chiamato “Wish upon a star” indetto da Inzaghina.EFP sul forum di EFP.
È una storia un po’ malinconica e un po' fluff, dove ho anche lievemente accennato a quelle che potremmo definire come “tematiche delicate” riguardo al maltrattamento di minori (vedi i riferimenti che Edo fa di sua madre) e la depressione infantile, ma, non essendo questi predominanti all’interno della storia, non me la sono sentita di metterlo come avvertimento, mentre è il motivo per cui ho messo il raiting giallo e non quello verde.
È la prima storia con personaggi interamente originali che pubblico, quindi sono molto emozionata e non so che dire, se non che spero di aver dato loro la giustizia che meritano, rendendoli reali e umani, proprio come li immagino io nella mia mente.
I prompt che mi sono stati assegnati per portare a termine questo contest erano: crepuscolo, introspettivo e inverno.
Il flashback è ambientato tutto durante il periodo natalizio, anche se il vero inverno che ho desiderato mostrarvi con questa storia è quello buio e gelido nel cuore del giovane Edoardo.
Livia è la bambina che insegna a Edo che il crepuscolo non è solo la fine del giorno, ma che può anche rivelare tesori come il firmamento stellato sopra le nostre teste.
Per quanto riguarda l’introspezione, spero di esserci riuscita bene perché di solito uso la terza persona e non la prima, quindi... vedremo!
Da utilizzare come prompt c’era anche una citazione speciale e io ho scelto: "Le stelle cadenti, le candeline dei compleanni, le fontane in cui ho gettato le monetine, i soffioni che ho soffiato: chissà cosa succederebbe se adesso quei desideri si avverassero tutti in un colpo!" di Fabrizio Caramagna, che ho ovviamente reinterpretato a modo mio ^^”
Spero che la storia vi sia piaciuta e di poter leggere delle vostre opinioni a riguardo! :)
Concludo, facendo un grande in bocca al lupo a tutti i partecipanti!
Alla prossima,
BellaLuna
  
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