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Autore: NPC_Stories    10/10/2020    4 recensioni
L'anno scorso ho fatto l'inktober con Erika, quest'anno lei ha trovato questo fantastico promptober chiaramente a tema drow.
Non so se riuscirò a scrivere tutti i giorni, probabilmente saranno storie brevissime, non so se ci saranno dei disegni, ma so che i prompt sono troppo belli e cercherò di tirarne fuori qualcosa, probabilmente missing moments di altre mie storie.
Genere: Dark, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Forgotten stories of the Forgotten Realms'
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10. Chapel


1367 DR, città di Memnon

“Non posso pagare” l’uomo fissò il chierico con sguardo implorante. “Vi prego, sto morendo. Farò qualunque cosa!”
Il sacerdote trasse un profondo sospiro. Non era tagliato per quel lavoro, non per come era strutturato nella città di Memnon. Lui avrebbe aiutato quest’uomo, potendo li avrebbe aiutati tutti.
“La Dea richiede delle offerte, non dei pagamenti” rispose secco il suo collega, un prete più anziano e con più pelo sullo stomaco - o forse semplicemente con meno empatia. “Se la tua salute per te ha valore, dimostralo. Apri il tuo borsellino e offri quello che puoi al tempio.”
Fratello Furaij assistette con un misto di disagio e dispiacere alla profonda umiliazione dell’uomo che dovette aprire il suo misero borsello e mostrare poche monete di rame e una d’argento. Il prete allungò la mano e l’uomo con estrema riluttanza gli donò la moneta più preziosa.
“Pregheremo per te” assicurò il prete, riponendo la moneta al sicuro in uno scrigno di metallo intarsiato di madreperla. Furaij pensò fra sé e sé che quello scrigno valeva molto più del suo contenuto, forse più dell’intero quartiere di baracche in cui viveva quel malato.
Il supplicante rimase inginocchiato ancora un momento, come se fosse in attesa di qualcosa, poi capì che non avrebbe ottenuto null’altro.
Abbassò la testa, prese un profondo respiro, e quando la rialzò i suoi occhi erano velati di lacrime. Che fossero di disperazione, di frustrazione o di rabbia, il giovane chierico non avrebbe saputo dirlo.
L’uomo venne congedato con un gesto brusco del suo superiore.
Mentre usciva, il sacerdote anziano si voltò verso il suo collega neofita.
“Non guardarlo in quel modo. Non starebbe male se non si bevesse tutti i soldi in qualche bettola. Anche solo togliendogli quella moneta e ponendola a migliore uso, gli stiamo facendo un favore.”
A migliore uso, pensò Furaij un po’ scoraggiato.
“Hai ragione, fratello Haseid, ma nei bassifondi l’acqua pulita è più rara dell’alcol, e molto più costosa.”
Il chierico più anziano gli scoccò un’occhiataccia a quell’obiezione, ma non disse nulla. Si limitò a far cenno al servitore che stazionava alla porta, indicandogli di far entrare il prossimo questuante.
A migliore uso, si ripetè Furaij, cercando di estraniarsi il più possibile da quello che stava succedendo. La fila di poveri fuori dalla porta sembrava infinita e lui non aveva la forza morale di ascoltare ogni supplica e ogni cinica risposta. Il mio salario viene dalle casse del tempio, quindi posso rendermi parte attiva di questo migliore uso…?

Quella sera, fratello Furaij andò a pregare nella cappella pubblica, nella parte più esterna del tempio. Era il luogo in cui si recavano i cittadini comuni, i poveri. La maggior parte dei chierici preferiva pregare nel tempio principale, una struttura maestosa che veniva aperta al pubblico solo per le grandi occasioni, o in altre cappelle più private. I sacerdoti di rango più alto avevano simili luoghi di raccoglimento - sfarzosi come e più che nel resto del tempio - direttamente confinanti con le loro stanze. Lui scelse di recarsi lì, in quel luogo leggermente meno sfarzoso ma comunque ricco di decorazioni d’argento e d’oro, perché bisognava impressionare le masse con la grandezza della Dea. Eppure il suo sguardo non si soffermò su quelle bellezze terrene, ma si alzò a fissare il buco circolare nel tetto che lasciava entrare la luce della luna. Quella notte era quasi piena, e suo malgrado Furaij si trovò a riflettere a lungo, più che pregare. La luna gli sembrava così lontana.
Se ne andò ore dopo, senza alcuna risposta. La Dea era silente, o forse non parlava ai semplici accoliti come lui.

Qualche sera dopo, con passo più sicuro, il giovane chierico tornò nella cappella. Svolgere il servizio di preghiera in quella saletta aperta al pubblico era un compito poco ambito, relegato ai nuovi arrivati. Furaij fece una sorpresa molto gradita al suo giovane confratello Khalid quando si offrì di sostituirlo nei suoi doveri.
Quella notte Fratello Furaij fece un discorso incoraggiante, accogliente, sul ruolo di Selûne nel prestare aiuto e conforto a chi si trovava in difficoltà sotto la luce della luna. Non era ancora capace di raggiungere la Dea con la sua coscienza o con la sua fede e chiederle di infondergli la sua magia, non poteva guarire i malati e nemmeno creare acqua dal nulla per gli assetati, ma aveva comprato di tasca sua un barile d’acqua fresca e l’aveva usato per farne un infuso nutriente, che distribuì ai poveri con la benedizione di Selûne. Molte di quelle persone non avevano la possibilità di procurarsi della frutta o spezie, i più mangiavano pane e verdura mezza marcia, quella che non si poteva portare al mercato, e bevevano vino di infima qualità che faceva più male che bene.
Furaij cercò di placare la loro sete e di dar loro qualche nutrimento, ma più importante ancora, prestò davvero orecchio alla gente comune e ai suoi problemi. A volte sentirsi ascoltati e considerati poteva essere utile quasi quanto trovare una soluzione, e il giovane lo sapeva bene perché i suoi superiori non lo ascoltavano mai. Non poteva riproporre quel modello sbagliato. I suoi fratelli neofiti stavano iniziando a farlo, riservando ai contadini e ai mendicanti lo stesso sdegno che gli alti chierici riservavano a loro. Furaij ricordava che anche loro avevano buone intenzioni, all’inizio, quando avevano iniziato l’addestramento al sacerdozio insieme a lui. Che ne era stato di quelle buone intenzioni?

“Mia figlia ha una malattia della pelle, ma non so cosa…”
“Mio marito sta perdendo la vista da un occhio”
“I miei figli hanno fame e non so cosa fare”
“Mia moglie ha dovuto darsi a uno di voialtri perché era malata, ma poi è morta comunque”
“I campi quest’anno danno pochi frutti, per noi non resterà niente"

Furaij ascoltò. Si prese carico di quelle lamentazioni, delle domande, del sospetto, delle parole di odio e rancore. Non poteva offrire soluzioni, lui era un uomo solo, ma si impose almeno di restare lì e ascoltarli tutti, finché anche l’ultimo poveraccio fosse uscito dalle porte di legno e argento, sparendo nella notte.
Poi sprangò l’uscio, tornò al centro della cappella dove c’era l’altare proprio sotto al buco nel tetto, e pregò. Questa volta riuscì a pregare davvero. Si rivolse alla Dea e le chiese di benedire i suoi fedeli, i loro campi, le chiese di alleviare le loro pene e le malattie. Aveva un po’ la sensazione che quelle parole cadessero nel nulla, eppure sapeva che Selûne era reale, tutti lo sapevano. Le parlò a cuore aperto, chiedendole quale fosse il ruolo sociale di preti come lui, a che cosa serviva che se ne stessero asserragliati in un tempio dorato, in una città dove i poveri morivano di stenti.
“Perché, Selûne?” Domandò con voce spezzata, fissando la luna che stava per scomparire oltre il bordo del foro nel tetto. “Perché permetti tutto questo? Perché i miei superiori non compiono qualche miracolo per la gente? O forse… non possono? Forse tu hai ritirato la tua benedizione già da tempo, e questo luogo non è che un guscio vuoto? Forse tenere le distanze dalla gente serve a non far capire quanto siamo inutili?” Fratello Furaij era stanco, anzi esausto, nel corpo e nell’anima. Aveva ascoltato così tante storie miserabili, e dall’altra parte c’era un muro di disinteresse e silenzio. Da parte dei suoi superiori, da parte della Dea.
“Maledizione, dimmelo!” Sbottò, gridando verso il cielo. “Devi dirmelo! A che cosa diavolo servo in questo mondo?! Tu te ne stai lì, silenziosa e noncurante, a guardare la gente che soffre e… cosa dicono i miti? Che porti sollievo al popolo! Sono forse menzogne?” La sua voce risuonava roca, aliena, gli tornava indietro distorta a causa dell’eco. Questo acuiva la sensazione di essere completamente solo.
Furaij gridò fino a che cadde a terra, spossato, senza voce. I suoi occhi erano velati di lacrime e si portò le mani al viso, per asciugarsi le guance.
Per poco non soffocò.
Allontanò le mani dal volto, che ora era bagnato come se l’avesse appena immerso in un secchio. Anche le sue mani erano bagnate. Le lacrime da sole non potevano aver creato tanta acqua. Provò di nuovo a portarsi i palmi al volto, ma bastò unire le mani a coppa perché si ripetesse il miracolo: fra le sue mani si era appena materializzata dell’acqua. Furaij le separò bruscamente e l’acqua cadde a terra bagnando gli splendidi marmi del pavimento.
“Ma cosa…” sussurrò, meravigliato. Ripeté l’esperimento. Una, due, tre volte. Stava continuando a succedere. Immancabilmente, ogni volta che metteva le mani a coppa, cominciava a formarsi acqua fresca e limpida che sembrava apparire dal nulla. E non solo quel tanto che bastava per riempirgli le mani, no: quando il processo veniva innescato, continuava a far sgorgare il prezioso liquido fino a farlo ruscellare per terra. Furaij corse alla porta esterna e si caracollò sul cortile davanti al tempio, perché non voleva inondare la cappella. Provò di nuovo a unire le mani a coppa. L’acqua iniziò a sgorgare subito, e in effetti non si fermava. La terra arida beveva avidamente, quindi non era facile stabilire quanta acqua stesse producendo, ma così a spanne gli sembrava… troppa. Non era come un normale incantesimo, lui aveva studiato che creare acqua con la magia era possibile (be’, per i chierici esperti, non per lui), ma quel sortilegio doveva essere svolto volontariamente e aveva dei limiti. Non si poteva creare più di qualche gallone d’acqua. Furaij invece aveva ormai la tunica fradicia e le scarpe inzaccherate, e stava creando una grande macchia di terreno umido sotto di sé.
Chiuse di scatto le mani a pugno, interrompendo il miracolo. Una folata di aria gelida lo riportò alla realtà, ricordandogli che di notte il clima del Calimshan non era così clemente. Erano troppo vicini al deserto.
Sollevò il viso cercando la luna in cielo, perplesso. Aveva avuto un chiarissimo segno dell’esistenza della Dea, del fatto che lo stesse ascoltando. Ma cosa voleva dire quello stranissimo fenomeno? Era una punizione o una benedizione?
O entrambe le cose?
Se la sua condizione fosse perdurata, avrebbe potuto irrigare personalmente i campi secchi che stavano morendo sotto il sole torrido della primavera. Per contro, non aveva alcun controllo su quel potere e avrebbe dovuto stare sempre attento alla posizione delle sue mani.
Forse era davvero sia un dono che una maledizione, e non c’era modo di dire se sarebbe durato per sempre o per poche ore.
Furaij riuscì alla fine a trovare la luna in cielo. Stava calando dietro alla cupola a bulbo di una delle torrette del tempio. Da quella angolazione, sembrava quasi un sorriso sghembo.



********************
Nota orientativa: questa storia non è legata alle mie altre storie. Per la descrizione del tempio di Selûne mi sono basata sul romanzo di R. A. Salvatore "La strada del patriarca", i cui eventi avranno luogo l'anno seguente rispetto a questa storia.
   
 
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