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Autore: Adeia Di Elferas    24/10/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Lucrezia Medici stava guardando la sua piccola Maria, che dormiva beata davanti a lei, ignara di tutta la confusione che regnava nel mondo in quel momento. Aveva compiuto un anno da pochi giorni, e si era mantenuta calma e serena esattamente come quando era nata. Andando avanti così, pensava la donna, sarebbe stata la sua figlia più tranquilla.

“Ci sono altre novità?” chiese Lucrezia, sentendo Jacopo entrare dalla porta alle sue spalle.

L'uomo fece un suono gutturale e poi, stanco, si lasciò cadere sulla poltroncina imbottita, sbuffando: “Sembra che adesso il Baglioni stia facendo abbattere le mura di Civitella, Benazzone, Montelabate, Ponte Pattoli e chissà quali altri paesi...”

La Medici non commentò. Era stata molto colpita dalla notizia di quanto accaduto a Perugia. In realtà a sconvolgerla non era stata tanto la ferocia della congiura guidata da Carlo e Grifonetto Baglioni, quanto la reazione rapidissima e feroce di Giampaolo e Gentile Baglioni.

Non solo avevano preso e trucidato Grifonetto, ma avevano dato alle fiamme le case di Borgo Sant'Angelo, si erano impossessati del palazzo dell'uomo che avevano ucciso e, come se non bastasse, Giampaolo si era macchiato di un crimine efferato.

Seguendo il filo dei suoi pensieri, la Medici riprese proprio quell'episodio, sussurrando: “Quella cosa che hanno fatto in chiesa... Mi ha ricordato quello che i francesi hanno fatto in Romagna anni fa.”

“A Mordano?” domandò il Salviati, accigliandosi un attimo.

Era una cosa accaduta molto tempo prima, e lontano da Firenze, eppure anche lui ricordava bene l'orrore che era stato descritto da chi ne aveva sentito parlare da dei romagnoli o anche da chi aveva visto le macerie di quel paese.

“Insomma, quello che hanno fatto...” Lucrezia teneva la voce bassa, per non svegliare Maria, ma avrebbe voluto gridare tutta la sua contrarietà per una simile bruttura.

Si diceva che Giampaolo Baglioni avesse fatto irruzione nella cattedrale di San Lorenzo, dove avevano trovato rifugio circa duecento tra contadini e artigiani che erano stato assoldati da Girolamo Della Penna – uno dei congiurati – ma che avevano in fretta rinunciato a sostenere il proprio padrone non appena si erano resi conto di quanto fossero superiori in numero e armamentari gli uomini di Giampaolo.

Così questi, senza esitare un attimo, li aveva fatti uccidere tutti, facendoli tagliare a pezzi da vivi, per poi dare fuoco al portone della cattedrale, dando alle fiamme l'intera struttura.

Oltre a quelle duecento persone, ormai, si stimava che i Baglioni superstiti avessero ucciso già quasi trenta nobili tra congiurati, assassinati e fuoriusciti.

“E di Roma? Si sa nulla di nuovo? Il genero del papa si sta riprendendo?” domandò la Medici.

Jacopo fece un sospiro e si alzò, facendo scricchiolare appena la poltrona. Arrivò alle spalle della moglie e le posò con fare protettivo una mano sul ventre rigonfio. Mancava ormai un mese, circa, al parto. A volte gli sembrava una cosa stranissima che la loro Maria avesse appena un anno e già stessero per diventare di nuovo genitori.

“Non continuare a pensare a queste brutte cose...” le sussurrò all'orecchio, annusando il profumo dei suoi capelli: “Non ti fanno bene.”

Anche la Medici si sfiorò la pancia e disse, in rimando: “Non è non pensandoci, che darò ai nostri figli un mondo migliore in cui vivere.”

L'uomo si morse il labbro, e poi diede un breve bacio sul collo alla moglie: “Lo so. Però... Almeno in casa nostra, cerchiamo di essere sereni.”

Lucrezia si voltò appena verso di lui, fino a incrociare i suoi occhi buoni: “Lo so che ci tieni.”

Il Salviati fece un breve sorriso, mentre Maria, nel suo lettuccio, faceva una smorfia nel sonno e andava avanti a dormire beata.

“È sempre così... Tranquilla...” bisbigliò l'uomo.

“Ha preso da te.” mormorò la Medici: “E ne sono felice.”

L'uomo l'abbracciò con un po' più forza e poi le chiese: “Andiamo a mangiare qualcosa?”

Lucrezia annuì e poi sospirò: “Ma poi andiamo a dormire presto. Sono stanca.”

“Stai bene?” domandò lui, cominciano già a preoccuparsi.

“Sto benissimo.” sospirò lei, staccandosi un po' dal marito: “Sono solo un po' stanca. Se avessi questo pancione, anche tu lo saresti.”

Il Salviati capì che non era il caso di continuare: sua moglie sapeva contenersi, ma se si irritava sapeva diventare una donna complicata da placare. Così, prendendola per mano, uscì dalla stanza, chiamò all'ordine la balia, affinché vegliasse su Maria, e poi la seguì nel salone, per la cena, sentendosi l'uomo più fortunato che esistesse, avendo ciò che aveva, amando la donna che amava, in barba a tutto quello che veniva messo a ferro e fuoco nel mondo.

 

Alfonso era stato spostato, appena le sue condizioni di salute lo avevano reso possibile, nella prima sala dell'appartamento borgiano affrescato dal Pinturicchio, nella torre. Nelle lunette, le Sibille all'Aragona sembravano tante giovani adescatrici pronte a sfruttare i vecchi Profeti che erano stati dipinti accanto a loro. Esattamente come la prima volta in cui aveva visto quel lavoro – egregio, indubbiamente – del Pinturicchio, l'uomo non riusciva a non trovarlo quanto meno equivoco.

Una volta ne aveva parlato anche con Lucrecia, ma la moglie aveva solo riso e gli aveva detto che solo lui poteva vedere qualcosa di lascivo in un'opera dal tema tanto sacro.

“Sarà anche un'opera sacra – aveva commentato lui – ma l'ha commissionata tuo padre, quindi non mi stupire di nulla...”

Il giovane stava ancora ripensando a quel discorso, che gli sembrava ormai avvenuto secoli prima, e fece un respiro appena più profondo degli altri.

Il dolore alla spalla che ne derivò gli fece mancare il fiato. Subito la sorella e la moglie, che stavano accanto a lui, a quell'ora quasi antelucana entrambe in dormiveglia, spalancarono gli occhi e gli chiesero come stesse.

Alfonso sollevò un istante le sopracciglia, come a dire che era tutto sotto controllo. In realtà passava buona parte delle sue giornate dormendo o restando privo di sensi, quindi, malgrado il dolore alle ferite ancora troppo fresche, il solo fatto di essere sveglio, lucido e vigile gli pareva una meravigliosa novità.

Le due donne che lo vegliavano assiduamente, in realtà, avevano in quella stessa stanza due piccoli giacigli improvvisati, ma l'Aragona sapeva che, il più delle volte, si addormentavano sedute accanto al suo letto, troppo preoccupate per allontanarsi anche solo di pochi passi.

Fuori dalla porta, in pianta stabile, c'era una schiera di dottori, pronti a intervenire in caso di bisogno, e un piccolo gruppo di fedelissimi degli Aragona. Inoltre, e di questo Alfonso era felice solo in parte, l'ambasciatore di Napoli aveva il compito di assistere a ogni medicazione, per essere certi che nessuno provasse ad avvelenare il giovane partenopeo.

“Oggi dovrebbe venire anche Galiano de Anna...” sospirò Lucrecia, mentre tratteneva uno sbadiglio e cercava di far abituare gli occhi alla luce del sole che stava nascendo fuori dalle finestre.

“Forse con lui ci sarà anche Clemente Gactula...” commentò piano Sancha, mentre cominciava a tergere un po' il viso del fratello con un cencio umido, come faceva spesso, per alleviarlo dalle febbri e dargli un po' di sollievo dal caldo di quel luglio.

Alfonso, nel sentire il nome di un chirurgo e di un fisico di Napoli non seppe come sentirsi. Da un lato era felice che in tanti si stessero prodigando per lui, ma dall'altro cominciava a temere che le sue ferite fossero più gravi di quanto non sembrassero.

Lucrecia stava sistemando meglio i guanciali del marito, numerosi e molto soffici, per rendergli meno penoso lo stare coricato scaricando in parte il peso anche su alcune ferite, quando la porta si aprì.

Senza essersi annunciato in alcun modo, Cesare entrò nella stanza e si mise a fissare il quadretto che si era trovato davanti. Trovava stucchevole al limite del ridicolo ciò che vedeva: Alfonso, ridotto a uno straccio pieno di bende, pallido e smunto e attorno a lui Sancha e Lucrecia che si affannavano, egualmente pallide e smunte, attorno a lui come delle industriose api.

“Che ci fai qui?” chiese la Borja, facendosi di colpo molto seria e smettendo di sistemare i cuscini del marito.

“Sono solo venuto a vedere come sta il mio adorato cognato e a portargli la mia benedizione.” il sorriso che si era aperto sulle labbra del Valentino raggelò il sangue di Alfonso, mentre parve accendere le rimostranze di Lucrecia.

“L'hai fatto. Adesso puoi andartene.” ribatté, incrociando le braccia sul petto e guardando altrove.

L'Aragona non parlava, limitandosi a fissare con insistenza il Duca di Valentinois. In realtà il napoletano aveva parlato pochissimo, da che era stato aggredito, sia perché gli risultava difficile, sia perché aveva il terrore di dire qualcosa che peggiorasse ulteriormente la sua situazione. Aveva solo avuto la forza di raccontare cos'era successo alla sua Lucrecia, una volta che erano rimasti soli, e di dirle chi aveva visto tra gli aggressori. Per il resto, aveva cercato di tenere per sé tutto quello che gli era passato per la mente.

Cesare ignorò le rimostranze della sorella, e, convinto che tanto né lei né tanto meno Sancha si sarebbero opposto fisicamente alla sua presenza, mosse un paio di passi verso il letto di Alfonso.

A guardarlo così, non gli sembrava possibile che i cerusici che lo stavano curando e che lo davano ancora per spacciato avessero ragione. Era pallido, questo sì, era debole, lo si vedeva, ma i suoi occhi brillavano ancora come due stelle. Non erano gli occhi di un uomo intenzionato a morire a breve.

Come previsto, le due donne non avevano alzato un dito per impedire al Borja di appropinquarsi al letto e così, prima che l'Aragona potesse anche solo chiedere loro di farlo andare via, il Duca si era chinato su di lui e aveva fatto il cenno di volergli baciare la guancia.

Quel gesto così affettuoso all'apparenza, ovviamente, non era fine a se stesso. Cesare aveva fatto così solo per poter sibilare qualche parola all'orecchio del cognato.

“Le cose non riuscite al desinare – gli sussurrò compiaciuto, con un sorriso malevolo dipinto in viso – riusciranno a cena.”

Alfonso sgranò gli occhi, prima guardando il Valentino e poi cercando la moglie. Anche in quel caso, però, non disse una parola, anzi, trattenne perfino il gemito di paura che gli stava nascendo nel petto. Voleva far finta di non aver capito, di non aver sentito, di non essere terrorizzato.

“Adesso che ho augurato ogni bene al mio amatissimo cognato – sospirò Cesare, rimettendosi dritto – posso andarmene. Tolgo il disturbo, dato che sembrate aver gran fretta di mandarmi via.”

Sancha teneva gli occhi bassi, e non commentò, mentre Lucrecia, deglutendo a fatica, annuì e rimarcò: “Mio marito ha bisogno di quiete. La tua visita lo sta solo agitando.”

Il Duca se ne andò con un riverenza molto teatrale e un altro sorrisetto indirizzato al cognato, e subito Alfonso lanciò uno sguardo di intesa alla moglie, che comprese subito il suo tormento.

“Sancha – disse piano Lucrecia, con fare casuale – andresti a prendere un po' di acqua fresca?”

“La faccio subito portare da una delle ser...” cominciò al giovane, ma la Borja la frenò.

“Per favore, fallo tu.” il suo tono era dolce, ma non ammetteva repliche.

L'Aragona capì che marito e moglie volevano stare un istante soli e così non fece più obiezioni e lasciò la stanza, decisa a fare con calma.

“Mi ucciderà.” disse piano Alfonso, una volta solo con la sua sposa.

Non ci fu bisogno di specificare il soggetto: Lucrecia aveva capito, Lucrecia sapeva.

La donna avrebbe voluto piangere. Si sentiva debole, spaventata e inerme. Non sapeva come proteggere il suo uomo. L'unica cosa che poteva continuare a fare era vegliarlo, restare al suo fianco e rendersi quindi una barriera fisica per qualsiasi nuova aggressione. Già le pesava non poter aiutare più di tanto nel far rimarginare le ferite che martoriavano il suo giovane corpo, pensare poi di non poter far altro, se non restarsene lì, nella speranza che suo fratello non avesse mai l'ardire di colpirlo davanti ai suoi occhi...

“Non piangere.” disse piano la donna, vedendo gli occhi azzurri del marito velarsi, quasi in risposta alla sua stessa voglia di sciogliersi in lacrime: “Finché ci sono io con te, non devi aver paura di nessuno.”

Per l'Aragona quelle parole valsero come un balsamo. Si sentì più al sicuro, perfino meno dolorante per le ferite, e tutta l'ansia che la visita di Cesare gli aveva messo in corpo stava svanendo.

Lucrecia capì quel cambiamento nel marito e volle assecondarlo. Ricacciò nel profondo della sua anima tutta la paura, la sensazione di inadeguatezza e il senso di precarietà che la tormentavano e, accarezzandogli lentamente il dorso di una mano, gli cantò con un filo di voce una ninna nanna in spagnolo, finché non lo vide assopirsi e calmarsi abbastanza da tornare a dormire come un bambino.

 

Caterina poteva immaginare che fosse primo pomeriggio. Poteva sentire la vita pulsare nel cortile che stava sopra la sua cella e, di quando in quando, qualche granello di polvere smossa dai piedi di chi camminava sopra la sua testa – forse senza nemmeno immaginare della sua presenza – scivolava giù dalle feritoie e finiva a posarsi per terra. Era una cosa molto strana, e, anche se in un primo momento la donna l'aveva trovata fastidiosa, con il passare delle ore aveva finito per apprezzarla.

In un certo senso era un collegamento fisico con la vita esterna, con il mondo che continuava a muoversi fuori dalla sua cella. Ne poteva sentire l'odore, vedere la consistenza... Era un modo come un altro per non pensare e restare in vita.

Quel giorno aveva tossito un po' meno del solito, tuttavia aveva fatto molta fatica a mangiare quel poco cibo che le era stato destinato, e quindi si sentiva abbastanza indebolita. Non aveva più ricevuto visite dal medico, e, se in un primo momento, aveva voluto vedere in quel cedere a una delle sue due richieste il prodromo di cedere anche alla seconda, da un paio di giorni si diceva che il papa, probabilmente, aveva preferito risparmiare i soldi del dottore, ma non si era fidato a lasciare entrare Fortunati e frate Lauro nella sua cella.

Anche quel giorno, quindi, si stava preparando a vedere deluse le sue aspettative, senonché, all'improvviso, sentì delle voci e dei passi e poi la porticina di legno spesso aprirsi.

Come ormai le veniva spontaneo fare, colpita dalla luce di un paio di torce e accecata, la donna si ritrasse più che poté contro la parete, in un atteggiamento di difesa che a poco sarebbe servito, lo sapeva bene anche lei, in caso di reale pericolo.

“Grazie, potete lasciarci soli.” la voce, sempre viziata da un velo di sarcasmo, di frate Lauro arrivò alle orecchie della Tigre come un canto.

Mai in vita sua avrebbe creduto di essere così felice di sentirla. E subito dopo, mentre abituava alla luce gli occhi, intravide anche il profilo di Fortunati, e tanto le bastò per sentirsi così felice da arrivare a ringraziare Dio per una simile grazia.

Di malavoglia il carceriere socchiuse la porta, in modo da dare ai due confessori la giusta riservatezza per somministrare l'olio degli infermi alla prigioniera, e così i due uomini poterono concentrarsi sulla Leonessa.

Lauro Bossi restava in piedi, con la torcia in mano e un'espressione abbastanza imperturbabile in viso, ben diversa da quella che avrebbe dovuto campeggiare sul volto di un uomo che era anche di recente stato egli stesso recluso, accusato di aver tramato per liberare proprio la Sforza.

Francesco Fortunati, invece, per quanto si fosse detto con fermezza di mantenere un certo contegno, specie per non insospettire le guardie, non appena scorse meglio la figura di Caterina, non resistette e si mise in ginocchio accanto a lei.

Prima che la donna capisse cosa il piovano avesse intenzione di fare, questi, piangendo sommessamente, si sporse verso di lei e la strinse a sé, balbettando: “Mi... Mi spiace... Mi spiace che siate qui... Io... Io... Se solo potessi..! Se solo...”

Il frate, alle spalle del fiorentino, si schiarì la voce in modo significativo. Aveva paura che quello slancio di Francesco sarebbe stato letto in un certo modo dai carcerieri, e che la loro missione sarebbe stata interrotta subito, per paura che la Sforza potesse sfruttare quell'incontro per secondi fini ben diversi dal ricevere un sacramento.

La Tigre lo capì ben prima di Fortunati, tanto che provò a scostarlo da sé senza dover nemmeno aspettare il colpetto di tosse di Bossi. Il piovano, però, sembrava non capire, e seguitava a stringerla a sé e a piagnucolare.

“Se volete tenere la torcia – fece a quel punto frate Lauro, sperando così di ridestare la coscienza di Fortunati – procediamo a ungere l'inferma...”

Caterina, che non sopportava più la vicinanza fisica del fiorentino, trovando ancora inaccettabile il contatto con un uomo, in modo simile a come le era successo nei suoi anni di convivenza con Girolamo Riario, raccolse tutte le sue forze e lo scansò con più decisione.

Quel gesto, molto debole in realtà, ma carico di significato, finalmente placò Francesco, che, accortosi del suo scarso autocontrollo, si ritrasse e si rimise in fretta in piedi.

Il carceriere, sentendo un po' di trambusto, aveva davvero dato un'occhiata nella cella, ma quando il piovano già si era rialzato. Aveva quindi imputato tanto il piagnucolare, quanto tutti gli altri rumori strani alla Leonessa, che in quel momento giaceva senza forze con la schiena appoggiata alla parete.

Bossi cominciò a sciorinare le frasi di rito, avendo cura di alzare abbastanza la voce da coprire l'eventuale bisbiglio degli altri due. Con un cenno del capo, fece capire a Francesco di prendere l'olio e di somministrarlo alla donna, avendo così una scusa per avvicinarlesi e comunicare.

Il frate, infatti, era abbastanza sveglio da capire che era il fiorentino l'interlocutore che interessava di più alla Sforza. Anche Fortunati ne era cosciente, ma gli ci vollero un paio di minuti, prima di tornare abbastanza padrone di sé da fare quello che doveva.

Quando se lo ritrovò di nuovo inginocchiato davanti a sé, Caterina scrutò il viso del piovano. Le sembrava invecchiato, ma riconosceva in lui ancora i bei tratti di un uomo giovanile, per la sua età, e, soprattutto, molto elegante. Non l'aveva mai considerato in altro modo se non come un amico prezioso e un valido aiuto, ma si rendeva conto che parte del suo giudizio era legato più che altro al suo ruolo da religioso che non al suo aspetto o all'intesa che avevano sempre avuto.

In quel momento, seppe che lui era davvero l'unico uomo, presente lì a Roma, di cui potesse fidarsi ciecamente. Forse avrebbe potuto annoverare anche Baccino, come un sostegno sicuro, ma era troppo giovane e impulsivo. Aveva commesso già troppe volte l'errore di affidarsi a un ragazzo, quando, invece, avrebbe avuto bisogno di un uomo...

“Ci sono notizie da Firenze?” chiese, con un filo di voce.

Fortunati scosse appena il capo, mentre frate Lauro alzava di più la voce, pregando in latino con un fervore degno di un predicatore, e poi soggiunse: “Nulla di significativo, direi. Anche se è arrivata una nuova lettera dei vostri figli, qualche giorno fa.”

La Sforza si irrigidì un istante e poi chiese: “E di cosa parlava?”

Il piovano strinse un istante le labbra e poi, accigliandosi, rispose: “Era destinata a voi. Non sapevano che voi foste già...”

“Già in gabbia?” ribatté la donna, sollevando appena il mento, con aria di sfida: “Dove credevano che fossi, prima? Credevano davvero alla favola che mi voleva servita e riverita come una regina?”

Il piovano non disse nulla, abbassando lo sguardo. Già si sentiva in colpa nel non essere stato in grado di impedire in alcun modo che la sua signora venisse imprigionata, vederla poi in quello stato lo stava facendo soffrire come non mai. Era dimagrita, più di quanto immaginasse, aveva il viso scarno, gli occhi febbricitanti e si muoveva lentamente. In poche settimane, in pratica, non c'era quasi più nulla della donna forte e imponente che era sempre stata.

Anche la sua voce era cambiata. Malgrado in quelle poche battute avesse mantenuto una certa alterigia, si era fatta sottile, striminzita, impossibile da riconoscere come quella che echeggiava tra le mura di Ravaldino, dando ordini a soldati e manovali.

“Il papa è rimasto molto colpito dal loro stile...” proseguì l'uomo, cominciando ad armeggiare con l'olio benedetto: “Dice che ormai scrivono entrambi come due porporati. La cosa non gli è piaciuta, in realtà.”

La Sforza non si sorprese nello scoprire che il papa aveva letto una missiva indirizzata a lei. E, dato che un cappello cardinalizio era una delle richieste costanti di Ottaviano, poteva anche immaginare quanto poco fosse piaciuto al Santo Padre vedere il giovane Riario scrivere con un tono degno di un Cardinale.

“Scrivevano che...” sospirò il fiorentino, sollevando un sopracciglio: “Che in pratica loro hanno fatto il possibile e che se voi non avete voluto collaborare, non possono farci nulla. Che ora, per dirla in breve, siete da sola.”

Quella considerazione pesò sul cuore della Leonessa come un macigno. Tuttavia la donna non volle mostrare quanto sentire quelle parole la stesse provando.

Deglutendo un paio di volte, commentò, aspra: “Meglio così.”

“Imponiamo l'olio sacro...” buttò lì frate Lauro, avvertendo qualche movimento vicino alla porta, e accorgendosi che il carceriere aveva di nuovo messo dentro la testa.

Fortunati non poté più tergiversare. Intinse la punta delle dita nell'olio e poi, con la maggior lentezza di cui era capace, le portò alla fronte di Caterina.

“Se avete qualcosa da dirmi, fatelo ora, vi prego.” le sussurrò, mentre le faceva il segno della croce sulla pelle, con una dolcezza che faceva assomigliare quel gesto più a una carezza, che non a un qualcosa di liturgico.

La vicinanza che quell'uomo le stava esprimendo con il tono della sua voce e con la delicatezza con cui la stava sfiorando, fece sorgere un dubbio, nell'animo della Sforza. Per la prima volta si chiese in modo serio se Fortunati fosse mosso, nei suoi confronti, davvero solo da una sincera amicizia e dal desiderio di fare del bene a qualcuno che riteneva nel giusto. Improvvisamente, quel piovano le era parso molto più uomo che prete.

In un certo senso, però, quel sospetto la rinfrancò. Se ci stava vedendo giusto, doveva cavalcare l'onda, perché non c'era nulla, al mondo, di un uomo innamorato.

“Dovete promettermi due cose.” gli sussurrò: “La prima è che tornerai a Firenze il prima che potrai.”

Francesco non si era quasi accorto del passaggio al tu messo in atto della Leonessa. Pendeva dalle sue labbra, cercando di sentire ogni sillaba, per quanto la donna stesse parlando con un filo di voce, appena udibile.

“E poi devi promettermi che farai di tutto, anche a costo della tua vita, per tenere al sicuro mio figlio.” concluse Caterina.

Non ci fu bisogno di specificare di quale figlio stesse parlando: il piovano sapeva che era Giovannino il suo grande cruccio, specie ora che aveva il sospetto che Ottaviano volesse cederlo a Lorenzo Medici.

“Lo farai?” chiese la Sforza, non avendo il coraggio di guardarlo negli occhi.

Fortunati le sfiorò la guancia, con la mano ancora in parte unta e poi, prendendo quell'ammissione come il giuramento più solenne della sua vita, perfino più dei suoi voti religiosi, rispose: “Lo farò.”

I due uomini continuarono la loro pantomima ancora per qualche minuto, ma poi la presenza del carceriere si fece più evidente e così si costrinsero a chiudere la faccenda.

Francesco avrebbe voluto abbracciare di nuovo Caterina, ma sapeva di non poterlo fare. Con la scusa di imprimerle per un'ultima volta una benedizione, però, si chinò di nuovo su di lei, facendo il segno della croce in aria.

“Proteggi anche Bianca, Galeazzo e Sforzino. So che se la sanno cavare, ma, ti prego, veglia su di loro.” soggiunse, precipitosa, in un bisbiglio, la donna, quando capì che il tempo stava finendo: “E, soprattutto, fai in modo che Bernardino non si perda...”

Quell'ultima considerazione, Francesco lo capì spiccatamente, era stata per lei la più accorata e la più dolorosa. Quel figlio, per la Tigre, era sempre stato un enigma. Lo amava immensamente, eppure non era mai riuscita a ridurre la distanza che lei stessa aveva creato. Erano simili, mossi dalla stessa rabbia che covava sempre sotto le braci, eppure nessuno dei due riusciva ad ammettere di rispecchiarsi così tanto nell'altro...

Mentre frate Lauro concludeva il tutto con tono ecclesiale, invocando su tutti loro la benedizione del Signore, Fortunati annuì appena e sussurrò: “Farò anche questo, saranno come figli miei.”

La donna lo ringraziò tacitamente e, mentre lo guardava andarsene, pensò che probabilmente non l'avrebbe rivisto più. Eppure le andava bene così. Francesco, in quel momento, era il suo braccio e avrebbe fatto quello che lei non avrebbe potuto fare più.

Rimasta sola, di nuovo nel buio quasi impenetrabile della sua cella, Caterina pianse e tossì e si rintanò nell'angolo più ritirato della sua prigione. Non aveva altro da fare, ormai, che ascoltare i suoi respiri tronchi e pregare che il piovano riuscisse nel suo intento. Tutto ciò d'altro che c'era fuori da quelle quattro mura, ormai, per lei non aveva più importanza...

 

   
 
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