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Autore: rose07    25/10/2020    1 recensioni
Due anni.
Erano passati due anni da quando Taichi aveva smarrito sé stesso. Da quando la vita a Kyoto gli stava stretta.
Due anni da quando Yamato aveva iniziato ad andare alla deriva. Da quando il silenzio lo aveva risucchiato.
Due anni.
Erano passati due anni da quando Mimi aveva lasciato la persona che amava. Da quando il suo sorriso era meno sincero.
Due anni da quando Sora aveva riscoperto una parte di sé tenuta nascosta. Da quando le cose avevano preso una piega differente.
Tratto dalla serie: "Stay together in the end".
Genere: Erotico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Mimi Tachikawa, Sora Takenouchi, Taichi Yagami/Tai Kamiya, Yamato Ishida/Matt
Note: Lemon, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Stay together in the end ( ? )'
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L’autobus ripartì, mentre un ragazzo alto con i capelli castani alzava gli occhi al cielo. Si guardò intorno, godendosi quel paesaggio che tanto gli era mancato.
Il sole era alto e batteva sui palazzi, i passanti frettolosi si accingevano a tornare a casa, le auto sfrecciavano a tutto gas non appena il semaforo era diventato verde.
Ispirò l’aria di casa, una leggera brezza che gli rinfrescava il viso. Si strinse in spalla il borsone e con una mano afferrò la valigia.
Camminò lentamente, osservando ogni minima cosa che gli si presentava dinanzi. Gli era mancato tutto.
Gli erano mancati i rumori, gli odori, il caos di Tokyo. Erano mesi che non si beava di tutto quello, erano mesi che era costretto a fare quei duri allenamenti che lo avevano stremato, erano mesi che l’unica cosa che gli era concessa vedere era la sua camera del residence. 
Era come se stesse riprendendo vita, era come se il sangue fosse tornato a scorrergli nelle vene dopo tanto tempo, era come se si fosse svegliato da un lungo sonno.
Gli scappò un sorriso, mentre guardava con attenzione le vie e i negozi. Passò vicino ad un parco, osservò gli alberi e le panchine.
Come aveva fatto per così tanto tempo ad aver rinunciato a tutto quello?
Girò da una via e imboccò un’altra strada. Si era fatto lasciare in quel quartiere perché aveva intenzione di andare a trovare una persona.
Si fermò di fronte ad un appartamento non molto grande, notò che il portone era aperto ed entrò. Salì un paio di scale fino ad arrivare dinanzi a una porta.
Era lì che abitava da circa tre anni. Dall’odore che proveniva da dentro sicuramente stava cucinando qualcosa di buono, e ora che ci pensava era quasi l’una del pomeriggio ed aveva una fame da lupi. Suonò e attese.
Quando la porta si aprì, Taichi sorrise alla visione di un Yamato con i capelli scompigliati e una vecchia tuta addosso.
Lui che era sempre così perfettino.
Questi lo guardò boccheggiando, spalancando gli occhi.
Era lì. Il suo migliore amico era lì.
Si chiese se non stesse ancora sognando, ma il ragazzo aveva incominciato a ridere con la sua solita risata fragorosa, e lui pensò che era tutto vero.
Non avrebbe mai potuto dimenticare quella risata.
La sua risata.
«E’ così che accogli il tuo vecchio?!» gli chiese con sarcasmo, mentre l’altro era ancora fermo sulla soglia e lo fissava interdetto.
Si risvegliò da quello stato di trance e sentì la gioia pervaderlo, perché non era uno scherzo, lui era lì, era tornato.
Taichi era tornato.
Scoppiò a ridere e l’altro fece lo stesso. Era straordinario come una merdosa giornata di fine maggio potesse diventare in un attimo splendida.
Matt si sporse e lo abbracciò. Gli era mancato tantissimo. Il castano ricambiò la stretta e pensò la stessa cosa.
«Tai» sussurrò con affetto sincero. Questi continuò a ridere, tirandogli pacche sulla schiena.
«Cazzo, sei qui» Il biondo si stancò dall’abbraccio e lo esaminò, ancora con un’espressione interrogativa in volto.
Tai si passò una mano tra i capelli, poi prese la sua valigia.
«Allora, mi fai entrare o ci sediamo sulle scale?»
Matt annuì e si spostò per farlo passare. Quando  varcò la soglia, fu investito da un forte odore di cibo e il suo stomaco reagì subito, brontolando.
Si guardò intorno, esaminando bene l’appartamento. Era un piccolo monolocale con cucina e soggiorno insieme. Ciò che gli saltò all’occhio fu senza dubbio il ventilatore da soffitto e la carta da parati a righe sfumate, senape e marroni. Appena si entrava, sulla sinistra, c’era un grosso frigo vecchio stile di color ottanio. La cucina, invece, era di un blu smorto e proseguiva ad angolo retto fino all’altro muro. Il tavolo in legno sembrava più una penisola, e aveva solo due sedie a disposizione. In fondo, sulla destra, c’erano un divano grigio a due posti e un televisore poco moderno appoggiato su un mobiletto. La casa non era molto arredata se non per una piccola libreria dove c’erano libri e altre cianfrusaglie. La luce era poca, entrava dall’unica finestra che c’era in fondo e dava l’idea di un antro segreto. Matt si sforzava di tenere in ordine, ma c’erano spartiti sparsi qua e là, cianfrusaglie sopra il mobile all’entrata, la sua chitarra appoggiata sul divano e le tazze della colazione ancora dentro il lavello. Però gli piaceva. Nonostante fosse piccola e poco luminosa, era accogliente.
Era da Matt.
«Cosa stai cucinando?» gli chiese, avvicinandosi ai fornelli e alzando il coperchio della pentola.
«Uno spezzatino con le patate»
Tai si voltò a guardarlo, sorridente.
«Non sei affatto cambiato» alluse alle sue capacità culinarie che lo avevano da sempre contraddistinto.
Il biondo scosse la testa, e continuò a guardarlo.
Erano da più di sette mesi che non si vedevano e il corpo di Tai era ancora più tonico, aveva una leggera barbetta e si era perfino tagliato i capelli.
Ma era sempre il solito Taichi. Magari un po’ più serio, un po’ più maturo, ma era sempre lui. Ed era per questo che Matt gli voleva bene.
«Neanche tu» gli sorrise, mentre lo osservava sedersi sul divano con le braccia incrociate dietro il capo.
Il biondo si avvicinò ai fornelli e diede una controllata al cibo. Poi lo scrutò, indagatore.
«Come mai sei qui?» gli chiese finalmente, notando il cambio di espressione dell’amico. Tai, infatti, aveva fatto una smorfia.
«Mi sono preso una pausa, non ce la facevo più» spiegò, passandosi una mano sul volto.
Aveva trascorso mesi e mesi di inferno, obbligato ad allenarsi fino allo stremo delle forze, segregato dentro una camera senza poter vedere nessuno.
«Ho anche litigato con il mio allenatore» continuò, ricordando i dissapori avuti con Akira. Era un uomo meschino e arrogante, non aveva nessun rispetto per i suoi calciatori, e badava solo a guadagnare denaro.
Tai strinse un pugno. Non sarebbe stato la macchinetta di nessuno da quel giorno in poi.
Matt notò l’espressione tesa del suo volto.
«Quanto rimani?»
Il castano spostò lo sguardo verso la finestra. Avrebbe voluto rimanere per sempre a Tokyo senza dover dare conto a nessuno, ma non si poteva avere tutto dalla vita.
Per seguire il suo sogno doveva rinunciare alla sua serenità.
«Solo una settimana» proferì infine con un sospiro.
Matt aprì la bocca, deluso. Credeva che con l’avvento dell’estate e la fine delle partite poteva restare molto di più.
«Cazzo...» imprecò a bassa voce, mentre Tai ridacchiava amaramente.
Erano così rari quei momenti che non si aveva nemmeno il tempo di viverli. Ma era risoluto questa volta, si sarebbe goduto tutto di quel luogo, della sua famiglia e dei suoi amici.
Non avrebbe avuto rimpianti, quelli sì che straziavano il cuore.
Si alzò dal divano e lo raggiunse. Gli si parò di fronte e notò che erano alti uguali. Matt aveva allungato di nuovo i capelli e aveva un po’ di barba che gli incorniciava il viso. Aveva sempre avuto quell’aspetto angelico e un po’ sofferente, quello di un ragazzo bello e dannato.
Gli posò una mano sulla spalla, e lui alzò gli occhi cerulei.
«Ehi, amico, ti prometto che recupereremo tutto»
Sapeva che manteneva le promesse, eppure il biondo pensò che non sarebbe mai bastato tutto il tempo del mondo per attenuare la mancanza che aveva dentro.
Ma era sempre stato un tipo silenzioso e non aveva mai preteso niente da nessuno. Tai aveva la sua vita.
Lui era solo un idiota che non aveva ancora fatto i conti con sé stesso.
Il rumore della pentola lo distrasse e si premurò di abbassare il fuoco. L’altro si accorse che c’era qualcosa che non andava.
«Che succede qui intorno?»
Nel frattempo, lo aiutava ad apparecchiare la tavola. Matt alzò le spalle e prese due piatti dalla credenza.
«Uno schifo» mormorò, mentre spegneva i fornelli «Lavoro quattro giorni a settimana e mi pagano di merda»
Non era solo questo, però. Lo sentiva.
«E con la band come va?»
Tai era sempre stato bravo a sganciare bombe, ma questa era peggio di una ad idrogeno. Il biondo sentì il cuore battere più forte e un immane senso di tristezza lo pervase.
«Abbiamo rotto definitivamente» disse atono, mentre l’altro spalancava gli occhi e lo guardava interrogativo.
«No, e quando?!» Tai era stupito, ma Matt guardava in faccia la realtà.
Non serviva a niente perdere tempo con qualcosa che non aveva futuro.
«Giusto ieri» rivelò, godendosi la faccia stupefatta dell’altro.
Il castano non poteva udire alle sue orecchie. La musica era tutto per Yamato, era il suo mondo, la sua valvola di sfogo, e quella band andava avanti da un paio d’anni. Perché era finito tutto?
«Che cazzo... Ma perché?» diede voce ai suoi pensieri.
Matt strinse la pezza tra le dita e cominciò a versare il cibo sui piatti.
«C’erano più spese che guadagni» disse con voce roca, dopo qualche secondo
Mentre parlava faceva rumore con i piatti e le pentole. Tai notò che era segno di nervosismo.
«E poi, parliamoci chiaro» si voltò di scatto e lo guardò serio
«Le band non piacciono a nessuno, sono passate di moda, ormai. Si erano rotti le palle tutti, ero io l’unico idiota che ancora ci credeva...»
La sua voce si spezzò, e lo vide mordersi il labbro. Tornò a trafficare in cucina, e a Tai fece tanta tenerezza. Si sforzava di essere il più razionale e indifferente possibile, come faceva sempre d’altronde, ma lo conosceva fin troppo bene per crederci.
Soffriva per quella decisione, perché tutto quello aveva rappresentato per anni il suo unico obbiettivo di vita. Era andato a vivere in un altro quartiere di Tokyo per frequentare il conservatorio, lavorava in un bar da quattro soldi per mantenersi l’affitto e le spese, non sapeva dove sbattere la testa perché era solo e non c’era nessuno ad aiutarlo.
Non poteva mollare dopo tutti quei sacrifici.
«Non sei un idiota se tutto ciò che hai fatto è stato seguire il tuo sogno»
Disse quelle parole un po’ per confortare anche sé stesso. Aveva dovuto dire addio a diverse cose pur di giocare a calcio.
Ne era valsa veramente la pena?
Matt posò i due piatti a tavola e non lo guardò. Forse il suo amico ancora ci credeva, ma lui sapeva qual era la verità.
«A patto che non sia effimero»
Era duro quando parlava, lo era sempre stato, ma questa voltò turbò Tai più del dovuto.
Un sogno effimero... E se io stessi inseguendo qualcosa che non mi appartiene, che non mi apparterrà mai...
E se io scoprissi che tutto ciò che ho fatto non è servito a niente, che ho speso cinque anni della mia vita dietro al nulla...
E se quello che pensavo fosse il mio sogno, il mio unico obbiettivo di vita, si rivelasse... effimero?
Taichi si morse le labbra, lo sguardo perso nel vuoto. Forse il suo amico aveva ragione. Forse... forse il gioco non valeva la candela, e se ne stava pian piano rendendo conto anche lui... Era per questo che aveva deciso di tornare a casa, era per questo che non sopportava più i modi del suo allenatore e quelli dei suoi compagni...
Era per questo che aveva incominciato ad odiare quella vita.
Alzò gli occhi castani sull’altro, che aveva incominciato a mangiare. Il suo stomaco gorgogliava e decise di imitarlo, spegnendo quel flusso di pensieri che mano a mano lo stavano inglobando.
Decise di cambiare discorso e si schiarì la voce.
«E con Sora come va?»
Voleva solo essere una semplice domanda, ma aveva quasi rischiato di strozzarlo. Matt bevve un bicchiere d’acqua e spostò lo sguardo da un’altra parte.
Come andava con Sora?
Beh, era tutto così strano... Era così strano svegliarsi la mattina e ritrovarsi solo sul suo letto quando avrebbe desiderato trovare lei al suo fianco...
Come andava con Sora?
Era tutto così strano non sentirla per telefono da così tanto tempo, era strano non vederla ogni giorno, era strano non stringerla a sé...
Come andava con Sora?
«Ah, sì, con lei... Potrebbe andare meglio» mormorò, tentando di mantenersi il più neutro possibile. Ma Tai era il suo migliore amico, forse se lo era dimenticato, e capiva quando c’era qualcosa che non andava.
Quando c’era tutto che non andava.
«E’ successo qualcosa?» glielo aveva chiesto con un sospiro, perché lui e Sora erano i suoi punti di riferimento, e mai nella vita avrebbe voluto che accadesse qualcosa tra di loro.
Però adesso Matt aveva gli occhi bassi, e sentiva che soffriva, perché qualsiasi cosa fosse accaduta, lui a Sora teneva molto.
«No, non è successo niente. E’ proprio questo il fatto» ammise ridacchiando, mentre torturava il cucchiaio.
Avrebbe voluto succedesse qualcosa perché non riusciva più a sopportare quella situazione.
Era diventato così pesante gestire il peso di quel lungo silenzio.
Tai lo guardò serio.
«Matt...» fece per parlare, per dirgli che non doveva comportarsi così, che doveva andare da lei a chiarire se c’era qualcosa che non andava, perché lui e Sora si appartenevano, e Tai non voleva che soffrissero.
Il biondo però l’interruppe infastidito, come sempre quando si trattava di un fatto suo personale.
«Non mi va di parlarne, Tai, davvero» Pensò di averlo zittito, ma non era tipico del castano starsene zitto in quelle situazioni.
«Non essere stupido! Smettila di piangerti addosso come un bambino!»
Aveva alzato un po’ la voce, però era questo l’unico metodo che funzionava con Yamato. Lo fissò duramente, aspettando che dicesse qualcosa.
Quando uno dei due non capiva, l’altro gli apriva gli occhi, era sempre così.
E nonostante Taichi stesse rischiando di alimentare un litigio, lo aveva fatto comunque, perché colpendolo in uno dei suoi punti più sensibili lo avrebbe fatto ragionare.
Matt continuò a stringere la posata tra le dita, e il cibo si era ormai freddato.
Forse Tai aveva ragione.
Aveva ragione a dirgli che era un fottuto bambino del cazzo. Aveva compiuto ventisei anni e non era capace di mettere apposto le cose con la sua donna.
L’unica cosa che aveva saputo fare per tutti quegli anni era piangersi addosso e sperare che tutto si sistemasse da solo.
Era per questo che aveva sempre raccattato fallimenti.
Lo guardò.
Era contento che fosse tornato.
Annuì, convinto.
«Le parlerò» disse, senza aggiungere altro, e Tai sospirò di sollievo.
Yamato capiva sempre.
Gli regalò un sorriso e finirono di mangiare.
Era sempre così, tra loro due. Erano un continuo volersi bene e poi odiarsi e poi volersi bene ancora.
Erano Taichi e Yamato ed erano unici nel loro genere.
Dopo che finirono di mangiare, Matt si mise a preparare un caffè.
Nel frattempo, l’altro chiedeva ancora informazioni sulla vita a Tokyo.
«Domani si laurea il burino» venne spiazzato da quella notizia inaspettata, tanto che quasi cadde dalla sedia.
«JOE?! Domani si laurea Joe?!» urlò stupito, mentre cominciava ad essere scosso da un attacco di risate.
«Lo so che fa strano, ma è così»
Tai aveva incominciato a ridere come un pazzo.
«Cazzo, se si laurea il burino allora la fine del mondo è vicina!»
Continuarono a ridere come idioti.
«E ci ha invitati quel coglione?»
Il biondo spense il caffè che era appena salito.
«Siamo invitati tutti, ci saranno pure gli altri»
Il castano sentì i battiti fermarsi non appena apprese che avrebbe potuto rincontrare i suoi amici.
«Dio, non li vedo da una vita...» mormorò, mentre il biondo gli passava il caffè.
Non la vedeva da una vita.
Come sarebbe stato rivederla dopo così tanto tempo?
Sentire di nuovo la sua voce, vederla ridere, rendersi conto di cos’era lei per lui.
E non sapeva se incontrarla gli avrebbe fatto bene o ancora più male, ma era come se i suoi sensi reclamassero di andare lì da lei e vederla, anche solo vederla...
Matt l’osservò perso nei suoi pensieri.
«Hai conosciuto qualcuno lì?» glielo chiese discretamente, perché si differenziavano perfino nei modi di parlare.
Tai non si preoccupava di essere esplicito, Matt invece stava attento.
Tai agiva sempre d’istinto, Matt invece era razionale.
Il castano negò con la testa, stringendo le labbra. Aveva avuto diverse possibilità di sotterrare una volta per tutte quello che era stato, ma non era ancora pronto.
Dopo Mimi, era come se gli si fosse inaridito il cuore...
Sospirò, pensando che se era andata così, un motivo c’era. Il fatto era che dopo quasi due anni non riusciva a trovarlo, perché se pensavano che la distanza li avrebbe allontanati, allora non avevano capito niente, o forse era stato lui a non averlo fatto...
Aveva fatto sì che fossero più lontani con il corpo, ma non con il cuore.
«Che ne dici se chiamo tutti e andiamo a berci qualcosa più tardi?» propose spontaneamente.
«Si potrebbe fare»
Finirono di bere il caffè.
«Allora più tardi telefono a Sora»
Il cuore del biondo perse un battito e annuì. Se non la chiamava lui, era bene che lo facesse l’altro. Tai voleva molto bene a Sora, e glielo dimostrava.
Lui invece non era capace di fare un cazzo.
Sospirò, poi raccolse le tazzine. Aveva bisogno del suo aiuto per riuscire a combattere sé stesso.
«Vuoi farti una doccia?» deviò il discorso, come sempre.
Tai annuì e tirò fuori il cellulare.
«Sì, grazie, amico. Però prima avverto mia madre che sono a Tokyo, non ho visto nessuno ancora»
Yamato si voltò interrogativo a guardarlo.
«Sono venuto direttamente da te» rivelò e poi gli sorrise eloquente.
Non seppe perché, ma ebbe voglia di abbracciarlo.
Taichi era andato subito da lui, non aveva perso tempo, lo aveva perfino anteposto alla sua famiglia.
A volte si sentiva così inadeguato, credeva di non essere adatto a certi tipi di rapporti, perché era così introverso da non riuscire a trasmettere ciò che sentiva realmente.
Ma con lui era diverso, con lui tutto migliorava.
Riusciva a colorargli le giornate.
Gli era mancato da morire, il suo migliore amico.
«Tai» lo chiamò, mentre l’altro si stava dirigendo verso il bagno.
«Mh?»
Lo guardò con affetto.
«Bentornato a casa»
 
 
 
 
 
*****
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il ragazzo che il giorno dopo avrebbe dovuto laurearsi entrò in camera di Sora come una furia, senza preoccuparsi di bussare.
La ragazza lo guardò stralunata e si coprì immediatamente, mentre Jyou la fissava in cagnesco e con in mano una padella sporca di cibo.
«Ti sembra questo il modo di entrare?!» lo redarguì, finendo di mettersi la maglietta, voltata di spalle.
Joe faceva sempre in quel modo. Non aveva la concezione di stanze separate, per lui la casa era un tutt’uno e gli spazi erano in comune.
Quando si faceva la doccia non chiudeva mai a chiave e quando lei e Mimi erano a loro volta in bagno entrava senza tanti problemi.
Per fortuna che ormai ci avevano fatto l’abitudine e che lui era un farlocco totale.
Lo vide assumere un’espressione ancora più arrabbiata.
«E a voi sembra questo il modo di comportarvi nei confronti di uno studente laureato?!»
Sora alzò gli occhi al cielo, sbuffando. Ogni volta era la stessa storia; si lamentava con loro perché sosteneva che non gli portavano il giusto rispetto e tesseva le proprie lodi petulantemente.
«Non sei ancora laureato, non dimenticarlo» lo riportò alla realtà, finendo di preparare la sua borsa.
Erano quasi le quattro del pomeriggio e doveva andare a lezione di ballo. Joe le avrebbe fatto perdere ancora più tempo, doveva scansarlo.
«Che c’entra, è come se lo fossi. A chi importa realmente delle date?» la seguì per tutta la stanza con aria inquisitoria
«Se Gesù fosse resuscitato il secondo giorno e non il terzo avrebbe fatto differenza?»
Sora si portò le mani al capo.
«Non me lo dire!»
«La risposta è no, sarebbe comunque risorto»
Non capiva le fisse religiose di Joe verso il cristianesimo. Non era mai andato in una chiesa cattolica ed era uno di quelle persone pettegole che poi magari chiedevano una grazia.
«E questo cosa significa?»
«Che tu e quella meretrice di Mimi vi siete coalizzate contro di me!» spiegò, mostrando la padella che aveva in mano
La ramata incrociò le braccia.
«Per forza, Joe, non lavi mai i piatti e non fai le pulizie da mesi, ormai. Ci sono dei turni da rispettare!»
Questi si portò una mano al petto con fare teatrale. Mosse i capelli neri tendenti al blu con voracità e le puntò il dito contro.
«Sono un uomo impegnato, io! Che credete che perda tempo come voi due ragazzine?! Domani sarà il giorno più importante della mia e della vostra vita!»
«Della nostra?» chiese lei, senza capire.
«Avrete un dottore in casa, per la miseria! Parlerete, interagirete con lui! Potrete toccarlo, anche!»
Sora alzò gli occhi al cielo, sconsolata, mentre quello continuava a sproloquiare a vanvera. Con Joe era così: lui parlava e loro lo lasciavano perdere.
Erano anni che si conoscevano e non era affatto cambiato. Aveva compiuto ventisette anni, ma era rimasto il solito ragazzo strambo e con l’arrabbiatura facile. In compenso, aveva terminato i suoi studi in medicina ed era stato uno studente eccellente. Sora continuava a chiedersi come avesse fatto a laurearsi con quella testa che si ritrovava, ma, nonostante tutto, non sapeva come avrebbero fatto lei e Mimi da sole in casa senza di lui.
Le faceva sempre ridere, ne aveva in serbo una per tutti e combinava disastri a catena.
Era sempre lui, l’inimitabile Joe Kido.
Il burino sincero a cui volevano bene comunque.
Sora chiuse la zip della borsa e fece per uscire dalla camera.
«Senti, sono in ritardo, ne parliamo dopo» tentò di liquidarlo, ma il maggiore la guardò con uno sguardo malizioso.
Poteva vedere uno strano luccichio dietro i suoi occhiali da vista rossi, e non era niente di buono.
«Dì un po’, non è che questa cagata dei balli caraibici ti ha dato alla testa? Forse è solo una scusa per incontrare qualche baldo giovine?»
A volte si stupiva di come riuscisse ad essere peggio di una comare pettegola. La ragazza si sentì avvampare e fu scossa da un colpo di tosse.
«Non dire stupidaggini» lo contestò, anche se non sembrava molto convinta.
Il ragazzo infatti continuò ad indagare, le braccia conserte e la padella penzolante.
«Secondo me, ti piace qualche fusto ballerino, dì la verità, piccola Sora. Non c’è niente di cui vergognarsi»
E si avvicinò pericolosamente con l’intento di fare chissà cosa, mentre lei cercava di fuggire alle sue grinfie.
Il cellulare della ramata vibrò improvvisamente e Joe rizzò sull’attenti.
«Ecco, adesso ho le prove!» si avventò sul telefono prima di lei e avvicinò la faccia curioso
«Dio mio, Joe, passami quel cellulare e falla finita! Non dovevi ripetere la tesi per domani?»
Il ragazzo la guardò con astio, forse perché il destinatario non confermava la sua versione.
«Cosa vuoi che me ne fotta di cinque minuti di merda, e poi sono un genio, Cristo santo!»
Le passò il cellulare sgarbatamente.
«E comunque tieni, è quel cretino di Taichi»
Sora guardò lo schermo del telefono, stupita. Quel burino non scherzava, era realmente Tai. Non lo sentiva da un sacco di tempo!
Si apprestò a rispondere.
«Tai!» esclamò allegra, pensando che anche se era un po’ in ritardo, il ballo poteva aspettare quando si trattava del suo migliore amico.
«Ehi, Sora! Indovina un po’» rispose lui con lo stesso entusiasmo.
La ragazza non capì.
«Che cosa?»
«Dove mi trovo?»
Sora pensò che se la memoria non la ingannava, Taichi si trovava a cinquecento kilometri lontani da lei.
«A... Kyoto?» chiese incerta, perché se le poneva una domanda del genere c’era qualcosa sotto.
Lo sentì ridacchiare. Era da così tanto tempo che non sentiva la risata di Tai.
«E se ti dicessi che sono più vicino di quanto pensi?»
Il cuore della ragazza batté più forte. Cosa voleva dire? Dove si trovava adesso?
E se forse era...
«Tai, cosa-»
Non riuscì a terminare la frase, che il ragazzo l’interruppe.
«Sono a casa di Matt»
Sentì un groppo alla gola quando udì il suo nome.
Tai era a Tokyo, non riusciva a crederci, ma era così.
Era lì con lui, e doveva aspettarselo, perché erano amici per la pelle, contavano l’uno sopra l’altro, erano come due facce della stesse medaglia.
Si morse un labbro.
Tempo fa avrebbe gioito sapendo che Tai era insieme a lui, ma adesso...
Aveva un gran voglia di fuggire via.
Nonostante ciò, voleva bene veramente a Taichi, ed era felice che lui fosse tornato.
«No, non ci posso credere! Sei qui!» urlò di gioia.
Erano due persone diverse, in fondo, l’uno non doveva necessariamente includere l’altro.
«Esatto» le rispose il ragazzo.
Tai era molto importante per Sora, lo era sempre stato. Era una di quelle persone che non chiedeva niente in cambio, che c’era per lei in qualunque circostanza e la proteggeva dalle grinfie del mondo intero.
Fin da quando facevano le scuole elementari, lui non l’aveva mai abbandonata, le era stato sempre accanto, e l’esperienza a Digiworld li aveva avvicinati ancora di più.
Un tempo credeva di provare qualcosa per lui, ma era ancora troppo piccola e ingenua per capire. Adesso era consapevole del fatto che Taichi per lei rappresentava il suo punto di forza, il suo supporto morale, il suo migliore amico.
Interruppe quel flusso di pensieri uno stupito Joe, che aveva sentito del fatto che lui fosse lì, e le si era parato dinanzi.
«Taichi è qui?!» cercò di scipparle il telefono dalle mani
«Fammi sentire, battona!»
Fece una smorfia e spinse il ragazzo lontano, poi portò nuovamente il cellulare all’orecchio e mise il vivavoce.
«Sono arrivato oggi» spiegò quello, che intanto aveva lanciato un’occhiata eloquente a Yamato
«Senti, che ne dici se ci vediamo insieme agli altri?»
Si fermò a riflettere. Vedere gli altri significava incontrare lui dopo tanto tempo, e non sapeva se era ancora pronta.
Il solo pensiero la metteva in agitazione.
«Certo, sarebbe fantastico!» esclamò, però, nascondendo la preoccupazione.
Tai voleva vedere lei e gli altri, era da un sacco di tempo che non stavano insieme. Era arrivato il momento di fare un passo in avanti.
«Facciamo alle sei?» propose, infatti, sorridendo.
«Alle sei da Vancouver» confermò lui. Poi lanciò un altro sguardo a Matt che si mordeva un dito.
«Ti passiamo a prendere?»
Questi alzò la testa nell’udire quella domanda, e gli fece cenno di piantarla. Il castano, però, gli tirò una gomitata.
Sora si attorcigliò una ciocca di capelli, e pensò. La lezione di caraibico finiva alle cinque e mezza, aveva tutto il tempo di farsi una doccia e prepararsi.
Il fatto era che non aveva voglia che venissero a prenderla proprio lì, in quel luogo dove c’era qualcun altro ad aspettarla.
«No, grazie, vengo da sola appena finisco la lezione di ballo»
Tai fece una faccia interrogativa.
«Ballo? Certo che ne hai di cose da raccontarmi»
Ed era veramente così. Sora era sempre uguale, ma nello stesso tempo c’erano cose di lei che erano cambiate. Tipo il fatto che ballasse; lei era sempre stata un po’ maschiaccio, sia negli atteggiamenti sia nelle cose che le piacevano.
Con il passare del tempo era diventata più femminile, aveva smesso di giocare a calcio, aveva mollato anche il tennis e curava di più il suo aspetto.
Adesso aveva venticinque anni ed era una donna splendida.
Lei sorrise con affetto.
«Mi era mancata la tua voce» gli rivelò, mentre Joe, accanto a lei, faceva una smorfia di disgusto.
Ed era vero che gli era mancato, Taichi, perché lui era una di quelle persone che entrava dentro e non usciva più.
«E a me sei mancata tu»
Era anche una di quelle persone che stupivano e lo facevano davvero bene.
La ragazza sentì le lacrime agli occhi. Era così sensibile, a volte, che bastava poco per renderla felice e ancor meno per farla diventare triste.
Avrebbe aggiunto qualche altra cosa, se solo il ragazzo che si trovava alla sua destra non le avesse scippato con forza il telefono dalle mani.
«Basta con queste smancerie» portò l’aggeggio all’orecchio e spinse Sora da un lato
«Taichi!» urlò Joe, la voce acuta e petulante
Quello alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa.
«Sei ufficialmente obbligato a partecipare all’evento che tutti aspettavamo: il mio incoronamento con alloro»
Tentò di darsi un tono, ma ciò che provocò fu un attacco di risate.
«Cioè la tua laurea, burino» specificò Tai
Joe ghignò sardonico.
«Un evento più importante del giubileo»
Il castano sospirò rassegnato. Ventisette anni solo all’anagrafe, il resto non era variato.
«Sei sempre il solito. Ci vediamo più tardi, idiota»
L’altro assunse la tipica espressione di quando era pronto a colpire nel segno.
«Senz’altro, frocetto»
Almeno non erano cambiate nemmeno le prese in giro.
Joe restituì il cellulare a Sora con una faccia fiera, poi si riprese la padella sporca e tornò in cucina.
Non l’avrebbero ammesso mai, ma in fondo Tai e  Matt volevano bene veramente a Joe, e lo stesso valeva per lui.
Nonostante fosse una persona goffa ed irritante, era un loro caro amico, e il giorno dopo avrebbe raggiunto una meta molto importante.
Prese la borsa ed uscì di casa.
Matt non l’aveva chiamata, era stato Tai a farlo. Non si era degnato nemmeno di farsela passare ed era certa fosse seduto accanto a lui.
Alzò gli occhi al cielo blu, tristemente.
Non erano capaci di continuare ad amarsi, loro due, e lei incominciava a sentire stretto il peso di quel rifiuto.
Aveva voglia di correre e rifugiarsi tra le braccia di qualcuno, aveva voglia di sentire il suo cuore battere come una volta, aveva voglia di amare.
Corse, per correre, e arrivò dritto lì, alla scuola di ballo.
Là dentro c’era qualcuno che l’aspettava, qualcuno che la faceva sentire donna, qualcuno che la faceva sentire desiderata, qualcuno di cui lei aveva bisogno e adesso più che mai.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*****
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Aveva così tanto insistito per vederla che Mimi, alla fine, non aveva potuto fare a meno di accettare. Così aveva lasciato i libri sul tavolo ed era corsa a prepararsi.
Una volta avrebbe liquidato senza troppi problemi qualcuno con cui non aveva voglia di uscire, ma Shinichi si comportava bene con lei, e non riusciva a mettere un punto fermo in tutta quella storia.
Era passato a prenderla con la sua macchina, e lei era salita su, salutandolo con un sorriso più di cortesia che di altro. Lui era contento di vederla, tant’è che si era sporto per darle un bacio, ma Mimi aveva allontanato il viso.
Era già successo che si baciassero, e in quei momenti lei non riusciva a ritrarsi perché non voleva apparire come schizzinosa o maleducata, ma la verità era che non sentiva l’esigenza di farlo.
Era grave che non provasse così tanta attrazione per un ragazzo; eppure Shinichi era carino. Aveva gli occhi azzurri e i capelli scuri, un sorriso rassicurante e un corpo tonico, nonostante non fosse molto alto.
Si interessava di tutto, gli piaceva leggere e sapeva ascoltarla. Era il tipo di ragazzo che sapeva coinvolgere una donna, per questo aveva deciso di conoscerlo meglio.
Si trovava in un periodo in cui la sua autostima era calata molto, si sentiva brutta e trascurata, e lui era riuscito almeno in parte a tirarla su e a distrarla da tutto quello studio che la opprimeva.
Da quando si era lasciata con Tai, aveva incominciato a vivere in un lungo baratro di sofferenza, e per quanto cercasse di andare avanti riusciva solo a fare dei passi indietro.
Dopo quella rottura, aveva smesso di studiare, si era rinchiusa in casa e non voleva vedere nessuno.
Piano piano, con l’aiuto di Sora, era riuscita a guardare oltre, la luce aveva irrotto su di lei e finalmente le cose avevano incominciato a sistemarsi.
Poi aveva conosciuto Shinichi a quella festa. E dire che non voleva nemmeno andarci, pioveva e voleva per forza mettersi un vestito e dei collant.
Alla fine si era convinta e ci aveva trovato lui.
E adesso eccola lì, in quella macchina a guardare fuori.
A tentare di mantenere uniti i pezzi di lei che cercavano di fuggire via.
Il ragazzo parcheggiò vicino ad un parco che aveva la vista sul fiume, e Mimi si rese conto che si erano allontanati un bel po’ dal quartiere dove viveva.
Fecero una passeggiata in silenzio, godendosi il rumore dell’acqua e le urla dei bambini stramazzanti.
Avrebbe dovuto ringraziarlo per averla portata in quel luogo, ma l’unica cosa che riusciva a pensare era di voler fuggire.
Shinichi parlava di qualcosa che lei non sentiva, e quel paesaggio era così bello che le faceva venire in menti ricordi felici.
Lei e Tai che camminavano mano nella mano, sorridenti, che si amavano da morire.
Tai che l’abbracciava, che d’un tratto la sollevava facendola urlare di paura, e poi rideva.
Tai che la baciava e lei che si aggrappava a lui come fosse il suo unico appiglio.
Facevano male i ricordi, faceva male avere la consapevolezza di non poter fare niente per tornare indietro, faceva male voltarsi e trovare al suo posto un’altra persona che non avrebbe mai potuto eguagliarlo.
E le dispiaceva per Shinichi, perché era davvero buono con lei, ma non riusciva a non pensare a ciò che era stato.
Gli occhi le diventarono improvvisamente lucidi, e quando tirò su con il naso, il ragazzo la guardò.
Era strana, Mimi, da quando l’aveva conosciuta non aveva fatto altro che starsene per i fatti suoi a contemplare qualcosa che chissà cos’era.
Un po’ le piaceva il fatto che stesse sempre sulle sue, il fatto che d’un tratto aprisse gli occhi e si rendesse conto dove si trovava. Era una sua peculiarità quella di svegliarsi all’improvviso.
Adesso, però, non capiva cosa le prendeva. Da un paio di giorni era come se lo stesse evitando e meritava una spiegazione.
«Che  cos’hai?» le chiese ad un certo punto, interrompendo il suo flusso di pensieri. Shinichi la guardava seriamente, non era stupido e aveva capito che qualcosa non andava.
La ragazza si schiarì la voce, pensando che non era giusto rovinare un momento così speciale per qualcosa che non c’era più.
«Niente» si sforzò di sorridere, ma era una pessima attrice e lui aveva imparato a conoscerla.
«Non ti piace qui?»
Entrambi volsero lo sguardo verso il panorama mozzafiato e Mimi pensò che sì, le piaceva tantissimo, ma che al suo posto avrebbe desiderato qualcun altro.
«E’ perfetto, solo che...» si azzardò a dire, infatti. Si morse la lingua, interrompendosi improvvisamente.
Non era carino aggiungere un ma o un però dopo che lui le stava offrendo tutto quello.
Il fatto era che non riusciva a trattenersi, sapeva che prima o poi sarebbe scoppiata.
Ma doveva tentare di non darlo a vedere, doveva inscenare che tutto andava bene e sorridere.
«Solo che cosa?» Shinichi voleva delle spiegazioni, ma lei non voleva coinvolgerlo.
Tirò fuori il cellulare e lo puntò sul fiume.
«Ci vuole una foto» dissimulò, sperando che si bevesse quella bugia.
Scattò un paio di fotografie, mentre con la coda dell’occhio controllava che lui non facesse più domande.
Ma Mimi non capiva che era così pura e spontanea, alle volte, che le si leggeva negli occhi cosa provava.
Shinichi, infatti, non demorse.
«Sei distante» constatò, continuando ad essere serio.
Voleva affrontare il discorso a tutti i costi, ed era meglio che lo rassicurasse subito perché non aveva voglia di parlare.
«Non è vero, non sono distante» negò, sforzandosi di utilizzare un tono allegro.
Continuò a scattare foto che neanche più guardava, fino a quando il ragazzo non la prese da un braccio.
Mimi boccheggiò, alzando gli occhi castani su di lui.
Solo Tai la prendeva con quell’ardore, solo lui riusciva a trasmetterle tutto con un solo tocco, solo lui e lui soltanto poteva toccarla in quel modo.
Si scansò di riflesso e lo guardò interrogativa.
«Sei distante da tutto, sei con la testa tra le nuvole. Lo sei fin da quando ti ho conosciuta» spiegò Shinichi con la voce che mano a mano si spegneva
Si passò una mano tra i capelli e glielo disse.
«Sembra che ti manchi qualcosa»
Mimi si sentì tremare, trafitta nel profondo. Perfino lui si era accorto che vagava a metà, senza una parte di sé che la completava, una parte di sé che le mancava e che cercava invano.
Aveva ragione a dire che aveva sempre la testa sulle nuvole, perché era così fin da quando era bambina, era una sua specialità esserlo, e adesso più che mai.
La ragazza abbassò lo sguardo.
Sentiva un dolore lacerante vicino al suo cuore spezzato e Shinichi non avrebbe mai potuto rimetterne insieme i pezzi e curare quella ferita.
Tentò di ridacchiare, prendendolo in giro.
«Non essere tragico»
Ma lui non aveva voglia di scherzare.
«Sono realista»
E aveva ragione. Shinichi aveva ragione su tutto. Lei era distante, lo era da sempre stata. C’era fisicamente, ma era assente con la testa e con il cuore.
Non riusciva nemmeno ad avvicinarsi perché era ancora vivido in lei il modo in cui Tai l’abbracciava.
«Mimi, se c’è qualcosa che non va puoi dirlo»
Era così paziente e disponibile. Non meritava una persona che non riusciva a dargli quello che voleva, che non riusciva ad essere sua, che non riusciva ad apprezzare ogni suo gesto.
«Quando ci sarà qualcosa che non andrà, allora puoi starne certo che lo farò» gli promise, e poi gli accarezzò un braccio.
Shinichi aveva bisogno di qualcuno che lo accettasse per quello che era.
Lei invece di che cosa aveva bisogno?
Doveva smetterla di compiangersi e guardare avanti perché il passato non glielo avrebbe potuto restituire mai nessuno oppure era destinata a rimanere bloccata in un limbo di emozioni che non le permettevano di vivere?
Ad un tratto il suo cellulare vibrò. Lo prese in mano e lesse il messaggio.
 
Era come se il tempo si fosse fermato e i rumori si fossero improvvisamente spenti, perché, adesso, era il battito del suo cuore che sentiva rimbombare.
 
 
 
 
 
 
 
 
*****
 



 
 
 
Fece un gran respiro prima di entrare in sala. Il fatto che lui non avesse voluto parlare con lei l’addolorava sempre di più, e nello stesso tempo qualcosa dentro di sé la spingeva verso l’altro.
Sora si passò una mano sulla fronte e fece altri respiri profondi. Non riusciva a contenersi in situazioni del genere. C’era qualcosa che la bloccava nell’entrare in quella dannata sala. Aveva paura di incontrarlo, aveva paura di guardarlo negli occhi, aveva paura di stringersi a lui.
Il fatto che Matt non sentisse l’esigenza di parlare con lei l’uccideva e si sentiva così disperata perché era consapevole di essere talmente volubile da poter cedere.
Si morse il labbro, mentre la musica terminava. Era in ritardo di mezz’ora e forse l’avrebbero pure mandata a casa.
Non sapeva che cosa fare. Non sapeva se era meglio entrare e fare finta di niente oppure girare i tacchi e andarsene il più lontano possibile.
Si trovava nella più grande delle difficoltà, e la consapevolezza che a due passi da lei ci fosse Victor che probabilmente l’aspettava, peggiorava la situazione.
Doveva essere razionale, non poteva lasciarsi coinvolgere completamente solo perché lui non voleva sentirla.
Doveva essere matura, affrontare le situazioni con calma e prudenza, non doveva lasciarsi andare per nessuna cosa al mondo.
Il pensiero di Matt che continuava ad evitarla le tartassava la mente e non si accorse che, pian piano, le sue gambe si muovevano in direzione della sala da ballo.
Quando se ne rese conto, aveva ormai aperto la porta.
Alcune persone le lanciarono uno sguardo curioso, ma l’unica cosa che vide fu il sorriso sorpreso di Victor.
Sentì improvvisamente il cuore in gola e i battiti accelerati.
Perché hai dovuto fare in modo che io aspettassi così impazientemente di godere di un altro sorriso?
Il ragazzo le si avvicinò e si guardarono negli occhi. Era bellissimo vestito con quella maglietta a maniche corte e quei pantaloni della tuta. I lunghi capelli color grano erano appuntati in una coda bassa e i suoi occhi grigi la scrutavano.
«Sei in ritardo, Take» constatò, mentre lei si portava una ciocca di capelli dietro un orecchio.
«Sì, scusa, mi ha chiamato il mio migliore amico che sta a Kyoto. Non lo vedo da tanto tempo ed è tornato oggi»
Non sapeva nemmeno perché si stesse giustificando, ma era partita da sola, un po’ come faceva sempre quando si trovava in sua presenza.
Victor scosse la testa con un sorriso, facendole intendere che non importava realmente se aveva ritardato, ciò che contava era che fosse venuta.
«Allora sei perdonata» disse infatti, e fece appena in tempo a prenderla per mano e portarla al centro della sala che l’altra musica partì.
Sora si attaccò al suo petto e si lasciò guidare da lui. Si muoveva talmente bene da farle girare la testa. Le aveva posato una mano sul fianco e la stringeva, facendo aderire bene i loro corpi.
Sentiva le farfalle allo stomaco, era come se glielo volessero mangiare.
Era un’attrazione letale che la stava portando lentamente alla deriva e non riusciva più a risalire su.
Lui l’abbracciò da dietro i fianchi e la fece muovere dolcemente. Sora chiuse gli occhi e lasciò andare all’indietro la testa, sopra la sua spalla.
Forse Matt non si rendeva conto di cosa aveva scatenato.
Era una lotta imponente tra ragione e passione e non riusciva a capire chi era giusto ascoltare.
Lui le dava così sicurezza e conforto anche solo toccandola, e non poteva fare a mano di perdersi tra quelle braccia.
La canzone straniera raccontava di una proposta d’amore, di un bacio rubato che aveva il sapore di un bicchiere di vino.
Stava impazzendo, lo sentiva.
Lentamente, i suoi sensi la stavano abbandonando, e lei si sentiva meno che niente stretta a lui.
Quando la canzone terminò, il ragazzo l’abbracciò, e non appena sentì forte quella presa su di lei, aprì gli occhi.
Quel tocco la riportò alla realtà, e con timore si liberò rapidamente.
Senza guardarlo in faccia, corse verso l’uscita della sala. Il cuore le batteva frenetico e sentiva le gambe cedere.
Arrivò allo spogliatoio e si guardò allo specchio. Era rossa e stravolta, i capelli erano scompigliati ed aveva in volto un’espressione preoccupata.
Non poteva starci, non doveva farlo assolutamente.
Mentre si sciacquava il volto e le braccia, pensava a Matt e tutto quello che avevano fatto insieme.
Nonostante lui fosse distante, non poteva farlo.
Imprecò disperata, mentre afferrava una canottiera dalla sua borsa e si cambiava velocemente.
Dio, quello che aveva sentito era così travolgente da non vederci più.
Avrebbe voluto stare stretta a lui per tutto il giorno.
Oh Dio, aiutami, sto impazzendo.
Si mise un leggero cardigan, dopodiché si alzò per sistemarsi un po’ il trucco e i capelli.
Doveva andare via di lì, doveva farlo prima che...
La porta dello spogliatoio si aprì, e lui entrò silenziosamente.
No, non questo, ti prego, tutto tranne questo...
«Sora» la chiamò, e lei si sentì morire.
Si voltò guardandolo spaventata, mentre quello si avvicinava.
«Victor» mormorò, sentendo la gola secca.
Era così imbarazzata da non riuscire a sostenere il suo sguardo per più di qualche secondo e sentiva un calore immane diffondersi per tutto il corpo.
Lui avanzava sempre di più e automaticamente lei retrocedeva impaurita.
Doveva inventare una scusa e andarsene via al più presto, sì, doveva dire che aveva un appuntamento con i suoi amici e che non poteva trattenersi.
Non riusciva a spiccicare una parola.
Era immobile, indifesa di fronte a lui.
Non riusciva a fare un passo.
Cosa le stava succedendo?
Non riusciva a non provare il fuoco quando lui la guardava.
Victor fece un respiro profondo e poi si passò una mano tra i capelli. Non era l’unica ad essere nervosa, e qualcosa le disse che era in trappola e che la resa dei conti era arrivata.
«Sai, pensavo che non avrei mai provato tutto questo se non ti avessi conosciuta» le confessò, mentre lei sentiva il cuore battere sempre più veloce.
«C-cosa?» le chiese balbettando, e forse era un po’ masochista a volerlo sapere.
Il ragazzo le sorrise imbarazzato. Dopo poggiò la mano aperta sul muro e si fece ancora più vicino.
Sora si trovava lì, impotente, bloccata senza via d’uscita.
E forse una parte di sé non voleva realmente andar via.
«Quando ballo con te sento qualcosa che non ho mai sentito, qualcosa che mi lega inevitabilmente a te» mormorò lui, guardandola negli occhi castani.
«Tu... tu sei speciale per me... Lo sei da sempre stata, da appena ti ho vista, da appena abbiamo parlato»
Sentiva il cervello in pappa, era così talmente presa da lui, da quelle parole, da quelle labbra che gli avrebbe fatto fare qualunque cosa.
Deglutì lentamente.
«Victor...» provò a parlare, ma non ne uscì altro che un sussurro spezzato.
Era lì, era impazzita, era completamente andata.
E lui era vicino, troppo vicino.
«Mi piaci, Sora, davvero tanto e... se non te lo dicevo diventavo pazzo» fece un respiro profondo, lui, quando le disse quelle cose.
Le stava confessando tutto, e Sora forse se lo aspettava perché il loro rapporto era nato e cresciuto di pari passo. L’attrazione che sentiva per lui era reciproca, lo era da sempre stata, e lei lo sapeva, lo sentiva, perché era sempre stata brava in quelle cose.
Era per questo che si sentiva da sempre legata a lui.
Però non poteva, si disse, tentando di tornare con i piedi per terra. Lei stava ancora con Matt, non poteva fargli una cosa del genere.
Per quanto la loro relazione fosse quasi giunta al capolinea, era Matt, era Yamato la persona che voleva, che aveva sempre voluto, fin da quando andavano a scuola, fin da quando lo aveva conosciuto a Digiworld.
Matt era il suo unico e vero amore e non poteva mandare tutto a monte per un’attrazione che sarebbe sfiorita alla prima occasione.
«Io... io però... adesso io non...» provò a spiegarsi, ma non riusciva a parlare.
Era talmente ipnotizzata, era talmente presa da lui che ogni parola risultava superflua.
Victor sospirò, spostando lo sguardo da un’altra parte. Era un ragazzo loquace e sapeva che lei era già impegnata, che ciò che le aveva rivelato l’aveva messa in difficoltà. Ma non potevano continuare a fingere che tra di loro non ci fosse niente.
«Stai ancora con lui?» chiese duro.
Odiava il fatto che lei potesse stare con un altro, che non riuscisse a lasciarsi andare, che dovesse rispettare una persona che non aveva rispetto per lei e i suoi sentimenti.
Sora emise un sospiro e abbassò gli occhi.
 «Sì»
Stavano insieme, ma era come se fossero due estranei.
Si rattristì, sentendo le lacrime premere per uscire. Le faceva così male che lui non fosse presente, era un dolore che la distruggeva.
«Lo ami?» Victor la guardava serio.
Se lo amava?
Sì, lo amava, amava Matt e tutto ciò che faceva parte di lui, della sua persona, del suo essere.
Amava Matt e il modo in cui cantava, il modo in cui suonava, il modo in cui scriveva le sue canzoni.
Amava Matt e il modo in cui la baciava, l’abbracciava, il modo in cui facevano l’amore.
Le mancava tanto fare l’amore con lui.
I suoi occhi erano lucidi e pronti a scoppiare.
Lo amava ancora, non aveva mai smesso di farlo probabilmente, ma quel silenzio, quell’estraneità che si era creata tra di loro era qualcosa di insopportabile.
Più si allontanava da Matt, più si avvicinava a Victor.
Ogni volta che Matt le voltava le spalle, lei si lasciava cullare da quelle emozioni.
«Oh, Victor, per favore...» lo stava pregando affinché non lo facesse, perché era talmente vulnerabile, era talmente disperata che qualsiasi passo in più le sarebbe costato caro.
Voleva tanto rispondergli che amava Matt e nessun’altro, ma non riusciva.
Tutto ciò che provava adesso era più forte.
Il ragazzo le posò una mano sulla guancia e le sorrise.
«Meriti tanto amore, Sora»
Poteva sentire il cuore frantumarsi lentamente. Lui sapeva sempre di cosa lei aveva bisogno, sapeva capirla, sapeva rispettarla.
L’amore...
Una volta era il suo simbolo, glielo avevano affidato quando aveva appena undici anni e lei aveva avuto così tanta paura che non sapeva che cosa farne, non sapeva come si facesse ad amare.
Poi aveva conosciuto Matt ed aveva imparato.
Ma ora lui non c’era, era così lontano da lei, così distante da tutto quello che le stava succedendo...
Victor si era avvicinato alle sue labbra e Sora non riuscì a fare niente per impedirlo. Lui la baciava e lei non si spostava, non faceva un passo.
Non appena il ragazzo la spinse contro il muro e la fece aderire ancora di più a sé, schiuse la bocca, arrendendosi completamente.
Le lingue si accarezzavano, ora lente, ora voraci e la sua era così calda, così giusta in quel momento che non desiderò essere da nessun’altra parte.
Si stavano baciando ed era qualcosa che le ardeva dentro, era qualcosa di cui aveva bisogno.
Gli aveva stretto i capelli tra le dita e non aveva capito più niente.
Non sapeva né dove si trovasse, né che giorno fosse.
Era tutto così scollegato ed annebbiato, poteva sentire solo i battiti del suo cuore scandire il tempo.
Quando tornò alla realtà, si staccò improvvisamente e puntò lo sguardo sul pavimento.
Aveva il fiato corto e le labbra gonfie. Il suo cuore era impazzito e lei credeva di svenire.
Oh, no.
Non poteva crederci.
Era successo veramente.
Cosa diavolo aveva combinato?!
Victor la guardava e aspettava una sua reazione, ma aveva voglia di scappare il più lontano possibile.
Non poteva credere di averlo fatto veramente.
«Io... devo andare, adesso» biascicò a voce bassa, poi si scansò da lui e andò a recuperare la sua borsa.
Si era lasciata così andare da aver scatenato in lei la più pericolosa delle tempeste.
Perché era stata così debole?
Il ragazzo la raggiunse.
«Ti accompagno?» tentò, anche se sapeva che era tutto inutile e che lei adesso avrebbe dovuto fare i conti con sé stessa.
Sora, infatti, negò con la testa e, senza guardarlo, uscì dallo spogliatoio fino ad arrivare alla porta principale.
Rilasciò tutta l’aria che aveva trattenuto e un groppo le si formò in gola.
Che cazzo aveva combinato?
Come diavolo aveva potuto lasciare che accadesse?
I sensi di colpa la pervasero, erano così forti che la stritolavano e le facevano male.
Aveva tradito Matt.
Lo aveva tradito.
Si fermò, sentendo la testa girare.
Aveva lasciato che quelle emozioni la facessero sua, che la travolgessero senza che potesse liberarsi.
Non era riuscita a contenersi, era stata una stupida.
Come aveva potuto fare una cosa del genere?
Si sedette in una panchina e cominciò a piangere, logorata dai sensi di colpa che l’attanagliavano crudelmente.
Sciocca, Sora, sei una cazzo di sciocca.
Voleva scomparire, voleva tornare indietro nel tempo e fare in modo che non succedesse.
Il volto di Matt che le sorrideva si sovrappose nella sua testa, e lei si tastò le labbra con le mani che le tremavano.
Poteva sentire ancora il sapore di Victor.
Alzò gli occhi al cielo, le lacrime che sgorgavano a fiumi.


 
Che cosa aveva fatto?






   
 
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