Storie originali > Drammatico
Segui la storia  |       
Autore: wanderingheath    02/10/2020    0 recensioni
Norwall, Connecticut.
Melanie Prescott, nata e cresciuta tra le grandi vie di scorrimento in periferia, diventa l'obiettivo preferito di Cindy Butler e delle sue sottoposte. Abbandonata a se stessa nella scuola più prestigiosa della città, osserva con dolore legami ormai strappati e l'instabile equilibrio raggiunto dalla madre.
Dall'altro lato del vetro c'è Daphne Barnett, con gli storici amici Logan e James, che non riesce a trovare la propria voce e si aggrappa ad ideali di amori fittizi. E mentre lei si consuma per Ethan Sallinger, ragazzo travolto dalla corrente di eventi drammatici, Isaac Barnett finisce nella rete di criminali che opera nel "Black Market"; rete che coinvolge anche gli abitanti della società dabbene, baluardo di una finta integrità.
In questo labirinto sporco ed intricato si snodano le vite di comuni adolescenti, equilibristi in bilico tra prime esperienze amorose, relazioni interpersonali danneggiate, un passato ombroso e un futuro sbiadito. Soli in balìa di forze esterne, i ragazzi si ritroveranno annodati alle vicende di Norwall e alla migliore detective da poco tornata in città: Ellen Ward.
Otto drammi diversi ma non distanti, otto vite parallele che troveranno un punto di incontro per conoscersi e riconoscersi negli altri.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
CAPITOLO 10.* (II)

Mousetrap

Il capitolo presenta delle scene più forti
 

 
 
 
«Delicate in every way but one
(the swordplay)
God knows we like archaic kinds of fun
(the old way)
Chance is the only game I play with, baby.»
 
7:06 p.m. – Westside
 
 
 
 
Isaac raccolse il cellulare dalla scrivania e lo lasciò scivolare nella tasca dei jeans.
Aveva appuntamento con Oliver in una ventina di minuti, davanti a un distributore del gas. La notifica tanto attesa alla fine era lampeggiata sullo schermo in un momento di distrazione, durante la lezione di Biologia. Credeva si trattasse di un messaggio di spam, ma il suo cuore aveva fatto una tripla capriola davanti al numero dello sconosciuto, firmato semplicemente “O”.
Al messaggio era stata acclusa la geolocalizzazione.
Mentre attraversava il salotto, diretto verso l’uscita, Isaac scorse in controluce la sagoma del padre, seduta ricurva sul divano.
Sembrava attratto da una custodia per dvd vuota, la rimirava, rigirandola tra le mani come una sacra reliquia di un passato che Isaac non conosceva.
«Papà? Che combini?»
Hugh Barnett sobbalzò, lasciando cadere la scatola di plastica sul tappeto. Aveva gli occhi lievemente arrossati, gli occhiali sollevati sulla fronte e una strana espressione di fastidio depositata a cavallo degli zigomi. «Niente, niente. Guardavo solo un vecchio disco.»
Si ostinava a chiamare “dischi” i dvd, per qualche motivo, ma non gli sfuggiva mai il nome di registi o attori di un determinato film; conosceva la grande collezione di classici cinematografici forse meglio di quanto conoscesse sua moglie. A loro era dedicato l’ultimo ripiano della libreria, libero dagli ammennicoli di Emma o dai romanzi della figlia, e perimetrato da una vetrina, rigorosamente sigillata a chiave.
Gli rivolse un sorriso sbilenco, riposizionandosi gli occhiali sul naso.
«Esci stasera?»
Aveva notato la tenuta libera del figlio e le chiavi di casa ben strette nel pugno.
Isaac annuì.
«Ah, ti sei fatto dei nuovi amici.»
Qualcosa in quella naturalissima osservazione, nel modo in cui aveva strascicato la “a”, come se sapesse cosa stava succedendo, strappò ad Isaac un brivido di disgusto, peggiore del suono di denti sulla lavagna.
Hugh Barnett non si interessava quasi mai dei suoi affari; quella era una prerogativa materna.
Che Isaac non frequentasse più la vecchia compagnia delle elementari, l’avevano capito tutti in casa, ma sentirselo esplicitato in quel modo lo metteva terribilmente a disagio.
«Una specie», glissò. «Credo che tornerò tardi. Non aspettatemi alzati.»
«Magari incrocerai la mamma.»
Isaac tentennò sulla soglia del salotto. «Come mai?»
«Cena fuori con dei colleghi. Non penso rientri prima di mezzanotte.»
Assentì di nuovo, sforzandosi di mantenere intatta l’espressione impassibile.
Una cena. Ecco il perché di tutta quell’eccitazione nei giorni precedenti, rifletté una volta solo, in strada.
Sua madre era stata attaccata al cordless per ore a fare su e giù per le scale, contornando le risatine entusiaste con dei nomignoli affettuosi. Dovevano esserci di sicuro il Gran Doc – come lo chiamava lei –  insieme alla collega di cui Isaac continuava a dimenticare il nome e i nuovi tirocinanti che trafficavano nello studio medico.   
Fuori l’aria era frizzantina, scoppiettante di candele, zucche rossicce e lanterne cinesi.
Una schiera di bambini mascherati lo sorpassò in fretta, seguita dal gruppo di adulti che scuoteva la testa, stringendo i secchielli del “dolcetto o scherzetto”. Tra i vari mostri, eroi e antieroi che incontrò lungo il tragitto, un costume in particolare attirò la sua attenzione: un bambino di cinque anni, una corona di capelli biondo cenere e un paio di occhi vispi, animatissimi, sotto la mascherina da Batman.
Batman non riposa neppure ad Halloween, pensò con una risatina ironica.
A sorprenderlo fu il fatto che il ragazzino stesse piangendo sul bordo del marciapiede, mentre i genitori, giovani e chiaramente inesperti, provavano a consolarlo.
Isaac si morse l’interno della guancia, scansando un ricordo doloroso che premeva per riaffiorare.
Trovò Oliver nel punto indicatogli, intento a ripulirsi la dentatura con uno stuzzicadenti. I pantaloni aderenti e la camicia non meno ristretta gli fasciavano il corpo. Bicipiti scolpiti, venature in rilievo, fianchi asciutti: avrebbe potuto posare per qualche famosa azienda di costumi.
«Finalmente», disse con un sorriso impertinente. «Vieni, gli altri ci aspettano qui dietro.»
Il resto del gruppo se ne stava appollaiato attorno ad un paio di veicoli. Isaac riconobbe due dei ragazzi incontrati in precedenza al pub, ora sdraiati sul cofano dell’auto fiammeggiante.
Anche loro lo identificarono all’istante, eppure Oliver sentì il bisogno di replicare qualche presentazione: «Vi ho riportato il Messia del weekend».
Gli posò pesantemente una mano sulla spalla.
«Il rampollo del Westside», lo apostrofò uno del gruppo. Sulla ventina, con il capo talmente rasato da ricordare una palla da bowling, le sopracciglia inesistenti e uno strano mantello indosso, che doveva aver rubato al conte Dracula. «Ha proprio la faccia da bravo ragazzo. È insospettabile.»
«Insospettabile?» ripeté Isaac perplesso.
Un’ombra emerse dall’interno della Toyota azzurra metallizzata, sbattendosi dietro lo sportello.
Era un ragazzo tarchiato, con le mani affondate nel giubbotto imbottito da motociclista e quantitativi esorbitanti di brillantina nei capelli scuri.
Isaac si sentì girare la testa: davanti a lui c’era nient’altri che Ryan Woods.


 

*   *    *
 
 
Le luci calde della specchiera ricordavano perle lungo il filo di una collana.
Il bagliore caldo, accogliente, si posava sui loro visi con la calma e la sicurezza di una carezza materna.  
Solamente un’ombra accompagnava i movimenti della mano di Lisa, mentre spandeva la noce di ombretto violaceo lungo tutta la palpebra. Distesa sul lavandino a esibire il proprio contenuto, la pochette di trucchi faceva un figurone; ricordava vagamente la bocca di una marionetta, con la dentatura di cerniera e il tessuto roseo che fuoriusciva – simile ad una lingua – rigurgitando pennellini, fard e matite.
Erano chiuse in quel bagno da più di mezz’ora ormai. Il maniero si era intanto affollato con rapidità e in ogni sala pulsavano le musiche della band ingaggiata per la serata. Potevano percepire i rintocchi della batteria da dietro l’uscio socchiuso.
Per Melanie il tempo si era fermato in quell’esatto punto: uno sgabuzzino fuori dal mondo, fuori dalle leggi spazio-temporali. Non le importava più niente della festività, del maniero decorato, della sospensione, di sua madre, della Bibbia o di altri problemi che affollavano la mente nei momenti di quiete, quando si ritrovava a confrontare se stessa e la voce che conservava dentro.
Adesso c’erano solo lei e Lisa. Non solo in quel bagno, ma in tutto l’edificio, nella bolla che racchiudeva Norwall, nello Stato del Connecticut, nell’intero universo esistevano solo loro due.
E almeno nel suo, di piccolo insignificante universo, era davvero così.
Le nocche di Lisa le sfioravano il viso e le dita sinuose vi si posavano di tanto in tanto, per distendere i lembi di pelle su cui stava realizzando il proprio capolavoro.
«Resta ferma, ferma.»
Melanie si era irrigidita. Lo trovava un ordine del tutto controproducente, un po’ come focalizzare l’attenzione sul proprio respiro, salvo poi entrare nel panico nel tentativo di controllarlo.
«Ferma», le aveva ripetuto Lisa, stavolta in tono più comprensivo. «Altrimenti rovinerai questa piccola opera d’arte.»
Ultimato il suo progetto, l’aveva rigirata davanti alla specchiera, cingendole le spalle con soddisfazione.
La figura che la osservava nel riflesso appariva irriconoscibile; Melanie quasi si spaventò.
Il trucco richiamava quello di una strega con le labbra marchiate dal rossetto color prugna, una pesantezza a cerchiarle gli occhi, la base cadaverica ad asfaltare i lineamenti. Non era mai stata sistemata con così tanta cura in vita propria.
«Wow.»
«Ti piace?»
Lisa le scansò una ciocca dal volto. «Credo che ci voglia un altro ritocchino qui.»
Si spostava nella stanza come una specie di fata, folletto o creatura fantastica dotata di ali, nonostante il travestimento che aveva scelto per la serata fosse di tutt’altra natura.
Era tornata all’opera, china con la corona di boccoli a incorniciare l’ovale del viso. Melanie si sforzava di trovarvi qualche stonatura, una minima imperfezione, ma sulla pelle setosa di Lisa May non spiccavano difetti. E altrettanto chiari, puliti, apparivano i suoi occhi, ora assottigliati nello sforzo di riprodurre il disegno mentale.
Prima le aveva sfiorato la guancia dove spiccava la riproduzione di una ragnatela, percorrendo con i polpastrelli i filamenti che vi si intrecciavano.
La prossima volta, aveva detto, scegli un costume in anticipo e ti stupirò.
Ma ci sarebbe stata una prossima volta o lo stava solo dicendo per cortesia?
Melanie ebbe l’urgenza di rompere quel silenzio.
L’impellenza di riprendere o proseguire una conversazione le era capitato di frequente solo con Daphne, anche se spesso era proprio lei a colmare le pause di lunga sospensione, traendo Mel d’impaccio.
Semplicemente capiva. Capiva soprattutto i suoi time-out dal dialogo, i momenti in cui voleva solo osservare il soffitto, senza dover aggiungere altro. Allora voleva esistere e basta, ma con una figura al proprio fianco a cui fare spazio nei propri pensieri, così da condividere il suono del nulla.
I piedi di Daphne accanto ai suoi, premuti contro il muro; il ritmo regolare dei loro respiri.
C’era il poster de “Le Cronache di Narnia” e il calore di un pomeriggio di prima estate a tener loro compagnia.
Si era voltata e aveva colto Daphne già intenta a scrutarla, distesa sul copriletto accanto a lei.
Un sorriso accennato, che le accendeva gli occhi e arricciava la punta del naso.

Melanie respinse lo schiaffo di ricordi dal sottosuolo.
In quello stesso momento, qualcuno bussò alla porta del bagno.
«Abbiamo finito!»
Lisa rincappucciò il mascara e si affrettò a sgomberare la postazione da trucco improvvisata.
Fuori, le altre stanze del maniero erano invase da un buio che sarebbe stato difficile definire “penombra”, come riportato nelle indicazioni dei rappresentanti d’istituto. Era un vero mare di nebbia e catrame, occasionalmente ferito da raggi bluette, in cui le uniche stelle erano punti luminosi in corrispondenza delle candele.
Melanie procedeva a tentoni con Lisa stretta al fianco, quando si sentì comprimere un piede.
«Oddio scusami,» la voce mortificata di Frances Hurst la raggiunse oltre il muro di musica e pulsazioni, «me lo dicono sempre che sono maldestra… forse hanno ragione».
L’altra scosse il capo, provando a bofonchiare qualche frase di conforto, ma si interruppe davanti al costume scelto dalla ragazza. L’abituale ventaglio di colori che avvolgeva Frannie era stato soffocato sotto una tunica color panna, strizzata in vita da una corda che fissava anche un corpetto nocciola ed un piccolo pugnale; l’acconciatura sbarazzina spariva completamente sotto la cuffia di stoffa.
Anche Lisa la stava squadrando. Alla fine la curiosità prevalse: «Da cosa sei vestita?»
Frannie emise un grugnito, spalancando le braccia. «Sapevo che non si sarebbe capito. Sei la ventunesima a chiedermelo, da quando ho messo piede qui.»
«Sembri una specie di dama», azzardò Mel.
«Strega», la corresse subito lei. «Mamma mi aveva suggerito di portare una scopa, ma io le ho detto che le donne bruciate sul rogo non se ne andavano in giro con le scope per la città.»
Lisa parve illuminarsi all’istante: «Anche Mel è una strega!»
Le fece mostrare il profilo sotto l’unico fascio di luci verdastre agganciate alla parete della sala, ripercorrendo con soddisfazione il gioco di intrecci che aveva creato sulla guancia.
Frannie non sprizzò gioia.
«Ah, tu hai scelto di ricalcare lo stereotipo. Ti manca il cappello però.»
«Non avevo in programma di travestirmi stasera. O anche solo di restare», ammise Mel grattandosi il capo. «Lisa ha fatto un ottimo lavoro, direi che basta e avanza.»
La ragazza, sentendosi chiamata in causa, protestò: «No, no, no. Ha ragione lei, il cappello ti serve».
L’aveva presa a braccetto e ripassava tra sé e sé l’inventario delle decorazioni. «Forse riusciamo a rimediarti qualcosa tra le cianfrusaglie di sopra.»
«Beh,» Frannie le tese un salatino dalla forma oblunga, «intanto usa questo come bacchetta».
Mel le sorrise in un mescolio di gratitudine, imbarazzo e incertezza. Non sapeva se poteva fidarsi di Frances, ma il fatto che si fosse ostinata a cercarla a distanza di tempo, la portava a rivalutarla. Eppure, la gentilezza non era il pane quotidiano con cui ci si confrontasse all’Arcadian.
«Frances Hurst, proprio te cercavamo.»
James scivolò nello spazio tra le tre giovani con la destrezza di una ballerina provetta, arrestandosi ad un palmo dal naso della diretta interessata. Che poi ne avesse pronunciato il nome allungando eccessivamente le vocali, era tutta un’altra storia.
«Grandi notizie.»
Gli altri tre membri del gruppo si aggiunsero al capannello con una certa curiosità. Jason e Travor in particolare non riuscivano a nascondere la trepidazione sbocciata nel momento in cui James aveva scommesso con loro che avrebbe fatto cadere la ragazza ai suoi piedi.
«Halloween è l’occasione perfetta, ragazzi», aveva assicurato un’ora prima in macchina. Mentre Logan guidava con attenzione sull’asfalto imperlato da un sottile strato di nebbia, James si contendeva con lui lo specchietto retrovisore per sistemarsi la dentiera da Dracula. Per tutto il tragitto non aveva fatto altro che sputacchiare – applicando e sfilando i finti incisivi – di come Frannie sarebbe rimasta stregata dalla sua idea geniale. «Si spaventerà a tal punto da sciogliersi e cercare la mia protezione. Fidatevi, queste cose funzionano.»
«Ma dove l’hai letta questa stronzata, James? Su qualche giornaletto per adolescenti?»
Jason aveva sghignazzato con il suo amico dai sedili posteriori. E Travor non aveva perso occasione di rincarare: «Per caso hai fatto anche il quiz: “Amici, Amanti o Fidanzati”?»
James li aveva ignorati del tutto, focalizzato solo sul suo piano d’attacco e sulla tenuta della dentiera.
«Sì, sfottete pure. Intanto Frannie me la sono fatta io, non voi.»
«Non ci crede nessuno a questa cazzata, neppure tu. Giusto, Logan?»
Logan si era riappropriato dello specchietto interno con uno strattone. A volte aveva l’impressione di confrontarsi con delle bestie.
Era forse eccessivo chiedere di poter guidare come un normale essere umano?
«Io mi astengo, vedremo stasera cosa combinerà. E tu James, smettila con questo specchietto. Ci farai finire fuori strada, porca miseria.»
«Un cimitero?», chiese Frannie, una volta trasferitisi nell’ingresso principale. La musica lì giungeva sfumata e il flusso di studenti meno denso, coagulandosi nelle sale più spaziose.
James annuiva soddisfatto. «Proprio un cimitero. Un cimitero vero, in carne…»
«Oh, ti prego», tentò di interromperlo Jason.
«…ed ossa. A una ventina di chilometri da qui. Possiamo prendere la macchina di Logan.»
Il piano poteva essere riassunto in pochi passaggi: guidare fino al cimitero che aveva trovato su Google qualche ora prima, fare irruzione senza essere beccati… e la sua immaginazione si arrestava lì.
«Ma non temete di incontrare… sì, insomma, qualche presenza?»
Per quanto tremasse al pensiero di fantasmi che infestavano la zona, Lisa preferiva sapere cosa si annidava nei dintorni del Webling Manor e accettarne l’esistenza, piuttosto che finire in poco piacevoli incontri.
James rimase interdetto, poi, schiarendosi la gola, commentò: «C’è la tomba di Matilde Richardson. Potremmo andare lì».
Dal momento che non ricevette alcun segno di assenso, James assunse l’atteggiamento del suo professore durante le lezioni di Fisica, busto dritto e mani allacciate dietro la schiena. «Matilde Richardson era una ricchissima ereditiera, trovata morta nella sua abitazione – nientepopodimeno che un palazzo a tre piani – in circostanze misteriose. Il giardiniere pensava si fosse addormentata sul prato, fin quando non ha visto il coltello piantato nella schiena.»
Nel ribrezzo generale e alla vista di Lisa, divenuta dello stesso colore del lenzuolo che indossava, Logan diede un taglio alla descrizione. «Okay, ci siamo fatti un’idea. E perché mai vorreste andare a rompere le scatole alla povera Matilde, con la mia auto oltretutto?»
Sul volto di James guizzò un lampo, mentre ammiccava. «Si dice sia stata sepolta con una collana preziosissima, ricevuta in regalo dal marito. La servitù aveva provato a strappargliela, ma lei li ha… ecco, li convinti a lasciargliela.»
Frannie si spalmò una mano sul viso. «Vuoi profanare il sarcofago di una sconosciuta, durante la notte dei morti viventi?»
Lui le indicò la finestra, frizzante: «E con la luna piena!»
Trascorsero alcuni momenti di silenzio, durante i quali Melanie lasciò una carezza sulla spalla di Lisa – chiedendosi come potesse essere così suscettibile – e Logan scoccò un’occhiata all’interno della sala da ballo.
«Va bene.»
Tutti si rivolsero basiti verso Frannie. Perfino l’ideatore del piano rimase allibito nel constatarne il successo.
«Davvero?»
Fu un commento quasi all’unisono, a cui la ragazza rispose con placidità. «Certo. Si vive una volta sola.  Prendo giusto un paio di cose e vi raggiungo.»
Non appena si fu mescolata al marasma di corpi, James piroettò sul posto e, afferrato Jason per il colletto, sussurrò: «Che vi avevo detto? Il miglior piano di sempre».
Di tutt’altro genere erano invece pensieri di Logan, che domandò se si avessero notizie di Daphne. I messaggi che le aveva inviato erano fermi su una sola spunta e dall’inizio della festa non l’aveva ancora incontrata.
Lisa scosse il capo: «Mi pare di averla vista ballare insieme ad Alyssa, ma è stato più di mezz’ora fa.»
L’immagine di Daphne Barnett che si scatenava sulla pista da ballo turbò per un istante i presenti, ma nel cervello di James imboccò presto la porta sul retro, lasciando spazio a preoccupazioni impellenti.
«Chi guida? Io ho bevuto. Travor, guida tu, amico.»
Cominciarono a battibeccare su chi dovesse prendere la macchina di Logan e quanto affidabile potesse essere. Melanie si concentrò su Lisa, rubandole in una fotografia mentale il sorriso che la illuminava. Una fossetta si era scavata un piccolo spazio nell’angolo sinistro, creando una strana introflessione nella guancia pallida di cerone.
«Che c’è? Non dirmi che sono spo…»
La frase fu frantumata dalla lama di un pugnale premuta contro la gola, già stretta nella morsa di un braccio avvinghiato al suo collo. Lisa si sentì risucchiare all’indietro da una forza sconosciuta e per poco non le cedettero le ginocchia. Nell’orecchio, solo una voce melliflua: «Dolcetto o scherzetto?»
 
 
*   *   *
 



Iniziava ad annoiarsi.
Era stato divertente finché aveva potuto dimenticare le proprie inibizioni, cancellare qualche tabù dalla propria lista e nascondersi fra la massa di costumi horror. Molti di questi si ripetevano – lei stessa aveva individuato almeno altre sei diavolette – ma il travestimento angelico non andava per la maggiore, anzi risultava decisamente fuori posto. Se non altro, l’originalità le aveva permesso di guadagnare più di uno sguardo dagli studenti dell’ultimo anno.
La parte più interessante era stata quando avevano messo Scream and Shout, di Will.I.AM. e Britney Spears, ripescato da Felicity dai meandri dell’inconscio collettivo e proposto ai rappresentanti.
Nessuna di loro aveva davvero creduto che la richiesta sarebbe stata accontentata, invece le note della canzone avevano d’improvviso sommerso i presenti. Felicity aveva emesso un gridolino, saltellando sul posto, mentre Ronnie e Alyssa, assieme ad un’altra giovane che avevano reclutato – tale Willa Hess –  avevano impedito a Daphne di abbandonare la nave, bloccandola in un abbraccio che assomigliava ad una rete da pescatori, fitta e resistente.
«Coraggio, Daffie» le aveva gridato Alyssa in un orecchio, stringendola a sé. «Che abbiamo detto prima? Stasera ci divertiamo e basta.»
Le grida si erano alzate in un inno dalla pista dove gli studenti si spingevano, strusciavano, sdraiavano gli uni addosso agli altri, alcuni visibilmente più ubriachi.
Daphne si era ritrovata immersa in un oceano di corpi che si alzavano e si riabbassavano, in cui tutto attorno a lei sembrava andare a velocità quadrupla, ma anche rallentata; le altre avevano cominciato a saltellare e a trascinarla in un ritmo convulso e nel gorgo di oscurità tanto intensa da non permetterle di capire più dove atterrassero le piante dei suoi piedi. Poi aveva perso ogni punto di orientamento, la sua bussola interna demagnetizzatasi, il sudore le era colato lungo il collo, inumidendo la veste da angelo.
C’erano stroboscopiche che ferivano gli occhi come saette, la pulsazione prepotente della musica nella gabbia toracica, che pareva gareggiare con il suo cuore e premere affinché continuasse a saltare. Le uniche volte che aveva avuto il fiato corto era stato durante gli allenamenti di educazione fisica, ma in quel momento aveva rimpianto di non essersi mai dedicata ad uno sport, di non avere abbastanza aria nei polmoni per stare al passo con le sue amiche, di vergognarsi di se stessa nel sentirsi un’ottantenne.
E infine c’era stata la schicchera dell’alcool, scattata dal suo esofago, avvertita fin nel cervello. Il volto di Alyssa usciva e rientrava nella penombra, come in una serie di fotogrammi con degli stacchi molto nitidi e prolungati.
Con il capo le aveva fatto un cenno, indicando qualcuno dietro di lei, ma Daphne non aveva capito assolutamente nulla dal suo labiale. Poco importava, perché era stata questione di istanti: un ragazzo alto il doppio di lei, con un paio di spalle da pallanuotista, si era incollato alla sua schiena.
Lì per lì l’idea che qualcuno fosse attratto da lei l’aveva accesa di imbarazzo, subito soppiantato da entusiasmo. La faccenda del tutto inusuale l’aveva intrigata.
Alyssa le aveva strizzato l’occhio, indicando i propri fianchi: doveva imitarla e scuotersi un po’.
Prima che Daphne avesse potuto replicare o prendere la via della fuga, l’amica le si era parata davanti e l’aveva incastrata tra il proprio corpo e quello dell’atleta, che già le stava sfiorando un braccio.
«Aly, che diamine fai?»
«Poche domande, tesoro. Seguimi.»
Le aveva allacciato un braccio attorno alle spalle, mentre le avvicinava un bicchiere alle labbra. «Piega la testa!»
Daphne aveva ubbidito e l’altra le aveva versato del punch a fontanella direttamente in gola.
Hear the beat, now let’s hit the floor. Drink it up and then drink some more.
Il bruciore dell’alcool le era esploso in corpo come una miriade di fuochi artificiali, provocandole una risata.
Si era sentita esattamente come tutti gli altri, nel centro del ciclone, sgombra dai soliti pensieri che la tenevano ancorata al suolo. Ciocche dei capelli di Alyssa le schiaffeggiavano il volto, si insinuavano tra le labbra insieme a quelli sintetici della parrucca; sotto la veste, i suoi fianchi avevano risposto, liberi di farsi modellare dalle anche del pallanuotista.
Alyssa aveva fatto di nuovo collidere i loro corpi e con le mani stavolta libere le aveva scompigliato un po’ la chioma da angelo. «Gli piaci parecchio», aveva urlato nel suo orecchio.
Così si erano ritrovati all’aperto, la sua amica allontanatasi con la scusa di riempire i bicchieri per tutti e il ragazzo di nome Chase che cercava in tutti i modi un contatto visivo e fisico con il “suo angioletto preferito”.
«Per essere un angelo, sei abbastanza cattiva», era stata la sua frase d’apertura, ma anziché rompere il ghiaccio aveva ottenuto l’effetto inverso.
A bordo piscina le cose apparivano un filo più nitide e Daphne cominciava a rimpiangere le proprie scelte. Essere desiderata la riempiva fino all’orlo, la faceva traboccare di gioia, dotandola di una potenza di cui altrimenti si considerava priva per legge naturale, come se alla nascita i suoi genitori si fossero dimenticati di donarle un minimo di autodeterminazione.
Adesso però era stanca. L’effetto dell’alcool svaniva e l’atletico pallanuotista, con il suo travestimento appena uscito da Arancia Meccanica, non esibiva alcuna armatura scintillante.
O rinforzi di alcol o te la svigni con una bugia.
Le parevano le uniche due opzioni dotate di senso.
«Non mi hai detto come ti chiami, angelo
Daphne si ripromise di fuggire a gambe levate, nel caso in cui avesse tirato fuori qualche flirt sugli angeli e le cadute dal cielo. «Angel.»
Il ragazzo strabuzzò gli occhi, brillo ma elettrizzato dalla rivelazione. «Dici sul serio? Ma è… assurdo.»
«Eh, già.»
Rinforzo di alcol.
Daphne si impossessò di un bicchiere lasciato incustodito a bordo piscina e tracannò il contenuto tutto d’un fiato, gettando il capo all’indietro come aveva visto fare tante volte nelle serie tv. L’intera esperienza le ricordava un’assurda serie tv per adolescenti. Forse quel pensiero contribuì a calmarla e a rincuorarla, chiudendo in uno sgabuzzino i ripensamenti e sensi di colpa.
Decise che si sarebbe mostrata amabile, che avrebbe sedotto Chase, perché Ethan Sallinger quella sera non era lì, perché non sarebbe cambiato nulla neppure se ci fosse stato e perché voleva dimostrare a se stessa – e ai propri amici – di non essere una noiosa codarda.
«Quindi, Chase, cosa studi?»
L’argomento perfetto per attaccare bottone.
Diamine, ma come se ne usciva? Possibile che non riuscisse mai a staccare la spina?
«No, aspetta. Cambio domanda.»
Per qualche motivo lui trovò la sua retromarcia divertente. Sebbene fossero seduti a bordo piscina, nessuno dei due aveva imitato gli ospiti che si erano tuffati in acqua, né quelli che, ancora vestiti, vi rinfrescavano i piedi.
Chase si accostò a lei e con la scusa di rimuoverle i residui della parrucca dalla bocca, ne approfittò per disegnare con il pollice il contorno del labbro superiore. Indugiò sull’arco di Cupido. «Te la faccio io, una domanda. Ti va di andare di sopra?»
Come un missile, il primo pensiero che colpì Daphne fu la serie di stanze matrimoniali che il maniero affittava per chi si volesse trattenere dopo i ricevimenti. «Di sopra dove?»
«Nella sala da biliardo. Ti insegno a giocare.»
Si rilassò appena, controbilanciando l’ansia con la disinibizione donatale dal drink. Qualunque cosa avesse ingollato, stava facendo faville.
Al piano di sopra, radunati nella sala da biliardo, c’erano due gruppi di ragazzi – presumibilmente dell’ultimo anno – che disputavano una partita. L’odore acre di erba s’insinuò nelle narici appena socchiusero la porta. I giocatori si affrettarono a liberare il tavolo e si catapultarono fuori dalla stanza, come conigli spaventati. Solo uno strano trio vi si trattenne: il primo, un tipo massiccio sulla ventina, consumava la propria canna in una rientranza del muro, affacciato alla finestra; il suo compagno, tarchiato e accovacciato sul bordo del tavolo, dava loro le spalle e parlava con il terzo. Daphne si sentì ancor più disorientata nel rivedere Tom, l’ex di Alyssa, intento a sorseggiare qualcosa, ben piantato a gambe divaricate.
Quest’ultimo la riconobbe all’istante e, cerimonioso come non mai, le tese il proprio bicchiere di vodka, offerta che Daphne declinò con garbatezza.
«Io e Angel volevamo fare una partita», spiegò Chase recuperando tutto l’occorrente.
«Ah, Angel.» Tom le ripropose il drink, stavolta con decisione, nonostante l’occhiolino complice. «Meglio se ci bevi su, Angel. Che dici?»
Il ragazzo di spalle si voltò. Nel volto cosparso di lentiggini, nei lineamenti di pietra e nel carico di anni che indossava, pur non rispecchiando la sua vera età, Daphne lesse lo stesso giovane che stava frequentando Cindy Butler. Avevano aperto le danze al compleanno al Galaxy, ma in altre occasioni lo aveva notato, distante anni luce da ciò che lei trovava attraente nel sesso opposto.
Dei tre, solo Tom era venuto mascherato, scegliendo il Joker come proprio alter-ego.
«Sai giocare, Angel?» la punzecchiò il partner di Cindy – Sean, se ricordava bene.
«Le insegniamo le basi.»
Mentre lei sorbiva a sorsi da uccellino la vodka liscia, Sean costeggiò il tavolo e si congedò, richiudendosi la porta alle spalle.
«Vi conoscete?»
La domanda le era uscita confusa, replicandosi nella sua mente come onde sonore dopo una percussione. Si stiracchiava e ritirava quale una fisarmonica, attorno alla quale giravano le pareti.
«Andiamo allo stesso college», le spiegò Tom. «Mi sono trasferito a Providence da un anno.»
«Providence? Wow.»
Ora la testa le vorticava ancora di più e il mondo si era rovesciato sottosopra.
Tom e quel Chase a Providence? Come, quando era successo?
Chase la invitò a concentrarsi sul gioco. Si sarebbero limitati ad una dimostrazione, per farle mandare qualche colpo in buca. Il ragazzo con la canna era entrato nel proprio mondo onirico, mentre Tom aveva perso interesse per la situazione e rispondeva a dei messaggi sul cellulare.
Daphne avvertì di nuovo la fisicità del giovane alle proprie spalle, ma stavolta in un modo spiacevole, ingombrante e quasi soffocante: era due volte più alto di lei, andava al college e con ogni probabilità era iscritto a qualche squadra sportiva per agonisti. E la stava bloccando al bordo del tavolo.
Si ritrovò in mano la stecca da gioco, che per un attimo si sdoppiò, quintuplicò, ma per fortuna tornò alla propria unità. «Che ci devo fare?»
Le istruzioni galleggiarono attorno alla sua coscienza senza esserne veramente attratte, men che meno recepite. Daphne si limitò ad annuire, tenendo a bada i rigurgiti di vodka in agguato.
Aveva capito di dover colpire con la biglia bianca che aveva davanti tutte le altre colorate che erano ordinate in una piramide. Riuscì ad effettuare il tiro senza accecare Chase, ma poi fu di nuovo persa.
«Allora, prova a mandare questa biglia qui», le mostrò lui, «in quella buca laggiù. No, no, Angel ascolta. Con più delicatezza. E devi piegarti un po’.»
Il cuore le correva a duemila, mentre Chase aumentava la pressione sul suo corpo, direzionando la mira e avvicinando le labbra al suo orecchio.
Daphne scattò. Svincolatasi da lui, gettò sul feltro verde la stecca, passandosi una mano sugli occhi.
«Qualcosa non va?»
«Io… ehm, Chase non sto…»
La porta. Il tizio – Sam, Simon, Sean – l’aveva chiusa dall’esterno. Ma non bloccata, giusto? La serratura doveva essere rimasta libera, non aveva visto chiavi in giro.
«Forse dovrei… insomma tornare da…d-di… devo andare di sotto.»
«Perché? Non ti stai divertendo? Possiamo fare altro, se vuoi.»
Tom drizzò il capo, di nuovo interessato al discorso. Le domandò dove potesse trovare Alyssa, se fossero venute insieme, da cosa si era travestita.
«N-non lo so.»
Quella non era la prima volta che beveva più del solito, ma in genere la confusione si presentava come una nebbia che premeva contro le pareti della scatola cranica; stavolta era più una tavolozza di colori che si amalgamava, colava a tratti nelle sagome delle persone. L’arredamento si spostava di qualche centimetro, gli oggetti trillavano sotto il suo sguardo.
«È fidanzata.»
Era stato il ragazzo accanto alla finestra a parlare, ma Daphne impiegò alcuni minuti per capire che si riferiva a lei, non ad Alyssa. L’entusiasmo di Chase si sgonfiò come un palloncino, trascinando spalle e mento in avanti: «È così? Hai un ragazzo?»
Daphne deglutì, provando a riflettere sulla situazione.
La porta, quella benedetta porta la mandava ai pazzi. Doveva accertarsi che fosse aperta, che il passaggio per scendere di sotto fosse libero, che Alyssa potesse entrare e portarla via quando voleva.
Doveva assicurarsi di non essere un topo finito in trappola.
«S-sì. È vero.»
A Chase sfuggì un’imprecazione, mentre le nocche colpivano il muro. Il suo amico provò a rassicurarlo con qualche pacca sulla spalla e il mozzicone di canna rimasto.
«Non si fa così, Angel», la rimproverò con fare bonario.
Quell’atteggiamento placido la allarmò più della frustrazione di Chase.
«Peccato che non si chiami Angel,» intervenne Tom dalla sua poltrona, «ma Daphne».
«Oh, che bello. Come la ninfa del mito.»
Chase lo spintonò, offeso più dall’assenza di tatto che da tutto il resto.
«Daphne, io se fossi in te darei ascolto al mito», le suggerì Tom.
Si voltò lentamente ad incontrare lo sguardo terrorizzato della ragazza.
A piccoli passi era riuscita ad allontanarsi dal tavolo da biliardo fino alla credenza in cui i proprietari del maniero tenevano i liquori e adesso premeva la schiena contro la vetrina, come se quel gesto le assicurasse qualche vantaggio.
«E comincerei a correre.»
 

 

*    *    *
 



«Cindy, ma sei impazzita?»
Lisa si liberò dalla presa, facendo attenzione alla lama affilata. Ma da dove l’aveva tirata fuori? Non si trattava certo di un’imitazione o di un giocattolo.
Al posto della cugina, nell’ingresso si era materializzata una specie di bambola assassina, con i capelli raccolti in boccoli morbidissimi, l’illusione di cera sulla pelle e un campo minato di fiocchetti rossi tra capo, vestito e punta delle scarpe. Il color pesca dell’abitino la emaciava, portando in rilievo clavicole e mandibola.
Cindy Butler emise una specie di raglio, quasi piegata in due dalle risate.
«Sei proprio una fifona. Oddio, mi lacrimano gli occhi.»
Si accorse di Melanie trenta secondi dopo.
Doveva aspettarselo. Il suo sguardo saettò sulla spalla di Lisa, che sfiorava pericolosamente quella di Prescott senza timore. Perfino le loro mani erano tanto vicine da potersi facilmente avviluppare l’una all’altra.
«Lisa, accompagnami di sopra. Non voglio trovarmi da sola con Ronnie.»
«Perché mai? Siete così amiche.»
Cindy squadrò con disgusto Melanie, cassando il suo intervento con un cenno della mano.
«Non mi va molto», rincarò Lisa. «Credo che nell’altra stanza stiano preparando qualche gioco… Possiamo rimandare a dopo la festa?»
Se le avesse detto di bruciare all’inferno sarebbe stato più gradito. L’onta di un rifiuto non era ciò che Cindy Butler aveva ricevuto nel corso della propria breve vita. «Come scusa? Abbiamo avuto un litigio orribile», squittì. «Non la voglio confrontare da sola.»
«E allora evitala.»
Allo sguardo carico di veleno, Melanie rispose con un sorriso accennato.
«Prescott, ti sconsiglio di immischiarti. Hai dimenticato la sospensione?»
Mel accentuò il proprio ghigno: «Per fortuna ci sei tu a ricordarmelo. Mal comune mezzo gaudio».
James e il resto del gruppo si stava godendo lo spettacolo, preferendo tuttavia mantenersi ai bordi del ring, lasciando che i due gladiatori si affrontassero senza trascinare anche loro nella mischia.
«Beh?» Cindy scrollò la cugina per una spalla. «Andiamo?»
«Cindy, non possiamo evit…»
«No. Direi che degli stupidi giochini di Halloween possono aspettare.»
L’aveva già avvinghiata per un polso, leone che traina con sé la propria preda, quando Melanie fu scossa da un fremito. Le afferrò l’altra mano, costringendola a bloccarsi sul posto.
«Cosa stai facendo, Prescott?»
«Ti ha detto che non vuole salire. Lisa è abbastanza grande da decidere per sé.»
«Mia cugina non è un tiro alla fune.»
Mel sollevò un sopracciglio, serafica. «E allora perché stai ancora tirando?»
L’altra abbassò lo sguardo sul braccio sinistro di Lisa, libero dalle grinfie di Prescott. Mollò a propria volta la presa, sconcertata dall’opposizione di quella che considerava più una sorella che una cugina; sangue del proprio sangue. Attese ancora immobile, nella speranza che rinsavisse, che il corso delle cose riprendesse a scorrere, limpido e istintivo, nella direzione di sempre.
«Te ne pentirai, Lisa. Amaramente», sibilò, inarcandosi come un cobra. «E tu, Prescott, avrei dovuto farti fuori quando ne ho avuta l’occasione.»
James, Logan, Travor e Jason si pararono davanti alle due ragazze.
«Forse è meglio se vai a farti un giro al piano di sopra», suggerì l’ultimo.
Proprio dal piano superiore si catapultò nell’ingresso uno sconosciuto in una salopette bianca e bretelle scure, che a James ricordò un lattaio.
Fece un rapido confronto con i costumi del suo gruppo d’amici: niente da rimproverare ai baffetti e al gessato da Gomez Addams che aveva ispirato Jason o alla maschera da Ghostface, affittata da Travor da un appassionato di Scream trovato online; impeccabile perfino il Tate Langdon ricreato da Logan, sebbene negasse di essersi fatto aiutare dalla madre.
James gonfiò il petto ripensando alle loro scelte, soprattutto la propria. Il vampiro per eccellenza costituiva un classico del genere horror, ma lui teneva pronto un tocco di classe. Poco prima, mentre razziavano il buffet, si era lasciato ispirare dal condimento per hot-dog – ovvero una comunissima bottiglietta di ketchup, arricchita da fili di ragnatela – di cui avrebbe desiderato un campioncino, da conservare fino al momento giusto.
Essendosi però dovuto adattare alle circostanze, aveva seguito la prima idea che gli era passata per la mente e in un attimo la bottiglietta intera era sparita dal tavolo.
La conservava gelosamente al fianco, saldata dall’elastico dei pantaloni.
Il ventenne-lattaio intanto barcollava verso di loro, puntando il dito verso James. Aveva un bagliore avvilito, per non dire disperato, nelle pupille iniettate di sangue.
«Chi è di loro? Non dirmi quell’idiota travestito da Dracula.»
«Ehi, amico, Dracula è un classico. Tu che sei vestito da lattaio, devi solo stare zitto.»
Logan lo trattenne. Si evitò la spiegazione su Arancia Meccanica, vedendolo così infervorato. C’era un dettaglio più rilevante ad attrarre la sua attenzione: dietro lo sconosciuto, una Daphne in sembianze angeliche rimbalzava dal muro alla balaustra, bloccandosi scalino dopo scalino come se fosse stata sul ponte di una nave in mezzo alla tempesta.
«Dee-Dee? Va tutto bene?»
Lei saltò a piedi uniti gli ultimi due gradini e si gettò esausta tra le braccia di Travor, già pronto ad accoglierla. Quella mossa fu carburante per la rabbia di Chase Gaines.
«Angel,» un urletto stridulo, «qual è? Lui deve sapere».
Il caos generale si tramutò in pantomima, quando una ragazza del penultimo anno sfrecciò loro davanti, per poi prostrarsi a terra, abbracciare il vaso di una pianta e rovesciarvi ciò che il suo stomaco si era rifiutato di digerire. A farle da corteo, un paio di amiche e il compagno, che provarono a sollevarla e a convincerla a spostarsi in bagno.
«Oh, Dio», gorgogliò Daphne, premendosi una mano sul proprio, di stomaco.
«No, no, no. Ehi Daphne, perché non andiamo fuori?»
Logan le passò una mano attorno alla vita, quasi caricandosela in spalla, con il supporto di James sull’altro lato. Chase, dal canto proprio, non trovava pace. Si piantò davanti all’uscita, a braccia conserte e con la mandibola serrata. «Chi di voi è il suo ragazzo?»
James si indicò: «Puoi dire a me, sono il fratello. Le è successo qualcosa?»
Ma Chase non pareva un tipo paziente e dal modo in cui scrocchiava le nocche quali noci, fu facile immaginare il suono che avrebbe fatto il proprio collo, tra quelle mani.
«Lui.» James spostò l’indice in direzione di Logan, senza esitazione. «Il fidanzato è lui. C-ci sono problemi?»
«La tua ragazza si veste da angelo, ma è una grandissima stronza. Dovresti insegnarle il rispetto.»
Logan aggrottò la fronte, scambiandosi uno sguardo perplesso con l’amico. Il capo di Daphne ciondolava sul petto in maniera spettrale, da spaventapasseri. Le assestò una serie di schiaffetti, provando a tenerla sveglia.
«Chiamo un’ambulanza?» chiese in un sussurro.
Daphne gli fece segno di diniego, ma lo supplicò di assecondare i deliri di quel pazzo, per evitare ulteriori complicazioni. Si erano spostati all’aperto, intanto, ed erano riusciti a farla sedere sulla scalinata principale, mentre Travor e Jason cercavano una bottiglietta d’acqua.
James aspettava un’occasione del genere da anni, senza nemmeno saperlo.
«Senti, hai ragione. Glielo ricordiamo sempre a casa che non può fare come le pare, che è fidanzata. Insomma, questo povero ragazzo darebbe il mondo per lei», esasperò, additando Logan.
«E lei, invece, che fa? Va a ballare. Capisci, amico? A ballare. Roba da pazzi», concluse scuotendo il capo.
Mai mente più illuminata capitò al cospetto di Chase Gaines, che si rincuorò nell’incrociare sulla propria strada un animo nobile, gentile, capace di riconoscere i veri valori del mondo. E quasi si commosse.
«Tu mi sembri uno a posto. Mi dispiace che ti sia capitata una sgualdrina simile per sorella. Non ci sono più le ragazze di una volta.»
Osservava il suo nuovo protetto fare avanti e indietro per lo spiazzo di ghiaia, strapparsi i capelli e assestare calci ad un nemico invisibile, lamentando la propria sciagura.
«Io ho dovuto dirvelo, per darle una raddrizzata… Si è strusciata addosso a me. Sai cosa significa questo?»
«Oh, no!» strillò James. Si era gettato carponi e sollevava mucchi di ghiaia, per poi lasciarla ricadere o scagliarla contro il cielo. «Dio, sei ingiusto! Come faremo? Ci ha rovinati. Daphne, sei un’ingrata!»
Logan, che si era seduto accanto alla ragazza nel tentativo di farla riprendere, lo fulminò: «James, può bastare. Credo si sia fatto un’idea».
«Un’egoista…» proseguì strappandosi i denti finti per sbatterli a terra.
«James, smettila.»
«…il disonore della famiglia!»
«Basta, James!»
Daphne stava sussultando. Teneva coperto il volto con le mani chiuse a coppa.
«Ecco,» concluse Chase, «brava. Vergognati di insultare così il tuo ragazzo.»
Detto ciò, ritenne di potersi ritirare, ma solo dopo aver assestato un pugno d’incoraggiamento a James, assicurandogli che ne sarebbero usciti puliti. Gli lasciò perfino il proprio biglietto da visita, con il ghirigoro della Providence e tutto, mettendosi a sua disposizione per qualunque esigenza.
«Grazie, amico», gli urlò dietro James. «Come te se ne trova uno su un milione.»
Solo una volta che si fu ritirato oltre la porta del maniero, James si rimise in piedi, scrollandosi via la ghiaia dai pantaloni. «Grazie al cielo», aggiunse.
Daphne rialzò il volto dalle mani, guardandosi circospetta intorno. Aveva gli occhi lucidi di lacrime, ma tratteneva a stento le risate. «Se ne è andato?»
«Sì», sospirò Logan. «Ma dove diamine lo hai trovato?»
«Ti è piaciuta l’interpretazione?» si pavoneggiò James.
A Logan l’intera faccenda non faceva affatto ridere: «Poteva finire male, Dee-Dee».
«Lo so.» Ne incrociò lo sguardo, seria e sgombra da qualunque accenno di divertimento. «Di sopra ho avuto veramente paura. Erano in quattro e molto più grandi di me.»
«Non avresti dovuto seguirlo da sola. Dov’era Alyssa?»
«Sola? Il maniero è pieno di gente, ma quando siamo entrati nella sala da biliardo se ne sono andati via tutti. Avrebbero potuto…» si passò i palmi sul viso, distrutta. «Non lo so. Stavamo ballando, l’ho persa nella mischia. Gesù, mi gira tutto.»
La quiete proveniente dal parcheggio creava un forte contrasto con il resto del baccano che si erano lasciati dietro. Era come sprofondare nelle gole di un canyon, appena usciti da Babele.
Alcuni grilli accompagnavano le loro riflessioni, mescolandosi ai gemiti di una coppietta che amoreggiava sul cofano di una macchina, a poca distanza dal viale principale.
Daphne si concentrò sulle stelle, cercando di intravederne qualcuna dietro il velo di nubi. Le ricordavano un groviglio di tulle grigio.
«Tieni,» Lisa May spuntò da dietro il corrimano, porgendole un bicchiere colmo d’acqua, «ho aggiunto del limone. Dovrebbe fare effetto più velocemente».
«Grazie, davvero. Non so perché siate così gentili con me», mormorò.
Il sapore asperrimo della bevanda le pizzicò la lingua, strappandole una smorfia comica. Giurò a se stessa che non avrebbe mai più toccato una goccia d’alcool in vita propria, consapevole di come il fioretto non avrebbe resistito a lungo.
«Bene, il nostro lavoro qui è finito.»
Ripuliti i canini di plastica, James se li riapplicò con soddisfazione, per poi chiudersi il mantello scuro su una spalla, come un illusionista pronto a svanire in una nuvola di fumo. Era assurdo sentirlo parlare di sé in terza persona, ma non troppo inusuale per Logan, abituato ad assorbirne i deliri da tempi immemori.
«Vado a cercare quei due idioti e poi… dritti al cimitero!»
Picchiettò sulla spalla dell’amico, impaziente e un velo scaramantico: «Fammi gli auguri».
«Buona fortuna, James. Non combinare troppe sciocchezze.»
«Ed evita commenti misogini», rincarò Daphne.
Quello si congedò con un saluto da marine, fingendo di sbilanciarsi all’indietro e di affondare sulla sua nave immaginaria. Il familiare suono di tacco dodici annunciò l’aggiunta di Alyssa alla strana combriccola.
I gradini che avevano fatto penare Daphne furono per lei un gioco da ragazzi. Planò come una colomba sui due amici accovacciati alla base della scalinata. Neppure una goccia del punch raccolto nei bicchieri di carta andò versato.
«Daffie, finalmente! Ormai ti davo per dispersa. Credevo te ne fossi andata.»
«Con quel tipo?»
Alyssa si strinse nelle spalle, offrendole la coppa liquorosa come segno di pace. Ignorò il gesto di diniego, così come la bevanda al limone che stringeva al petto, perché fremeva per parlarle in privato, senza quel guastafeste di Logan Woods.
Aveva molto da raccontarle: fossero state sole, il monologo non avrebbe potuto vertere su nient’altri che David Blunt. Il rappresentante d’istituto aveva ripreso a frequentare il nuovo capitano della squadra di pallavolo – l’odiosa e irreprensibile Alexandra – ma la memoria dell’estate trascorsa in compagnia di Alyssa bruciava ancora indelebile nella sua memoria.
Lo aveva incontrato nello spazio riservato alla cucina, mentre riempiva alcuni calici.
Avrebbe confessato a Daphne quanto fosse rimasto identico, a distanza di mesi, con la sua aria sexy, perennemente stanca, i capelli scarmigliati e la barbetta bionda appena incolta. Poteva immaginare quale effetto avrebbe sortito su Tom, se solo avesse potuto baciarlo lì – o in pista – creando un scandalo con la “s” maiuscola. Peccato che David si dichiarasse assolutamente fedele ad Alexandra adesso, con cui voleva fare sul serio.
Fu costretta a mordersi la lingua e a rimandare il tutto a circostanze migliori, soprattutto dopo essersi accorta di Lisa e Melanie, ancora appoggiate al corrimano. I suoi occhi schizzarono da loro a Daphne e viceversa.
Calma.
Doveva mostrarsi calma e sorridente, come le avevano insegnato fin da bambina. Il migliore sorriso di Norwall: se avessero bandito un concorso, l’avrebbe vinto lei senz’ombra di dubbio.
Con un cenno secco del capo, si portò i capelli in avanti, a farli ricadere sinuosamente nel decolleté, come fossero stati un ghirigoro dell’abito. «Mi sono persa qualcosa?»
Logan non si premurò di celare il proprio fastidio. «Solamente la sbornia di Daphne».
«Sto meglio ora.»
«Oh», la bocca a cuore di Alyssa si piegò all’ingiù.  Soppesò il punch: «Allora questo lo evitiamo».
Non le sfuggì l’espressione corrucciata di Melanie, né l’ostentata indifferenza di Daphne.
L’avevano colta di sorpresa, ma la partita non era ancora terminata.
Almeno sapeva di essere lei ad impugnare le redini della situazione. Si vide sfilare davanti tutti i differenti film che avrebbe avuto modo di realizzare: sapeva che, se soltanto avesse voluto, avrebbe potuto convincere Daphne a scacciare l’attuale sbornia con altri fiumi di alcool, così come rimetterla in piedi e spingerla in pista oppure farla aspettare una mezz’ora e riaccompagnarla a casa; sapeva che Melanie non avrebbe alzato un dito per opporsi, così come sapeva che quelle due non avevano scambiato neppure mezza parola.
Ma ignorare l’ipotesi remota di un riavvicinamento avrebbe fatto di lei una sciocca.
C’era un’ultima cosa che sapeva, infatti, e che sbilanciava la decisione inequivocabilmente da un lato: non importava quanto si tentasse di separarle, quelle due avrebbero sempre teso a ritrovarsi, l’una perfetta calamita per l’altra. Daphne e Melanie costituivano forse l’unica, irrazionale rottura delle leggi naturali: due perfette identità che, anziché respingersi, finivano per attrarsi.
Alyssa si morse un labbro, imponendosi di non intaccare la perfetta illusione creata finché non fosse rimasta da sola nella sicurezza della propria abitazione.
Forse stava esagerando. O forse no.
In entrambi i casi, meglio prevenire l’irrimediabile finché ancora in tempo.
Melanie si ritrovò un assaggio di punch in mano e nell’istante successivo il viso di Alyssa, ravvicinato, che le sorrideva placida, dedicandole un brindisi in nome del fantastico trucco da strega.
«Davvero un capolavoro, Melanie. L’hai fatto tu?»
«Merito di Lisa.»
Alyssa sollevò il bicchiere proprio verso di lei, condendo la bevuta con alcuni complimenti preconfezionati. Dopodiché, fece scattare la seconda fase del suo piano: «Sapete che dentro stanno giocando ad Obbligo o Verità? Sarebbe carino se ci unissimo anche noi».
Il tentativo di fuga da parte di Melanie, che provò a defilarsi verso il parcheggio, venne intercettato.
«No, no. Intendo tutti
 
 
 
*    *    *
 



«Devi massaggiare la schiena della persona di fronte per il resto del gioco.»
Lisa tentennò, guardandosi attorno. La vittima del verdetto era un ragazzo del penultimo anno mascherato da lupo mannaro. Degli strani basettoni gli avvolgevano il mento, abbrutendo i lineamenti dolci, quasi infantili.
Uno degli altri giocatori lo aveva chiamato Brandon, congratulandosi per la fortuna capitatagli.
Per quanto dispiaciuta, Lisa rinunciò al cuscino accanto a Melanie e andò a sedersi vicino a tale Brandon, con una rapida presentazione che sapeva di imbarazzo.
Il gruppo di studenti prestatisi al gioco sedeva in cerchio sui tappeti della Camera Blu, che poteva fregiarsi di vista e accesso diretto all’area piscina. Le uniche candele accese si trovavano ai quattro angoli della stanza e gettavano una luce tremolante sui partecipanti, i cui volti erano altrimenti risucchiati dalla penombra.
Melanie attraverso i vetri colse la sagoma di qualche avventuroso che si gettava vestito nella vasca della piscina, sollevando spruzzi fino al secondo piano; qualcun altro ondeggiava sul posto, svogliato o intossicato dall’alcool. La canzone This Is Halloween, emessa da un piccolo stereo camuffato da zucca, cominciava a ferirle le orecchie.
La bottiglia di Pepsi vuota venne fatta vorticare di nuovo e si fermò, come l’ago di una bussola fuori controllo, ad indicare Brandon e Willa Hess. Tra le risate d’eccitamento dei presenti, Willa scelse di dire “la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità”.
Melanie avrebbe voluto andarsene all’istante. Sapeva che rimanere a quella sciocca festa sarebbe stato un errore. Detestava l’ambiente, il modo in cui tutti si comportavano da amiconi – pur non essendosi mai incontrati prima – nella stessa misura in cui odiava le voci da gladiatori nella stanza accanto, il caldo soffocante dell’intero maniero, i colpi che venivano assestati alla parete. Maledetta forza di persuasione di Lisa May.
Si sentì scrollare debolmente per una spalla.
«Obbligo o verità?»
Il fondo della bottiglia indicava proprio lei, mentre il tappo puntava Alyssa.
Rimase frastornata ancora per qualche istante, prima di umettarsi le labbra e rispondere: «Obbligo».
«Melanie, ti obbligo a lanciare delle uova contro la casa abbandonata qui vicino.»
«Ma di che parli?»
«Ce n’è una a dieci minuti di macchina da qui. Ti mando la posizione esatta, se vuoi.»
Mel aggrottò la fronte. «E come farai a sapere che ho davvero lanciato delle uova?»
La ragazza le accennò la cucina Stava già cercando il nome della via sul proprio telefono. «Ne ho viste almeno due scatole in frigo. Non so cosa pensassero di farci, ma credo che ai rappresentanti non servano più.»
Lisa scattò: «Non farlo, Mel. È buio a quest’ora e quella zona è deserta».
«Mio Dio, Lisa, stai esagerando. La strada è illuminata e Melanie sa guidare. Per qualunque cosa, noi siamo praticamente dietro l’angolo.»  
Alyssa fece girare il telefono, per mostrare a tutti la street view dell’abitazione prescelta. Si sollevarono dei grugniti di approvazione, qualche commento su come fosse poco nitida e più di un’osservazione sulla scelta delle uova.
«Qualcuno deve riprenderla», s’intromise uno studente con un cappellino da clown. «Potrebbe bluffare, no? Fidarsi è bene…»
«Daphne, perché non vai tu con lei?»
Era stato Logan a parlare, indirizzando un mezzo sorriso di strafottenza ad Alyssa Russmith. «Così ci mandi il video appena terminato. Sempre che Alyssa non abbia niente in contrario…»
Quella rinforzò la presa sul proprio bicchiere, accartocciando la plastica. Quando riuscì a parlare, le uscì una voce gracchiante, che redense con una schiarita. «Certo. Va benissimo.»
Non tutto era perduto. Melanie non avrebbe mai e poi mai accettato di prestarsi a quelle condizioni. Ci si sarebbe giocata tutto il denaro depositato da suo padre sul proprio conto.
Si rivolse alla diretta interessata: «Melanie, che fai? Accetti?»
 
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: wanderingheath