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Autore: Cassandra caligaria    27/09/2020    3 recensioni
Tutti umani, trentenni. Le vicende narrate saranno ambientate per la maggior parte nella Boston dei giorni nostri.
La narrazione sarà tutta dal punto di vista di Edward, con qualche extra dal punto di vista di Bella.
Dal primo capitolo:
Mi guardai intorno ammirando l’eleganza dell’ambiente quando ad un certo punto rividi la ragazza del parcheggio che parlava con Rosalie vicino all’ascensore.
«Lei lavora qui?» domandai a Jasper.
«Chi?»
La indicai con un dito e proprio in quell’istante i nostri sguardi si incrociarono.
«Oh, lei! È l’amministratrice dell’azienda» rispose Jasper divertito.
«Merda.»
«Non conosce altre parole?» mi domandò divertita lei. Ma quando si era avvicinata a noi?
Genere: Commedia, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Emmett Cullen, Isabella Swan, Jasper Hale, Rosalie Hale | Coppie: Alice/Jasper, Bella/Edward, Carlisle/Esme, Emmett/Rosalie, Leah/Sam
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film, Contesto generale/vago
Capitoli:
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«Allora, come funzionerà la parte logistica in questi giorni? Possiamo arrivare insieme o è meglio separarci durante il tragitto? Sanno che alloggiamo qui tutti e due?» le domandai, mentre terminavo di abbottonare la camicia. Non avevamo avuto tempo di discutere di questi futili ma essenziali dettagli la sera precedente…
«Dove alloggiamo non sono affari loro. Stiamo entrambi a Brooklyn e questo è quanto gli spetta sapere, se dovessero chiedere. Possiamo andare e tornare insieme senza problemi con la stessa auto, anche se probabilmente al ritorno penso che tu finirai quasi sempre prima di me e potrai andare via prima. Le vostre sessioni terminano alle 16; le nostre riunioni, invece, tendono a protrarsi un po’ oltre le 16, ma cercherò di liberarmi il prima possibile» mi fece l’occhiolino.
«Possiamo vederci qui o incontrarci dove preferisci tu, se ti va di restare un po’ in giro per la città da solo. Ovviamente scegli tu se prendere un taxi o un uber, tanto ti verrà rimborsato tutto» si avvicinò a me e mi lisciò il colletto della camicia, perfettamente stirato, indugiando con le mani sul mio petto. Inclinai la testa verso la sua per incontrare le sue labbra.
«Posso prendere la metro, non è molto distante» mormorai.
«Come vuoi, davvero, non crearti problemi» mi rassicurò e le sorrisi.
«Prenderò la metro, a Boston non la prendo quasi mai. Mi manca avere del tempo da dedicare a un buon libro mentre viaggio sui mezzi pubblici. Inoltre, possiedo già una metro card che ho ricaricato per entrambi. Se vuoi che io sia la tua guida di New York in questi giorni, si viaggia in metro, mia bella Bella» ammiccai, sistemandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Da quando avevo scoperto, grazie ai film che avevamo visto insieme, che in italiano il suo nome era un aggettivo, assai adatto per definirla, avevo iniziato a prenderci ancora più gusto a giocare con il suo nome.
«Hai pensato proprio a tutto» mi sorrise e le baciai la punta del naso.
«Ti aspetterò qui, dubito tu abbia voglia di girare per la città dopo su quelle» indicai con lo sguardo le scarpe che aveva lasciato vicino all’ingresso del bagno. Ridacchiò, annuendo.
«C’è qualcosa che ti preoccupa?» mi domandò accarezzando la piccola ruga che mi si formava sempre sulla fronte quando ero in pensiero. Mi conosceva fin troppo bene. Sospirai.
«Come devo comportarmi con te? Posso continuare a darti del tu come a Boston o devo essere più formale?» le chiesi e incontrai il più dolce dei sorrisi.
«Sono tutti più formali di me con i loro dipendenti nelle sedi che amministrano e New York non farà eccezione; ma conoscono tutti la mia politica gestionale e sanno benissimo che non amo i formalismi, quindi puoi continuare a comportarti con me e a rivolgerti a me come se fossimo a Boston» mi rassicurò.
Strinsi le braccia attorno alla sua vita e la baciai, cercando di fare il pieno per le sei successive ore in cui saremmo stati nello stesso edificio, ma non sempre insieme o comunque non insieme nel senso in cui lo intendevamo noi.
Conoscevo il programma di lavoro dettagliatamente e sapevo che avremmo lavorato quasi sempre insieme nella stessa stanza durante la mattina; nel pomeriggio io avrei dovuto formare i nuovi contabili, mentre lei sarebbe stata impegnata con gli altri soci.
Non saremmo stati separati per molto tempo, per fortuna, ad esclusione del giorno inaugurale, lunedì 30, durante il quale ci saremmo visti ben poco, ma avevo paura che anche un solo sguardo potesse tradirci.
 
 
La sede della Volturi di New York era molto più grande di quella di Boston, esattamente come mi aspettavo. Qualsiasi cosa a New York è più grande che nel resto del mondo. Non mi aspettavo però che risultasse così anonima. Non trasmetteva la stessa maestosità della sede di Boston, non spiccava in mezzo agli altri edifici che lo circondavano per eleganza e magnificenza. Eravamo in una zona del Queens prettamente industriale e quindi era facile confondersi, ma mi aspettavo qualcosa di più.
Bella si voltò verso di me, si era accorta che stavo analizzando la struttura. Eravamo ancora in macchina, avevano appena aperto il cancello per permettere alla nostra auto di entrare.
«Niente a che vedere con la nostra sede» disse con una punta di orgoglio nella voce, scuotendo il capo. Le sorrisi e le accarezzai la mano che era appoggiata sul sedile, accanto alla mia. Era l’ultimo breve contatto che potevamo concederci fino alla fine del lavoro.
 
 
Durante la pausa pranzo, prima di separarci, voleva mostrarmi la sede.
«Bella, dove vai?» le domandò Felix, l’amministratore delegato di Volterra. Era un uomo sulla quarantina, sapevo che Bella lo conosceva da molto tempo, da quando aveva iniziato a lavorare in Italia. Non mi aveva degnato neanche di uno sguardo, né mi aveva rivolto la parola. Non invidiavo per niente i suoi dipendenti.
«Voglio mostrare a Edward la sede» gli rispose, mentre si cambiava le scarpe. Ecco cosa c’era in quella seconda borsa che si era portata dietro. Mi ritrovai a sorridere, pensava sempre a tutto. Felix la guardò e ridacchiò.
«Ah, il segreto del tuo successo» disse sollevando le folte sopracciglia. Non sapevo se stesse alludendo al suo atteggiamento informale con noi dipendenti o a qualcos’altro.
«Scarpe comode. Dietro ogni grande donna di successo, c’è sempre un paio di sneakers. Tienilo a mente, Felix» rispose lei con una punta di divertimento nella voce, invitandomi a seguirla con un caloroso sorriso che ricambiai senza alcuna difficoltà. Avrei voluto prenderla per mano o almeno sfiorarla, ma ci seguì anche Felix e quindi dovetti trattenere tutto quello che avevo dentro.
Mi mostrò tutti i piani, compresi gli uffici, la mensa, la sala ricreativa e la palestra.
Avevano perfino la palestra. Quando l’avrebbe sentito Jasper, sarebbe morto d’invidia.
«Allora, che te ne pare?» mi domandò lei, quando tornammo ai piani in cui lavoravamo, prima di separarci.
«È davvero grandiosa, complimenti» dissi rivolgendomi a entrambi. Felix mi guardò o meglio mi squadrò, prima di dileguarsi in sala riunione, senza neanche salutarmi o ringraziarmi. Che antipatico.  
«Fortunati i dipendenti che potranno usufruire di tutti questi vantaggi, noi abbiamo solo un tavolo da ping-pong che ultimamente sto un po’ trascurando durante la pausa pranzo» ammiccai, quando fui sicuro che fossimo entrambi soli, e lei ridacchiò.
 
 
Quella sera la portai a Broadway, ero miracolosamente riuscito a comprare gli ultimi biglietti per il musical Moulin Rouge e poi restammo un po’ in giro in centro dopo aver cenato. Il giorno seguente era sabato e lavoravamo solo la mattina, per fortuna.
Quel maledetto Felix le stava sempre intorno e mi dava non poco fastidio. A Felix, quel giorno, si era aggiunto James. Non avevo capito ancora che ruolo avesse, glielo avrei chiesto quando saremmo rimasti soli. Sapevo solo che mi infastidiva come poche persone erano riuscite a fare nel corso della mia vita.
Alto, palestrato, biondo, occhi azzurri, sorriso beffardo e pelle abbronzata.
Come faceva ad essere abbronzato a dicembre?  
Ero tremendamente geloso. Non mi piaceva come guardava Bella, era troppo insistente. Presi un bastoncino di liquirizia dall’astuccio e iniziai a masticarlo in attesa che si liberasse.
La stavo aspettando vicino al cancello d’ingresso, loro tre erano nell’atrio vicino al portone d’uscita, parlavano ancora, quando qualcuno mi urtò una spalla.
«Ops, scusa» disse una ragazza con voce civettuola, indugiando un po’ troppo con la mano sul mio braccio.
La aiutai a rimettersi in equilibrio e tornai a guardai il mio smartphone, per evitare di avere la tentazione di voltarmi verso Bella.
«Tu sei di Boston, vero?» continuò. Annuii, continuando a ignorarla. Ma perché non andava via?
Mi concentrai sul bastoncino di liquirizia che avevo in bocca, trovando incredibilmente interessanti le previsioni meteo per il weekend. In effetti, mi interessavano davvero, dal momento che avevo intenzione di far vedere a Bella un sacco di posti. Sarebbe stato bel tempo, per fortuna.
«Beh, io vado, ci vediamo lunedì. Se ti fa piacere, una di queste sere possiamo vederci per bere qualcosa. Io lavorerò qui, in assistenza clienti. Sono…» non ascoltai neanche il suo nome, perché un profumo familiare mi arrivò alle narici e mi voltai automaticamente verso di lei.
«Andiamo?» mi domandò, lanciando uno sguardo di sufficienza alla povera malcapitata che ci stava malamente provando con me.
La seguii e neanche salutai la ragazza.
Fermammo un taxi che per fortuna aveva un pannello oscurato che separava il conducente dai passeggeri perché Bella mi saltò letteralmente addosso, togliendomi dalla bocca il bastoncino di liquirizia e incollando le sue labbra alle mie, possessiva.
Risposi al suo bacio con altrettanta foga. Arrivammo in un baleno in hotel e in un attimo eravamo in camera, le sue braccia strette intorno al mio collo, le mie intorno alla sua vita.
«Nessuno deve toccare ciò che è mio» mormorò, riprendendo possesso delle mie labbra.
Aveva visto tutto evidentemente.
Era gelosa.
Il piacere che provai fu immenso.
«Sei gelosa» le dissi, in tono affettuosamente canzonatorio, mentre le succhiavo il labbro inferiore.
«Terribilmente gelosa, è bene che tu lo sappia» disse decisa. Ridacchiai.
«Non so neanche spiegarti quanto mi fa piacere, ma sai che non hai motivo di essere gelosa. Per me ci sei solo tu, lo sai» le dissi, accarezzandole delicatamente il viso.
Mi sorrise.
«Lo so, però, mi ha dato fastidio lo stesso. Ti è caduta di proposito addosso» mormorò. Le sorrisi.
«E io allora cosa dovrei dire? Quel Felix ti sta sempre attorno. Per non parlare di quella specie di surfista che ti guarda come se volesse spogliarti. Dove l’avete trovato? Su un catalogo di modelli per costumi da bagno?» dissi alzando gli occhi al cielo. Ridacchiò.
«Edward, Felix non sarà mai interessato a me. Semmai, potrebbe essere interessato a te» fece uno sguardo furbo.
«Oh», rimasi a bocca aperta.
«Già, oh. Come vedi, io devo stare attenta anche agli uomini, non solo alle donne che ti ronzano attorno» disse sfiorando le mie labbra.
«E per quanto riguarda James, può sognare quanto vuole. Non è proprio il mio tipo» disse, mentre mi accarezzava i capelli sulla nuca.
«Surfista californiano abbronzato, belloccio e sicuro di sé non è il tuo tipo, buono a sapersi. Preferisci i visi pallidi del Midwest?» la canzonai.
«Decisamente» mi disse sorridendo. «E poi non è così bello, né così sicuro di sé, è solo presuntuoso».
«Qual è il suo ruolo in azienda? Dovremo godere ancora per molto della sua adorabile presenza?» le domandai sarcastico, sperando che non dovesse più stare così a contatto con lei.
«Fortunatamente andrà via lunedì. Lui lavora in proprio, è un head-hunter. Lo hanno chiamato per scovare i migliori manager sul mercato, dal momento che io ho rifiutato di ricoprire la posizione. Probabilmente mi guarda in quel modo, perché non è riuscito a trovare il mio curriculum online e perché non è riuscito a convincermi ad accettare il ruolo. Non riesce a capire come mai sia così ostinata a rimanere a Boston» mi spiegò.
Quindi, era un cacciatore di teste. E volevano Bella a New York?
«Ti avevano proposto di dirigere New York?» le domandai.
«Sì, ma ho caldamente rifiutato; anche se questo non li ha fermati dal perseverare» alzò gli occhi al cielo. Ecco perché l’avevo trovata spesso infastidita quando parlava al telefono con Felix.
«Posso chiederti come mai hai rifiutato?»
«Boston è la città che ho scelto io, adoro vivere lì, anche solo pensare di trasferirmi qui a New York sarebbe una follia. Sono amministratrice unica della sede, ho campo libero in diverse scelte aziendali e mi piace. Non potrei mai lasciare tutto quello che ho faticosamente messo su in questi anni, solo per aggiungere sul mio curriculum che ho diretto un’azienda newyorkese».
«Beh, certo, sarebbe un buon punto da aggiungere sul tuo curriculum. Qualsiasi cosa fatta a New York è più prestigiosa che altrove. Devo confessare che mi sono spesso chiesto come mai non avessi un profilo su Linkedin» continuai.
«Perché non sono alla ricerca di un lavoro. Sono felice a Boston, sono soddisfatta della mia vita, amo lavorare e vivere lì. Qui dovrei lavorare nel Queens e dovrei anche rispettare uno stupido dress code» disse con disgusto, alzando gli occhi al cielo e facendomi ridere.
«Quindi, io non c’entro niente in tutto questo?» le domandai, sollevato.
«Lo sai che non vorrei mai interferire, anche involontariamente, con le tue scelte» fui colpito dalla verità delle mie parole: non volevo che rinunciasse a qualcosa per causa mia, esattamente come lei non voleva essere un ostacolo alla mia carriera; eppure, allo stesso tempo, dentro di me desideravo che lei scegliesse me. Sempre e comunque me. Mi accarezzò una guancia.
«Mi avevano proposto di dirigere New York e avevo rifiutato prima ancora che tu inviassi il tuo curriculum» mi rassicurò. «Il tuo arrivo ha solo contribuito ad aumentare le ragioni per cui amo Boston» mi accarezzò una guancia.
 
 
Nel pomeriggio la portai a visitare il quartiere di Williamsburg. Era una tappa obbligata, le avevo promesso che le avrei fatto mangiare i migliori bagels di New York nel quartiere ebraico. Al tramonto andammo nel quartiere di Dumbo, era una vera fortuna che avesse prenotato un hotel a Brooklyn: quasi tutto quello che ci tenevo a farle vedere era lì.
Scattammo una foto del famoso ponte di C’era una volta in America, uno dei miei film preferiti.
Le mostrai la parte meno turistica di New York – musei e gallerie d’arte le aveva già viste quasi tutte da sola –, la parte di New York più autentica e che più amavo.
Mi seguì, mi ascoltò e mi osservò con adorazione. Era meraviglioso passeggiare con lei mano nella mano per quelle strade, condividere con lei i miei pensieri e le mie passioni, godere dei piccoli gesti d’affetto che potevamo concederci in pubblico.
Mi innamoravo di lei sempre di più.
Per quel sabato sera non avevo programmato niente in particolare, perché l’indomani ci saremmo dovuti svegliare molto presto, e siccome avevamo trascorso la maggior parte della giornata fino al pomeriggio inoltrato fuori, restammo nella nostra suite a fare l’amore su ogni superficie possibile, inaugurando anche la vasca idromassaggio, rimarcando con forza che io ero solo suo e che lei era solo mia e non poteva essere altrimenti. Eravamo perfetti insieme.
 
 
Ero ancora così profondamente addormentato che non mi accorsi subito che la mia sveglia stava suonando e che il corpo di Bella, comodamente adagiato tra le mie braccia, era scosso da una risatina.
«La marcia di topolino? Sul serio?» mi domandò ridendo nell’orecchio.
«Mm… è nella colonna sonora di uno dei miei film preferiti» mormorai, stringendola forte a me.
«Full Metal Jacket è un altro dei tuoi film preferiti?» mi domandò.
«Mm» non riuscivo ancora ad articolare suoni di senso compiuto.
«Devi svegliarti, amore, tra un po’ sorgerà il sole e mi hai promesso che mi avresti portato in quel parco…» iniziò a baciarmi il collo.
«Mm…» feci per avvicinarmi alle sue labbra, ma lei si alzò dal letto repentinamente, sfuggendo dalla presa delle mie braccia.
«In piedi, soldato. Ti aspetto nella doccia» disse suadente, lasciando cadere sul letto la camicia che avevo indossato il giorno prima, con la quale aveva dormito.
La raggiunsi in un lampo.
«Buongiorno», mormorò, squadrandomi dalla testa ai piedi.
«Voltati» le dissi, sorridendo.
«Mani sulle piastrelle» continuai e lei obbedì.
«Come siamo autoritari stamattina» la voce le si ruppe sul finire della frase, quando iniziai ad accarezzare e massaggiare la sua intimità con una mano e a torturare delicatamente i suoi capezzoli con l’altra. Si piegò automaticamente in avanti, divaricando leggermente le gambe, pronta ad accogliermi.
 
 
Le prime luci dell’alba stavano iniziando a colorare il cielo, quando raggiungemmo Battery park. Ci accomodammo su una panchina, fortunatamente la nebbia mattutina si stava diradando e davanti a noi, illuminata dalla tenue luce dei primi raggi del mattino, si ergeva fiera e maestosa la Statua della Libertà.
«Hai freddo?» le domandai preoccupato, stringendola più forte a me.
«No, sto bene. Edward, è meraviglioso» mi disse, senza staccare mai gli occhi dal panorama. Sorrisi.
«È un’immagine senza tempo. Ogni volta che venivo qui, mi ritrovavo a pensare a tutti gli immigrati europei – i nostri antenati – che arrivavano sulle navi dirette a Ellis Island. La fame, il freddo, l’umidità e le pessime condizioni di viaggio forse potevano essere in parte dimenticate quando si ritrovavano a guardare questo spettacolo. Chissà come doveva apparire ai loro occhi, non molto diversa da come appare ai nostri, probabilmente. Bella e maestosa. Potente e fiera.
Eppure, per loro forse era qualcosa di diverso: più che l’immagine della bellezza, era l’immagine della speranza.
Quando ero molto giù, specialmente verso la fine della mia avventura newyorkese, quando stava andando tutto male e non sapevo proprio come avrei fatto a rimettere a posto la mia vita, quando non sapevo cosa avrei fatto della mia vita, quando niente aveva più senso e il futuro era un tempo che non riuscivo più a coniugare nella mia mente, questo pensiero mi aiutava a farmi stare meglio.
Era come se non pensassi più alla mia vita come solo alla mia vita, la mera esistenza di un singolo uomo; ma alla mia vita come una tessera di un quadro più grande, di un percorso, un progetto iniziato molto tempo prima della mia nascita, magari su una di quelle navi e mi sentivo meglio. Le mie preoccupazioni si ridimensionavano, diventavano meno opprimenti, e quell’immagine riaccendeva in me una piccola speranza, sentivo che prima o poi le cose sarebbero andate bene anche per me, che anche la tessera della mia vita avrebbe trovato il suo posto, quello giusto, nel quadro della storia del mondo» mormorai.
Rimase in silenzio, ma la sentii armeggiare con i guanti e poi la sua mano calda si posò sul mio viso freddo per via del vento.
«È stupido, lo so, ma…» mi mise due dita sulle labbra.
«Non è affatto stupido» disse seria, sollevando la testa dalla mia spalla per guardarmi negli occhi. Una lacrima le aveva bagnato una guancia, la asciugai con un bacio.
«È molto simile a quello che penso io a Boston, quando vado nel parco, al mattino» mi sorrise.
«Posso chiederti oggi che effetto ti fa questo panorama? Senti le stesse cose?» mi chiese.
Nei suoi occhi c’era una dolcezza infinita e potevo giurare di vedere lo stesso amore che c’era nei miei quando la guardavo.
«Oggi sono felice perché lo sto ammirando qui con te. Oggi riesco ad apprezzarne tutta la bellezza e a trarne davvero tutta la forza, perché lo osservo a cuor leggero, perché nella mia vita c’è qualcosa di ancora più bello e più potente di questa immagine, qualcosa di reale; perché sento che la mia tessera ha trovato il suo posto» sussurrai vicino alle sue labbra.
 
 
«Prossima tappa?» mi domandò, quando entrammo in metro.
«Coney Island» le risposi, facendole un mezzo sorriso.
Mi guardò come se le avessi proposto di andare a fare un bagno nell’oceano, arricciando la punta del naso. Ridacchiai e le baciai la punta del naso, era irresistibile quando faceva così.
«Fidati di me» le feci l’occhiolino.
Passeggiammo per il lungomare e prendemmo un hot dog da Nathan's Famous. C’era pochissima gente. Adoravo Coney Island d’inverno, aveva un’aria così decadente, così tranquilla. Senza tempo.
«Visto? Ho organizzato un’esclusiva per te» sussurrai nel suo orecchio sinistro. Mi sorrise.
«Ha il suo fascino, effettivamente» ammise.
«Torneremo qui in estate, voglio mostrarti e portarti su tutte le attrazioni del parco» le promisi.
«Mi piace quando coniughi i verbi al futuro e… al plurale» mormorò. Le baciai dolcemente le labbra.
«Piace anche a me» indugiai ancora sulle sue labbra.
Lasciammo che la fredda brezza marina ci sferzasse il viso e restammo per un po’ in silenzio, seduti su una panchina, ad ammirare il tramonto sull’oceano. Eravamo entrambi sopraffatti dalla quiete e dalla magnificenza del paesaggio che ci circondava e dalle emozioni che stavamo provando entrambi. Era stata una giornata meravigliosa.
Non avevamo ancora apertamente dato voce ai nostri sentimenti, ma ci eravamo dimostrati chiaramente con fatti e parole quanto fossimo importanti l’uno per l’altra, quanto fossimo essenziali l’una per l’altro.  
«Ti era mai capitato?» le domandai, sollevando le nostre mani e osservando le nostre dita intrecciate. Capì subito a cosa stessi alludendo. Si voltò verso di me, appoggiando la fronte sul mio mento. Mi piegai leggermente in avanti per baciarle la testa. La sentii sospirare.
«No, mai. E a te?»
«Mai. Non credevo fosse possibile una cosa del genere, non pensavo esistesse una persona così adatta a me. Credevo fossero tutte storielle inventate dai romanzieri» ridacchiò.
«Trovo ancora così incredibile che siamo così compatibili su tutto, che abbiamo un’intesa perfetta sempre. È incredibile ed è bellissimo» confessai.
Sollevò la testa quel tanto che bastava per raggiungere le mie labbra.
«Edward, tu sei molto più di quanto osassi desiderare, molto più di quanto potessi anche solo immaginare. Ero felice e soddisfatta della mia vita prima di incontrarti, ero completa, non credevo che mi mancasse qualcosa. E invece… Hai sconvolto e migliorato la mia vita, l’hai arricchita e mi hai fatto scoprire una felicità nuova, mi hai fatto scoprire una nuova me, una me che non credevo possibile potesse esistere. Sei così tante cose, che non riesco a spiegarti a parole quello che sei per me ed è la prima volta nella mia vita che sono in seria difficoltà con le parole» ridacchiò.
«Bella, tu sei per me quello che io sono per te, non abbiamo bisogno di altre parole» mormorai, trovando per una volta io una rapida ed efficace soluzione verbale.
«Sì, è proprio così» mi sorrise.
 
 
«Sembri un generale che si prepara per andare in guerra» la presi affettuosamente in giro, mentre facevo il nodo alla cravatta e la guardavo incuriosito sistemare all’interno di un paio di scarpe dall’aspetto non molto comodo una serie di cuscinetti per prevenire le vesciche.
Alzò la testa, mi fulminò con lo sguardo e mi fece la linguaccia, nascondendo malamente un sorriso.
«Voi uomini siete così fortunati!» sospirò, alzando gli occhi al cielo. Ridacchiai e mi avvicinai a lei, chinandomi all’altezza del suo viso per baciarla. Tenne le labbra chiuse, fingendo di essersela presa, ma cedette presto alla mia insistenza, quando le mordicchiai leggermente prima la pelle sotto il labbro inferiore e poi il labbro stesso – uno dei suoi punti deboli –, e tracciai il profilo delle sue labbra con la punta della mia lingua. Mi restituì il bacio e ci ritrovammo entrambi ansimanti quando, per motivi di tempo, fummo costretti a fermarci lì.
«Avresti vinto qualsiasi guerra se le truppe nemiche ti avessero vista arrivare così sul campo di battaglia» mormorai, mentre riprendevo fiato, con la fronte appoggiata alla sua, e con le mie dita percorrevo il profilo del suo busto, fermandomi sui fianchi. Le sue labbra si curvarono in un sorriso.
«Devo dedurre che mi preferisci in abiti formali, il mio stile casual non ti piace?» mi domandò, sinceramente curiosa.
«Ti preferisco nuda» le risposi con altrettanta sincerità. Scosse la testa e ridacchiò.
«E io che faccio domande di cui conosco già le risposte» esclamò alzando gli occhi al cielo e scuotendo leggermente il capo con fare teatrale. Ridacchiai e le presi il mento tra il pollice e l’indice per costringerla a guardarmi negli occhi. Bella non era di certo il tipo di donna che aveva bisogno di rassicurazioni sul suo aspetto o sul suo stile, né il tipo di donna avrebbe cambiato stile per compiacermi – cosa che non avrei mai voluto, innanzitutto perché e a me il suo stile piaceva e poi perché non avrei mai e poi mai costretto lei a cambiare qualcosa per me – ma volevo farle sapere lo stesso che per me era perfetta così com’era.
«Adoro il tuo stile, ti dona ed esprime la tua personalità, ma è bello ogni tanto vederti in tiro. Per me sei sempre bellissima e perfetta, con o senza vestiti. Soprattutto senza. Sappi che penserò per tutto il giorno al momento in cui potrò finalmente toglierteli di dosso» soffiai sul suo collo e un brivido percorse la sua pelle.
«Posso dire lo stesso di te, guarda che figurino che sei» sussurrò, tirandomi per il nodo della cravatta e avvicinando la sua bocca alla mia.
 
 
Alle 10 si aprì la seduta plenaria. Tutti gli amministratori si presentarono e diedero il benvenuto al nuovo staff, compresa Bella, e in seguito toccò a noi assistenti illustrare i nostri programmi di formazione. Lei era stata perfetta e impeccabile, come sempre. Quando arrivò il mio turno, ero un po’ agitato, ma intercettai il suo sguardo in sala prima di iniziare a parlare e mi calmai all’istante. Parlare in pubblico non era proprio una delle cose che preferivo fare, ma andò per fortuna tutto liscio.
Come previsto, alle 16 io avevo finito la mia giornata, mentre lei era ancora in riunione. Presi la metro e tornai in hotel, ne avrei approfittato per definire gli ultimi dettagli della cena della sera seguente, la tanto sospirata vigilia di Capodanno, in attesa che lei tornasse.
Sarebbe stata una serata davvero speciale. Aprii di nuovo la mail che avevo ricevuto quella mattina, non mi sembrava ancora vero. Ero totalmente assorto nelle mie fantasie che non mi resi conto subito del rumore della porta che si chiudeva, né del rumore di qualcosa che veniva lanciato sul pavimento.
«Oh, Dio, sì» mormorò.
Scattai immediatamente in piedi.
Mi avvicinai all’ingresso e la trovai senza scarpe, a piedi nudi sul pavimento, l’estasi dipinta sul suo volto.
«Questo di solito te lo faccio dire io» la canzonai. Ridacchiò.
«Maledette scarpe, nonostante la mia attenta preparazione, mi hanno fatto malissimo» piagnucolò e la guardai con tenerezza. Mentre mi avvicinavo ancora di più a lei, la mia attenzione fu catturata da una macchia sul pavimento.
«Bella, stai sanguinando» le dissi allarmato.
«Maledizione, devono essersi rotte le vesciche» si lamentò e si trascinò verso il bagno, chiudendo la porta dietro di sé. La seguii e la osservai prendere dalla cassettina del pronto soccorso presente in bagno garze, cerotti e disinfettante.
Si sedette sul water e mise il piede sinistro sul ginocchio destro per studiare i danni. Non ci pensai due volte a inginocchiarmi di fronte a lei e a riempire di acqua calda il bidet.
«Che fai? Esci, non voglio che mi tu veda così» farfugliò.
«Lascia fare a me» mormorai, liberando il piede dalle sue mani e invitandola a immergerli entrambi nell’acqua calda.
«Edward…» sussurrò.
«Hai portato per caso con te una pomata antibiotica? Io ho dimenticato di metterla in valigia» alzai gli occhi al cielo. Meno male che almeno i vestiti li avevo messi tutti, avevo fatto quel bagaglio con la testa completamente tra le nuvole.
«Sì, è nel beauty case blu» le sorrisi e mi allontanai per andare a prendere quello che mi serviva.
«Quando hai preparato quel beauty case lo hai fatto pensando che saresti andata a lavorare in un fronte di guerra come infermiera?» ridacchiai, coinvolgendo anche lei. C’erano dentro pomate antibiotiche, pomate a base di cortisone, cerotti per le vesciche, cerotti medicati, garze, antidolorifici, antibiotici, antiacidi, fermenti lattici, colliri: un’intera farmacia in formato da viaggio.
«Non si sa mai cosa può succedere in viaggio. Inoltre, so bene che di solito le scarpe eleganti mi fanno venire le vesciche» mi spiegò.
«E tutti quei farmaci? Gli antidolorifici, ad esempio?» continuai.
«In parte per me, potrei averne bisogno tra una settimana circa. In parte per te, visto che spesso e volentieri hai mal di testa» mi sorrise. Premurosa, come sempre. Le diedi un bacio sulla testa e poi mi allontanai di nuovo per recuperare uno sgabello.
Presi un’asciugamani, mi sedetti di fronte a lei e la invitai a tirare fuori dall’acqua i piedi.
«Edward, faccio io, davvero… sono i miei piedi, li ho tenuti nelle scarpe e ci ho camminato per tutto il giorno, e perdono sangue e altri fluidi disgustosi e…» la baciai per interrompere le sue proteste.
«Lascia che mi prenda cura di te» le dissi e la sentii sospirare.
Le massaggiai i piedi e disinfettai con cura le vesciche aperte. Con molta attenzione tamponai le ferite con le garze per asciugarle e poi, dopo averci spalmato su una generosa dose di pomata, le fasciai con i cerotti. Sentii il suo sguardo su di me per tutto il tempo, quando sollevai il capo e le sorrisi notai che aveva gli occhi lucidi e le pupille dilatate.
«Grazie, dottor Cullen» mi disse, mentre si rimetteva in piedi, infilando le ciabatte che le avevo portato.
«Il dottor Cullen è mio padre, diciamo che io come assistente posso cavarmela, però» le sorrisi. Si allungò sulle punte per baciarmi.
«Sei molto più che un bravo assistente, Edward» mi disse e all’improvviso abbassò lo sguardò.
«Cosa c’è?» le domandai, mettendole due dita sotto al mento per farle alzare il viso. Non mi piaceva non riuscire a guardarla negli occhi.
«Dobbiamo parlare, Edward» mi disse, improvvisamente seria e distaccata.
«Di cosa?» cercai di contenere il panico nella mia voce.
«Del tuo futuro» prese un profondo respiro e sollevò lo sguardo. Era indecifrabile.
«La persona che era stata individuata da James per ricoprire il ruolo di responsabile del reparto contabilità ha ricevuto una proposta migliore e ha rifiutato all’ultimo la nostra. James sta lavorando per reclutare qualcun altro; ma io penso non sia necessario cercare troppo lontano e anche loro sarebbero d’accordo se fossi tu a ricoprire la posizione di responsabile» disse d’un fiato.
«Bella, cosa stai dicendo?» le domandai allarmato.
«Ti sto offrendo l’opportunità di fare un grande avanzamento di carriera» mi spiegò, formale.
«Ma sarebbe qui a New York!» protestai.
«Sì», rispose lei laconica.
Cosa le stava prendendo? Cosa le era successo?
«Perché?» le domandai, afferrandole le braccia e scuotendola. Non mi preoccupai di averle fatto male stavolta, ero sconvolto.
Dopo tutto quello che ci eravamo detti il giorno prima, dopo tutte le sottintese promesse di un futuro insieme, voleva spedirmi a New York?
Voleva stare lontana da me?
Non poteva, non glielo avrei permesso.
Ero stato così felice fino a un momento prima, non le avrei permesso di rovinare il nostro futuro.
Tutti questi pensieri allarmati, produssero come effetto una maggiore stretta sulle sue braccia. Quando incrociai il suo sguardo spaventato, però, allentai immediatamente la presa, lasciando comunque le mie mani sulle sue spalle. Non volevo farle male, era troppo preziosa per me.
«Perché tu ami New York» mi rispose calma, il suo sguardo dolce mi accarezzava il viso.
Scossi il capo.
«Amo te di più».

 
 

________________________

Non mi linciate, lo so che vi lascio in sospeso con questo finale!
Fidatevi di me! Cosa ci sarà mai scritto nella mail che ha ricevuto Edward?
La sveglia di Edward è questa qui
Il ponte di C'era una volta in America è questo qui
Tutti i luoghi citati: Battery Park, i quartieri di Brooklyn, Williamsburg e Dumbo, il bagel shop e il famoso negozio di hot dog di Coney Island sono ovviamente reali.
Cercate qualche foto di Coney Island d'inverno, è davvero magica.


Spero che il capitolo vi sia piaciuto, vi aspetto la prossima settimana con il penultimo capitolo di Espresso.
Purtroppo, siamo in dirittura d'arrivo e non avete idea di quanto sia triste al solo pensiero di doverli lasciare andare, ma al momento il tempo che posso dedicare alla scrittura è davvero pochissimo e piuttosto che lasciarvi in sospeso per mesi prima di un aggiornamento, preferisco chiudere con dignità e poi magari riprenderla in mano con un seguito quando avrò più tempo.
Da lettrice so quanto è fastidioso dover aspettare tanto prima di leggere un nuovo capitolo, si finisce poi per abbandonare le storie, perché diventa estenuante l'attesa e io non voglio che mi abbandoniate.
Da autrice so che non mi piace lasciare le cose in sospeso, ma so anche che poi se sono troppo sotto pressione finisco per scrivere come se fossi sotto tortura e non potrei mai fare questo ad Espresso. Amo troppo questa storia.
Ovviamente ci saranno i pov Bella, come promesso. Anzi, vi chiedo di farmi sapere se c'è qualche momento in particolare della storia che vorreste leggere dal punto di vista di Bella. Fosse per me, se avessi tempo, scriverei Espresso tutta dal suo punto di vista, ma non credo di poterlo fare.
Quindi, fatemi sapere se avete particolari richieste o curiosità, magari coincideranno con i momenti che ho già deciso di scrivere dal suo punto di vista o magari sono momenti a cui non ho pensato e che potrebbero ispirarmi.


PS: ho iniziato a leggere Midnight sun e il mio unico martellante desiderio al momento è quello di leggere tutta la saga dal punto di vista di Edward :D


 
 
  
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