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Autore: Adeia Di Elferas    13/10/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Era passata poco più di una settimana, da quando il fulmine aveva colpito e risparmiato il papa, eppure le voci che riguardavano la sua presunta morte erano ancora più che vive. A tal proposito, Rodrigo aveva ben pensato di convocare con urgenza l'ambasciatore di Venezia, affinché si decidesse, una volta e per tutte, a inviare una smentita ufficiale alla Repubblica, in modo che il Doge sapesse che il pontefice era vivo, anzi ben vivo come ci teneva a sottolineare lui stesso.

Così, convocato il diplomatico, Alessandro VII aveva fatto in modo di avere al suo fianco all'udienza, oltre a Cesare, anche Lucrecia, Joffré, Sancha e una sua favorita. Voleva dare l'idea di avere una famiglia unita, e di essere beneamato da tutti quelli che lo circondavano.

Il colloquio, però, aveva fin da subito preso una strana piega. Se da un lato il Santo Padre pregava l'ambasciatore di riferire a Barbarigo della sua ottima salute, e raccomandava alla Serenissima suo figlio Cesare, dall'altro lato Polo Capello manteneva un atteggiamento algido e sospettoso, che culminò con un'esclamazione secca dopo nemmeno dieci minuti di discorso papale.

“Raccomandate vostro figlio alla Repubblica – disse l'uomo, incrociando le braccia sul petto e guardando il pontefice di striscio, incurante di ogni doverosa etichetta – quando voi avevate promesso alla Repubblica dieci galee per combattere i turchi e un cappello cardinalizio ad Astorre Manfredi!”

Rodrigo si morse l'interno della guancia e occhieggiò un solo istante verso i suoi figli. Né Lucrecia né Joffré avevano cambiato espressione. Solo Sancha si era permessa uno sguardo interrogativo alla volta del Borja. Solo Cesare – che, per altro, era stato quello che aveva insistito affinché quel colloquio avesse luogo – dimostrò un chiaro interesse per quelle parole.

Polo aveva fatto riferimento a una mezza promessa fatta dal papa in maggio. Siccome in quel periodo – come, in realtà, sembrava stesse accadendo anche in luglio – Venezia era parsa troppo desiderosa di correre in soccorso di Faenza, oltre che di Rimini e Pesaro, il Santo Padre aveva avanzato la proposta di dare dieci galee alla Serenissima, e di concedere un Cardinalato al Manfredi, in modo da accontentare tutti e scongiurare un conflitto con la Repubblica. Di fatto, però, anche se il Doge aveva ridimensionato le sue mire protezioniste, Rodrigo non aveva invece mosso un dito per ottemperare alle proprie promesse.

“Se io non ho ancora fatto quanto detto – fece il Borja, gonfiando imperioso il petto – è perché la Repubblica si ostina a non far quello che deve! Anzi, da quello che ho sentito, il Doge è a un passo dal mandare rinforzi a Faenza e Rimini per proteggere le due città da mio figlio! Non dovrei forse sentirmene quanto meno offeso? Altro che darvi delle galee..!”

Mentre Capello si affrettava a spiegare il come e il perché il papa avesse avuto solo un'impressione ingannevole, Cesare ragionava in fretta. L'incontro non stava andando come aveva sperato: suo padre, invece di blandire e rabbonire il portavoce della Serenissima stava finendo per litigarci come mai aveva fatto prima. A quel punto, invece dell'appoggio del Doge, avrebbero avuto presto i suoi soldati in marcia contro i loro nuovi possedimenti in Romagna. Con quello che gli era costata la campagna di Imola e Forlì, non poteva permettere che le bizze di un vecchio rovinassero tutto così facilmente.

Per fortuna, proprio quando il Valentino stava per intervenire e smorzare gli animi, il Santo Padre e l'ambasciatore veneziano sembrarono ritrovare una certa tranquillità, e, anche se non si lasciarono con degli accordi precisi, si prepararono a congedarsi in modo amichevole.

“Vi accompagneremo fino all'anticamera.” decretò il pontefice, facendo anche segno ai figli, a Sancha e alla sua favorita, di seguirlo attraverso gli appartamenti papali, quasi a voler fornire un piccolo corteo a Polo Capello.

Se per il primo tratto Rodrigo si mantenne quasi accanto al veneziano, già a metà tragitto il suo passo lungo distanziò l'uomo del Doge e così il Duca volle cogliere quell'ultima occasione per giocarsi il favore della Serenissima. Non gli importava se quello che stava per dire lo ripugnava e lo spaventava in egual misura: l'importante era convincere della sua sincerità quei mangiagatti che comandavano il nord est d'Italia.

Così, con fare signorile, sforzandosi di apparire molto più sicuro di sé di quanto non fosse, Cesare fermò Polo, posandogli un attimo la mano sull'avambraccio. Occhieggiando in modo volutamente circospetto verso i fratelli e Sancha, che stavano a pochi passi dietro di loro, il giovane si chinò un po' verso l'ambasciatore, che si accigliò, molto sorpreso da quell'avvicinamento improvviso.

“Ambasciatore – mormorò il Valentino, quasi sfiorando l'orecchio di Capello – ho veduto il pericolo che ho corso: non voglio più dipendere dalla sorte e dal volere del papa. Ho deciso di darmi tutto alla Signoria di Venezia.”

Il diplomatico, cogliendo l'allusione al fulmine che aveva quasi ucciso Rodrigo Borja, fece un breve sorriso, e, fingendo di voler ricambiare la confidenza che il Duca di Valentinois gli aveva offerto, ribatté: “Mettere le proprie cose sotto la protezione della Repubblica è una buonissima idea...” ma poi aggiunse, quasi subito: “Senza il papa, non ve n'è per quattro giorni dei fatti vostri.”

Per Cesare quella frase fu come un pugno in pieno viso. Restò senza parole, indietreggiò di mezzo passo e guardò con gli occhi sgranati Polo.

Questi, con un sorriso che avrebbe dovuto apparire molto affabile, ma che invece agli occhi del Borja sembrava solo una minaccia, si congedò con un freddo: “Passate una buona giornata, Duca.”

Il figlio del papa non trovò nemmeno il fiato per ricambiare il saluto. Si limitò a fermarsi, mentre tutti gli altri andavano avanti, verso l'anticamera. Più si allontanavo, più a Cesare sembravano essere inutili. Tutti, a partire da suo padre, che con la sua grande schiena, da quella prospettiva, era più simile al simulacro di qualche antica divinità, che non al sovrano dello Stato più influente del mondo.

L'unica, tra tutti, che si era presa almeno il disturbo di voltarsi un attimo per vedere se il fratello li stesse seguendo o meno, era stata Lucrecia. I suoi occhi, timorosi, avevano cercato quelli ancora spersi del Valentino, ma, quando li avevano incontrati, avevano subito puntato altrove.

Tanto era bastato, però, al Duca per riscuotersi e ricominciare a camminare. Sapeva che Capello aveva ragione: senza suo padre, la sua fortuna sarebbe durata meno di un battito di ciglia. Era fondamentale rafforzare il suo dominio in centro Italia. L'incidente occorso al papa solo una settimana addietro gli aveva fatto capire come non mai quanto la sua fortuna fosse appesa a un filo.

Ma a chi poteva appoggiarsi? Con Venezia era già molto non arrivare a una guerra, figurarsi a un'amicizia vera, mentre la Francia si stava facendo sempre più distante...

Ormai il piccolo corteo aveva già raggiunto l'anticamera e l'ambasciatore era stato congedato. Il Valentino, le mani allacciate dietro la schiena e il volto scuro, non si era quasi accorto che ormai anche Joffré e Sancha si erano allontanati, così come la favorita del pontefice. Lo stesso Alessandro VI si era dileguato all'istante, richiamato a chissà quali impegni improrogabili.

Restava solo Lucrecia.

Cesare le si avvicinò e, un po' per trovare una scusa per parlarle e un po' perché davvero quell'argomento lo tormentava, le chiese: “Lo sai che tuo marito, adesso, potrebbe diventare un problema?”

“Che intendi dire?” chiese la ragazza, deglutendo e tenendo lo sguardo basso.

“Lui è un Aragona. Re Luigi vuole le terre degli Aragona, e noi lo appoggeremo, come abbiamo fatto in Romagna.” spiegò il Valentino, gonfiando appena il petto: “Lo sai, vero, che sono stato in guerra, rischiando la vita, per aiutare la Francia nel suo nobile intento?”

“Da quello che mi dicono – ebbe il coraggio di dire Lucrecia, che sperava che suo marito arrivasse a prenderla in fretta, come le aveva promesso di fare – in Romagna hai combattuto ben poco, e la donna che ora tieni prigioniera stava per avere la meglio su di te.”

“Da che parte stai?” ribatté Cesare, fissandola come se non la riconoscesse: “Sei mia sorella, abbiamo lo stesso sangue, eppure da quando hai sposato quel maledetto Alfonso sembra che...”

“Perdonami! Sono stato intrattenuto contro la mia volontà, e sono riuscito a liberarmi solo ora...” la voce dell'Aragona arrivò sgraditissima all'orecchio del Duca di Valentinois, che, infatti, si voltò verso il giovane napoletano con una smorfia in viso tale da zittirlo subito.

“Non importa.” tagliò corto Lucrecia, accorgendosi dell'occhiata di fuoco che i due uomini si stavano scambiando: “Andiamo, voglio vedere nostro figlio...” disse in fretta, prendendo Alfonso per un braccio e allontanandosi.

Cesare non provò a seguirli. Lo osservò allontanarsi e basta. Odiava tutto dell'Aragona: i suoi capelli biondi, il suo fisico giovane e la sua voce calda. Odiava il suo nome, il suo volto e, soprattutto, il sentimento che – ormai era chiaro – lo legava in modo sincero a Lucrecia.

Alfonso era ormai un sasso troppo grosso, per accettare di tenerselo nella scarpa.

Il Valentino si passò pensoso una mano sulla guancia chiazzata di barba e di piccole cicatrici e poi scuotendo tra sé la testa, borbottò: “Ormai è il momento, non posso più aspettare...”

 

Era la notte tra il 14 e il 15 luglio. Perugia sembrava come sospesa nel vuoto. Il cielo era di un blu scuro innaturale e anche le stelle sembravano non voler testimoniare a quello che stava per accadere.

Nessuno si era accorto del modo elegante e scaltro con cui Giulio Cesare da Varano si era tolto dai giochi prima di poterne essere incolpato, così come nessuno si era reso conto di quello che Carlo di Oddo Baglioni, per tutti Barciglia, stava orchestrando protetto dall'oscurità.

Grifonetto Baglioni, Girolamo Arcipreti, Braccio Baglioni, Berardo della Cornia, Filippo Baglioni e tutti gli altri si sentivano ancora investiti di uno strano potere. Era come se aver accompagnato in San Luca – chiesa del Santo Sepolcro – le loro vittime designate, fingendo di pregare con loro per l'indulgenza plenaria, e poi aver cenato assieme, avesse fatto ricadere su di loro una sorta di protezione divina, un senso di onnipotenza che li stava trascinando con maggior forza del previsto.

Tutti i congiurati che avevano accettato di avere un ruolo attivo nel massacro tenevano le proprie identità celate dai cappucci dei mantelli, e le mani ben salde sulle lame che avrebbero usato a breve.

In più, a dar loro coraggio, c'era la consapevolezza di avere le spalle coperte da un buon numero di armigeri. Anche se il sangue della famiglia andava versato in prima persona, insomma, se le cose avessero preso una brutta piega, ci si sarebbe affidati senza indugio alla protezione di un piccolo esercito.

Carlo Baglioni, che si sentiva investito della responsabilità maggiore, guidava l'attacco che era stata ritenuto uno dei più importanti. Aspettando che fosse il momento giusto – perché si era deciso che tutti agissero nello stesso istante, per impedire qualsiasi fuga o anche solo qualsiasi richiesta di aiuto delle vittime – l'uomo cercava di tenere a bada il battere impazzito del proprio cuore.

Quando stava quasi per sorgere l'alba, aprirono la porta della casa di Guido Baglioni, non trovando alcun tipo di resistenza, e imperversarono nel palazzo come un fiume in piena.

Uno dei primi ad accorgersi del trambusto fu Astorre Baglioni che, seguito dalla giovane moglie, sposata appena pochi giorni addietro, si trovò disarmato e spaventato con la punta di una spada piantata nel costato ancor prima di capire cosa stesse accadendo.

Lavinia, al suo fianco, inorridendo per la chiazza calda e ferrigna che il sangue del marito stava lasciando sui suoi vestiti, lo stringeva a sé, accasciandosi al suolo con lui, incapace di piangere, o gridare, la gola resa asciutta e muta dalla paura e dal dolore.

“Guido! Guido, dove sei?!” gridò Carlo, brandendo la spada e occhieggiando in ogni direzione.

Le stanze del palazzo erano ancora buie e solo qualche rara candela o torcia a muro illuminava gli ambienti. Se il padrone di casa avesse voluto, forse, in quelle condizioni sarebbe riuscito a nascondersi e scappare.

E invece Guido Baglioni non volle sottrarsi a quello che gli apparve subito come un gravissimo attacco al suo stesso sangue. Comparve quasi all'improvviso proprio accanto a Carlo e, spalleggiato dal figlio Gismondo, iniziò a dar battaglia.

Altri congiurati accorsero, rendendo in fretta vana la lotta del padrone di casa. Il settantacinquenne si trovò a soccombere in fretta, dilaniato dai colpi, con negli occhi un'unica immagine: quella di suo figlio Gismondo che veniva passato da parte a parte, morendo ancor prima di lui, senza il tempo di emettere anche solo un gemito.

Nella confusione, nessuno si era accorto di Simonetto Baglioni, figlio di Rodolfo, che, più giovane e agile, si era fatto largo tra i duellanti, riuscendo a scappare fino in strada. Poteva già dirsi salvo: nessuno l'aveva fermato, né l'avrebbero rincorso.

Eppure, quando sentì il grido spezzato di Astorre, che ancora non aveva reso l'anima a Dio, ma agonizzava tra le braccia della moglie, non resistette e, punto dall'orgoglio, tornò sui suoi passi.

Raccolse senza problemi l'arma lasciata dalle mani esangui di Gismondo, e cominciò a combattere.

Era da solo contro mezza dozzina di uomini concentrati solo su di lui. Venne ucciso nel giro di un paio di minuti.

Nel frattempo, Lavinia, curva sul marito, che, nell'indifferenza dei congiurati, aveva infine esalato l'ultimo respiro, aveva ritrovato la voce, ma solo per piangere e disperarsi. Le sue mani erano intrise di sangue, sangue era ciò che aveva sulle labbra, nelle narici, davanti agli occhi: erano tutto un turbine rosso, ferroso, appiccicoso, denso...

“Taci!” gridò Filippo Baglioni, rivolgendosi alla donna.

Era stato lui a sferrare il colpo fatale ad Astorre. L'aveva fatto senza sforzo, come se non ci fosse nulla di particolare, nel togliere la vita a un ragazzo.

Siccome la vedova, però, non accennava a tacere, Filippo si lasciò prendere la mano. Aveva spesso indugiato in atti di ferocia, sul campo di battaglia, ma farlo in un ambiente tanto elegante e pulito come un palazzo nobiliare gli stava donando delle sensazioni esaltanti e nuovissime.

Sollevando l'angolo delle labbra, strappò con un gesto secco il cadavere di Astorre dalle braccia della Colonna e, sotto lo sguardo silenzioso degli altri, gli squarciò il petto. Il suono delle coste che venivano spezzate sotto la lama e il respiro affannoso di Filippo erano le uniche cose che si sentissero.

L'uomo riuscì ad avere la meglio sulla cassa toracica della sua vittima, aprendola abbastanza da mostrare gli organi interni, solo dopo qualche minuto. Fatto ciò, gli strappò il cuore, sentendolo ancora caldo ed elastico tra le sue dita e poi, fissando Lavinia, ne strappò un pezzo con un morso.

Lo sputò subito: non aveva senso indugiare, in fondo la giovane era già folle di paura e dolore così, senza andare oltre.

Lanciando il cuore di Astorre da un lato, l'uomo si avvicinò alla ragazza, l'afferrò per i capelli e, ridendo, le tagliò di netto la gola.

“Adesso andiamo a prendere anche Giampaolo.” ordinò Carlo, che aveva sempre trovato eccessivo il comportamento di Filippo: “Prima che scappi...”

 

Giampaolo stava facendo un sogno molto agitato. Immagini di guerra si mescolavano di continuo a scene della festa di matrimonio a cui aveva partecipato in quei giorni. Eppure... Eppure le grida che sentiva gli parevano reali, qualcosa che prevaricava la dimensione del sonno.

Accigliandosi, si rigirò nel letto, e, ormai in dormiveglia, tese involontariamente l'orecchio e, invece di udire solo la calma della notte, avvertì dei passi pesanti sulle scale, uno scalpicciare confuso, come se almeno una decina di uomini stesse correndo per il palazzo, e poi udì una voce che conosceva bene, ovvero quella di Grifonetto Baglioni, di ventitre anni e dalla testa più calda di un camino acceso.

“Mio signore! Mio signore, scappate!” il Maraglia, armigero di Giampaolo, aveva appena fatto irruzione nella sua stanza, e già brandiva la spada per difenderlo.

Il Baglioni non si fece altre domande e non volle nemmeno vedere con i propri occhi quale fosse la sorte del suo soldato: ancora in abiti da camera, gli occhi cisposi di sonno e lo stomaco in subbuglio sia per l'improvviso spavento, sia per la serata di bagordi a tavola, lasciò il letto più veloce di un fulmine.

Sfruttando la presenza notevole del Maraglia, che stava trattenendo Grifonetto e Carlo – i primi a essere arrivati fino a quella camera – Giampaolo corse senza fermarsi né rallentare, raggiungendo un abbaino che sapeva portare sui tetti.

L'impatto con la notte non ancora terminata fu tremendo. Gli tolse quasi il fiato. Benché fosse metà luglio, tirava un forte vento freddo e, essendo a piedi nudi, non era facile mantenere l'equilibrio. Infatti, dopo i primi passi da gatto, l'uomo scivolò e si trovò a trascinarsi da un punto all'altro del tetto del palazzo, sconfinando poi in quello del palazzo accanto e così via, finché non si rese conto di dover scendere.

Nessuno l'aveva seguito, e nemmeno lui sapeva come avesse fatto ad arrivare incolume fino a quel punto.

Pregando Dio affinché lo vegliasse proprio fino all'ultimo, lambito dalle prime luci del sole, rocambolescamente, aggrappandosi ai bordi delle finestre, ai cornicioni e ai ganci per torce, Giampaolo arrivò quasi a terra. Disperato per la propria condizione, si lasciò cadere giù non appena si rese conto di essere abbastanza vicino al suolo da non potersi fare male più di tanto.

Nella via cominciavano a esserci i primi mercanti e qualche manovale che raggiungeva il posto di lavoro. Era un mercoledì mattina, il cuore della settimana... A breve ci sarebbe stato pieno di gente e lui non poteva certo farsi vedere in quello stato. In vestaglia da notte e scalzo, sarebbe stato subito riconosciuto come un fuggitivo.

Era a Porta San Biagio ormai. Trovò un uscio appena socchiuso e così, senza ragionare, entrò.

Si trovò davanti dei giovani, degli studenti, a giudicare dagli abiti che portavano, intenti a fare colazione. Uno di loro lo riconobbe. Il Baglioni non sapeva dire se fosse una cosa positiva o meno, così decise di rischiare.

“Qualcuno – spiegò – ha attaccato il palazzo in cui ero ospite. Potete darmi aiuto?”

Senza battere ciglio, quello che lo aveva riconosciuto convinse gli altri che era una cosa buona e giusta dare soccorso a Giampaolo e così, nel giro di pochissimo, l'uomo venne vestito a sua volta da studente.

“Vi accompagniamo fino a Porta Borgna.” propose uno dei giovani: “Se è vero quello che dite, finché restate in Perugia rischiate la vita.”

Giampaolo avrebbe voluto mettersi a piangere di commozione per l'aiuto che gli era stato offerto, specie perché era certo che, a parti invertite, lui non sarebbe stato così solerte e disponibile.

“Troverò il modo di sdebitarmi.” giurò.

“Adesso andiamo.” lo esortò l'altro che si era appena offerto di accompagnarlo: “Ma calatevi bene il cappuccio in fronte, che qualcuno potrebbe riconoscervi...”

 

Caterina aveva le labbra molto secche. Con gli occhi ancora chiusi, cercò di inumidirsele con la lingua, ma si rese solo conto che pure quella assomigliava a un pezzo di lana cruda, asciutta come un fiume in secca.

Si sentiva confusa, anche se, rispetto a prima, era abbastanza certa di non avere più la febbre alta.

Con grande fatica, aprì appena le palpebre e provò a muoversi. Era coricata in terra, nel buio, e, se non fosse stata abbastanza sicura che fosse estate, dal freddo che sentiva avrebbe potuto giurare che si fosse già in dicembre.

Quando si rese conto che l'oscurità non era quasi totale come sempre, ma era rischiarata dalla fiammella viva di una candela, si rese conto di non essere da sola, in quella cella.

Ci mise parecchio a mettere a fuoco, e alla fine scorso un uomo accovacciato poco lontano da lei, che cercava qualcosa in una bisaccia. Il suo primo istinto fu quello di averne paura. Tuttavia, pur volendolo, non riusciva a muovere nemmeno un muscolo. Era completamente priva di forze.

“Siete sveglia...” il tono freddo dell'uomo non la scompose: si era abituata da tempo a sentirsi apostrofare senza troppi slanci, da che era arrivata a Roma.

Con uno sforzo che le richiese tutta la sua forza d'animo, la Leonessa si girò di lato, arrivando contro la parete e, puntellandovisi, riuscì a mettersi quasi seduta. Quel breve movimento, però, le fece girare la testa così forte da farle venire la nausea.

“State attenta.” la riprese l'uomo, avvicinandole con la candela in una mano e un boccettino nell'altra: “Dovete prendere questo. Credete di farcela?”

Nel muoversi, la donna si era accorta di essere sporca. Non solo per colpa del sudore febbrile o della polvere della terra su cui era stata coricata per giorni. Nessuno l'aveva cambiata, nessuno l'aveva accudita mentre era incosciente...

“Posso avere dell'acqua per lavarmi o almeno degli abiti puliti?” chiese, tenendo lo sguardo basso, umiliata dall'odore che sentiva di emanare.

“Non credo che vi concederanno tanto.” disse, suo malgrado, il suo visitatore: “Hanno mandato me solo perché il papa ha paura che moriate troppo presto.”

La franchezza con cui il medico – perché la Sforza ormai aveva capito chi avesse davanti – le aveva parlato, la sprofondò in uno stato di smarrimento che le tolse ogni altra voglia di pretendere qualcosa, fosse anche solo un secchio di acqua pulita.

“Bevete questo.” la incitò l'uomo, avvicinandole alle labbra la bottiglietta.

La Tigre aveva sufficienti nozioni di erboristeria e medicina da capire che quello fosse un ricostituente. Poteva anche annusare un sentore di miele.

“Non mi avvelenerete, vero?” chiese, con un filo di voce, mentre già avvertiva il freddo del vetro contro il labbro inferiore.

“Ve l'ho detto: prendo ordini dal papa, e lui, per ora, vi vuole in vita.” ribatté il medico, con tono sbrigativo.

Senza dire altro, la donna sorbì il liquido. Le fece piacere, malgrado tutto. Aveva lo stomaco chiuso, ma quel breve assaggio la stava già rinfrancando.

“Che giorno è?” domandò, quando si accorse che l'uomo stava per riordinare le proprie cose e andarsene.

Quello, aggrottando la fronte, rispose: “Il quindici luglio, mercoledì.” poi, come mosso a pietà da quella richiesta, che pareva più importante, per la prigioniera, perfino dell'acqua da bere o del cibo, precisò: “Ed è da poco passato mezzogiorno.”

Caterina ringraziò con un mormorio, e poi, non riuscendo più a stare seduta contro la parete, si lasciò di nuovo accasciare a terra.

“Cercate di non dormire troppo. Potreste non risvegliarvi.” fece presente l'uomo, andando già verso la bassa porta della cella: “E vi farò portare dell'acqua. Per l'amor del cielo, bevetela, mi raccomando. Per lavarvi ci saranno altre occasioni. Pensate alle cose indispensabili, prima.”

La Sforza non ribatté, ma lo fissò mentre, senza trovare la voce per salutarla in modo formale, il medico mandato da Alessandro VI si chinava per uscire dalla cella.

Sentendosi umiliata più ancora che fiaccata nel corpo, la donna non riuscì a trattenere lacrime di rabbia e di debolezza.

Solo quando fu troppo stanca anche per piangere, si placò.

Arrivata l'acqua promessa dal dottore, e resasi conto che era in discreta quantità e di buona qualità, ne bevve un po', ma poi, per come riuscì e poté, ne usò una parte per togliersi di dosso almeno lo sporco peggiore.

Stremata, si mise nell'angolino più riparato della cella e, guardando in alto, cercando di intravedere la vita che di certo pulsava nel cortile sopra di lei, provò a perdersi nei ricordi. Con il volto di Giacomo davanti agli occhi, dopo qualche ora, si assopì e cadde in un sonno sordo e pesantissimo.

 

 

   
 
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