Capitolo 39
Finché morte non ci separi
“E quando, davanti alla morte,
ho gridato di no da ogni fibra,
che non avevo ancora finito,
che troppo ancora dovevo fare,
era perché mi stavi davanti,
tu con me accanto, come oggi avviene,
un uomo una donna sotto il sole.”
Primo Levi, 11 febbraio 1946
(da Ad ora incerta, l’opera poetica dedicata
alla moglie Lucia Morpurgo)
Immagine dal web della Cattedrale di Castellammare di
Stabia, comune della provincia di Napoli, dov’è ambientata la storia.
6
novembre 1946
Un
tiepido raggio di sole si posò sul suo viso coperto dal velo e abbassò le sue
lunghe ciglia finemente truccate. Fermò per un attimo lo sguardo sulla punta
della sua scarpa Mary Jane in satin bianco, mentre si accingeva a salire il
primo gradino dell’ampia scalinata in piperno di Soccavo della Cattedrale. Poi
alzò gli occhi al parapetto della facciata, dove l’orologio con le due piccole
campane segnava le undici. Era stata fin troppo puntuale.
Si
aggrappò più saldamente al braccio sinistro di Davide e questi pose la mano
destra sulla sua, in segno di maggior vicinanza e premuroso sostegno alle sue
emozioni. Sarah fece un bel respiro per liberarsi della tensione e gli dedicò
un largo sorriso che, voltatasi indietro, divenne un riso di gioia, incrociando
lo sguardo attento e commosso di Hannah, elegante nel suo abito in velluto
color verde scuro, china sui gradini a distenderle per bene il leggero
strascico del vestito. Era pronta a incamminarsi verso la realizzazione del suo
sogno.
Con
espressione più decisa, raddrizzò la postura delle spalle e fissò lo sguardo
verso l’arco centrale incastonato nelle due colonne capitellate
che, a breve, avrebbe solennemente attraversato. Il cuore le batté forte come
un tamburo, la mente si perse nella realtà della favola sognata da bambina e
lei entrò come in una bolla di candida luce, quando, salendo i gradini più in
alto, iniziò a vedere la sagoma in abito scuro del suo promesso sposo ad
attenderla davanti all’altare maggiore.
Salendo
un ultimo gradino, varcò la soglia della Cattedrale e, con maestosità e
potenza, l’organo a canne intonò la marcia nuziale di Mendelssohn. E Sarah
avanzò, camminando elegantemente, a passi lenti e sicuri, sulla lucida
pavimentazione in marmi bianchi e grigi dalla forma ottagonale e quadrata della
navata centrale. Tra gli sguardi di commossa ammirazione – e, purtroppo, anche
dardeggianti d’invidia che, per fortuna, lei non colse –, avvertì la presenza
visibile dei suoi affetti perduti e sorrise ai volti felici di sua madre e di suo
fratello Samuel, di Maria con in braccio il piccolo Giulio e di Agnese
affiancata dagli altri bambini.
E
Matteo era impeccabile nel suo smoking midnight blue
con fusciacca e papillon di raso, con i capelli più corti e ben pettinati
all’indietro, le labbra sorridenti e lo sguardo incantato verso la sua futura
sposa. Completamente perso nella meravigliosa visione vestita di bianco,
neanche si era accorto dell’avvicinarsi di Davide per stringergli la mano.
“L’affido
a te come mia figlia. Abbi cura di lei”, gli sussurrò all’orecchio, salutandolo
con due baci sulle guance e una leggera pacca sulla spalla e Matteo rispose,
annuendo con vigoroso entusiasmo.
Davide
si rivolse poi verso Sarah e, dietro a un’espressione seria, nascose la sua
profonda commozione, mentre, con un gesto delicato, le sollevava il velo.
Prendendole il viso tra le mani, la baciò sulla fronte e, quando la giovane
alzò la testa e lo sguardo, vide in lui le fattezze dell’uomo che l’aveva messa
al mondo e una lacrima guizzò veloce da un occhio a rigarle la guancia, a
liberarle il cuore dalla mancanza di suo padre. E fu Matteo ad asciugargliela
con un lieve bacio, sigillo del giuramento che, a breve, avrebbero pronunciato
dinanzi a Dio, sprovveduti e innamorati.
Raggiunti
l’inginocchiatoio e le sedute a loro riservati, l’organo iniziò a suonare l’Ave
Maria di Bach-Gounod e i testimoni di nozze, Gennaro e Carmela, tamponarono già
coi fazzoletti le prime lacrimucce.
Il
commovente sottofondo musicale, il suggestivo ambiente della Cattedrale, le
difficoltà del passato che facevano sembrare la realtà del presente e la
prospettiva del futuro un sogno idillico amplificavano le emozioni dei futuri
sposi e, quando l’anziano sacerdote si volse verso i fedeli per celebrare il
rito del matrimonio, per un attimo, Sarah rivide don Franco come ricordo sereno
delle tante volte che da ragazzina, durante le Messe domenicali, dall’alto
della cantoria, lo aveva immaginato presiedere le proprie nozze e sentì la sua
benedizione.
Esortati
dal sacerdote a darsi la mano destra, gli sposi espressero il loro consenso
davanti a Dio e alla Chiesa, inibiti dalla forte emozione, dagli sguardi
insistenti e commossi degli invitati, dalle lacrime e dai sorrisi da
trattenere.
“Io,
Matteo, prendo te, Sarah, come mia legittima sposa e prometto di esserti fedele
sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e
onorarti tutti i giorni della mia vita, finché morte non ci separi.”
Il
tremore scuoteva le dita delle loro mani unite, spezzava la voce flebile di
entrambi.
“Io,
Sarah, prendo te, Matteo, come mio legittimo sposo e prometto di esserti fedele
sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e
onorarti tutti i giorni della mia vita, finché morte non ci separi.”
L’anziano
sacerdote benedisse e consegnò gli anelli che Matteo e Sarah si scambiarono,
divenendo marito e moglie.
Una
pioggia di riso e di petali bianchi – quest’ultimi idea di Hannah, condivisa da
Davide – e un lungo applauso accompagnarono l’uscita degli sposi dalla
Cattedrale e i sorrisi poterono finalmente esplodere in risa, assieme alle
lacrime di gioia che Sarah e Matteo nascosero agli invitati festanti,
proteggendosi scherzosamente l’un l’altro dal lancio piuttosto fastidioso dei
chicchi.
Strada
Panoramica, Trattoria “La terrazza”
Avrebbe
voluto più tempo per loro, stare abbracciata al suo sposo e godersi dal
terrazzo il panorama, nonostante l’aria pungente dell’autunno. Avrebbe voluto
una musica diversa dal classico repertorio napoletano, come le canzoni in stile
jazz e swing del Quartetto Cetra. Avrebbe voluto un comportamento più sobrio da
parte degli invitati di Matteo il quale, adesso, sedeva un po’ brillo al tavolo
dei suoi amici ubriachi già da un pezzo e, sbracato, scherzava con loro, senza
più fusciacca né papillon né tantomeno la giacca, con i capelli di nuovo ricci
e scompigliati.
Il
sorriso non colorava più il viso di Sarah che si era allontanata dai discorsi
di Davide e Hannah sulla musica contemporanea al pianoforte, strumento che la
ragazza aveva smesso di studiare con l’avvento delle leggi razziali fasciste.
L’uomo si era proposto di darle qualche lezione e lei, da quel momento, aveva
iniziato a volergli bene e non come gliene voleva la sua amica.
A
braccia conserte, Sarah guardava Matteo, ma lui non si accorgeva del suo
sguardo imbronciato e malinconico, attraverso la nuvola di fumo prodotta dalle
sigarette dei commensali chiassosi e dietro lo sporadico passaggio di coppie
danzanti al ritmo della canzone “Funiculì funiculà”.
Sentendosi
trascurata e desiderosa di attenzione, nel giorno in cui la sposa avrebbe
dovuto essere la protagonista assoluta, decise di non aspettare la fine del
ricevimento per il lancio del bouquet e afferrò dal tavolo i suoi fiori d’arancio,
mentre si alzava risolutamente dalla sedia.
Ostentando
un sorriso gioviale e un atteggiamento più sereno, chiamò Hannah,
interrompendole il dialogo con Davide. Subito, seria ed entusiasta, la sua
amica si adoperò per organizzare l’emozionante momento, chiedendo
all’orchestrina una musica d’atmosfera e radunando le ragazze nubili alle
spalle di Sarah che, sbirciando all’indietro, prese bene la mira, affinché
fosse lei a ricevere il bouquet. E così avvenne.
Rise
di gusto, felice per la gioia che aveva saputo donare a quella che considerava
una sorella acquisita e si apprestò a unirsi all’abbraccio delle ragazze che
avevano circondato euforicamente Hannah. Ma, prima che potesse compiere il
primo passo verso di lei, il rumore di due colpi secchi, di due pugni sbattuti
su una tavola imbandita la fece voltare. Vide allora il compare di Matteo,
sedutogli accanto, che, alzatosi barcollante, diede un altro pugno, il terzo,
sul tavolo. Le vettovaglie sobbalzarono di nuovo, tintinnando e facendo, con il
loro suono, da preludio a un inno fascista.
“Faccetta
nera, sarai romana e pe’ bandiera tu c’avrai quella italiana.” Con voce rotta
dall’ubriachezza e ostentando un timbro da tenore, l’uomo non ci mise molto a
coinvolgere nel suo lucido delirio i giovani commensali, fatta esclusione di
Matteo che se ne stava inerte e serafico. “Noi marceremo insieme a te e
sfileremo avanti al duce e avanti al re. Noi marceremo insieme a te e sfileremo
avanti al duce e avanti al re!”
Gli
occhi di Sarah si velarono di lacrime e le sue spalle s’irrigidirono, all’udire
gli ultimi versi di quell’inno pregno di razzismo e sessismo che, decantando il
colonialismo italiano fascista nell’Africa orientale, le rievocava
discriminazioni e persecuzione subite per mano della dittatura nazifascista.
Le
risate sguaiate e l’animato chiacchierio degli invitati e la musica
dell’orchestrina – adesso, alle prese con l’interpretazione della “Tarantella
Luciana” – iniziarono ad arrivare alle sue orecchie come un suono ovattato e
sempre più lontano e il ricordo dei suoi affetti perduti tornò a essere avvolto
dall’ombra dell’angoscia per la loro prematura, indubbiamente terribile morte.
Per
un attimo, indirizzò lo sguardo ad Hannah, assicurandosi che non avesse udito
l’allegro e vergognoso coretto fascista e, fortunatamente, la vide ancora tutta
presa dalla sghignazzante euforia che la circondava; poi i suoi occhi furono
verso Matteo, nella speranza che reagisse in favore dei valori che li
accomunavano, in suo favore, conoscendone i patimenti sofferti a causa del
regime. Sentendosi osservato, il giovane le rivolse lo sguardo e, senza neppure
accorgersi del suo malessere, non lo trattenne su di lei, distratto dallo
strattone di un amico, la cui battuta gli aprì le labbra a una risata.
Preoccupata
come per la sua amica, Sarah si guardò attorno, alla ricerca di Davide,
trovandolo all’impiedi, scattato forse per
intervenire, forse per lo sconcerto e i loro occhi si incontrarono in un
profondo ed empatico dialogo. Pian piano, la musica sembrò svanire e la realtà
che li accerchiava – fatta di persone che brindavano, scherzavano, cantavano e
ballavano – divenire una sequenza d’immagini sfocate. E furono l’uno lo
specchio dell’altra, mentre entrambi trattenevano le stesse lacrime.
Nello
sguardo di Davide, Sarah vide riflessi i propri sentimenti di delusione,
amarezza, rabbia, disperazione, paura, sconfitta e sparì dalla sua visuale, al
passaggio di coppie ridenti e danzanti. Era scappata via.
“E ho capito che non serve il tempo alle ferite,
che sono sempre meno le persone unite,
che non esiste azione senza conseguenza.
Chi ha torto e chi ha ragione quando un bambino muore?
E allora stiamo ancora zitti che così ci preferiscono,
tutti zitti come cani che obbediscono.
Ci vorrebbe più rispetto,
ci vorrebbe più attenzione
se si parla della vita,
se parliamo di persone.”
Fiorella Mannoia, Il peso del coraggio