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Autore: QueenOfEvil    25/10/2020    0 recensioni
[Seguito di 'Non c'è ombra senza luce']
Prima che Aa perdesse due dei suoi tre occhi. Prima dell'ultimo verobuio. Prima della Profezia.
Mia era senza alcun dubbio "una ragazza con una storia da raccontare".
Ma, vedete, gentili amici, quella definizione poteva benissimo valere anche per i suoi genitori.
Una volta, quando Julius aveva sette anni, suo padre lo aveva portato ai Giardini.
Lì, circondati dalle grida e dalle suppliche degli schiavi morenti a qualche piede dalle loro teste, Atticus aveva spiegato a suo figlio che il mondo era diviso in due gruppi: le persone che erano persone e le persone che erano cose. Rispetta le prime, calpesta le seconde e avrai successo.
In quel momento, a quasi vent'anni di distanza, Scaeva realizzò che suo padre aveva avuto torto.
Chiunque poteva essere una cosa, per chi sapesse come farne uso.
Genere: Dark, Fantasy, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Alinne Corvere, Altri, Darius Corvere, Julius Scaeva, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Neh diis lus'a, lus diis'a'
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De nihilo nihilum





 

L’ospizio in cui prestava servizio Lucius era un edificio sbilenco e triste, con aperture senza vetri che somigliavano più a feritoie che a finestre vere e proprie e da cui entrava poca aria d’estate e fin troppi spifferi d’inverno. Al tetto mancavano parecchie tegole, alcune portate via dagli uccelli per costruire il nido, altre cadute a terra durante l’ultimo temporale, e anche le grondaie rudimentali che erano state apposte per far defluire la pioggia erano mezze staccate dalla parete e penzolavano come marionette senza fili abbandonate dal loro proprietario. Uno degli inservienti, forse nel tentativo di rallegrare l’atmosfera, aveva appeso di fianco all’entrata due cesti di fiori, ma aveva solo ottenuto di acuire il contrasto tra il colore e la bellezza del mondo esterno -in cui profumi e colori si alternavano e mescolavano tra loro, appagando i sensi- e la miseria che traboccava da sotto quella porta di legno senza cardini: qualcuno di particolarmente acuto, osservando l’insieme, avrebbe potuto paragonarlo ad una vecchia signora che si ostinasse a vestirsi come una giovane donna, pur sapendo di essere ridicola*. C’era da ridere e piangere al tempo stesso.
Julius vi si era avvicinato una sola volta in tutti quegli anni e, da allora, se n’era sempre tenuto alla larga: non era il caso che la sua già precaria reputazione venisse ulteriormente danneggiata da sguardi indiscreti. E poi, era quasi impossibile lavare via l’odore della disperazione dai vestiti; l’aveva già conosciuto una volta, non era interessato a ripetere l’esperienza.
Il suo manifesto disinteresse per la materia -che assumeva talvolta i contorni del rifiuto assoluto- non aveva però mai impedito a Lucius di raccontargli i particolari della professione, ogni qualvolta si ritrovavano per qualche ora. Uomini che aveva curato, donne che aveva assistito, bambini che aveva consolato: spesso Julius smetteva di ascoltare a metà del discorso, quando la lista di disavventure diventava insostenibile, ma era un bugiardo sufficientemente bravo che l’amico non se n’era mai accorto. O forse non gli importava più di tanto.
Quel cambio non si stava dimostrando diverso dai tanti precedenti.
“… e quindi ho pagato al posto suo”
“Cioè tu mi stai dicendo,” Julius si passò una mano sugli occhi, sperando di avere capito male “che oltre che guadagnare una miseria facendo dei turni massacranti in quel buco ora ti sei messo anche a sborsare denaro per il soggiorno di completi estranei?”
Lucius gli rivolse uno sguardo sorpreso, gli occhi azzurri che sembravano ancora più grandi per la sorpresa: “Beh, non potevo certo permettere che la sbattessero fuori: ha una tosse grassa che le squassa il petto e senza le cure adeguate e un luogo caldo dove riposare non sopravviverà mai a questo freddoinverno” Con un unico sole in cielo, la temperatura scendeva in fretta e tutti iniziavano a tirare fuori i vestiti pesanti e ad accendere il fuoco nei caminetti: Julius aveva dato disposizioni alla servitù perché provvedesse qualche cambio prima, stufo di svegliarsi intirizzito nel suo stesso letto. Non faticava a vedere come un malato, buttato per strada in quel periodo dell’anno, potesse trovare la propria condizione come non ideale, ma questo non lo rendeva comunque un loro problema.
Alzò un sopracciglio e storse la bocca: “Perché non la accogli direttamente a casa tua, allora?”
“Sai bene che tra Curalegno, mia madre ed io non abbiamo abbastanza spazio per una quarta persona,” il suo tono si fece pensieroso “forse nel retrobottega del negozio, ma non è ben riscaldato…” 
“Lascia perdere, non dicevo sul serio.” Erano passati otto anni dal loro primo incontro e Lucius rimaneva incapace di comprendere il sarcasmo: “Spero almeno che tu abbia dato i mendicanti direttamente al padrone e non alla vecchia”
Il suo interlocutore annuì: “Dovrebbe essere a posto per le prossime quattro settimane. Poi vedremo: ho chiesto a…” si strofinò il naso con le dita “ad un’altra ragazza che lavora anche lei lì di avvertirmi se succede qualcosa di nuovo” spostò la borsa con gli strumenti del mestiere dalla mano destra a quella sinistra e poi, con la mano libera, fece un gesto in direzione della villa a pochi passi da loro: “Mi hai detto che la situazione sembra peggiorata in quest’ultimo periodo?”
Julius mormorò un ‘’, tra i denti: era, quello, un argomento di cui non parlava volentieri, né con Lucius, né con Sussurro, né tantomeno con se stesso, e di cui avrebbe volentieri finto l’inesistenza, ma se doveva affrontare i problemi che ne derivavano -come puntualmente succedeva, ogni paio di mesi- era meglio che ad occuparsene fosse qualcuno di vicino, la cui discrezione e silenzio non fossero in discussione; qualcuno, a conti fatti, in cui riponesse la propria fiducia. E, a parte il suo compagno fatto di ombre, Lucius era l’unica persona che corrispondesse alla descrizione.
Presero una stretta svolta a destra e, dopo pochi minuti di camminata in silenzio, si ritrovarono in mezzo alle case subito dietro le Costole: erano quasi arrivati.
Uno dei -pochi- vantaggi dell’abitazione che Julius aveva acquistato qualche mese prima era che, annessa ad essa, vi erano altre due piccole costruzioni, aventi cinque ambienti ciascuna. In quella a sinistra vi risiedeva la servitù -una magistra, due domestici e il cuoco-, che svolgevano le proprie funzioni nella villa durante il cambio e poi si coricavano in separata sede durante l’illuminotte. La sistemazione era risultata gradita sia a coloro che lì vi vivevano, felici di avere uno spazio privato da poter gestire, sia al proprietario, che non doveva passare le ore a guardarsi le spalle per evitare che qualcuno di troppo zelante entrasse nella sua camera e vedesse un serpente traslucido arrotolato sopra il cuscino.
La costruzione sulla destra, invece, era un’altra faccenda.
Julius sospirò, bussando alla porta e dopo pochi istanti venne loro ad aprire un uomo di mezza età, dalla calvizie incipiente, la carnagione chiara e il volto segnato da rughe: “Mi domine,” l’uomo si inchinò, “mi avevate accennato che sareste venuto, così ho chiesto a Sabina di dare una sistemata, per farvi trovare tutto in ordine.” Pausa “Spero di non aver fatto male”
“No, hai fatto benissimo invece,” un angolo della bocca si incurvò all’ingiù: “Come sta?”
L’uomo sembrò a disagio: “Non meglio, mi domine, ma neanche peggio. Oggi è uno di quei cambi,”
Quei cambi si stavano facendo sempre più frequenti. Il lato positivo -se di lato positivo si poteva parlare- era che almeno non avrebbe opposto resistenza alla visita.
“Ora puoi andare,” accompagnò quelle parole ad un cenno inequivocabile con la mano, congedando il servitore. L’uomo fece un secondo inchino e poi si incamminò verso la villa, con un passo impaziente che lasciava trasparire la sua fretta di allontanarsi da lì. Julius non poteva dargli torto.
Ancora sulla soglia, gettò uno sguardo all’interno -al corridoio decorato da porte che a dispetto del sole splendente nel cielo sembrava sempre coperto da una patina d’ombra- e poi dietro di sé, al compagno che aspettava paziente.
Erano rimasti soli, lui, Lucius e… l’altro.
“Vado prima io,” disse infine “do un’occhiata e poi ti chiamo”
Una volta nel corridoio, Sussurro uscì dalla sua ombra e gli strisciò a fianco, mentre le tenebre pulsavano lentamente al loro passaggio. Ad otto anni dalla loro avventura ad Elai, con particolare riferimento a quanto accaduto tra lui e l’uomo che aveva cercato di ucciderlo, Julius era venuto a patti con la mancanza di paura provocata dall’ombravipera, riconoscendone l’utilità, ma anche -come un po’ tutto quello che riguardava la natura di tenebris- il suo essere un’arma a doppio taglio: era fin troppo facile abituarsi a quella sensazione di mancanza e diventarne dipendenti. Per quanto, con il senno di poi, Julius riconoscesse che il se stesso tredicenne aveva commesso una grave imprudenza quel cambio -anteponendo il proprio orgoglio alla sicurezza-, e per quanto apprezzasse la compagnia del suo passeggero, la possibilità di non sapersi più controllare senza un aiuto esterno lo disgustava; spaventava, in un certo senso.
C’erano delle regole che si era imposto, che aveva imposto anche a Sussurro, e che cercava di rispettare alla lettera. Una di quelle, riguardava la costruzione in cui si trovava e la stanza dove stava entrando.
L’ambiente era di forma rettangolare, con la porta posta direttamente di fronte alle finestre che sostituivano quasi per interno il muro, decorate solo da degli spessi tendaggi verde scuro, in quel momento tirati. Il tappeto era di forma ovoidale, dello stesso colore delle tende, e poggiava su un parquet che un osservatore attento avrebbe detto piuttosto malconcio, a dispetto della lucidatura che veniva passata regolarmente; all’estrema sinistra, un mobile marrone che faceva le funzioni della credenza, accompagnato da un piccolo tavolo di legno rotondo, incastrato nell’angolo proprio accanto al caminetto acceso. Sul lato opposto, una piccola libreria che aveva funzioni decorative -nessuno degli inservienti sapeva leggere e di certo l’unico occupante di quelle camere non ne faceva uso regolare-, affiancata da due quadri, uno per lato, che erano già lì quando la casa era passata di proprietà e che nessuno si era mai dato la briga di togliere; infine, sull’angolo in fondo a destra, una poltrona imbottita.
Una poltrona imbottita occupata.
“Vi auguro buon cambio, padre,” attese una reazione e quando fu chiaro che il suo interlocutore non avrebbe risposto -come se ci si potesse aspettare altrimenti- gli si avvicinò a passi misurati, il legno che scricchiolava dolcemente sotto i suoi piedi e mani incrociate dietro la schiena.
Sussurro strisciò in cima alla libreria e si arrotolò sul piano più in alto, osservando in silenzio.
Julius non spostò subito gli occhi alla sua destra, in direzione della poltrona. Invece, tenendolo fisso davanti a sé, si accostò alla finestra e guardò fuori, verso il piccolo giardino che contornava la proprietà: erano ufficialmente entrati in freddoinverno e i pochi filamenti d’erba marroncina che ricoprivano il terreno non rendevano certo l’idea della distesa verde tenero che avrebbe ricoperto il terreno di lì a pochi mesi. Era una vista ben triste, in realtà, tutto quel marrone e grigio, o almeno lo sarebbe stata se il suo principale beneficiario avesse potuto goderne.
“È una bella giornata. O almeno,” Julius si corresse “meno orribile di quanto ci si potrebbe aspettare da questa stagione” Avrebbe aggiunto che per lui il freddo e la poca luce erano un vantaggio più che un impedimento -al contrario della maggior parte della popolazione-, ma non aveva molto senso fingere di poter fare conversazione: poche parole dette gli davano, almeno, l’illusione di non essere solo con un oggetto, ma il tentativo di un discorso lo avrebbe solo innervosito.
Infine, si voltò.
Suo padre, o quello che ne rimaneva di lui, non sembrò registrare la presenza di una seconda persona nella stanza. Continuò infatti ad osservare l’esterno con lo stesso sguardo perso nel vuoto, gli occhi azzurri così fissi che, non fosse stato per il sollevarsi ed abbassarsi ritmico del petto, lo si sarebbe pensato morto. I capelli, un tempo castano scuro, erano ora completamente bianchi e un accenno di barba gli decorava il mento, segno che Marius -l’uomo che li aveva accolti alla porta poco prima- aveva trascurato di raderlo, quel cambio. Julius faticava a biasimarlo, per quella dimenticanza: prendersi cura di Atticus era un compito spiacevole, anche se il compenso era proporzionato, ed era molto improbabile che questi dovesse ricevere visite inaspettate. O visite in generale.
Appoggiò una mano sopra il davanzale della finestra, le dita che tamburellavano distrattamente sul legno, lo sguardo ancora fisso dalla figura del genitore, abbandonata contro lo schienale della poltrona.
La stanza sembrò diventare due volte più scura.
Quando la condizione di suo padre si era aggravata, intaccando la mente, oltre che il corpo, ed era diventato chiaro che quella discesa non si sarebbe potuta né fermare né tantomeno rallentare, Julius si era chiesto se la soluzione migliore, invece che mantenerlo in quello stato, non fosse farla finita. Fargli bere una dose eccessiva di sonnifero, una pugnalata al petto o -e questa era l’opzione che che gli sembrava più desiderabile, quando accarezzava il pensiero con la mente- premergli un cuscino sul viso fino ad asfissiarlo. Sarebbe stato un gesto caritatevole, almeno dal suo punto di vista, una dimostrazione di pietà -immeritata, avrebbe aggiunto. Se lui fosse stato in quella situazione, ridotto a nulla di più di un sacco di pelle e sangue, avrebbe di sicuro preferito morire: attaccato alla vita sì, quello sempre, ma non al punto di perdere la propria dignità.
Sapeva, però, che Atticus non l’aveva mai pensata così.
Non si sarebbe, altrimenti, ridotto a strisciare davanti a persone una volta sue pari, chiedendo del denaro in cambio della stima che avevano sempre nutrito per la sua familia. Non avrebbe venduto il suo unico figlio in una terra sconosciuta senza garanzie di vederselo restituito. Non si sarebbe ostinato a sopravvivere per quasi otto mesi in una cella buia e sporca, a costo della sua salute fisica e mentale.
E se davvero questo era ciò che desiderava, se davvero la vita era così importante per lui da ridursi in quello stato, Julius -suo figlio, l’unica altra persona rimasta in tutta la Repubblica a condividere il suo stesso sangue- non era nessuno per sottrargliela: il tempo avrebbe portato a compimento il medesimo lavoro, anche se più lentamente.
Questo non voleva dire che però non potesse neanche indulgere con il pensiero, quando la tentazione diventava troppo forte.
Rimase ancora qualche istante a fissarlo, immaginando la scena. Poteva quasi sentire le proprie unghie artigliare la federa e premere quell’ammasso morbido sul viso di Atticus per uno, due, tre minuti, fino a che non fosse tutto finito.
Si sarebbe reso conto di quello che stava avvenendo?
Avrebbe lottato?
Oppure sarebbe rimasto nel medesimo stato di stolida immobilità fino alla fine?
Non lo sapeva, non gli importava.
“Julius, tutto bene? C’è qualcosa che non va?”
La voce di Lucius ed il suono dei suoi passi nel corridoio lo riscossero dalle proprie fantasie e, nel medesimo istante, l’oscurità che aveva avvolto la stanza sembrò diminuire e lasciare nuovamente spazio alla luce del sole: “Sì. Cioè, no, tutto a posto”
Lucius fece capolino dalla porta, sul viso un’espressione dubbiosa: “Mi avevi detto di aspettarti fuori, ma ci stavi mettendo un’eternità e ho pensato…”
Julius scosse il capo: “Stavo comunque per chiamarti,” poi, un fece un cenno nella direzione del genitore “ecco il paziente: come puoi vedere, non c’è nulla di nuovo”
Sussurro scivolò giù dalla libreria e si arrotolò ai suoi piedi, guadagnandosi un’occhiata torva da parte di Lucius, prima che egli iniziasse a dedicare tutte le sue attenzioni all’ospite vero e proprio.
“Come state oggi, mi domine?” gli chiese mentre si inginocchiava davanti alla poltrona, malgrado sapesse benissimo che non avrebbe ricevuto risposta “Adesso, per prima cosa, controllerò il vostro respiro e il battito del cuore, poi…”
Julius smise di ascoltare e fece segno a Sussurro perché gli si attorcigliasse al collo -posizione che l’ombravipera sembrava gradire più di ogni altra-, poi volse le spalle alla scena. Era una cosa che lo sorprendeva sempre, la sicurezza con cui Lucius svolgeva il suo lavoro malgrado nella vita di tutti i cambi egli fosse, senza possibilità di errore, una delle persone più indecise che avesse mai conosciuto. Il fatto che si dimostrasse effettivamente bravo in quello che faceva era, invece, un dato che aveva preso come piuttosto scontato, malgrado quel proverbio sui mendicanti e i conii dicesse altrimenti1.
L’unica cosa in cui Lucius riuscisse meglio che la cura dei pazienti era la contraffazione di firme: un talento, quello, che molti avrebbero detto comicamente fuori posto.
Vista la quantità di documenti che aveva dovuto contraffare negli anni, Julius considerava il loro incontro una rara fortuna: escludendo l’accettazione dell’eredità e il semplice pagamento dei debiti, che sarebbe stato alquanto più difficoltoso se a provvedervi avesse dovuto essere Atticus, nello stato in cui era, senza il supporto di Lucius ‘suo padre’ non avrebbe mai potuto ripudiare ufficialmente la sua seconda moglie, dandole così modo di interrompere qualsiasi tipo di rapporto con la loro familia e trasferirsi a Vaan, in compagnia di un ricco nobile. Non aveva sue notizie da quasi quattro anni e gli andava benissimo così.
No, il giovane medico si era dimostrato utile -prezioso, avrebbe forse detto- e, come tutte le cose utili, lui era ben determinato a sfruttare le sue abilità fino a che gli fosse stato possibile. E una consulenza sulle condizioni di Atticus non era che in fondo ad una lista molto lunga.
Dopo un tempo che gli parve interminabile, Lucius gli si avvicinò, strofinandosi le mani con uno straccio che emanava un odore acre.
“Dunque?”
“Dunque…” l’altro scosse la testa “non credo che ci sia molto che posso fare, in realtà. Speravo di vedere segni di miglioramento, ma…” la voce gli morì in gola e Julius resistette a stento all’impulso di alzare gli occhi al cielo.
“Ho capito.” E poi, addolcendo il tono: “Sente dolore? Gli hai dato qualcosa?”
“No. Nella sua condizione, non credo che farebbe la differenza: è stabile ed il corpo, seppur provato, sembra sano. Erbe e decotti non hanno potere, in casi come questo. Forse avere qualcuno che gli parli e gli stia vicino per qualche ora potrebbe…” Lucius si interruppe non appena vide lo sguardo nei suoi occhi: era una cosa di cui avevano già parlato. Julius non aveva intenzione di spendere altro tempo -o soldi- per prendersi cura di Atticus. Quanto già faceva era largamente più del dovuto.
“Dunque siamo ad un punto morto” Beh, morto morto no, altrimenti il problema si sarebbe potuto dire risolto: “Non ci resta che aspettare” 
Si avviò verso la porta e, dopo un momento, sentì i passi dell’altro che gli venivano dietro.
“Allora… potrei aver detto a mia madre di aspettare entrambi per pranzo.”
“Sapevi che non sarei venuto altrimenti?”
L’altro abbozzò un sorriso: “Può darsi”
Julius sospirò: “D’accordo allora” Aveva un impegno nel pomeriggio, ma altrimenti la sua giornata era libera. Desolatamente libera, avrebbe potuto aggiungere.
Giunti sull’uscio, Lucius si girò un’ultima volta: “Arrivederci, dominus Scaeva.”
Julius si limitò a chiudere la porta alle sue spalle.



❊❊❊

 

Ecco qui,” annunciò Curalegno, depositando la portata principale sul tavolo, di fronte ai convitati “montone arrosto con verdure e salsa all’aglio: ricetta di famiglia”
“Il profumo è straordinario,” commentò Lucius, già forchetta alla mano “Non è vero, Julius?”
“Assolutamente,” Julius annuì, cercando di allontanare dalla sua mente l’immagine della sala da pranzo di necrosso in cui aveva consumato i pasti per i primi tredici anni della sua vita. Non ci riuscì.
“Quello che è straordinario,” Lavinia sorrise al figlio e poi alla donna dweymeri “è che tu riesca a ricordare questi piatti con così tanta precisione, malgrado siano passati vent’anni dall’ultima volta che sei stata in patria. Hai una memoria prodigiosa”
Curalegno rise: “Il merito è solo in parte mio: mia madre mi ha fatto ripetere questi procedimenti fino allo sfinimento quando ero piccola, e i miei nipoti continuano a mandarmi gli ingredienti necessari per nave più o meno ogni anno. Non so cosa farei, senza di loro.” 
Ella si sedette, prendendo posto a fianco della madre di Lucius. Lavinia non era bassa, non per gli standard itreyani, ma appariva minuscola se affiancata ai due metri dell’altra e la sua pelle chiara -quasi bianca, a causa del tempo passato all’interno della sartoria- creava un’impressione altrettanto forte se accostata al caldo marrone delle braccia e del viso di Curalegno. Contrasto, questo, che si annullava non appena un estraneo le sentiva parlare tra loro: le due donne erano amiche dalla prima giovinezza, ed affiatate ad un livello tale che, quando le aveva incontrate per la prima volta, da ragazzino, Julius aveva creduto fossero amanti.
Vedendo che tutti a tavola erano stati serviti, egli fece per prendere le posate, ma si fermò appena in tempo: dopo mesi che non accettava un invito lì, si era quasi dimenticato delle tradizioni della famiglia.
“È il primo pasto che condividiamo da troppo tempo: credo che spetti a te questa volta.”
Julius scosse la testa: “Cedo volentieri l’onore,” e poi, vedendo che nessuno accennava a procedere al suo posto, si rivolse alla sua destra: “Lucius?”
L’altro si affrettò ad annuire, ripetendo un copione già recitato per anni, e poi, mano destra con tre dite alzate e la voce modellata in un’inflessione pacata, iniziò a recitare la formulare preghiera di ringraziamento al Semprevigile. Era una tradizione che esisteva da sempre tra quelle mura e a cui Julius, per ovvi motivi, si sottraeva ogni volta che poteva.
Fingere in pubblico ed in privato erano, lo aveva imparato presto, due pesi e due misure completamente diverse.
Nessuno in quella casa era abbastanza ricco da potersi permettere di acquistare Trinità benedette e di sicuro nessuno gliele avrebbe portate in dono, vista la loro scarsa rilevanza sociale, dunque non doveva guardarsi da improvvise fitte di dolore nei brevi lassi di tempo passati lì, calibrando il suo comportamento più su noncuranti omissioni che bugie vere e proprie. Anche così, quelle dimostrazioni di fede sincera riuscivano ad innervosirlo; Lucius lo sapeva, e cercava di dirottare la conversazione ogni qualvolta questa toccava la religione.
C’era quasi di sicuro una notevole componente egoistica in quel comportamento.
Nel silenzio che seguì la fine del ringraziamento e che segnò l’inizio ufficiale del pranzo, Julius considerò quello che avrebbe dovuto fare, di lì a poche ore, e sentì tutta la fame che aveva avuto fino a quel momento dissolversi nello stomaco. Aveva mandato Sussurro ad assicurarsi che la persona in questione fosse nel posto giusto al momento giusto e stava ancora aspettando una risposta. Erano passati tre cambi da quando aveva saputo che Corinna era già promessa a un altro e, dopo aver considerato attentamente le sue opzioni, era arrivato a concludere che lei e suo fratello non valevano ulteriori sforzi: se non poteva superare l’ostacolo, doveva aggirarlo. 
Il problema era come.
Lanciò uno sguardo dietro di sé, alla porta e alla sua ombra, e sospirò quando vide che ella era ancora inequivocabilmente scura solo per uno: aveva sperato che accettando l’invito di Lucius il tempo sarebbe passato più velocemente, ma le posate e i piatti sbeccati, le espressioni rilassate dei commensali e la preghiera al Semprevigile gli avevano fatto cambiare idea.
Avrebbe fatto meglio a farsi preparare qualcosa in cucina ed ingannare l’attesa studiando.
Non poteva neanche alzarsi ed andarsene, in primo luogo perché aveva dato appuntamento a Sussurro lì, in secondo luogo perché Lavinia si sarebbe offesa, e rovinare i rapporti con quelle persone gli sembrava controproducente in un periodo in cui già le cose non andavano per il verso giusto: avrebbe dovuto aspettare.
Ancora.
“Perché quella faccia scura, Julius? C’è qualcosa che non va?” Lavinia lo stava fissando, curiosa ed corrucciata allo stesso tempo.
“Oh, nulla di particolare,” fece un gesto noncurante con la mano “ero solo immerso nei miei pensieri”
“Non per problemi di salute, spero”
A dispetto di tutto, gli venne quasi da sorridere. Lavinia gli poneva sempre la stessa domanda, ogni volta che si ritrovavano seduti alla stessa tavola, e ogni volta si aspettava, più o meno inconsciamente, la medesima risposta: “Quelli sono l'ultima delle mie preoccupazioni, soprattutto perché,” gli occhi si spostarono dalla donna al figlio “avrei un ottimo aiuto a pochi passi da me.” 
Alla sua interlocutrice si illuminarono gli occhi: “Già, su questo hai ragione.” Tese poi la mano alla sua sinistra, per prendere quella del figlio. Lucius arrossì fino alla punta dei capelli, ma non si ritrasse e Julius ricordò un altro dei motivi per cui cercava di presentarsi in quella casa il meno possibile, resistendo a stento all’impulso di alzarsi da tavola. Se negli ambienti dell’alta società midollana fingere era necessario per sopravvivere, ma almeno si aveva la certezza che tutti stessero giocando al medesimo gioco -e per quanto ipocrita qualcuno potesse essere, c’era una sola serie di istruzioni da seguire-, lì pretendevano una sincerità che comunque gli era preclusa, rendendo le interazioni molto più faticose.
Gli sembrava solo uno spreco di tempo.
“Devo essere sincera, Lucius, quando ci hai detto di voler seguire la professione di tuo padre né io né tua madre eravamo certe che fosse una buona idea,” Curalegno si servì una seconda porzione di montone e l’offrì anche agli altri, che declinarono. Il piatto di Julius era ancora pieno: “Avremmo preferito che ti occupassi del negozio, oppure che aiutassi me con la falegnameria. Ovviamente,” ella aggiunse, vedendo l’espressione del diretto interessato “siamo state felicissime di cambiare idea.”
“Diciamo che all’epoca la situazione era un po’ diversa,” si intromise Lavinia “la mia sartoria non andava proprio a gonfie vele e anche tu stavi faticando a vendere mobili”
“Molti domini non erano entusiasti al pensiero di due donne che gestivano delle attività indipendenti”
“Vero,” la madre di Lucius bevve un sorso d’acqua: “ma il vento ha cambiato rotta dopo poco, grazie al Semprevigile, soprattutto ora che ci sono più figure femminili che dirigono negozi. Non che non ci siano soggetti poco collaborativi -sono ancora in attesa di un pagamento piuttosto ingente da parte di una familia di mercanti-, ma va meglio”
A Julius venne in mente il negozio in cui Quintus aveva detto di voler passare uno di quei cambi e si chiese, con una punta di curiosità, se ne sarebbe uscito soddisfatto: sulla qualità della merce era spetto più intransigente dei collezionisti di professione e sapeva contrattare meglio di un dominatii interessato a comprare un nuovo schiavo.
Avrebbe dovuto chiederglielo, quando si fossero rivisti.
“… non voglio dire che non sia stancante,” Curalegno stava continuando, guardandosi le mani piene di calli “e che tu non ti senta mai scoraggiata, soprattutto quando passano cambi e cambi senza nuove ordinazioni, ma rimanere al proprio posto mentre la vita prosegue, a dispetto delle avversità, è di per se stesso appagante”
“E poi, una volta che si è costruita una clientela fissa, i pettegolezzi che si scoprono bastano a rallegrare la giornata”
Risero entrambe.
Lungi dal rasserenare Julius, quei discorsi peggiorarono ancora di più il suo umore: quella che per loro era un’esistenza tranquilla e serena, soddisfacente anche, per lui significava mediocrità ed anonimato. Era una scelta che non gli si adattava ed il fatto di sentirne parlare proprio in quel momento, poche possibilità e ancor meno probabilità di poterle sfruttare, lo rendeva irrequieto.
“Di nuovo quell’espressione cupa,” Lavinia lo osservò con attenzione, stropicciandosi le maniche del vestito: “Sei sicuro che non ci sia niente che non vada?”
Julius per tutta risposta modellò le labbra in un sorriso: “Sicurissimo, non dovete preoccuparvi”
Curalegno scosse la testa: “Non so se crederti. Ti conosco da quando eri un ragazzino e non sono mai stata in grado di capire se dicessi la verità o meno.”
Il che era un’indubbia fortuna.
“Chiedete a Lucius, allora,” rispose, facendo un cenno all’amico: “Non ha mai saputo mentire” Si trattenne dall’aggiungere che era un difetto, quello, che gli era tornato straordinariamente utile negli anni. E che era anche l’unica ragione per cui sentiva di potersi fidare di lui. 
“Non… non è vero! Posso essere un ottimo bugiardo!”
Lavinia sorrise: “Non prenderla come una brutta cosa, tesoro, è segno di onestà. Ti vergogni ed abbassi gli occhi, ti senti a disagio e ti stropicci i vestiti. Lo hai sempre fatto, fin da piccolo, e sono convinta che tu abbia preso dalla mia familia,” pausa “Beh, di sicuro non da tuo padre”
Dopo quell’ultima frase, la tensione nella stanza crebbe visibilmente e Lucius, che fino a quel momento aveva tenuto la mano sotto quella della madre, la ritirò di scatto e distolse lo sguardo.
“Gradirei che non tornassimo sull’argomento, se non ti spiace. Non mentre mangiamo, almeno”
La morte di Oonan era ancora una ferita aperta per lui, qualcosa per cui non aveva mai del tutto perdonato né Julius né tantomeno se stesso, ed era uno dei motivi per cui il suo nome non veniva pronunciato spesso tra quelle mura. Julius aveva pensato in più di un’occasione di aprirgli gli occhi sul reale carattere del genitore, rivelargli quello che aveva scoperto durante quei cinque mesi ad Elai, ma alla fine aveva deciso che non ne sarebbe valsa la pena. Lavinia non conosceva i dettagli dei passati traffici di Oonan -altrimenti non sarebbe rimasta in silenzio-, ma la sua acredine per il marito che l’aveva abbandonata a pochi anni dalla nascita del figlio per stabilirsi ad una nazione di distanza risaliva molto facilmente in superficie.
Era l’unico argomento che riusciva a farli litigare.
La donna fece immediatamente un passo indietro e rivolse la sua attenzione al loro ospite: “Ad ogni modo, se c’è qualcosa che ti impensierisce non avere problemi a farne parola con noi: dopo otto anni, ormai ci conosciamo”
Julius annuì.
“O, altrimenti, potresti confidarti con un padre spirituale,” aggiunse Curalegno: “Io lo faccio regolarmente e aiuta molto, anche solo per trovare pace”
“Questo mi ricorda,” Lavinia si alzò in piedi, prendendo i piatti ormai vuoti e poggiandoli vicino al fuoco “che tra un paio di settimane ci dovrebbe essere una grande messa nella Cattedrale a cui parteciperà anche il Gran Cardinale. Di solito cose del genere sono prerogativa della nobiltà, ma in questo caso faranno un’eccezione: c’è chi dice addirittura che egli annuncerà i candidati per la sua successione in quell’occasione2.”
“Notizie sui favoriti?”
“No, ma Papirio ormai è vecchio. Ha senso che inizi a pensare a chi prenderà il suo posto, quando il Semprevigile deciderà di chiamarlo a sé”
“Spero che sia il più tardi possibile. È stato un ottimo Gran Cardinale e un ardente servitore dalla fede”
Julius condivideva quelle parole solo a metà: da quel poco che sapeva sul suo conto, Papirio era un vero credente -uno dei pochi rimasti, ai piani alti- e di certo prendeva molto sul serio il suo ruolo di portavoce di Aa. Quello era, però, anche il principale motivo per cui sperava che raggiungesse in fretta il Focolare: c’erano già abbastanza Trinità in circolo senza che ne venissero benedette altre, senza contare che un ecclesiastico meno intransigente si sarebbe meglio adattato alle macchinazioni politiche.
Tutti ragionamenti, quelli, che valevano per il futuro e perdevano la loro utilità se rapportati alla sua corrente situazione.
“Sarebbe bello andarci: sono anni che non vedo l’interno della Basilica”
“Tu cosa conti di fare?” gli chiese Lucius. Lui era l’unica persona in quella stanza che conoscesse i suoi progetti, almeno in parte, e doveva aver fatto più o meno le sue stesse considerazioni: entrare ed assistere alla celebrazione sarebbe potuto essergli utile per prendere le misure, ma al contempo era quasi sicuro che Papirio sarebbe stato in veste ufficiale. 
Il che voleva probabilmente dire tre soli dorati appesi al collo.
Lucius non sapeva dell’effetto che essi avevano su di lui -nessuno lo sapeva-, ma doveva avere intuito che un’occasione simile non potesse essere piacevole per un tenebris.
Julius fece per rispondere, ma un istante prima di aprire bocca sentì un brivido risaligli lungo la schiena e, lanciando un’occhiata ai suoi piedi, vide con sollievo che la sua ombra si era scurita.
… Tutto a posto. È dove pensavi che sarebbe stato: direi che è la tua migliore occasione…” Il sibilo gli lambì l’orecchio e lui annuì, poggiando entrambi le mani sul tavolo ed apprestandosi a prendere congedo.
“Non ho ancora deciso, credo dipenderà dallo sviluppo dei prossimi eventi,” sorrise: “Detto questo, temo proprio che dovrete scusarmi: ho un impegno che mi attende tra pochissimo e non posso proprio trattenermi”



❊❊❊

 

Il braccio dello Scudo era molto frequentato a quell’ora del cambio. Domini e dominae si affrettavano per le strade, attorniati dai propri servitori, mentre i Luminatii presidiavano le porte attorno al Bianco Palazzo. La costruzione -che doveva con tutta probabilità il suo nome alla mancanza di fantasia del proprio architetto- rifletteva i raggi del sole tutt’attorno a sé e li indirizzava verso la statua del Semprevigile eretta sulla sua sommità, scudo e spada protesi a difesa del popolo itreyano e una Trinità, mai benedetta da un vero credente, intagliata sul pettorale.
“Dove mi hai detto che è?” chiese Julius tra i denti, mentre si guardava attorno, alla ricerca del proprio obiettivo.
… Quando l’ho lasciato era ad un angolo della piazza e stava chiacchierando con un altro senatore. Se non se ne è andato…
“Considerato il carattere, non dovrebbe averlo fatto.” Una pausa “A meno che non abbia deciso di cambiare abitudini all’improvviso”
… Sarebbe strano, specialmente per qualcuno nella sua posizione…
“C’è sempre una prima volta.” E sperava di tutto cuore che non si trattasse di quella.
Dopo l’ultimopasto a casa di Quintus, Julius si era preso del tempo per riflettere sulla prossima mossa. Ovviamente, Corinna non era più un’opzione da prendere in considerazione, e con lei erano naufragate anche le sue speranze di avvicinarsi al fratello: conoscendo la familia in questione, il futuro marito della figlia e Fulvio si sarebbero candidati insieme, proprio come lui stesso aveva pianificato di fare. Ciò voleva dire che doveva trovare un sostituto e farlo anche in fretta: malgrado fosse passato meno di un mese dalle ultime elezioni, i giovani che desideravano candidarsi per la prima volta di solito iniziavano a farsi conoscere molto presto dalla popolazione, per poter ispirare la loro benevolenza e guadagnarsi il loro voto. Con i personaggi più in vista, i primogeniti di familiae ricche e potenti, era ovviamente più facile -bastavano poche parole da parte dei genitori per assicurare ai loro rampolli un posto in senato-, ma nel suo caso quella era una strada non percorribile.
Il matrimonio era la via prediletta per costruire alleanze, lo era sempre stato, ma la sua posizione lo rendeva un partito appetibile solo per la nobiltà medio-bassa, per le figlie di domini non molto ricchi e di certo non midollani, sufficienti solo se avesse voluto aspirare ad una carriera mediocre. In una parola: improponibili. Nonostante si fosse sforzato di trovare una sostituta a Corinna, Julius non era ancora giunto ad una conclusione soddisfacente: c’erano solo due candidature certe per il momento, una delle quali sarebbe stata quella del fratello della ragazza, presto seguita da quella del marito, ed i nomines degli aspiranti quaestores lasciavano credere che il seggio di Godsgrave sarebbe andato necessariamente a uno di loro, se non si fosse presentato qualcuno di più importante. Legarsi ad una familia che non gli garantisse una candidatura certa -anche ammesso che ne avesse trovata una sufficientemente in alto e disposta a chiudere entrambi gli occhi sulle sue attuali condizioni- era una perdita di tempo. E, come già detto, Fulvio avrebbe trovato un collega nel marito della sorella.
A conti fatti, non gli restavano molte opzioni.
Julius si spostò alla sua destra, verso il gruppo di edifici più vicino, nella speranza di avere una visione più completa della piazza. Dopo qualche tentativo, riuscì, con sollievo, ad identificare la persona per cui era venuto, vicina alla porta del Bianco Palazzo ed immersa in una fitta discussione con un altro uomo. Era troppo distante per udirne le parole, ma, dalle espressioni sui loro volti, sembrava che l’argomento non interessasse troppo nessuno dei due; un provvedimento proposto in Senato, forse, o qualche lamentela nei confronti dei nuovi consoli -come spesso capitava subito dopo le elezioni. Non avrebbe interrotto nulla di importante. Bene.
Julius prese un bel respiro e iniziò a camminare nella loro direzione. Sussurro, nascosto nelle tenebre sotto i suoi piedi, ingoiava il suo nervosismo e lo lasciava freddo e sicuro. 
Se neanche un approccio diretto avesse funzionato…
No.
Una volta davanti a loro rimase in disparte, ad una distanza rispettosa e al contempo che lasciava intendere la sua intenzione di chiedere udienza. Dovette rimanere in quella posizione -capo e spalle leggermente reclinate in avanti, sguardo basso ma non troppo-, per diversi minuti prima che si accorgessero della sua presenza.
“Septimus?” Uno dei due -capelli brizzolati pettinati all’indietro, barba curata e dita inanellate- mise una mano sull’avambraccio dell’altro, bloccandolo a metà della frase: “Credo che questo giovane abbia qualcosa da dirti”
L’altro si voltò nella direzione indicata dall’amico e Julius ebbe per la prima volta l’occasione di incontrare il suo sguardo. Severo era un bell’uomo, alto e dal fisico atletico, i cui capelli brizzolati lasciavano ancora indovinare il loro originario colore nero. Aveva da poco compiuto cinquant’anni e l’occasione aveva destato parecchia curiosità negli ambienti midollani, perché il senatore si era rifiutato di festeggiare, manifestando sprezzo per una tradizione che solo i più ricchi della Repubblica potevano permettersi. Julius lo esaminò con discrezione, trovando conferma di ciò che già sapeva sul suo conto: espressione austera, guance lisce, neanche una gemma ad impreziosirgli le dita. La ricchezza della sua familia traspariva più dall’atteggiamento del corpo che dall’oro.
“Mi scuso profondamente per avervi disturbato, mi domini,” disse, abbassando ancor di più lo sguardo per evitare di sembrare irrispettoso “la mia intenzione era solo quella di portare i saluti di mio padre ad un vecchio amico”
Severo alzò un sopracciglio: “Il tuo viso mi è familiare, ragazzo. Chi è tuo padre?”
Julius ignorò il moto di fastidio che gli aveva percorso le spalle al sentirsi chiamare ‘ragazzo’ e rispose, labbra tirate nel sottile sorriso che sempre gli decorava il volto in situazioni simili: “Il mio nome è Julius Scaeva, mi domine. Sono il figlio di-”
“Atticus,” Severo annuì, per poi corrugare la fronte “Non lo vedo da un’eternità”
“Non credo che ci sia più stata l’occasione” rispose con sincerità e proseguì, prima che l’altro avesse tempo di aggiungere qualcosa: “Mi ha raccontato spesso dello stretto rapporto che vi legava in gioventù, e vedendovi qui, oggi, ho pensato che fosse l’occasione giusta per venire a rendere omaggio a quella vecchia amicizia.” Pausa “Ma se ho scelto un momento inopportuno…”
“No, affatto,” l’uomo sembrò indeciso su cosa fare, ma infine si rivolse all’amico che aveva ascoltato in silenzio la conversazione: “Rufus, vorrai scusarmi per un istante…”
Il diretto interessato spostò lo sguardo da Severo a Julius e poi di nuovo a Severo: “Non dirlo neanche. Ti aspetterò qui. Non sia mai che per colpa mia tu perda l’occasione di ricevere notizie da un vecchio amico” C’era una sfumatura ironica in quelle ultime parole, ma Severo non la sentì, o scelse deliberatamente di ignorarla.
Invece, iniziò a camminare lungo il bordo della piazza, facendo segno a Julius di seguirlo. 
“Come sta tuo padre?”
“Non sono stati anni facili,” Julius incontrò gli occhi dell’uomo, leggendovi un interesse che giudicò genuino “ma meglio.” Lasciò volontariamente ambiguo il periodo a cui si stava riferendo con quel ‘meglio’. Severo -come tutti, in realtà- sapeva.
“Ne sono sollevato. Ho saputo che ha allontanato la sua seconda moglie, qualche tempo fa.”
“A volte le asperità rafforzano una coppia,” Julius alzò le spalle, con noncuranza “e a volte fanno l’opposto. Dipende dal temperamento di entrambi, suppongo”
Severo annuì, apparentemente soprappensiero: “Può darsi. Ero presente ad entrambi i matrimoni, ma non ho mai avuto occasione di parlare né con lei, né con la sua prima moglie -tua madre.”
Julius aveva vaghe memorie del secondo matrimonio di Atticus. Aveva appena compiuto otto anni, allora, e gli era stato dato il permesso di rimanere alzato fino a tardi a patto che si comportasse in maniera appropriata all’evento, osservando molto e parlando poco. Ricordava molto bene, però, l’uomo alto e dai capelli neri -non ancora brizzolati- che suo padre aveva accolto con un abbraccio e con cui aveva scherzato e chiacchierato per gran parte del banchetto, ignorando perfino la sua sposa.
E ricordava anche i numerosi ultimipasti che i due avevano condiviso, prima che la situazione diventasse evidentemente imbarazzante.
“Il tempo passa in fretta,” commentò “si cresce e si invecchia senza che ce ne si renda conto e nel frattempo il mondo va avanti senza di noi. O con noi.”
Un barlume di comprensione si accese negli occhi di Severo: “Quanti anni hai, ragazzo?”
“Ventuno, mi domine. Ventitré il prossimo verobuio,” continuò, mentre l’ombra vibrava e tremava ai suoi pedi: “so che il vostro figlio maggiore ha intenzione di candidarsi come quaestor alle prossime elezioni. Se come credo è ancora alla ricerca di un degno collega, permettetemi di…”
Severo lo interruppe con un cenno della mano: “No.”
Mi domine, ascoltate almeno quello…”
“Potresti dirmi qualsiasi cosa e la mia risposta non cambierebbe,” Severo sospirò e rallentò il passo, senza mai incrociate lo sguardo di Julius “Ascolta, non sto rinnegando l’affetto che mi ha legato ad Atticus, in passato, e sono sinceramente sollevato da sapere che le sue condizioni di salute sono migliorate. Ma, come hai detto tu, è stato molti anni fa.”
“Le amicizie si possono disseppellire,” replicò Julius, sforzandosi di mantenere un sorriso che rischiava di scivolargli via dalle labbra “e mio padre vi ha spesso menzionato come il suo più stretto confidente, in gioventù”
“Eravamo molto vicini, questo è vero” Talmente vicini da far nascere pettegolezzi in proposito, anche se Julius non vi aveva mai creduto: conosceva fin troppo bene i gusti del genitore. “Ma la situazione è molto diversa da allora, per me e, soprattutto, per lui. Credo che non ci sia bisogno che ti riferisca la reputazione di cui Atticus, in giro”
“Io non sono lui”
“Ma sei pur sempre suo figlio”
Julius non demorse: “Porto il suo nomen, è vero, ma non abbiamo molto altro in comune a parte quello.” E poi, vedendo che l’altro non replicava “Lasciate che i fatti parlino in mia vece e non le voci di corridoio.”
Severo scosse la testa: “Vieni qui chiedendo di rinsaldare una vecchia amicizia e al contempo richiedi di essere giudicato in rapporto a te stesso: vedo un controsenso”
“Non necessariamente, mi domine. Gli errori delle generazioni passate possono essere corretti, con il senno di poi, da quelle presenti e future3, se si ha la giusta accortezza. Sarebbe un reciproco beneficio”
“E cosa porteresti tu a me?” Julius aprì la bocca per replicare, ma Severo gli fece cenno di tacere: “Non sei ricco, non hai contatti importanti, sei solo, con una reputazione dubbia-”
“Una reputazione dubbia che non ho fatto nulla per meritare”
“Dubbia in ogni caso. Le colpe dei padri ricadono sulle spalle dei figli. ‘Purtroppo’ qualcuno direbbe, ma dal mio punto di vista non è un male: funziona da ammonimento”
Julius alzò un sopracciglio: “Credete che commetterei gli stessi sbagli di mio padre?”
“Non vedo nulla che mi provi il contrario. L’unico motivo per cui sei qui, davanti a me, e non a chiedere la carità per strada è un provvidenziale testamento arrivata al momento giusto -sì,” aggiunse, vedendo la sorpresa negli occhi di Julius “la notizia è circolata molto velocemente nei salotti-, non hai amici influenti o parenti che garantiscano per te e, se sei riuscito a mantenere quel poco che avevi, non c’è garanzia che tu gestisca altrettanto bene una quantità superiore. Ragiona un momento: tu accetteresti, al mio posto, un patto simile, quando avresti la possibilità di aspirare a molto meglio? Specialmente se c’è il rischio di danneggiare te stesso o tuo figlio, senza garanzie?”
“Pondererei attentamente prima di fare la mia scelta,” rispose lui “ma non opporrei un rifiuto secco”
Severo sospirò: “Quando giungerai alla mia età la penserai diversamente,” gli mise una mano sulla spalla. Se avesse guardato in basso, avrebbe visto le ombre tremare tutt’intorno a loro: “Ti ho dato udienza per via dell’affetto che mi legava, ed in un certo senso mi lega ancora, a tuo padre e ti auguro buona fortuna per tutto, ma non farò di più. Niente di personale, ragazzo”
Julius stava per replicare, una rabbia a stento contenuta fino a quel momento che infine minacciava di fuoriuscire dalle sue labbra in un torrente di parole, quando qualcuno alle loro spalle interruppe lo scambio: “Padre!”
Si voltarono entrambi e videro un ragazzino che non poteva avere più di dodici anni, capelli neri e lisci e le guance rosse, correre nella loro direzione.
Sul volto di Severo si dipinse un sorriso indulgente, che contradiceva il tono con cui si rivolse al figlio: “Marius, ti sembra il caso di urlare in questo modo, da un capo all’altro della piazza?”
“Domando scusa, padre,” disse il ragazzino, non appena ripreso fiato “ma vi ho cercato dappertutto: Clodius ha chiesto di voi.” 
Egli gettò poi un’occhiata incuriosita a Julius, ma, prima che potesse chiedere alcunché, venne di nuovo interpellato dal genitore: “Clodius? Tuo fratello non dovrebbe essere ancora alle Costole?”
L’altro annuì: “Sì, ma dice che devi andare anche tu là. Dominus Remus vuole parlarti di qualcosa che riguarda il m…”
“Sì sì, ho capito,” Severo si affrettò a troncare la frase del figlio, sulla fronte una ruga di preoccupazione: “lo raggiungo subito.” E, senza lanciare più di un rapido sguardo a Julius, che era rimasto in silenzio e in disparte per l’intero scambio, seguì il ragazzino, scomparendo in breve tempo tra la folla.
Julius rimase per qualche momento in silenzio, pugni stretti e il cuore che gli scoppiava nel petto, fino a che non sentì un sibilo familiare accarezzargli l’orecchio: “… Si pentirà presto del modo in cui ti ha trattato, fidati. Lo faranno tutti, uno dopo l’altro. E comunque non hai bisogno di lui, né di suo figlio: il posto di quaestor di Godsgrave sarà tuo, in un modo o nell’altro…
Severo non l’avrebbe aiutato.
Lo sapeva, lo aveva saputo ancor prima di presentarsi davanti a lui, facendo leva sull’inconsistente concetto di fedeltà, ma aveva sperato di poterne comunque ricavare qualcosa, di aver trovato una scorciatoia. Che l’eredità di Atticus non si dovesse ridurre una lunga serie di fallimenti e ponti bruciati.
Ora, il sapore dell’umiliazione ancora aspro sulla lingua, doveva ammettere di essersi sbagliato e che quella deviazione, l’ennesima, non era stata che un’inutile perdita di tempo.
La collera del suo passeggero si aggiungeva alla sua, talmente violenta da rendere difficile il controllo delle ombre. Le sentiva fremere sulla punta delle sue dita, ai piedi degli edifici e dei passanti che lo circondavano, e convergere nella sua direzione, incuranti della posizione del sole, in attesa di un suo comando.
Un comando che, però, lui non aveva intenzione di dare.
Respirò profondamente, sentendo i muscoli rilassarsi, e riprese a camminare, un passo alla volta, in direzione della propria abitazione. 
Pur nella rabbia e nella delusione, però, di una cosa era comunque certo: Sussurro aveva ragione.
Sarebbe diventato quaestor della città di ponti ed ossa e avrebbe seduto in Senato, tra la stessa gente che aveva rifiutato di tendergli la mano.
Qualsiasi fosse stato il prezzo da pagare






 

[1] Il proverbio in questione era 'Un unico conio produce sempre lo stesso medicante' e stava ad indicare che ripetere la stessa cosa nel medesimo modo non può portare che ai medesimi risultati. In questo caso, imparare il proprio mestiere da qualcuno -come il padre di Lucius- che aveva sempre usato la propria professione per lucrare sui pazienti, invece che aiutarli, non lasciava ben sperare per il futuro. Fortunatamente, quasi tutti i proverbi sono un mucchio di sciocchezze.
[2] Fin dalla sua istituzione, il titolo di Gran Cardinale veniva passato da individuo ad individuo seguendo uno schema di regole piuttosto rigido. Rigorosamente preclusa alle donne -come la maggior parte dei ruoli di qualche peso nella Repubblica-, la carica richiedeva che l’uomo in questione avesse superato i cinquant’anni, avesse già ricoperto la posizione di vescovo per almeno quindici e che portasse numerose testimonianze delle proprie opere di beneficienza e carità. I candidati potevano essere supportati da fazioni più o meno potenti, e più o meno disposte a fare pressioni perché il loro protetto venisse eletto, ma la scelta alla fine era a mera discrezione del Gran Cardinale attualmente in carica, che lo rivelava davanti all’intero Senato solo in punto di morte. Nel caso egli morisse senza poter dare le sue disposizioni -o per una malattia improvvisa o per… incidenti di altra sorta-, tutti i vescovi d’Itreya si riunivano in un Concilio e deliberavano in segreto, completamente tagliati fuori dal mondo esterno. 
Al contrario di quanto potreste pensare, gentili amici, i Gran Cardinali che non morivano per cause naturali erano pochi. Per quanto la religione venisse usata come specchietto per le allodole, la possibilità che il Semprevigile avesse qualcosa da ridire circa l’uccisione del suo più importante rappresentante terreno era evidentemente sufficiente per allontanare quei pensieri dalla mente dei più.
[3] Oppure possono peggiorare le cose.

*Parziale ripresa del discorso sull'umorismo di Pirandello. 

 
   
 
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