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Autore: Elis9800    07/10/2020    9 recensioni
Kageyama Tobio è un geniale avvocato dal cuore di pietra.
Totalmente disinteressato a chi lo circonda, s’imbatte per puro caso in un medico dall’odioso sorriso perennemente stampato sul volto.
Quando una sistematica esistenza perfezionista e solitaria ne incontra una libera da schemi e sprizzante vitalità…
Un ferreo autocontrollo saprà resistere alle sconcertanti conseguenze dello scontro?
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[Future!AU]
[KageHina]
[side!BokuAka] [side!KuroKen] [side!IwaOi]
[14/15, epilogo in arrivo!]
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Karasuno Volleyball Club, Nuovo personaggio, Shouyou Hinata, Tobio Kageyama
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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XII

Punto di rottura






“Come si sentono oggi i miei ometti?”

L’arzilla voce di Shoyo sembrava intrisa di dolce miele d’arancio.

“Io mi sento benissimo, Hinata-sensei! Posso giocare con la sedia a rotelle di Ryoko?”
“Ehi! La sedia è mia e non te la presto”
“Ma se ieri ci hai fatto salire Seiki-chan! Non è giusto!”

“Mi fa piacere notare che il vigore non vi manchi” scherzò Hinata, interponendosi strategicamente tra i bambini dai volti corrucciati.

“Ma Hinata-sensei…” protestò il paziente dallo sfavillante cappellino giallo calcato sul capo glabro, labbrino in bella mostra.
“Se Ryoko-chan dice di no allora è no” sentenziò l’oncologo con aria autorevole indicando la bimba, che sfoggiò un soddisfatto ghigno vittorioso, appollaiata sulla sedia a rotelle pitturata di un accecante verde acido.
Poi però, chinandosi dinanzi al fanciullo imbronciato, sussurrò con un occhiolino “Magari se glielo domandi gentilmente ti dirà di sì” che provocò un guizzo verso l’alto sulle labbra del bambino.
“So che sei pieno di energia Hirumi-chan, ma come va la nausea?” aggiunse con tono leggero, mascherando parzialmente la nota di gravità non propriamente trascurabile dal suo sguardo.
Hirumi assunse un’espressione solenne quando proclamò impavidamente “Non ho vomitato neanche una volta!” che allargò il sorriso sulle gote di Shoyo.
“Nemmeno io ho vomitato, Hinata-sensei!” richiamò l’attenzione Ryoko, infastidita per essere stata adombrata.

L’oncologo si lasciò sfuggire un risolino e si avvicinò alla paziente dai penetranti occhi cerulei e il volto ricolmo di lentiggini che teneva la mano avvolta attorno alla gracile rotula destra, dove solo pochi centimetri più in basso la pelle della gamba curvava in un morbido moncherino.

“Sarebbe stato preoccupante il contrario, Ryoko-chan. E’ da un po’ ormai che non prendi più la medicina” osservò il sanitario con un sopracciglio inarcato.
La bambina gonfiò le guance e sbuffò un irritato “Però anch’io voglio le caramelle di Hinata-sensei!”
Il medico rise allegramente.
“Pensi che ti abbia dimenticata? Chi è che ha divorato le mie scorte di dolcetti alla pesca in questi mesi?” la prese amorevolmente in giro, estraendo dalla tasca del camice una sfera dall’involucro rosato.
“E’ il minimo per tutte le punture che mi fate” ribatté Ryoko con voce indispettita.

Un’espressione comprensiva si adagiò sul viso di Shoyo.
Fletté le ginocchia per potersi trovare alla medesima altezza della giovane paziente e sollevò la mano per accarezzarle delicatamente la guancia.

“Purtroppo a nessuno piacciono le punture, Ryoko-chan. Sai, quando io ero piccolo ero molto meno coraggioso di te, scoppiavo a piangere terrorizzato non appena vedevo un ago! Inoltre, pensa al lato positivo. E’ grazie a tutti quei prelievi che adesso sappiamo che ti senti meglio, non credi?”
La bimba assottigliò le palpebre mentre scartava con circospezione la sua caramella.
“Sì… sto meglio… però non dormo mai bene, Hinata-sensei. Mi sveglio quasi tutte le notti perché faccio brutti sogni” controbatté risentita, issando i grandi occhi turchesi pregni di stizza sui connotati del medico.
“Cosa ti ripeto sempre riguardo agli incubi, Ryoko-chan?” domandò pazientemente l’oncologo.
“Che è il mio cervello che mi vuole avvisare quando ho paura di qualcosa” rispose diligentemente la bambina.
“E qual è la cosa migliore da fare quando qualche pensiero ti intimorisce?” insistette con sguardo fermo, ancorando le iridi a quelle di Ryoko che, dopo aver inalato un profondo respiro, ribatté con determinazione “Affrontare il problema e parlarne con una persona fidata”
“Proprio così. Con la tua mamma puoi discutere di tutto ciò che più ti inquieta e lo stesso vale per me. Ah, naturalmente quando hai difficoltà a dormire dovresti eseguire gli esercizi di respirazione che ti ha insegnato Yacchan, te li ricordi?”
Ryoko annuì con rinnovato vigore, imitandone prontamente un paio e guadagnandosi un’ulteriore caramella accompagnata da un sorriso orgoglioso.

Per evitare però infervorate proteste da parte degli scalmanati presenti, Shoyo pescò celermente dalle tasche un mucchietto di dolciumi rotondi.

“E prima che me lo chiediate, non ho dimenticato nessuno! Ciliegia e cioccolato per Kaoru-chan” esclamò vivacemente, porgendo una pralina finemente decorata alla bimba dal capo lucente che la accettò con un sorrisone e si affrettò ad accomodarsi sul tappeto per divorarla.
“Limone per Hirumi-chan” continuò, sventolando la caramella dinanzi al visetto del paziente che la acchiappò con un ghigno divertito.
“E infine…”

I connotati di Shoyo si ammorbidirono e il suo sguardo rifletté un’amabilità a dir poco disarmante.

“Mela per Akio-chan” concluse sommessamente avvicinandosi a uno dei quattro lettini, posizionati agli angoli della stanza, su cui era seduto, con la schiena sostenuta da svariati cuscini multicolore, un bimbetto dalle vispe iridi scure.
Uno dei due incisivi centrali aveva ceduto il posto a una buffa finestrella vuota che svettò fieramente dal brillante sorriso che indirizzò all’oncologo non appena replicò un eccitato “Grazie mille, Hinata-sensei!”

Tobio non credeva che al mondo esistesse una quantità di dolcezza lontanamente paragonabile a quella di cui gli occhi nocciola di Hinata erano ricolmi mentre contemplava quel mocciosetto.

Un’occhiata capace di fondere anche il più glaciale dei cuori.

In grado di sciogliere… persino il suo.

“Come ti senti oggi, ometto?” chiese affezionatamente, carezzandogli la pelle pallida del cranio.

Akio scartò l’involucro del dolciume con reverenza, pupille fisse ed estremamente concentrate sul movimento delle manine.
“Non tanto bene, Hinata-sensei”

Per la prima volta da quando aveva messo piede in quella stanza, il sorriso di Hinata parve vacillare.

Deglutendo forzatamente, premette con delicatezza il palmo sinistro sinistra sulla fronte sudata del bambino mentre gli cingeva il polso minuto con la dita della destra.

“Mi sento stanco, non riesco a uscire fuori dal letto e giocare con Hirumi, Kaoru e Ryoko. E poi… mi fa male tutto il corpo da dentro” si lamentò Akio prima di inghiottire il dolcetto alla frutta.

Le sopracciglia di Shoyo si aggrottarono in un’espressione tesa.

“Mi ha detto che è normale che sono stanco dopo la brutta medicina, però ormai sono passati tanti giorni, Hinata-sensei!” saltò su il bimbo con la bocca impastata dalla caramella.
“Hai ragione Akio-chan, sono passati diversi giorni dall’ultima brutta medicina” ripetè meccanicamente il rosso, vezzeggiandogli amorevolmente la nuca.
“Ad aprile inizia la scuola, Hinata-sensei! Il mio prima giorno di scuola, si ricorda?? Non vedo l’ora di andarci, ma voglio andarci con le mie gambe, Hinata-sensei! Voglio correre con i miei nuovi compagni!” protestò con occhi raggianti, tirando la manica del camice candido.

Il naturale sorriso di Shoyo si apprestò a rincasare sul suo volto.

“Certo che mi ricordo, come potrei mai scordarmene? Per i tuoi sei anni abbiamo organizzato una bellissima festa con tutti i bimbi del reparto! E quanti regali che hai ricevuto!” rammentò con un occhiolino complice.
“Il galeone dei pirati è stato il più bello!” intervenne Hirumi, saltellando fino alla postazione del bambino con due macchinine dalle tinte sgargianti strette fra le mani.
“Guarda, Akio-chan! Queste me le ha portate mia sorella stamattina! Non sono fantastiche??”

Il medico sorrise alla vista del bambino trascinato dalla vivace discussione con Hirumi, a cui si aggregarono ben presto Kaoru e Ryoko, che trasformò il lettino in un campo di battaglia dai giocattoli più disparati.

Eppure…

Un velo di silente inquietudine si impuntò a non retrocedere dai suoi lineamenti delicati.

“Shoyo! Posso parlarti un momento?”

La provvidenziale voce di Koushi richiamò l’attenzione di Hinata verso la porta color canarino e fu tempestivamente accolta da un coro di eccitati “Buongiorno, Suga-san!” a cui l’infermiere rispose con affetto.
Tuttavia, nonostante lo sguardo gentile perennemente deposto sul suo volto cristallino, l’occhiata che scoccò all’oncologo… gli provocò un istantaneo brivido lungo l’intera spina dorsale.

Qualcosa… non andava.

Tobio, ormai essenzialmente avviluppato dalla tenda purpurea per tentare di nascondersi alla visuale dei due sanitari, osservò il medico uscire dalla camera variopinta e seguire l’uomo dai capelli argentei fino al muro ad angolo della vetrata, ad alcuni metri di distanza dallo spazio in cui era strategicamente appostato.

Una goccia di sudore freddo gli percorse la tempia.

Non riusciva a capacitarsi di come quell’infermiere non l’avesse già beccato e sbattuto fuori dal reparto.
Gli era praticamente passato accanto, ciononostante pareva proprio non essersi accorto della sua presenza.
Doveva seriamente avere la testa fra le nuvole per non averlo colto in flagrante mentre spiava  sfacciatamente dall’ampia finestra…

Strizzando meglio gli occhi riuscì a scorgere un’inusuale espressione mesta sul viso dell’uomo, le cui iridi erano ancorate al fascicolo bianco che stringeva febbrilmente tra le dita, sprigionando una tensione tale da far assumere che non stesse trasportando dei semplici fogli di cartoncino… bensì una bomba a orologeria.

Lo scricciolo rosso dovette avvertire la medesima sensazione poiché scherzò “Suga-san, questa smorfia non ti si addice per nulla” cercando di smorzare la tensione…
Cionondimeno, i suoi occhi nocciola dardeggiarono con angustia sulla carpetta faticosamente sorretta dal collega.  

L’estremità delle labbra di Koushi si inarcò debolmente all’insù, ma fu impossibile estirpare la drammaticità profondamente radicata nei suoi lineamenti.

“Queste sono le ultime analisi di Akio-chan” pronunciò flebilmente, come se ogni parola di quella breve proposizione gli costasse un’inimmaginabile fatica.

Inizialmente, Hinata non fu in grado di ribattere alcunché.

La sua espressione si era congelata, limitandosi a fissare in una statica trance il referto che Sugawara gli stava porgendo con evidente esitazione.
Furono necessari svariati secondi affinché riuscisse ad afferrare con mani tremanti il dossier e a dischiuderlo con estrema lentezza.

Tobio non poteva percepirlo, ma i battiti del cuore di Hinata riverberavano violentemente fino al suo stomaco, causandogli uno sgradevole senso di nausea.

Sentore che però fu una banale inezia in confronto alla cascata di acqua artica che lo accolse non appena Suga aprì bocca.

“I valori sono completamente stravolti, Shoyo”

Il corpo del medico assunse le sembianze di una statua di sale, completamente inerme al gelo che gli si conficcava brutalmente sulla pelle mentre scorreva l’infinita tabella fitta di numeri impazziti.

Tobio non aveva mai scorto gli occhi del rosso talmente vuoti, prima d’ora.

Fu una visione che gli suscitò un inaspettato moto di panico, spezzandogli drasticamente il respiro, impossibile da contrastare in alcun modo.

“Qui ci sono le analisi della biopsia al midollo osseo” aggiunse sommessamente l’infermiere, protendendo un’ulteriore carpetta bianca e indicando all’oncologo una trafila di analisi che accentuò esponenzialmente il pallore del suo viso.

Per interminabili minuti Hinata rimase in silenzio, scrutando quei referti come se potesse trapassarli, soppesando valore dopo valore, fugando ogni possibile minuzia, finché…

“Non risponde più alle terapie” constatò in un esiguo sussurro.

Le sue sclere apparivano trasparenti, come se fossero state anch’esse ibernate assieme al suo corpo, ormai ridotto a inutili brandelli di carne e cartilagini intirizzite.

“Non c’è più nulla… da fare”

Koushi fissò il medico con palpebre sgranate e la bocca socchiusa, qualunque possibile suono grossolanamente mutilato sul nascere.
Alla fine, riuscì a strascicare un vacuo “Nulla da…?”

“Le abbiamo provate tutte” lo interruppe Shoyo con le iridi ancora incollate sull’asettica relazione clinica.
“E’ da due anni che le proviamo tutte” sibilò, comprimendo i pugni sulla carta.

L’avvilente vuoto nei suoi occhi aveva ceduto il posto a una cocente frustrazione che gli incendiava inesorabilmente l’anima.

“Non gli resta più molto, oramai”

Koushi ispezionò il contorto volto di Hinata con crescente apprensione, scegliendo con ponderata cura i vocaboli più adeguati per supportare l’amico nel desolante inevitabile.

“Vuoi che contatti io i genitori?” propose prudentemente, ma per sua sorpresa il rosso scosse la testa.
“No. Lo farò io, Suga-san” replicò fermamente, sollevando il capo e fissando l’infermiere con risolutezza.
“Sono io il suo medico, in fondo” commentò poi in un mormorio, inspirando a pieni polmoni e serrando le palpebre per qualche interminabile secondo, tentando di riacquisire il controllo sul proprio corpo assiderato.

Ciononostante, le sue mani traballavano instabilmente e una smorfia di intenso dolore iniziò a lacerargli i connotati.

Un’espressione… che non si addiceva a quanto di più simile al Sole potesse esistere.

Un’espressione che stritolò il cuore di Tobio in una morsa inamovibile.

Il volto di Hinata era snaturato da una sofferenza profonda, viscerale… cristallizzata.  

Una sofferenza di cui Tobio era completamente all’oscuro.

Però, nonostante la sua palese ignoranza…
Ebbe la sensazione che quell’orribile turbamento non fosse semplicemente riconducile a quel singolo episodio.

Sembrava…

Un dolore recondito, accumulato da chissà quanti mesi, tramutatosi in uno straziante onere che gli recideva inesorabilmente lo spirito.
Un male da cui il suo fragile essere non era in grado di ribellarsi, ingabbiandolo contro la sua volontà.

Testimoniare un’emozione così sbagliata gravare su quello scricciolo generò in Tobio un insopportabile malessere fisico.

Si sentiva assolutamente impotente, lì nascosto dietro quella maledetta tenda a origliare una conversazione il cui accesso avrebbe dovuto essergli precluso.
Era incapace di spiegarsi come fosse possibile che quell’uomo perennemente sorridente… potesse essere travolto da un simile strazio.

Sebbene la domanda più impellente fosse…

Dolore per cosa, esattamente?


“Io… io voglio aiutare i miei pazienti, prima di dedicarmi soltanto a ciò che li fa star male. La persona e la sua malattia... non sono la stessa cosa”


“Quindi… non ricorda nemmeno uno dei loro volti?”



Sprazzi di una remota conversazione gli sovvennero come minuscoli pezzi di un puzzle mai composto, ma che tuttavia richiedeva urgentemente la sua premura.

Hinata era estremamente legato ai suoi pazienti, su quello non v’era il minimo dubbio.

L’aveva palesato sin dal loro primissimo incontro, in quella fatale mattina di inizio settembre, e l’affettuosa interazione con quei bambini lo confermava pienamente.   
Come se ciò non fosse bastato, non appena Tobio si era azzardato a calcare eccessivamente la mano, inveendo contro l’ossessione del rosso di dedicarsi anima e corpo al suo lavoro, Hinata aveva quasi tagliato i ponti con lui.
La fermezza con cui il medico sosteneva le sue idee balzane era stata tale da minare persino le proprie certezze e, sebbene avesse costantemente giudicato ributtante una simile forma mentis, era giunto a rivagliare la sua intera carriera appena qualche ora prima sino a perdere un importante cliente, umiliandosi dinanzi all’intero studio.

Se vi rifletteva accuratamente poteva avvertire una cocente ira risalire pericolosamente a galla, attorcigliandogli le viscere e rendendolo inabile di ragionare limpidamente.
Tuttavia, suo malgrado, non si trattava della questione più impellente su cui riporre la propria concentrazione, in quel momento.

Ridursi in uno stato di perenne sopportazione di dolore solo per un… paziente?

Quella reazione era dovuta alla consapevolezza che quel bambino… stava per morire?

Nonostante la freddezza che pervadeva la sua psiche, Tobio era in grado di assumere che un cruccio del genere fosse appropriato per la perdita di un familiare, o magari un amico intimo.  

Ma un paziente?

L’unica emozione sensata e concepibile che il medico avrebbe potuto provare sarebbe stata frustrazione al pensiero di non essere riuscito a prevalere sulla malattia.
Una sfida personale, esattamente come quelle da lui intraprese costantemente in tribunale.
Vincere per il caso, non per l’individuo che richiedeva i suoi servigi.

Spingersi a tanto fino a provare dolore

Non riusciva a comprendere.


“Grazie per avermele consegnate personalmente, Suga-san”


Il legale focalizzò nuovamente la propria attenzione sul volto del rosso, e…

Ciò che vi riscontrò sfidò l’ormai labile logica dei suoi poveri neuroni destabilizzati.

La straziante angoscia che aveva inglobato i lineamenti di Hinata fino a quel frangente, provocando un mezzo collasso psicologico in Kageyama…

Si stava… dissolvendo.

Tobio guardò con occhi spalancati l’oncologo inspirare ed espirare profondamente, i tremanti  pugni sigillati attorno ai referti rilassarsi gradualmente e infine…   

Su quelle graziose e delicate labbra a cuoricino, germogliò un morbido sorriso.

Kageyama percepì la mascella scivolare inevitabilmente verso il pavimento, vinta dall’implacabile forza di gravità.

“Da qui in poi ci penso io, non preoccuparti. Ci vediamo più tardi per la cena, Suga-san” pronunciò lietamente, voltando le spalle all’infermiere dal volto contornato dalla sorpresa e rientrando all’interno dell’ampia stanza colorata, dove fu accolto da elettrizzati gridolini acuti.

Tobio era francamente sconcertato.

A cosa… aveva appena assistito?

“Vi sono mancato per così poco?” scherzò amabilmente Shoyo, elargendo a tutti e quattro i bambini un’espressione di sincera contentezza.

Il cuore del legale batteva contro la cassa toracica analogamente a una fragorosa grancassa.

Inutile procrastinare ad ammetterlo.

Tobio era stato rapito dal sorriso di Hinata fin dal primo istante.

Il principio di quell’irrimediabile e folle attrazione nei confronti dello strambo scricciolo…
Si trovava interamente lì, in quel sorriso per cui aveva perduto la testa.
Ne aveva abilmente memorizzato ogni piega, ogni rughetta d’espressione, ogni dente splendente.

Fu precisamente quella la ragione per cui notò istantaneamente alcune incongruenze con il viso che stava attualmente contemplando.

Un’espressione… traboccante di emozioni contrastanti.

Hinata sorrideva rispecchiando un autentico senso di affetto verso quello sfortunato bimbetto, gli parlava con dolcezza mentre gli carezzava la glabra testolina…

Sebbene fosse consapevole che non avesse più alcuna possibilità di sopravvivenza?

Ma che significato aveva?

Perché lo stava facendo?

“Akio-chan, lo so che ti dispiacerà lasciare Kaoru, Ryoko e Hirumi, però dobbiamo spostarti in un’altra stanza” spiegò pacatamente al piccolo paziente, il cui volto fu subito deformato da una smorfietta ferita.
Prima che potesse aprir bocca per ribattere accoratamente fu però scaltramente preceduto dal rosso, che rivelò con aria complice “Ma avrai una stanza tutta tua, non è fantastico? Ci saranno molti macchinari a prima vista spaventosi sai, con tubi lunghissimi e rumori strani, però sarà come trovarsi in una navicella spaziale, non credi?”

Gli occhi castani del bambino si illuminarono come uno sfavillante albero di Natale.

“Non è giusto, Hinata-sensei! Anche io voglio andare nella stanza navicella spaziale!” protestò Ryoko con aria battagliera, spostandosi avanti e indietro con l’eccentrica sedia a rotelle.
“Tu hai già il tuo mezzo super sonico, non puoi avere tutto” la ammonì Hirumi facendole la linguaccia.

Lo stordimento di Tobio incrementò a dismisura.

Stanza navicella spaziale?
Mezzo super sonico?

Di che stavano ciarlando tutti quanti?!

“Possiamo andare a trovare Akio-chan nella sua nuova camera?” intervenne Kaoru con le braccia strette attorno a una graziosa bambola dalla liscia chioma bionda, malinconica reminiscenza dei suoi lunghi capelli dorati.
“Certo, potrete fargli visita tutte le volte che vorrete, però prima dovrete parlarne con me, va bene?”
“Hinata-sensei, ma perché Akio-chan può andare nella stanza tutta per lui e noi no?” domandò perplessamente Hirumi.
“Perché da ora in poi Akio avrà bisogno di attenzioni speciali” spiegò pazientemente.
“Dovrai stare maggiormente a riposo rispetto agli altri, va bene? Non vuoi che ti venga la febbre, vero?”

Il bimbo scosse la testa con sguardo intimorito.

“Dovrò fare ancora di più la brutta medicina, Hinata-sensei?” chiese con tono mogio, rimirandosi le pallide manine coperte da una patina di sudore.

Il sorriso che apparve agevolmente sulle labbra di Hinata gli comportò in realtà un tormentoso sforzo di autocontrollo.

“No, Akio-chan. Non… non ce ne sarà più bisogno”

Le iridi del bambino si ravvivarono in un battibaleno.

“Allora significa che ad aprile potrò andare a scuola!”

L’intensa smorfia dolorante minuziosamente celata sul viso del medico pareva essere visibile solo ai famelici occhi di Kageyama.

“La strada è un po’ più lunga del previsto, Akio-chan, ma sono sicuro che i tuoi genitori potranno spiegartelo al meglio”

Akio rivolse all’oncologo un’espressione interrogativa che però venne repentinamente sommersa dalle chiacchiere concitate di Hirumi e Kaoru.
 
Tobio continuò a osservare la scenetta che si svolgeva al di là della vetrata per parecchi minuti, senza tuttavia coglierne l’essenza.

Perché quel medico si ostinava a sorridere se quel moccioso era un malato terminale?

Perché non eseguiva il suo lavoro e non lo metteva con trasparenza al corrente delle sue condizioni?

Perché comportarsi come se tutto andasse fottutamente bene?

Lo stava ingannando?

No, non era possibile.

Hinata non sarebbe stato capace di mentire tanto spudoratamente.
Inoltre…
Il suo sguardo non era comparabile ai falsi sorrisi disinvoltamente dispensati da Oikawa-san.
Non si trattava di convenevoli smancerie, né tantomeno moine forzate.

Stava semplicemente posponendo l’inevitabile?

“Vado a convocare i tuoi genitori, va bene Akio-chan? Così prepareremo tutti insieme la tua nuova camera, che ne dici?” propose Shoyo, battendo energicamente le mani.

Per quale motivo quell’idiota sorrideva con il cuore in mano se nei suoi occhi si rifletteva un titanico supplizio, maledizione?!


“Un medico… un medico cura una persona. Una persona con sentimenti e pensieri… e, in questo caso, per me si vince, sempre”


Tobio strinse nervosamente la stoffa della tenda color carminio, spremendosi le meningi.

Fin da quando l’oncologo aveva pronunciato quelle frasi prive di ogni fondamento logico, il legale l’aveva automaticamente etichettato come essere debole.
Mescolare il lavoro con la propria vita privata era un errore da stupidi dilettanti.

Tuttavia…

Si era mai soffermato su cosa avesse veramente voluto esprimere Hinata con tali concetti?

Non stava soltanto curando l’inevitabile tumore di quei bambini?
Il suo impiego non gli imponeva di limitarsi unicamente a quell’aspetto?

“Okay, Hinata-sensei! Voglio vedere la mia nuova stanzetta, tutte quelle macchine strane non mi faranno nessuna paura se sono con lei!” esclamò Akio sporgendosi per abbracciare l’oncologo, arrestandosi solo quando un dispettoso capogiro lo costrinse nuovamente a sdraiarsi sulla pila di cuscini che gli sorreggeva il dorso.

Hinata…

Voleva accertarsi che quei bimbetti fossero felici, nonostante la loro…

La conclusione a cui giunsero i neuroni di Tobio lo colpì con la virulenza di un manrovescio dritto in faccia.

Desiderava che quegli ammalati potessero ridere e scherzare come qualunque altro moccioso della loro età?
Intendeva assicurarsi che nonostante gli handicap… si sentissero a loro agio?
Che sebbene parecchi dei loro destini fossero ineluttabilmente segnati…
Godessero ogni istante della propria vita?

Furono indispensabili svariati minuti affinché il legale potesse ristabilirsi dallo shock.

Ogni volta che quello scricciolo rosso aveva insistito sulla necessità d’interessarsi al lato umano dei suoi pazienti, ricevendo in cambio ondate di ridicolo da parte sua…


“Quindi non puoi mai essere libero dai quei malati?”

“Sono miei pazienti. Non capisci che è mio compito andare in loro aiuto ogniqualvolta lo richiedano?”
 
“Richiedano? Vuoi dire anche per un semplice attacco emotivo?”
 
“Soprattutto quando sono emotivamente fragili!”



Aveva sempre superbamente sostenuto che i sentimentalismi ostracizzassero la riuscita di ogni mestiere.
Il lavoro era fredda e asettica professionalità, nulla di più, nulla di meno.
 
Ma nel caso di Hinata…

Tal criterio era effettivamente applicabile?

Con straordinaria lentezza, Tobio girò gradualmente la testa per analizzare l’ambiente che lo circondava, spiando le varie interazioni dei piccoli ricoverati e la loro quotidianità tra le mura d’ospedale.

Nell’immaginario comune, un reparto di oncologia avrebbe dovuto pullulare di espressioni cupe, teste rasate, visi esangui.
Morte e sofferenza vi regnavano da indiscusse sovrane, spappolando ogni minuscola scintilla vitale, estirpando la più infinitesima delle speranze.

Eppure, ciò che appariva dinanzi ai suoi occhi…

Erano espressioni solari, cappelli e fasce variopinte, visi sorridenti.

L’unica sfumatura che avrebbe associato a un posto simile sarebbe stata il pallore spettrale.

E invece, quel luogo era un tripudio di eccentrici colori sgargianti sparpagliati in ogni anfratto, in ogni angolo.
Di bianco… non ve n’era neppure l’ombra.

Tutto quello… era merito di Hinata?

Il saldo legame con i piccoli pazienti, basato su confidenza ed emozioni reciproche…

Era vincente?

Quei bambini erano felici nonostante la malattia…

Perché Hinata non faceva altro che sorridere?


“Io… io voglio aiutare i miei pazienti, prima di dedicarmi soltanto a ciò che li fa star male. La persona e la sua malattia... non sono la stessa cosa”


Tobio non fu in grado di descrivere la sensazione che gli imperniò il petto alla presa di coscienza di tali scottanti verità.

Aveva arbitrariamente reputato l’aspetto del medico e l’intero reparto come una ridicola barzelletta.
Aveva tirannicamente dedotto che quei colori, caotiche risate e mancanza d’ordine fossero attribuibili a una vergognosa carenza di professionalità.

Ma in realtà…

Quello scricciolo aveva appositamente costruito un ambiente caldo e accogliente, adeguato a ospitare giovani mentalmente e fisicamente provati, permettendogli di sentirsi… a casa.

Facendoli vivere, dentro quelle quattro mura d’ospedale.

Il legale chinò la testa, sbaragliato.

Si era recato al Karasuno convinto di poter sputare tutta la propria collera sul medico, colpevole di averlo contaminato con quella schifosa debolezza da lui tanto disprezzata, solo per rendersi conto che…

I sorrisi dello scricciolo… non erano prova di fragilità.

Si morse il labbro inferiore con veemenza, ignorando il metallico sapore del sangue che gli ovattò spiacevolmente la bocca.

Quei sorrisi…

Costituivano il simbolo della forza accecante che il rosso trasmetteva imperterrito a quei bambini, incurante della mastodontica portata della malattia.

Una forza… a lui completamente sconosciuta.
Una potenza che mai aveva avuto occasione di comprovare.


“Non sembra affatto un medico”


Quasi rise al pensiero di come gliel’avesse impietosamente sbattuto dritto in faccia un mese e mezzo prima, quando ancora non poteva nemmeno presupporre chi fosse davvero l’uomo chiamato Hinata Shoyo.
Divertente però pensare che il se stesso di quell’epoca ci avesse azzeccato, in un modo o nell’altro.

Perché…
No, Hinata non era soltanto un medico.

Quel ragazzo non corrispondeva alla figura professionale cui era stato avvezzo nel corso della sua esistenza.

Dinanzi alle sue iridi blu rifulgeva un’entità splendente come il sole, la cui luce donava vita alle creature che lo circondavano.

Non era un lavoro che gli spettava.
Nessuno lo obbligava, nessuno ripagava i suoi sforzi supplementari.
Tutto ciò sforava di gran lunga i suoi doveri, eppure…

Hinata… non si arrendeva.

Nemmeno di fronte all’evidenza, nemmeno davanti alla prova inconfutabile di aver esaurito ogni possibilità…
Proseguiva, facendosi coinvolgere emotivamente per regalare il meglio di sé a quegli sfortunati bambini.

Sorrideva…

Per mostrarsi forte.
Per prestare il proprio coraggio a chi ne aveva maggiormente esigenza.

Sorrideva…

Per celare un dolore infinitamente più grande…

La cui fonte, però, per il legale rimaneva ancora ignota.


“Assicurati di non ferirlo, Kageyama. C’è ancora molto che devi imparare su di lui”


Una risata priva di gioia abbandonò le sue labbra aride.

Akaashi ci aveva azzeccato di nuovo, eh?

In fondo, che cosa aveva realmente appreso del rosso fino a quel momento?

Anzi…

Che cosa aveva voluto conoscere?

Aveva individuato solo ciò che più gli tornava comodo.
Aveva inconsciamente reperito uno scaricabarile per i suoi insuccessi e insoddisfazioni.

Non avrebbe dovuto sorprendersi.
D’altronde, erano entrambi radicalmente agli antipodi.

Lui nero, Hinata bianco.

Lui oscurità… Hinata luce.

Tobio non si era mai curato dei suoi clienti.

Hinata ne era fin troppo emotivamente coinvolto.

Tobio aveva speso anni della propria vita distruggendo tutto e tutti, indiscriminatamente.

Hinata aveva investito ogni giorno della sua esistenza migliorando le giornate dei suoi pazienti.

Hinata traboccava umanità.

Tobio… non sapeva neppure cosa concretamente significasse.

Chi aveva ragione?
Chi aveva torto?

Chi, tra i due… era il vero debole?
 
Ma soprattutto…

Che cos’è la vera debolezza?
Ci aveva mai seriamente riflettuto?

L’empatia di Hinata…

O il suo perenne vuoto?

Ormai a corto di ulteriori elucubrazioni di vago senso compiuto, il legale sgusciò furtivamente via dal suo arrabattato nascondiglio.
Distolse finalmente lo sguardo da quel volto sfigurato da un dolore incomprensibile, che tuttavia  era in grado di combattere generando sorrisi più splendenti di una stella.
Si allontanò con aria assente da quel tragico quadretto e si incamminò a passo strascicato verso l’uscita del reparto, cercando di passare inosservato fra la folla di genitori raggruppati dinanzi alle stanze dei rispettivi figlioletti.

Chiudendosi la porta a due battenti alle spalle, abbandonò quel luogo dove la vita era costantemente appesa a un filo…

Ma in cui la speranza sembrava riverberare come una rigogliosa fioritura di bucaneve, coccolati e vezzeggiati dalla confortante e onnipresente luce del Sole.






Rimirando per l’ennesima volta nel giro di mezz’ora una catasta di referti dallo spessore simile a quello di un vocabolario, Shoyo si permise di esalare uno strascicato sospiro.

Era distrutto.

Quel pomeriggio lo aveva distrutto.
Un po’ come lo stavano inesorabilmente annientando tutte quelle interminabili giornate trascorse in reparto.

Infilò la mano destra fra i vaporosi capelli rossi, strofinando soprappensiero la cute e reprimendo a fatica un sonoro sbadiglio.

Sbalordiva persino se stesso la capacità che gli consentiva di restare ancora in piedi dopo un massacrante turno di dodici ore.
 
Yachi non smetteva instancabilmente di ripetergli che continuando a quel ritmo ci avrebbe rimesso la salute, ma che poteva farci?
Il Karasuno era a corto di personale e sebbene Ukai-san non l’avesse ufficialmente obbligato a quei doppi turni estenuanti, era alquanto palese che ne avesse un disperato bisogno.

E poi, Shoyo era sempre entusiasta di trascorrere del tempo con i suoi bambini.

Che quei momenti fossero deleteri per la sua mente… costituiva ovviamente un dettaglio facilmente trascurabile.

Scosse testardamente la testa, chiudendo le carpette bianche sulla scrivania tristemente ingombra di documenti e disparate scartoffie.

Non doveva riflettervi.

Non doveva pensare che per Akio-chan ormai fosse tutto…

Sollevò bruscamente i palmi e se li scaraventò con violenza sulle guance, stroncando sul nascere il minaccioso pizzicore agli angoli delle orbite oculari, accogliendo il bruciore dello schiaffo come una tonificante doccia fresca.

Non poteva permettersi di perdere la sua consueta energia positiva.
Non poteva soggiacere a quella patetica autocommiserazione.

Doveva farlo per Akio.
Doveva farlo per tutti i suoi piccoli…

“Shoyo! Per quanto hai intenzione di rimanere rintanato qui, eh? Posso sentire il tuo stomaco gorgogliare a chilometri!”

La squillante voce di Nishinoya rimbombò spigliatamente fra le pareti dello studio dell’oncologo, trainandosi dietro una rinvigorente ventata di buonumore.

Hinata ridacchiò osservando il collega dai selvaggi capelli castani e lo sfacciato ciuffetto biondo sfrecciare tra gli affollati corridoi, presumibilmente per raggiungere al più presto la sala comune.

Azzardò un’occhiata all’orologio trasparente appeso alla parete color crema.

Non v’era poi da stupirsi, erano quasi le venti e dieci.

In teoria il suo turno avrebbe dovuto concludersi otto minuti prima, tuttavia preferiva di gran lunga trattenersi in ospedale con i colleghi piuttosto che intraprendere i monotoni sessanta minuti fra treno e autobus fino al suo appartamento, cenando così ad un orario improponibile.
Salvo impegni particolari, si trattava di un’abitudine di parecchi lì al Karasuno, considerando gli impegni deliranti dell'intero personale sanitario.

Dopo un ultimo veloce inventario, doveva apprestarsi a fare rifornimento di caramelle e dolciumi, la sua scorta principale iniziava a scarseggiare anche a causa delle non richieste incursioni di Tanaka e Noya, si scollò dalla poltrona e uscì dallo studio, dirigendosi sbadigliando verso il quinto piano.



“Yacchan, oggi ti sei proprio superata!”

“Ryuu ha ragione, quel bento sembra proprio delizioso!”

La graziosa infermiera dai pimpanti occhi bruni arrossì lievemente mentre scoperchiava il suo curry rice bento.

“Sono sempre stata abituata a prepararli da sola fin dai tempi della scuola, mia mamma era spesso fuori casa per lavoro…” spiegò con timida modestia, arricciando una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio.

Tanaka ghignò furbescamente, occhieggiando il lunch box che l’infermiere dal volto puntellato di lentiggini aveva posto dinanzi a sé, il cui contenuto era esattamente identico a quello di Hitoka.

“Ormai li prepari anche per Yamaguchi, eh? Vero fortunello?”

Tadashi avvampò violentemente dalla testa ai piedi, balbettando qualcosa di incomprensibile che fece ridacchiare maliziosamente i colleghi seduti al loro tavolo.

“Vorrei proprio avere Yacchan come cuoca, i mie bento fanno proprio pena…”
“Parla per te, Ryuu. Tu almeno hai un bento!”
“Non è così difficile prepararne uno, Noya” intervenne pacatamente Asahi, mostrando all’infermiere il suo box ripieno di riso, salmone alla griglia e fagioli neri.

Gli occhi di Yuu scintillarono e un verso di meraviglia si propagò irruentemente dalla sua gola.

“Asahi-san, sei fantastico!! Perché non mi insegni come si fa?” strillò eccitato, quasi saltando addosso al povero magazziniere nonostante l’evidente differenza di stazza.

“Nishinoya, per favore” sbottò l’uomo dalle ampie spalle e la pelle color caffellatte, la cui fronte era desolatamente appoggiata sul ripiano.

Una risatina frizzante fuoriuscì dalle labbra di Suga, che gli scoccò un’affettuosa pacca sulla schiena.

“Noya riesce a preservare le sue energie anche dopo una giornata di lavoro, non c’è modo di spegnerlo” scherzò allegramente mentre Daichi, praticamente spalmato sul legno bianco, replicava con un grugnito piccato.
“Sembri un orso appena abbattuto” lo prese affabilmente in giro Michimiya.
“Un orso innocuo, però” ridacchiò Koushi giocherellando con i capelli sulla nuca del primario, ignorandone bellamente i mugugni infastiditi.
“Giornata più pesante del solito?” indagò Ryuunosuke, arraffando un pugno di verdure e ficcandosele in bocca.

Questo, ormai, è il nostro solito” fu la replica acidula del direttore amministrativo dai capelli color grano, sedutosi in quel frangente accanto a Yamaguchi e appoggiando sul tavolo un vassoio contenente una ciotola di brodo fumante.

“Tsukishima maledettooo! Perché tu hai del ramen appena pronto mentre io devo mangiare riso stantio avanzato da ieri a pranzo?” inveì Tanaka, puntando il dito contro il nuovo arrivato.

Kei non si scompose di una virgola, sistemandosi gli occhiali sul ponte del naso e spezzando le bacchette di legno usa e getta fornitegli assieme alla scodella in ceramica.

“Perché il servizio mensa copre il mio turno fino alle ventidue, dato che Ukai-san mi obbliga a restare per risolvere i casini di quest’ospedale. Voi siete fuori orario, no? Perché siete ancora qui?” ribatté lapidario, provocando in Noya e Ryuu un allarmante rigonfiamento delle vene sulla fronte.
“Sei ancora così impegnato, Tsukki?” s’intromise strategicamente Tadashi prima che la situazione degenerasse in qualche litigio infantile e le urla potessero convincere Daichi a ucciderli tutti seduta stante.

Kei sbuffò sarcasticamente.

“Direi che Sawamura-san non è l’unico a soffrire la stanchezza di un turno infinito. Da quando è che voi non dormite come si deve? Io dovrei farmi rimborsare da questa dannata struttura danni neurologici permanenti”

Michimiya si mordicchiò il labbro, gingillando con il bordo della tazza del suo tè.

“Questa settimana il massimo che sono riuscita a fare è stato quattro ore e mezza. Tu, Mao-chan?” chiese, rivolgendosi alla collega dai capelli biondo cenere legati in una coda di cavallo.
“Mmm… cinque ore? Cinque e mezza? Non credo di aver raggiunto le sei” spiegò scrollando le spalle.
“Beh, allora non c’è da sorprendersi che il primario sia sfinito” constatò Kei prima di inghiottire una manciata di noodles.
“Persino Hinata, che in vita sua non è mai riuscito a stare fermo un singolo istante, ultimamente è piuttosto fiacco” sogghignò amaramente, beccandosi un’occhiataccia da Suga.
“Ah, parlando del diavolo…”

“Shoyoooo, eccoti finalmente!” esclamò a gran voce Nishinoya, facendo sobbalzare vistosamente Daichi che assunse un’espressione assassina.

“Noya, per favore” lo pregò Azumane, temendo la reazione che avrebbe potuto scattare in Sawamura di lì a breve.
“Buonasera a tutti!” salutò briosamente il rosso, unendosi alla tavolata di amici e colleghi con in mano un bento preconfezionato.
“Come va, Shoyo?” domandò Koushi con occhi morbidi, sporgendosi lievemente verso la sua direzione.

Non era complesso intuire l’oggetto della preoccupazione dell’infermiere.

Il medico però abbozzò un sorriso, annuendo con convinzione e parve soddisfare, almeno parzialmente, il collega maggiore.

Sembrava reggere, per il momento.

“Ho bisogno di un altro caffè” bofonchiò Daichi, sollevando lentamente il tronco dalla sua stagnante collocazione e strofinandosi gli occhi sfiniti.

Sugawara assunse immediatamente una smorfia contrariata.

“Daichi, ti reputavo un medico. Con tutta la caffeina che hai in corpo finirai per sentirti male” lo ammonì severamente.
“Suga ha ragione, dovresti pensare solo ad andare a letto e riposarti” concordò Michimiya.
“Arrivi a lavorare anche quindici ore al giorno, Daichi-san, almeno quando non sei più di turno dovresti dormire” osservò saggiamente Hitoka.
Il primario di medicina generale sospirò pesantemente, infilandosi le mani fra i corti capelli castani.
“Devo ricontrollare le cartelle del reparto e stilare una redazione dettagliata prima di…”
“Lascia fare a noi stasera. Non dovrai preoccuparti di nulla se non del tornare a casa vivo e vegeto” lo interruppe però Yui, stringendogli delicatamente la spalla.

Dopo qualche attimo di tentennamento, Sawamura alla fine fu costretto a cedere.

“Daichi-san, come faranno i tuoi pazienti se crollassi dallo sfinimento?” lo rimbrottò Shoyo con la bocca stracolma di frittata.
“Senti da che pulpito” ridacchiò Tanaka, punzecchiandogli la guancia gonfia di cibo con la bacchetta.

“Oi, Kinoshita! Pensavo che non ti saresti fatto vedere stasera!”

Koushi accolse vivacemente l’uomo dai capelli biondo cenere che si apprestava pigramente a raggiungere il loro tavolo.

“ ’Sera a tutti ragazzi… questa giornata è stata infinita” si lamentò il ritardatario con un sospiro sfibrato.
“Ecco un altro che si lagna del troppo lavoro. Dovremmo scrivere una lettera di protesta a Ukai-san…” borbottò Tsukishima, mescolando nervosamente il suo ramen.
“Non è da te arrivare in ritardo per la cena, Hisashi!” osservò incuriosito Yuu.

Il medico sospirò sconsolato mentre prendeva posto tra Tanaka e Michimiya.

“Ho avuto una visita dell’ultimo minuto che mi ha tenuto occupato per almeno un’ora. Un tipo davvero strambo, così cupo da essere deprimente” sbuffò scuotendo la testa, scartando da una pellicola in plastica quattro sandwich alle uova e apprestandosi a divorarne metà con un singolo morso.
“Un secondo Daichi, quindi” ghignò Suga in direzione dell’amico che replicò un offeso “Non sono deprimente!”
“Ma cupo sì, Daichi-san. Ultimamente hai sempre una faccia spaventosa” concordò Shoyo masticando vigorosamente.
“Fai paura” annuì Asahi, trattenendo un tremito.
“Possiamo parlare di qualcosa di più allegro? Sapete, voi avete finito, ma il nostro turno sta per iniziare” si lamentò Michimiya indicando Aihara, Yachi e Yamaguchi.
“La notte al pronto soccorso è tremenda” brontolò Mao, picchiettando le unghie sulla ciotola in ceramica del ramen servito dalla mensa.
“Ti arrivano quasi sempre ragazzini mezzi morti coperti di sangue dalla testa ai piedi” descrisse con aria macabra.
“E meno male che dovevamo discutere di argomenti felici” sospirò Yui, agguantando un filetto di tonno dal piatto e portandoselo alla bocca.
“Lasciamo perdere, io oggi sono di turno nell’ala di psichiatria” commentò Hitoka dissimulando un brivido.
“Ci sono alcuni pazienti che mi prendono sempre di mira. Non sono cattivi, però… sono talmente strani che fanno venire l’ansia”
“A proposito di stranezze” si introdusse Kinoshita, sbranando il terzo sandwich nel giro di pochi minuti.
“L’ultimo tizio che è venuto da me in realtà aveva appuntamento con te domani, Hinata”
 
La manciata di riso appena ingurgitata strozzò lo sfintere esofageo dell’oncologo in maniera totalmente imprevista.

Strabuzzando gli occhi, tossì freneticamente finché i suoi polmoni riuscirono ad incanalare abbastanza ossigeno da permettere al cervello di ripristinare le sue funzionalità vitali.

“Ehi ehi, vacci piano con quei bocconi, tigre!”
“Non vorrai mica morirci davanti!”
“Respira Hinata, respiraaaaa!”

Sbattendo le palpebre sugli occhi lucidi per la sollecitazione fisica, Shoyo non fu in grado di distinguere nitidamente i rimproveri bonari degli amici.
La sua mente era finita in black-out, inabile di focalizzarsi su nulla che non fosse…

“Che… cosa?”

Kinoshita lo squadrò un po’ interdetto.

“E’ sembrato insolito anche a me. Si è presentato senza alcuno appuntamento e sono riuscito a visitarlo solo perché un paziente ha disdetto la sua visita all’ultimo minuto, lasciandomi uno spazio libero. Sono rimasto piuttosto sorpreso quando nella cartella clinica ho trovato evidenziato il tuo nome, Hinata. All’inizio pensavo fosse dovuto a un errore, poi però nel referto hai specificato di averlo visitato e ingessato a causa di un’emergenza dovuta a disordini interni e mi sono ricordato del casino di qualche mese fa, quando ero in ferie”

Più la spiegazione del collega proseguiva, più Shoyo afferrava meno la situazione.
 
Kageyama si era recato al Karasuno con un giorno di anticipo… per farsi visitare da un medico che non fosse lui?
Ma per quale motivo?

“Lui non ha spiccicato parola in merito. Mi ha solo comunicato con tono supponente di aver bisogno di un ortopedico che gli rimuovesse il gesso perché stava diventando una seccatura. Ovviamente ho letto i tuoi appunti sul decorso di radio e ulna, ma ho comunque dovuto effettuare ecografia e tutta la prassi ordinaria per accertarmi che la frattura fosse effettivamente guarita…”

Gli occhi di Hinata fuoriuscivano praticamente dalle orbite.

Tutto ciò era assurdo!

Aveva fissato la visita per l’indomani.
Perché tutta quella fretta imprevista?
E soprattutto, perché recarsi da un altro specialista?

Okay, non poteva negare che colui che si sarebbe originariamente dovuto occupare del suo infortunio fosse Kinoshita, il vero ortopedico…  

Ma si era sempre trattato di un suo paziente!
Era stato lo stesso Kageyama a farsi seguire spontaneamente da lui, no?!
Perché quel cambio di programmi?
Che cosa era successo…?

Nel tempo in cui Shoyo era indaffarato con i suoi spasmodici ragionamenti, Suga lo scrutava con particolare apprensione e anche Hitoka gli scoccò uno sguardo interrogativo, non comprendendo quel resoconto apparentemente incongruente.

“Ah, ma ancor più incredibile è stato quello che mi ha detto Narita poco fa, quando ci siamo beccati a fine turno. Mi ha raccontato che nel pomeriggio è arrivato un tizio strambo che urlava come un ossesso e pretendeva di parlare con te, Hinata, e che, dopo avergli spiegato dove trovarti, è tornato da lui intimandogli di vedere un ortopedico. A Kazuhito è parso uno fuori di testa” ridacchiò sconsolato, grattandosi la nuca.

Il sangue nel corpo di Shoyo gelò nel corso di un istante.

Poteva distintamente percepire gli sguardi di Sugawara, Yachi, Tanaka e Noya perforargli il cranio, pregni di incandescenti interrogativi.

I suoi neuroni dovettero attuare uno sforzo non indifferente per tentare di non finire in autocombustione mentre un milione di differenti e febbrili congetture iniziava ad affollargli la mente.

“Non… non ho ben capito, Kinoshita-san. Kage… emh, quest’uomo è venuto da te… dopo aver domandato di me a Narita-san?”

L’ortopedico masticò soprappensiero l’ultimo boccone del quarto sandwich prima di aprire bocca.

“Secondo Kazuhito all’inizio sembrava estremamente impaziente di parlare con te, nonostante non avesse un controllo programmato per oggi. Gli è parso fuori di sé, così ha pensato potesse trattarsi o di un tuo paziente piuttosto grave o un familiare particolarmente arrabbiato, così lo ha fatto passare. Poi però dopo un po’ se l’è ritrovato nuovamente davanti e ha richiesto un controllo con un altro specialista, qualcuno che potesse visionargli l’avambraccio… e allora Narita l’ha mandato su da me. Fine della stramba storia” concluse scrollando le spalle, notando solo allora che la maggior parte degli occhi dei presenti fossero puntati avidamente su di lui.
“Ho detto qualcosa che non va…?” domandò con esitazione, dopo alcuni secondi trascorsi in assoluta immobilità.

“Chi si permette di urlare all’ingresso dell’ospedale?” tuonò Daichi infrangendo il silenzio, magicamente ricarico di energie e vispamente sul piede di guerra.

Ryuu e Noya esplosero in una risata sguaiata, reggendosi a fatica le pance.

“Di tutta questa storia l’unico dettaglio su cui ti sei soffermato è il fatto che questo tizio abbia alzato la voce?” rise di gusto Yui, pizzicandogli il bicipite.
“E’ un motivo più che valido! E’ un’incredibile mancanza di rispetto” non demorse il primario, ignorando gli sbeffeggi affabili dei colleghi.

L’ilarità collettiva non riuscì a contagiare neppure di striscio il morale dell’oncologo.

La sua mente era stata barbaramente scaraventata a parecchie centinaia di metri sottacqua, impossibilitata a percepire alcunché oltre l’inquietante ronzio delle profondità marine.
Nelle vene il suo sangue aveva la medesima consistenza del piombo, opprimente e sfiancante, capace di trascinarlo fino alle più infime viscere della terra.

Narita aveva autorizzato l’ingresso a Kageyama…?

Che voleva dire?

L’infermiere di guardia non gli aveva comunicato un bel niente.
Non poteva aver consentito al legale di accomodarsi in uno degli studi adibiti ad ambulatorio giornaliero al primo piano, da lui strategicamente sfruttati durante i precedenti controlli.
Non sapeva che Kageyama non fosse un suo paziente ordinario e la visita si sarebbe svolta lì.

Ciò significava che…

Narita gli aveva consentito libero accesso al suo reparto…?

La realizzazione lo colpì con le sembianze di un irruente attacco d’asma.

La respirazione iniziò a rantolare, i battiti cardiaci assunsero un ritmo allarmante e la gola parve gonfiarsi freneticamente, impedendogli di inalare sufficiente ossigeno da trasmettere al cervello.

Kageyama…

L’aveva visto in oncologia?

Aveva scoperto che razza di lavoro facesse e….

Se n’era andato?

Non aveva sopportato la visione di ciò che realmente fosse?

Aveva rifiutato la sua natura e…


“Senta dottore, il punto è che non m’importa, okay? Non m’interessa stabilire un legame con quelle persone. È solo lavoro, fine della storia”


Un ansimo soffocato rantolò dai meandri della sua spossata laringe.


“Non vorrà mica farmi credere che lei stringa amicizia con i pazienti! Magari che sappia addirittura i nomi di qualcuno, eh!”


L’aveva… disgustato…?

“Hinata-kun, che significa questa storia?”

La voce di Yachi giunse ovattata alle orecchie del rosso, come se la bocca dell’amica fosse ostruita da uno spesso panno di stoffa.
Il suo viso era contornato da un’espressione preoccupata che specchiava la medesima irrequietezza di Suga, entrambi consapevoli dei retroscena fra il medico e l’oscuro avvocato.  

Shoyo tuttavia non seppe replicare.

Non capiva.

Un maledetto bug si era generato tra i suoi emisferi, accanendosi nel replicare quel medesimo pattern incoerente.

No, non lo riteneva attendibile.
Stava sicuramente commettendo un errore, era impensabile che…

“Ehi, eccolo lì il tizio di cui vi parlavo! Ma che ci fa ancora qui?”

Gli occhi di Hinata scattarono in meno di un millisecondo verso il punto tratteggiato della testa di Kinoshita.

In piedi a qualche metro dalla loro postazione, con la schiena ritta come un fusto e le guance lievemente imporporate, si ergeva…

“B-buonasera a tutti… perdonate il disturbo. Mi chiamo Kageyama Tobio e… vorrei parlare con Hinata”

Qualche attimo di attonito silenzio avvolse l’intera tavolata di medici e infermieri.

“Shoyo, ma è lui il famoso Kageyama con cui ti frequenti??”

Il tono di Yuu avrebbe dovuto assumere le sembianze di un lieve sussurro, ma in realtà risuonò forte e chiaro tra le mura della sala, causando alla faccia del legale l’assunzione di una sfumatura pericolosamente simile a un peperone cotto a puntino.

“Wooo, ma è enorme! Hinata, non ci avevi detto che il tuo boy fosse un colosso!”
“Tanaka, sta’ zitto” sibilò Suga scoccandogli una poderosa gomitata che strappò al magazziniere un gemito dolorante.
“Suga-san, ma perché” guaì Ryuu, massaggiandosi il fianco sinistro.

Nonostante il concitato baccano che lo attorniava, Hinata parve non udire un singolo suono.

Le sue iridi erano incollate a quelle blu come il mare in tempesta di Kageyama e parevano non riuscire a spezzare quel magnetico contatto.

Schiarendosi la gola, cercando di ignorare il bollore che gli attanagliava impudentemente le gote, Tobio borbottò “Non pensavo stessi ancora cenando, ti aspetto fuo-”

“Non ce n’è bisogno, non ho più fame” troncò inaspettatamente il medico, alzandosi bruscamente dalla sedia e incamminandosi fuori dall’ambiente comune, lasciandosi dietro una scia di occhiate sbalordite, tra cui spiccava quella del legale.

Quando si rese conto che non avesse alcuna intenzione di attenderlo, il corvino si apprestò celermente a seguirlo, voltandosi appena per accennare un segno di congedo al personale ospedaliero che pareva studiarlo con peculiare interesse.

Percorsero tacitamente lo sterile corridoio del quinto piano fino a giungere davanti ad un’uscita di emergenza dall’apertura a spinta.  
Hinata compresse il maniglione antipanico senza esitazione, svelando l’ampia soglia di una lunga scalinata in acciaio che abbracciava dall’esterno l’intero edificio.
Tobio intuì di dover avanzare e il rosso serrò la porta alle loro spalle, rabbrividendo lievemente al contatto della fresca arietta serale sulla pelle.

Trascorse qualche istante di quieto silenzio, intervallato soltanto dal trambusto cittadino che sfumava nebulosamente in sottofondo.

Inalando un profondo respiro, Hinata girò lentamente il busto fino a trovarsi faccia a faccia con l’altezza incombente del legale.
I suo occhi dardeggiarono immediatamente sull’avambraccio destro, scevro del gesso niveo che gli aveva sigillato l’ossatura fino a quel pomeriggio.
L’epidermide era moderatamente gonfia e rossastra, avvolta da un leggera fasciatura traspirante.

Percependo la direzione dello sguardo del medico, Tobio chinò la testa, tradendo una sfumatura imbarazzata.

“Mi fa piacere notare che il tuo braccio sia in buono stato” osservò Shoyo con una malcelata nota di sarcasmo.

Il capo del corvino guizzò verso l’alto, impreparato a un tono così tagliente.

“Pensavo avessimo stabilito una data, ma a quanto pare morivi dalla voglia di liberarti quanto prima” continuò evitando d’incrociare il suo volto, indietreggiando fino ad accostare la schiena sulla ringhiera grigiastra.
“Potevi anche comunicarmi in anticipo che avrei smesso di essere il tuo medico. Sai, per correttezza”

Tobio sbatté le palpebre, stralunato.

Hinata era… irritato?
Non aveva ancora esalato un fiato e lo stava già mettendo ai ferri corti?
Ma poi, non avrebbe dovuto essere lui ad avercela a morte con l’oncologo?!

Dal canto suo, Shoyo non aveva la più pallida idea di quanto stesse farneticando.

Il suo cervello sembrava inconsciamente desiderare di proteggerlo da Kageyama, sferrando un assalto dopo l’altro prima di essere a sua volta attaccato.
Come se provasse disperatamente a rimuovere il seme della paura innestato nel suo petto…
Sfoggiando un’aggressività che mai era appartenuta alla sua indole.

“Qualcuno potrebbe reputare offensivo un comportamento del genere. Mi ero anche premurato di riservarti un posto per domani… a questo non hai pensato, eh?”

Strabiliava persino se stesso la sfacciataggine con cui stava conversando, fingendo una compostezza paradossale per il suo effettivo stato emotivo.

Tobio seguitò a fissare Hinata come un ebete, la bocca lievemente dischiusa.

Non aveva contemplato che il medico avrebbe potuto offendersi a tal punto.
Certo, consultare un professionista senza avvertirlo in precedenza poteva apparire scortese, ma il motivo si riconduceva a…

“Pensavo di non doverti disturbare, dato che non è un’area di tua competenza”

Shoyo sbuffò, posizionandosi le mani sui fianchi.

“Questo lo sapevi fin dall’inizio, no? Non mi pare che ciò mi abbia mai impedito di curarti come si deve” ribatté con alterigia, nonostante in realtà il cuore anelasse ardentemente la fuga da quell’asfissiante gabbia toracica.

Per favore, Kageyama, non aggiungere nulla.
Fa’ che si sia trattato di un malinteso.
Per favore.


Tobio deglutì vistosamente.

Non coglieva il presupposto per cui si sentisse tanto in soggezione dinanzi allo sguardo di quella mezza cartuccia che avrebbe potuto facilmente spazzare via con un singolo manrovescio.
Eppure…

“Ti ho visto oggi, Hinata”

Ecco, l’ha detto.

Shoyo avvertì qualcosa sfracellarsi all’interno del torace.
Le gambe furono improvvisamente inabili di sostenere il suo peso corporeo e un acuto senso di vertigine minacciò di distruggergli l’equilibrio.

“Ho visto il reparto in cui lavori”

Calmo.
Devi rimanere calmo.
Inspira, espira.
Inspira, espi…


“Perché… perché non me l’hai detto?”

Cazzo.
Cazzo, cazzo, cazzo.


Serrando i pugni accanto ai fianchi, Shoyo racimolò tutto il coraggio necessario per tirar su la testa e guardare dritto negli occhi il viso implacabile del legale, che lo fissava a sua volta con un’espressione indecifrabile.

“Perché sei venuto oggi?” ribatté testardamente, tentando in ogni modo di sopprimere il terrificante sgomento che lo fagocitava dall’interno.

Tobio aggrottò la fronte, titubante.    

Non era quella la reazione che avrebbe pronosticato.
Irruenza, ostinazione, apprensione…
Pareva quasi che l’oncologo si stesse impegnando a… distoglierlo dalla questione principale.

Reprimendo un’imprecazione, Tobio si adoperò per rievocare l’effettiva ragione per cui si fosse compulsivamente recato al Karasuno, parzialmente inumata dal cospicuo peso degli ultimi eventi.

“Avevo urgenza di parlarti per un fatto che… è accaduto a lavoro. Ma non è importante adesso” asserì risoluto, sopprimendo la scottante ira che fremeva per detonare ormai da ore e compiendo un passo in avanti verso il suo interlocutore, che s’irrigidì sensibilmente alla breve distanza che si interpose inaspettatamente fra loro.
“Perché mi hai tenuto nascosta la tua vera occupazione?”

A quella domanda, la sfrontatezza dell’oncologo si dissolse miseramente.

Non riusciva a capacitarsi di come l’unica verità che avrebbe voluto occultare da Kageyama… fosse stata scoperchiata con prepotenza.

“Ti ho spiegato fin dall’inizio che non fossi un ortopedico” replicò debolmente, torcendosi le mani.
“Non ti è mai importato saperlo” aggiunse, distogliendo lo sguardo da quelle iridi esageratamente penetranti.
“Cosa è cambiato adesso?”

Tobio avvertì lo stomaco contrarsi spiacevolmente a quel tremulo fil di voce.

Non gli piaceva.
Non sopportava che Hinata, il cui viso era stato concepito unicamente per sorridere…

“Non penso sia un dettaglio irrilevante, non credi?”

Tuttavia, le cocciute fibre del suo essere prevalsero, cedendo penosamente all’aspra provocazione…

Che avviluppò il cuore di Shoyo in una tentacolare morsa.

Un senso di panico amaramente familiare incominciò a intorpidirgli gli arti, menomando la sua capacità di giudizio.

“Tu pensi che non lo sia?” ripetè cercando di guadagnare tempo, sperando in un improvviso terremoto che potesse risucchiarlo e seppellirlo in eterno.
 
“No. E sono convinto che tu lo sappia perfettamente, dato che me l’hai tenuto nascosto”

Il respiro del medico si spezzò.

Ecco.

Era tutto finito.

La logorante immobilità che accompagnò la pungente dichiarazione del legale fu intaccata solo dal lieve fruscio della brezza, che scuoteva dolcemente le foglie brune degli alberi circostanti.

Era tutto finito…

Dunque, tanto valeva gettare alle ortiche ogni accortezza residua.

“Perché credi che non te l’abbia rivelato, eh?” saettò inaspettatamente, squadrando il legale con occhi furiosi.

Al diavolo la paura.

Lui era capace di ribellarsi.
Non poteva esserne inghiottito.

Non di nuovo.

Non in quel momento.

Tobio allargò le palpebre, colto nuovamente in contropiede dall’atteggiamento incostante del rosso.

“Perché credo che…?”

“Dato che sei stato così brillante da dedurre che non fosse un dettaglio trascurabile, hai pensato anche al perché l’abbia fatto?” lo aggredì, balzando in avanti e guardandolo dritto in faccia nonostante i quasi trenta centimetri di dislivello.

Probabilmente avrebbe dovuto prevedere la controbattuta di Kageyama.
La sedata ira del corvino parve avvampare repentinamente, infuocata dall’invisibile fiammifero proveniente dal moto di rabbia di Hinata.

“Adesso stai dicendo che è colpa mia?! Che posso saperne io del motivo?!”

“Mi fa davvero piacere notare che nonostante tutto quello che abbiamo passato continui a non capire nulla di come funzionino le persone!”

Fu questione di un istante.

Tobio avvertì una cocente stilettata percuotergli il torace senza alcuna pietà.

Per qualche attimo non fu in grado di reagire, sopraffatto da un dolore cieco, indomabile.

Il ferreo autocontrollo finemente cesellato da anni e anni di addestramento rischiò di essere burberamente vandalizzato, finché…

Un singolo, lucido pensiero non sgomitò per imporsi con la forza sul caos, attenuando la portata venefica di quella sferzante insinuazione.

Non è vero.

Non è vero, dannazione.


Digrignò i denti, rilevando una scarica di bile ribollirgli crudelmente nello stomaco, addizionandosi alla frustrazione stentatamente repressa.
Un’accoppiata… decisamente pericolosa.

Lui ci aveva provato.

Cazzo, era da un’intera settimana che si spremeva le meningi per comprendere chi lo circondasse, impegnandosi a frenare la lingua biforcuta dal vomitare veleno gratuito, prodigandosi a intuire stati d’animo per lui praticamente inesistenti.
Aveva persino perduto un cliente ed era stato umiliato davanti all’intero ufficio pur di tentare di capire i sentimenti delle persone…

E quello stupido osava assumere che non fosse mutato di una virgola?!

“Senti pezzo di idiota, che razza di cazzate vai spiattellando?! La colpa è tutta tua se ormai mi considerano uno smidollato sentimentalista allo studio! Non credi che non abbia riflettuto su quello che mi hai detto? Non pensi che non ci abbia provato a cambiare atteggiamento e che la tua fottuta idea non mi abbia portato solo guai? Certe volte penso a come sarebbe stato più semplice non averti mai incontrato quella fottuta mattina!” urlò spietato.

Aveva esagerato, ne era pienamente consapevole.

Non voleva davvero sputare quelle cattiverie, però…

Era incazzato, maledizione.
Quell’uomo lo stava facendo diventare pazzo.

Hinata lo fissò per alcuni interminabili istanti con le labbra dischiuse, ogni possibile suono  selvaggiamente prosciugatogli dalla lingua.

Kageyama… rimpiangeva di averlo conosciuto.

Era logico, in fondo.
Aveva senso.

Rigetto.

Ecco l’effetto che Hinata suscitava nelle persone forti.

Era giunto a farsi odiare dalla persona che avrebbe agognato…

Strizzò gli occhi con tanta veemenza da scorgere macchioline scarlatte per qualche secondo, obbligandosi a dissolvere ogni minuscola perla salina che intimava di sgorgare dalle sue sclere.

Non poteva piangere.

Non doveva piangere.

Perché oltre a quella mortificante tristezza…

Era arrabbiato.

Infuriato con Kageyama, ma soprattutto…

Con se stesso.

“Tanto non saresti cambiato comunque!” strillò con voce incrinata, completamente fuori di sé, sfruttando lo stesso coltello insanguinato con cui era stato barbaramente trafitto per affondarlo nelle debolezze del legale, torcendolo fino in profondità.

E così, ogni possibile tentativo di replica da parte di Tobio fu annientato.

Il suo cuore atrofizzò a quelle parole corrosive, deturpanti.
L’ipotesi di lasciarsele scivolare addosso…
Non era nemmeno calcolabile.

Il rosso ansimava febbrilmente, la testa rivolta verso il grigio pavimento metallico.

Era una menzogna.
Non era vero che Kageyama non sarebbe stato capace di cambiare e lui ne era pienamente cosciente.

Ma alla fine, tutto era già stato disintegrato.

Ciò che rimaneva loro era un continuo e inesorabile ledersi a vicenda fino ad accasciarsi al suolo, sanguinando agonizzanti.

“Se l’avessi saputo… mi avresti buttato via senza pensarci due volte”

Il suo corpo tremava febbricitante, sordo a ogni tentativo di controllo.

“Volevo che qualunque cosa ci fosse tra noi continuasse un po’ più a lungo”

Abbozzò un’espressione di acre ironia, orribile sui suoi lineamenti tenui.
I suoi occhi erano maledettamente lucidi e…

Lo detestava.

Odiava essere debole.
Odiava che la sua fragilità trapelasse così facilmente.
Voleva essere forte, forte come Kageyama.

Eppure, nonostante la sua strenua volontà…

Non ci era mai riuscito.

“Che stupido a pensarlo, eh? Tanto sarebbe finita comunque”

Tobio di quella conversazione apparentemente a senso unico non stava capendo un bel niente.
Sapeva solo che i suoi ventricoli stillavano copiosamente litri e litri di sangue e lui non avesse la minima idea di come arrestare quell’emorragia.

“Ma di cosa vai blaterando, si può sapere? Non… perché sarebbe dovuta finire?! Perché stai parlando arbitrariamente di qualcosa di cui non sapevo nemmeno l’esistenza?!” tuonò piccato, calcando i pugni e conficcandosi le unghie nei palmi, ignorando gli spasmi all’avambraccio destro, ancora convalescente.  

“Perché so come sei fatto, non è ovvio?!” sbraitò Shoyo con sguardo famelico.

Rivelare la sua debolezza era intollerabile.

Aborriva il giudizio di Kageyama.
Lo odiava, perché al contempo…

Ne era intimamente terrorizzato.

“Pensavo che nonostante tutto ti piacesse come fossi fatto!” urlò a quel punto il corvino senza freni inibitori, punto sul vivo.

“Certo che mi piace come sei fatto, idiota!” ribatté il medico con altrettanta collera.

Benché l’ira gli annebbiasse lo sguardo e la capacità di raziocinio, Kageyama parve afferrare il concetto eruttato astiosamente da Hinata e, sbaragliato da un rossore che gli prese d’assalto le guance, riuscì a ribattere un risentito “E allora perché stai continuando con queste considerazioni prive di ogni…”
“So come sei fatto e so che avresti provato repulsione per uno come me!”

La verità era che Shoyo… non era capace di fronteggiare la sua stessa natura.

Non era in grado di sopportare il peso del dolore accumulatosi gradualmente sulle sue spalle.
Non riusciva a confrontarsi con Kageyama, che rappresentava tutto ciò che lui…
Non era.
Tutto ciò che lui non sarebbe mai stato.

La replica di Tobio gli morì letteralmente sulle labbra.

“Sai, Kageyama… ti accorgi di non essere l’unico con dei problemi regressi?”

Il corvino sbatté velocemente le palpebre, spiazzato per l’ennesima volta.

Hinata rise.

Una risata svuotata di ogni tipo di emozione, talmente ributtante da far agognare al corvino di spappolarsi brutalmente i timpani a mani nude.

“Rimpiangi di avermi conosciuto, no? E questo solo perché ti ho portato a riflettere sull’essenza dei tuoi comportamenti… immagina cosa avresti potuto pensare due mesi fa, dopo aver scoperto cosa facessi realmente”

Era ovvio ciò che avrebbe pensato.


“Non vorrà mica farmi credere che lei stringa amicizia con i pazienti! Magari che sappia addirittura i nomi di qualcuno, eh!”


Così naturale che la voglia di singhiozzare minacciò di travolgerlo da un momento all’altro.

“Beh, tanto adesso mi hai visto, no? Hai capito chi sono realmente e quanto patetico sia ai tuoi occhi. Posso anche smettere di sprecare il tuo tempo”

Un inatteso moto di panico accelerò vertiginosamente le palpitazioni di Tobio.

Stava accadendo tutto troppo in fretta, difettava della lucidità sufficiente per ragionare.
I suo neuroni faticavano a reggere il ritmo di quelle argomentazioni impazzite e a cogliere il nesso delle squinternate parole di Hinata.

“Che stai… che stai dicendo…?”

Il medico scrollò le spalle, simulando una noncuranza che apparve ridicola se comparata al bruciore che percepiva in ogni singolo organo.

“Sto dicendo che sarebbe opportuno chiuderla qui. Non ho bisogno di sentire quanto ti faccia…”

Tobio era giunto al limite dell’umana sopportazione.

“Ma se non mi hai fatto nemmeno parlare!” strillò a pieni polmoni, furente.

C’era un pezzo di quella assurda conversazione che mancava.
Qualcosa che gli sfuggiva nonostante si trovasse esattamente davanti il suo naso.  
Qualcosa che gli occhi lucidi di Hinata volevano comunicargli ma che lui…

“Non hai idea di cosa io pensi di…”

“Non lo voglio sapere!”

Il grido di Shoyo fu talmente irruente da intimidire uno stormo di uccelli appollaiati sul maestoso cedro che svettava di fianco l’ospedale, che si alzarono frettolosamente in volo.

“Non… non lo voglio sapere” ricalcò in un mero sussurro, talmente scosso da perdersi nel venticello serale.

Era completamente, ineluttabilmente… terrorizzato.

Terrorizzato di riflettersi nell’immagine a lui speculare, Kageyama… e scorgervi riflesso l’elenco dei suoi miserabili fallimenti.

Kageyama, la sua nemesi.
Il monito perenne delle sue innumerevoli manchevolezze.

Forza di spirito.
Forza retorica.
Risolutezza nell’agire.

Un pilastro pressoché incrollabile.

Non era in grado di sopportare il suo impietoso giudizio.

Non avrebbe sorretto quell’espressione gelida mentre gli rammentava quanto i sentimenti a cui era tanto legato lo avessero inesorabilmente sospinto nell’oblio.

Era sgomento dal verdetto di Kageyama…

Poiché corrispondeva a verità.

E lui non era pronto per affrontare il dilaniante peso del suo strazio.

Non ancora.

Ma forse, chissà…

Il momento non sarebbe mai sopraggiunto.

Il silenzio tombale che avvolse i due uomini avrebbe potuto definirsi surreale.

Tobio non aveva mai provato una sensazione simile in tutta la sua esistenza.

Aveva magicamente perduto l’abilità di parlare.
Di respirare.
Di reagire.
Di sentire.

Era lì in piedi, perfettamente immobile, a testimoniare come la stella più brillante di tutto il creato…

Si spegnesse inesorabilmente, implodendo su se stessa.

Una paura straniante sfigurava i connotati dell’oncologo, massacrando la sua anima spensierata e genuina, annichilendone interamente la bellezza.

Era… una visione orribile.
Angosciante, raccapricciante…

E lui, si sentiva completamente impotente.

Come si poteva anche solo postulare di reagire davanti all’inesorabile collasso del Sole?

“Fai finta di non avermi mai conosciuto, okay? Consideralo solo uno spiacevole incidente di percorso. Non dovrebbe essere difficile”

Non dovrebbe essere difficile?

Tobio avrebbe dovuto replicare, naturalmente.

Avrebbe desiderato afferrare quello scricciolo dai folti capelli rossi e scuoterlo finché la sua luce non fosse tornata nuovamente a splendere.
Avrebbe voluto urlargli… perché.
Perché tutte quelle idiozie, perché quei segreti, quale fosse la causa dello stato in cui versava, ma…

“Mi dispiace per l’inconveniente. Non avrai più bisogno dei miei servizi professionali, potrai farti seguire sempre e soltanto da Kinoshita-sensei d’ora in avanti. Ti auguro una buona serata”

E con quell’ultima brutale sferzata, il medico corse via come una volpe impazzita senza mai guardarsi indietro, trascinando le sue ferite infette lungo quel bianco corridoio, originando un nauseante contrasto di colori tra pallore e vermiglio.

Tobio avrebbe dovuto controbattere, eppure…

Non era stato capace nemmeno di schiudere le labbra.





Lo scalpiccio delle pantofole ospedaliere sul linoleum azzurro riecheggiava fra le pareti del quinto piano di pari passo con il ritmo frenetico del suo respiro.

Stava fuggendo.

Il suo cuore batteva fuoriosamente, imbizzarrito.

Stava scappando…
Per l’ennesima volta.

Si stava dileguando dalla verità, da quelle parole affilate come rasoi.


“Continuerai a rimandare, Shoyo?


Avvertì gli occhi riempirsi di lacrime mentre correva a perdifiato lungo lo sterile androne.

Era un codardo.

Un vile pappamolle, inabile di confrontarsi con le sue più intime paure.

Con che faccia aveva osato criticare Kageyama per il suo atteggiamento glaciale se lui non riusciva neppure ad affrontare se stesso?!


“Nel tuo lavoro la morte è inevitabile, Hinata”

“Non puoi pensare di affezionarti a questi bambini o non ne uscirai mai vivo”

“Hai bisogno di maggiore distacco”

“Non puoi permetterti di struggerti per ognuno di loro, lo capisci?”



Serrò le palpebre, fallendo persino nel focalizzarsi su dove mettesse i piedi, rischiando di inciampare e rompersi l’osso del collo.

Per quanto ancora aveva intenzione di rimandare?
Per quanto ancora avrebbe dissimulato, rinchiudendo forzatamente tutti i tetri demoni nella zona più recondita della sua mente?
Per quanto ancora prevedeva di vivere in quel modo, se davvero vivere poteva definirsi?!


 “Shoyo! Shoyo, fermati!”


L’incalzante voce di Sugawara fu in grado di far breccia fra le dissennate sinapsi del medico, permettendogli finalmente di arrestasi nella sua spasmodica corsa senza meta.

“Che è successo? Sembri… sconvolto”

L’infermiere lo studiò con occhi colmi di preoccupazione, turbato da quella reazione violenta e dallo sguardo spaesato dell’oncologo che, con uno scatto repentino, voltò il capo verso la direzione da cui era febbrilmente giunto, accertandosi che nessuno lo stesse rintracciando.

Suga dovette intuire il timore dell’amico poiché gli cinse gentilmente il polso e lo guidò verso uno degli sgabuzzini del piano, dove avrebbero potuto godere di maggiore privacy.

“Cosa ti ha fatto Kageyama?” si apprestò a indagare senza indugi non appena chiuse la porta alle loro spalle, il volto deformato da un’espressione intimidatoria.

Shoyo lo fissò confusamente per qualche istante, fallendo nel delinearne nitidamente i connotati.
La visuale gli appariva… annebbiata.

Suo malgrado, Koushi abbozzò un sorrisino.
Sollevò maternamente la mano destra e asciugò delicatamente le lacrime zampillate dalle orbite del rosso, che gli rigavano dispettosamente le guance.

“Terra chiama Shoyo” lo prese in giro, pizzicandogli la punta del naso.

A quell’insperato slancio di premuroso affetto, il desiderio di piangere di Shoyo incrementò esponenzialmente.  

“Suga-san…” mormorò fievolmente, propendendo verso l’infermiere e abbandonandosi stancamente contro il suo torace.

Colto in contropiede, l’uomo dai capelli argentei allargò fugacemente gli occhi prima di rilassare le gote in un sorriso, appoggiando il palmo sulla vaporosa zazzera color carota del medico, carezzandogli placidamente la cute.

Non disponeva di una motivazione razionale, ma fin da quando Hinata era giunto al Karasuno, disorientato e inesperto similmente a un pulcino appena sgusciato dall’uovo, un naturale senso di protezione era inaspettatamente germogliato nel suo petto.   
Era stato indubbiamente calamitato dalla contagiosa positività che il giovane medico sembrava instancabilmente generare, capace di confortare qualsiasi animo sfibrato con un singolo sorriso.
Tuttavia, l’effettiva origine di quella profonda affezione risiedeva nell’innata sensibilità che spiccava in Shoyo come una gemma rara, immagine speculare di un’empatia con cui Koushi era particolarmente familiare, poiché si trattava della stessa che albergava dentro di lui.

Una sensibilità che, però…

Rischiava di tramutarsi in una temibile arma a doppio taglio.

Una lama affilata che, se esente dalle dovute contromisure, era perfettamente in grado di lacerare un cuore umano.

Ecco perché, fin dal principio, Hinata gli aveva ricordato se stesso.
E con il trascorrere dei mesi, quando il peso dell’esperienza dell’oncologo aveva iniziato a gravare crudelmente sulla sua schiena, aggiungendovi giorno dopo giorno fardelli sempre più insostenibili… era divenuto palesemente evidente.

Suga riusciva davvero a comprendere le angoscianti emozioni che avevano agguantato Shoyo in ostaggio.
Nonostante il medico si ostinasse a negarle, ai suoi occhi risultava lampante.

Avrebbe saputo riconoscere ovunque il medesimo stato d’animo di cui lui stesso era stato l’inerme vittima parecchio tempo addietro…
Esattamente quando, a soli ventitré anni, aveva incominciato a lavorare presso il Karasuno Hospital.

Era fondamentalmente un infermiere alle prime armi con una gavetta di appena venti mesi espletata in diverse cliniche private della città, inconfutabilmente competente e dinamico, ma ancora acerbo, giovane.
Molto, molto giovane.

Ciononostante, era stato spedito senza mezza termini in prima linea del reparto rianimazione.

Un rodaggio… che mai sarebbe stato in grado di depennare dalla sua mente.

Gli instancabili incubi che lo avevano assalito nelle poche ore in cui riusciva a prendere sonno durante quel periodo micidiale, persistevano stabilmente nella sua memoria, permanenti.

E, sebbene la sua efficienza non avesse vacillato in alcun caso…

Per la prima volta in vita sua aveva dubitato della propria reale predisposizione per poter essere un buon infermiere.

Il coinvolgimento emotivo provato in quella drammatica permanenza in terapia intensiva…

Era stato eccessivo, per lui.

Rammentava chiaramente di aver speso un’imbarazzante quantità di minuti, al termine di ogni debilitante turno, nascosto nel bagno degli addetti ai lavori a singhiozzare disperatamente, fissandosi freneticamente le mani che troppo, troppo spesso erano state impregnate del sangue di vite prematuramente spezzate.

Cionondimeno, aveva tentato di non cedere.

Si era forzato a proseguire, ignorando il pressante magone che gli divorava inesorabilmente lo spirito, finché…

Dopo svariati mesi di lavoro al reparto, un’ambulanza era sfrecciata al pronto soccorso a folle velocità, trasportando un’esangue ragazzina di appena diciassette anni cosparsa di sangue.
Era stata coinvolta assieme al fidanzato in un incidente stradale che aveva ucciso sul colpo il ragazzo e sbalzato fuori dall’abitacolo lei che, come un proiettile impazzito, era stata scaraventata sull’asfalto e travolta da un’auto in corsa, che le aveva atrocemente maciullato entrambe le gambe.
Koushi e il personale medico si erano disperatamente prodigati a frenare le ingenti emorragie, ma ogni sforzo era stato vano.

Gli occhi scuri dell’adolescente, iniettati di frantumati capillari e zeppi di lacrime, riflettevano una disperazione venata di terrore mentre perdevano gradualmente energia vitale, come se fossero consapevoli dell’imminente fato a cui erano stati destinati e lo guardavano imploranti, supplicando, in un sussurro a malapena udibile…
“N-non v-voglio morire… per… per fa-favore… ma-m-mamma… voglio vedere… m-mamma mi… n-non… non voglio…”
Per poi esalare l’ultimo respiro fra le sue braccia, tremanti come foglie percosse dal vento, maledettamente… impotenti.

Da quella tragica notte, quegli agonizzanti occhi ingiustamente prosciugati della loro linfa vitale avevano perseguitato implacabilmente il suo sonno per anni, riesumando il viscerale senso di colpa che lo aveva accompagnato per tanto, tanto tempo.

Era stato il primo collasso emotivo della sua carriera professionale.

Ricordava di aver vissuto quei giorni avviluppato nel panico e sotterrato dal dolore, incapace di tollerare la sola ipotesi di assistere nuovamente a una morte violenta.
Non credeva si sarebbe più ripreso, da quel traumatico evento.
Aveva persino congetturato di abbandonare l’ospedale, sigillando irrevocabilmente la sua carriera sanitaria…

Eppure, eccolo ancora lì, a distanza di più di un decennio.

Come aveva riottenuto la forza essenziale per rimettersi in piedi senza sbriciolarsi al suolo in mille pezzi?

Se lo chiedeva ancora, in certe occasioni.
E la risposta… rimaneva costantemente invariata.

Non vi sarebbe affatto riuscito senza la valanga di supporto incondizionato ricevuto da amici, colleghi, superiori.

I fedeli compagni di liceo Daichi e Asahi, che gli avevano consentito di non sprofondare in un’oscuro avvilimento restandogli accanto giorno dopo giorno.
L’inflessibile ma dal cuore buono Ukai senior, nonno dell’attuale direttore generale, imprescindibile per avergli fornito la tenacia sufficiente a resistere lo scoramento.
Persino Shimizu con la sua quieta imperturbabilità si era rivelata un eccellente appoggio grazie al prestito di un po’ del suo compassato schematismo, indispensabile all'interno di un ospedale.

Nonostante tutto, non si era certamente trattato di un decorso semplice.

L’unica arma in suo possesso per dominare quella fragile precarietà psichica consisteva unicamente in una sconfinata pazienza.
Erano state necessarie parecchie settimane di ferie prematuramente andate in fumo e svariati mesi di sedute psicoterapeutiche, ma alla fine aveva conquistato il suo intimo equilibrio.
Il trasferimento permanente dalla terapia intensiva ne aveva costituito naturalmente il fattore determinante.

Tuttavia, nonostante fossero trascorsi ormai parecchi anni, quell'infausta cicatrice si ostinava a macchiargli ancora la pelle, indelebile come una marchiatura a fuoco, monito di un tormento che aveva minacciato di inghiottirlo, annichilendo la sua volontà razionale.

Un calvario riflesso esattamente nel dolore emanato dal volto di Shoyo, il cui cuore tanto dilaniato rischiava d’essere sgretolato da una singola stretta.

Eccola, la peculiare empatia percepita nei confronti del piccolo medico.

Nonostante il genuino altruismo che imperniava ogni fibra del suo essere, Hinata era…

“Suga-san, io… non ci riesco”

Devastato.

Logorato da un peso insostenibile per le sue esili spalle.

Soffocato da una scelta con cui, purtroppo, non era ancora giunto a compromessi.

“Non riesco ad affrontarlo, non ce la faccio”

La presa di Koushi sui capelli di Hinata si rafforzò.

“Cosa è successo con Kageyama, Shoyo? Ha detto qualcosa che ti ha ferito? Avevamo stabilito che se si fosse comportato nuovamente male non avresti più dovuto…”
“No. No, lui… non ha detto nulla di sbagliato” lo interruppe sommessamente l’oncologo.

Suga aggrottò la fronte, perplesso.

“Mi ha… visto in oncologia, oggi”

L’infermiere sospirò, grattandosi rassegnato la nuca.

“L’avevo intuito, dopo il racconto di Kinoshita. Cosa è venuto a fare? Dev’essersi trattato di qualcosa di urgente se si è presentato qui davanti a tutt...”

“Gli ho detto che fra noi sarebbe stato meglio chiuderla”

Suga sbatté le palpebre un paio di volte prima di spalancare confusamente gli occhi, spingendo dolcemente indietro il medico per poterne analizzare l’espressione.

“In che senso?”

“Sarebbe stato inutile continuare. Lui, quelli come me… li disprezza. Non ho bisogno di sentirlo sputare cattiverie sul mio conto. Non gli ho concesso nemmeno il tempo di parlare, non volevo sapere altro” spiegò duramente, fissando cocciutamente il linoleum azzurrino.

Koushi continuò a scrutare Hinata con sguardo interdetto.

Il viso fanciullesco gli aveva da sempre conferito un’aura di perenne giovinezza, ma in quel frangente il rosso assomigliava proprio a un bimbetto frustrato.

“E’ stato lui a farti capire di non volerti più frequentare?” domandò con circospezione, sondando cautamente il terreno.

Il medico aggrottò le sopracciglia.

“Non… non l’ho lasciato rispondere”

Decisamente disorientato, Koushi tentò di replicare, ma venne battuto sul tempo.

“Non volevo che… che mi dicesse quello che già so”

Il suo mormorio era instabile, gli occhi rivolti verso il pavimento velati da una patina trasparente.

“Non volevo che mi dicesse che sono uno smidollato, che lo disgusto per come mi comporto con i miei bambini, che non dovrei lavorare così, che…”

La sua voce aveva assunto la tonalità di uno stridulo acuto e il ritmo del suo respiro traballava.

“Che mi faccio coinvolgere troppo” bisbigliò abbandonandosi mestamente al suolo, accasciando il dorso sul muro drappeggiato di materassi attempati e materiale igienico.

Era un’impresa piuttosto impervia lasciare Koushi a corto di parole.

Conosceva sempre il metodo più opportuno per risollevare il morale, utilizzando termini e toni maggiormente adeguati per irrompere nel cuore di qualcuno.
Tuttavia, in quella fatidica occasione…

Non seppe proprio come replicare.

“Non voglio vedere l’espressione di disgusto sul suo volto, Suga-san” asserì il medico in tono risolutamente accorato.
“Non voglio che mi guardi in quel modo”

Trascorsero diversi minuti in cui nessuno dei due sanitari aprì bocca, attorniati da una quieta stasi ricolma di silenziosi rimuginii.
In un momento imprecisato di quello stato di mutismo l’infermiere raggiunse Hinata sul pavimento, sedendosi a gambe incrociate a pochi centimetri di distanza.

“Perché ne sei così sicuro, Shoyo?”

Il rosso sollevò il capo, squadrando l’amico con la fronte appena increspata.

“Come fai a sapere con esattezza che il suo giudizio nei tuoi confronti sia negativo?”

L’oncologo inclinò la testa.

“E’ ovvio, Suga-san. Lo so perché è la verità”

Koushi fu colto in contropiede da quella schietta dichiarazione.

Hinata abbozzò un sorriso triste all’espressione disorientata del collega.

“Sai, Suga-san… fin da quando l’ho incontrato, ho subito percepito in Kageyama una forza straordinaria” rivelò giocherellando con il bordo del camice, attorcigliandolo distrattamente attorno alle dita.
“Nonostante l'ovvio caratteraccio, sono rimasto affascinato da quell’uomo misterioso dal cuore di bambino, al cui interno però risiede una forza che io posso soltanto sognare. Una forza che mi è sempre mancata. Ma…”

Si morse il labbro inferiore, colto da un lieve tremolio.

“E’ una forza che mi spaventa”

Koushi non emise un fiato, incapace di interrompere quel fragile flusso di confessioni imprigionato sottovuoto da chissà quanto a lungo.

“Kageyama è tutto ciò che io non sono. Si comporta in maniera antitetica rispetto a me e mi ricorda costantemente che…”

Il respiro gli si spezzò pateticamente.

“Sbaglio”

Dalle estremità degli occhi nocciola di Hinata defluirono pigramente inattese lacrime salate, inarrestabili nella loro corsa verso la gravità.

“Sbaglio ad essere così attaccato ai miei bambini, sbaglio a riversare tutto me stesso in quello che faccio” singhiozzò, alzando il braccio e strofinando con veemenza la manica della veste sulle gote umide.

L’infermiere protese il torso verso il rosso, ponendo il palmo della mano sulla spalla febbricitante.

“Shoyo…”

“Non voglio sentire il suo giudizio spietato” decretò, contorcendo i pugni.
“Ho paura di quell’espressione feroce”

Suga invase lo spazio personale del più giovane, circondandogli con le braccia la schiena trepidante.

“Non voglio che… che Kageyama venga a conoscenza di ciò che ancora non… non sono pronto…”

Annaspò affannosamente, sprofondando la testa sul petto di Koushi.

“Ad affrontare” concluse in un sussurro, accanendosi ancora una volta a sprangare l’ormai cigolante e consunta porta arrugginita dentro cui aveva segregato tutte le sue più terribili e recondite fobie.

“Non sono pronto a reggere tutto questo”

Non fu necessario che aggiungesse null’altro.

Suga continuò ad accarezzare dolcemente i vaporosi capelli color carota ignorando l’inesorabile ticchettio dell’orologio, concedendo all’oncologo quel minuscolo sprazzo di libertà prima d’essere brutalmente riconnesso alla dura realtà.



 

Le luci dei quartieri perennemente insonni costellavano le strade e i marciapiedi di Tokyo con prepotente boriosità, erigendo sentieri e scie colorate sature di voci squillanti e risate spensierate che si affollavano concitatamente nella sera autunnale.

Di quel tripudio di ostentati eccessi, Tobio sembrava scorgere esclusivamente un cupo tunnel senza volto.

Non aveva coscienza di dove si stesse recando, o per lo meno da quanto stesse camminando.

I suoi piedi si spostavano meccanicamente in avanti, slegati dagli incuranti e distratti processi cognitivi, apparentemente focalizzati su tutt’altra faccenda.

Una bruciante emozione, malauguratamente ben nota, gli irradiava capillarmente i neuroni.

Furia.

Non v’era una fibra del suo essere che non stesse ribollendo come magma incandescente.

Era incazzato nero con quel fottuto ospedale.
Con quel fottuto medico.
Con… se stesso.

Non poteva credere di non aver posseduto la prontezza di afferrare quel maledetto rosso dai quei dannati capelli morbidi per costringerlo a parlare, a confessare cosa cazzo intendesse con quelle cazzo di idiozie.
Avrebbe dovuto schiaffeggiarsi irrefrenabilmente per la pateticità incarnata su quella fottuta scala d’emergenza.

Lui, Kageyama Tobio, impalato come un rimbambito a contemplare Hinata sfrecciare via fulmineo fino a dileguarsi dalla sua visuale.

Non era nemmeno in grado di conteggiare il momento esatto in cui le sue gambe avessero deliberato di squarciare l’immobilità per precipitarsi nella medesima direzione dell’oncologo, solo per trovarsi penosamente dinanzi un androne desolato.
Tuttavia ciò che più lo inferociva era che, in barba al suo inflessibile orgoglio, aveva anche provato a braccarlo, addentrandosi fra quei labirintici corridoi ed elemosinando persino informazioni da un dipendente con i capelli biondi, la cui unica replica era stata un acido riferimento a quanto non fosse mica il babysitter di Hinata e non potesse sapere dove quello scricciolo si fosse rintanato e di come, sinceramente parlando, non gliene fregasse un bel niente.
Se non fosse stato talmente concentrato a scovare quel medico avrebbe volentieri spaccato gli occhiali sul naso a quell’odioso bastardo.

Ancora non si capacitava di aver resistito per più di mezzora prima di mandare tutto a fanculo, recuperando la scarsa dignità rimastagli in corpo e trascinandosi fuori da quel diabolico ospedale che, da quando si era azzardato a mettervi piede per la prima volta, gli aveva causato solo incresciosi guai.

Le sue gambe si arrestarono dinanzi a un semaforo pedonale, ignare della loro ipotetica futura direzione.

Temeva che la testa potesse esplodergli da un secondo all’altro.
Non riteneva umanamente possibile accumulare una così titanica quantità di informazioni in poco meno di quattro ore.  

Sembravano trascorse settimane da quando era schizzato fuori dal Kitagawa Daiichi, furente e con la brama di sgretolare il cuore di Hinata a mani nude.
Quella rabbia invasata che l’aveva spinto fino al Karasuno non si era però ovviamente dileguata.
Semmai si era lievemente affievolita, rimpiazzata da un prepotente senso di stordimento nei confronti di un grattacapo ben più ingente.

Hinata Shoyo.

Chi era davvero, quel ragazzo?

Dopo quell’allucinante pomeriggio, ogni certezza di Tobio era stata insensibilmente sradicata.

Non pretendeva di conoscerne ogni minuzia, però era convinto di averlo cospicuamente inquadrato in seguito alle svariate settimane di conoscenza.

Ma come l’aveva catalogato, esattamente?

Come un essere debole, no?

Nonostante l’ormai manifesto interesse, non era mai riuscito a domare il suo accanimento che lo reputava impietosamente tale.
La connaturata rigidità che non gli aveva ancora permesso di comprendere l’agognata ragione per cui Hinata lo intrigasse a tal punto.
Quella viscerale inflessibilità che gli aveva precluso la possibilità di scoprire chi davvero si celasse dietro l’ombra del medico.  
Una fittizia comprensione che quel giorno era stata grossolanamente ribaltata, forzandolo a visionare azioni e pensieri dell’oncologo da una prospettiva interamente antitetica.  

Lo scricciolo rosso…

Si era tramutato in un mistero.

Un enigma… che aveva perduto l’abbagliante luminosità consuetamente sprigionata.

Un’incognita…


“Fai finta di non avermi mai conosciuto, okay? Consideralo solo come uno spiacevole incidente di percorso. Non dovrebbe essere difficile”


Lacerante.

Quelle parole…
Quelle frasi corrosive, dall’effetto simile all’acido…

Un inspiegabile sentore di panico provocò il febbrile tremito dei suoi arti e un moto di nausea minacciò di rigurgitare lo stomaco su per la gola.

Una sensazione agghiacciante… che non aveva mai avvertito prima d’ora.
Un turbamento sconosciuto, dissimile dai familiari effetti della rabbia che gli imperniava le sinapsi in modo quasi confortante.

L’atroce emozione che si rimpinzava ingordamente del suo cuore…

Era dolore…?


“Sto dicendo che sarebbe opportuno chiuderla qui”


Era stato… rifiutato.

Prendere coscienza del granitico rigetto di Hinata… gli suscitò un senso di disperazione completamente alieno.

Non sapeva reagirvi.

Non era in grado di dominare quell’acuto sgomento che lo trainava irruentemente verso le abissali profondità del suo subconscio, spaventosa terra inesplorata in cui il suo controllo vacillava, indifeso dal flusso di oscure verità inumate, che…


“Continua così e, prima che tu possa renderti anche solo conto di quel che hai combinato, prima che tu possa porre rimedio… ti ritroverai solo. Completamente, inevitabilmente… solo”


Gli scagliarono addosso la tremenda consapevolezza di non essere capace di tessere alcun rapporto umano.

Tobio avvertì la rivoltante presenza di un’enorme e orripilante squarcio ovale in prossimità del petto.

Un vuoto… impossibile da colmare.

Simbolo di un’emarginazione eterna, una solitudine maledetta.

Esattamente come riportavano le profetiche e lapidarie parole di Kunimi.

Tobio era…

Assolutamente incapace di costruire nulla.

Sebbene si fosse battuto per mutare la rotta maestra intrapresa dalla sua psiche…


“Tanto non saresti cambiato comunque!”
 

La sua natura sarebbe costantemente rimasta invariata.

Non sapeva neppure perché si fosse scomodato a sperare in un provvidenziale cambiamento.
Ragionevolmente, era ovvio che ogni tentativo si sarebbe concluso in un fallimento.

Eppure…

Si sentiva comunque scottato, vulnerabile.

Quell’irremovibile rigetto…

Faceva male.

Faceva male, cazzo.

Il respiro incrinato di Tobio lo affiancò per diversi metri, simulando il barcollio dei suoi stessi passi.

Erano davvero quelle, le emozioni?

Concedere alla propria anima uno spiraglio di umanità significava ricevere in cambio quell’ondata di tormento?
Provare a comportarsi da essere umano… equivaleva a soffrire come un cane?!

Era quello il significato racchiuso nel pensiero di Hinata?
Sfoggiare fieramente i propri sentimenti, esternarli senza freni… per poi struggersi?!

Ma che senso aveva?

Quel medico non possedeva un istinto di autoconservazione?

Perché desiderava volontariamente ridursi a uno straccio per qualcun altro?

Ma specialmente…

Perché aveva arbitrariamente decretato di escluderlo dalla propria vita?!

Credeva che non potesse comprenderlo?
Credeva che non gli importasse più nulla di lui?

Perché gli aveva rivolto quelle cattiverie gratuite?
Perché lo aveva trattato come se il tempo trascorso assieme fosse stato sterile?

Come se fosse stato realmente vantaggioso... interrompere ogni rapporto?

Si bloccò bruscamente, evitando per un soffio l’impatto contro un palo della luce posizionato a pochi centimetri dal suo naso.

Troncare i contatti… avrebbe davvero giovato a entrambi?


“Mi hai ferito, Kageyama. Mi hai davvero ferito e… ho paura che mi ferirai molte, molte altre volte”


Possibile che non si fosse accorto di aver nuovamente agito in maniera errata?

Il medico l’aveva respinto… poiché continuava a identificarlo come una minaccia?  

Se vi rifletteva accuratamente, in effetti…

L’espressione di Hinata aveva tradito una profonda paura radicata nei suoi occhi, un terrore…
Dovuto alla sua reazione?

Lo scricciolo rosso…

Era spaventato dal legale…?

I suoi polpacci si arrestarono temporaneamente nel loro effimero vagabondare, ancorandosi al marciapiede gremito di risonanti calpestii.


“So come sei fatto e so che avresti provato repulsione per uno come me!”


Hinata era convinto che sarebbe stato lui a respingerlo non appena lo avesse smascherato?

Nonostante morisse dalla voglia di contraddire lo stupido oncologo, Tobio non poté interamente biasimarlo.

Quell’argomentazione… aveva basi piuttosto fondate.

Hinata aveva imparato bene a decifrarlo ed era cosciente dei processi mentali che governavano la sua rigorosa personalità.
Giungere a una conclusione talmente estrema non richiedeva certamente un notevole ingegno.

Cionondimeno, alla luce della nuova e inaspettata svolta degli eventi…

Quale sarebbe stato il genuino responso di Tobio?

Hinata gli aveva precluso la possibilità di esprimersi, ma se ne avesse avuto l’opportunità…

Lo avrebbe ancora reputato debole?

La sconveniente prospettiva da cui il medico operava sulla realtà…

L’avrebbe effettivamente giudicata ridicola?

Valutando le ripercussioni verificatesi nel pomeriggio allo studio legale, l’esito era chiaramente rovinoso.

Però…

Però niente.

Fu questione di meri millisecondi.

Una massiccia museruola strappò bruscamente la libertà d’espressione al suo fragile inconscio, avvolgendolo in gravose catene metalliche e scaraventandolo nuovamente negli anfratti del suo cervello, ben distante dal nucleo portante del raziocinio.
Gli acuminati meccanismi di difesa avevano finalmente ripreso possesso della sua mente, reinstaurandovi il consueto regime dittatoriale.

Hinata l’aveva respinto, no?
Era futile sperperare il proprio tempo scervellandosi su una condizione destinata a non vedere la luce.

Alla fine, che cosa aveva seriamente rappresentato il medico per lui?

Un semplice passatempo.
Una banale deviazione dalla sua sistematica esistenza perfezionista e solitaria.

Non aveva lasciato alcun segno.
Non doveva aver lasciato alcun segno.

Lo scricciolo rosso avrebbe dovuto costituire d’ora in avanti la prova vivente della sua ineccepibile autonomia.

Tobio non necessitava della presenza di nessuno.

Le profetiche parole di Kunimi erano state autentiche, schiette.
Doveva accettarle e accoglierle, non osteggiarle aspramente come se rappresentassero una sgradevole falsità.

Il suo destino avrebbe incarnato esattamente quella condotta.

Rimanere solo.

E andava benissimo così.

La solitudine lo aveva scortato in ogni istante della vita, no?

Del resto…
Hinata non lo voleva.

Si ostinò ad ignorare le lancinanti fitte che tentavano convulsamente di richiamare la sua attenzione, comprimendogli caparbiamente il petto.

Non era più importante, ormai.

Il lemma indispensabile non rientrava nel suo vocabolario.

Nessun essere umano sarebbe mai appartenuto a quella conturbante categoria.

Dipendere da qualcuno, esserne legato fino a perdere la propria indipendenza…

La sola idea lo ripugnava e terrorizzava simultaneamente.

I forti non necessitano dell’aiuto di nessuno.

Oikawa-san non aveva mai avuto bisogno del supporto di nessuno.

Circondato puramente dalla propria forza di volontà, capace di erigere con sudore e sangue una carriera dal nulla più assoluto…

Senza anima viva a spalleggiarlo, no?

Accelerò il passo, seguendo istintivamente il ritmo delle irrequiete pulsazioni che si dilatavano ossessivamente fino ai timpani.

Oikawa-san svettava costantemente a un passo avanti a lui.

Se davvero desiderava eguagliarlo, oltrepassarlo, giungere alla magnifica vetta del massimo successo…
Doveva impegnarsi di più.

Di più.

Di più, di più, di più…

Cercò strenuamente di aggrapparsi con le unghie e con i denti a quel fragile filo di ragnatela dalle fattezze del Grande Re, unico collegamento superstite alla ferrea logica che lo reprimeva dal perdere definitivamente la testa.

Non v’era alcuna ragione di agitarsi.
Tutto proseguiva secondo i piani prestabiliti.

Non avvertiva alcun dolore.

Le putrescenti lacerazioni sul torace costituivano un mero frutto della sua immaginazione.
Non era preda di tormenti alieni e quesiti molesti.
Gli intimi problemi dell’oncologo non erano affar suo.
Il rigetto del rosso… lo aveva lasciato indifferente.

Non aveva perduto niente di essenziale.

Hinata non aveva mai simboleggiato nulla di essenziale.

Ciò a cui aveva involontariamente assistito quel pomeriggio…

Era irrilevante.

Doveva solo cancellare gli ultimi accadimenti come se non fossero affatto sopraggiunti, attuando un reset generale al pari di un eccellente apparecchio elettronico.

Necessitava semplicemente di una bella dormita.

Ecco, esatto.

Doveva ritornare al suo appartamento e riposare, sprangando irrevocabilmente quell’assurdo medico nei più reconditi meandri della sua memoria, incidendovi, una volta per tutte…

La parola fine.

Raddrizzò la schiena, ripristinando una sorta di equilibrio nei passi malfermi e dirigendosi finalmente su una traiettoria familiare, affrettandosi lievemente quando le prime goccioline di una pioggerella passeggera iniziarono a picchiettargli sulle spalle del cappotto scuro…

Totalmente ignaro che, alle sue spalle, una copiosa scia scarlatta e viscosa infangasse oscenamente le mattonelle biancastre, lucide di acqua piovana.

Un flusso sanguigno…

Scaturito esattamente dal centro del suo corpo.

Testimonianza tangibile e inconfutabile di come qualcosa, tra i suoi magistrali ingranaggi e inappuntabili difese…


Si fosse inevitabilmente spezzato per sempre.  












Note finali: cari lettori e care lettrici, eccomi di nuovo qui!
Ovviamente ad agosto me la sono presa comoda e in un battibaleno è giunta la nuova sessione (e gli stress che essa comporta), ma fortunatamente ciò non ha (esageratamente) influito sui tempi di stesura del capitolo!
Nonostante questo, tuttavia, mi è dispiaciuto tanto non aver potuto aggiornare esattamente il 29 settembre, l’esame che stavo preparando sarebbe stato proprio il giorno dopo😔
Perché ci tenevo così tanto?
Beh, perché il 29 settembre 2017 ho pubblicato il primo capitolo di “I discovered the Sun” senza alcuna cognizione di causa e non mi sembra vero che siano passati tre anni da quel momento.
Esattamente tre anni fa infatti mi immatricolavo per la prima volta ed entravo nel mondo universitario… mentre adesso inizio questo nuovo anno accademico con l’obiettivo di laurearmi (si spera non in tempi biblici come i miei aggiornamenti).
Magari sarebbe stato meglio fare un discorso del genere al termine della storia e riuscire a pubblicare l’ultimo capitolo in concomitanza con questa data importante, ma dato che sono una lumaca il progetto è sfumato sul nascere🤣
Ci tenevo a spendere due paroline in merito perché così come il 2017 e il 2020 sono un po’ l’inizio e la (quasi) fine di un percorso di studio, lo stesso si potrebbe dire di questa storia.
L’ho sempre considerata come un’opera malleabile, mai statica nel suo decorso, soprattutto perché con lei sono cresciuta anche io, le mie idee e i concetti che con essa avrei voluto trasmettere.
Insomma, ci siamo evolute entrambe.
E’ quasi inquietante notare che i passetti residui per raggiungere il suo traguardo siano simili ai miei per giungere alla laurea, magari riuscirò a concludere il progetto simultaneamente al giorno fatidico🤣
Scherzetti a parte, manca davvero poco al termine della storia.
Oltre a un bell’epilogo… credo manchi solo un altro capitolo😦
Anche se in realtà tutto dipenderà dalla lunghezza, non so se me la sento di scrivere (e correggere, mamma mia le revisioni, che incubo) millemila parole tutte in un solo colpo…
Devo rifletterci🤔
Ah, e a prescindere dal residuo numero di capitoli… nel prossimo farà finalmente la sua comparsa un personaggio speciale che molti di voi (me compresa) aspettavano da un po’😋

Che dire di più?
Dopo uno speciale focus su Tobio era necessario svelare un po’ dei retroscena di Shoyo…
E sottolineare come anche la persona più solare e luminosa del mondo, in realtà, non è costituta soltanto da luce.
Spero di aver reso giustizia al reparto di oncologia pediatrica, che per me è una fra le fondamenta della trama.
Volevo creare un ambiente giocoso e drammatico al tempo stesso, un luogo in cui l’impronta di Hinata sarebbe stata riconoscibile al primo sguardo.
Sarei contentissima di ascoltare le vostre opinioni e pareri a riguardo!

Ringrazio come sempre tutte le splendide persone che spendono il proprio tempo per leggere e scrivere un commento alla storia, a tutti voi mando un bacio enorme♥️

Sperando che questi mesi non mi uccidano prima del previsto, vi aspetto alla prossima🌸

Ps. In realtà a me farebbe davvero piacere avvisarvi sulle condizioni dei nuovi aggiornamenti, però non posseggo una pagina autore da nessuna parte… non uso né Fb (oltre che per l’uni) né Twitter, ho praticamente solo Instagram.
Consigli?🤣

   
 
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