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Autore: SkyDream    27/10/2020    5 recensioni
Nemmeno i chilometri erano riusciti ad allontanarli davvero.
Eppure Tobio cominciava a dubitare della resistenza di certi rapporti, sospettava che il tempo e la distanza fossero abbastanza tosti da logorare anche ciò che lui credeva infinito.
Come il suo amore per quell’imbranato, chiassoso e pieno di entusiasmo che era stato il suo schiacciatore.
Shoyo si comportava in modo strano ormai da mesi, ogni volta al telefono sembrava volesse dirgli qualcosa senza trovare il coraggio per sputare il rospo. Negli ultimi giorni, però, la situazione era degenerata e le chiamate erano sempre meno frequenti, i messaggi sempre più freddi.
Quella mattina, poi, era caduta l’ultima goccia.
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Aveva nascosto tutto e se ne vergognava, ma aveva paura di perderlo, così come aveva paura di perdere il suo posto nella squadra di pallavolo.
Poi però aveva pensato che il suo sogno di arrivare ai mondiali lo aveva già realizzato, quello di vivere con Tobio no.
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Shouyou Hinata, Tobio Kageyama
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Grazie Dali,
 per non avermi fatto cestinare questa idea che,
solo oggi, vede la luce di Efp!
Sei preziosissima :') 


La presunta verità ~
[KageHina] [pt. 1/2]


"La strada la conosco bene invece sbaglio
Non riesco a mantenermi dritto mentre sbando
Mi sembra d'essere felice ma lo stomaco tradisce
Le presunte verità"
- F.Gabbani "La strada"-

 

Era un vermiglio scuro, forse tendente al rosso mattone. Si spandeva come una macchia e, lentamente, avvolgeva tutto.
Gli alberi pronti a spogliarsi e le foglie irrigidite che rotolavano sul vialetto in pietra, lo scalpiccio provocato dai piedi dei bambini che giocavano e il belvedere dove qualche coppietta si stringeva in un romantico abbraccio.
Il tramonto scese su Roma in un abbraccio silenzioso, il piccolo monte Pincio si era trasformato in un luogo totalmente nuovo.
Non vi era più il frastuono del mattino, non vi era il chiasso delle serate nei locali né il vociare dei ragazzi che uscivano per divertirsi.
Era tutto bloccato in un momento che si incastrava tra le ultime luci del pomeriggio e il crepuscolo.
Tobio adorava salire fin lì di corsa saltando gli scalini a due a due, come faceva sempre nella vecchia scuola, e fermarsi a prendere fiato solo davanti la visione di Piazza del Popolo, lì dove in lontananza si parava la brulicante città fino al Cupolone.
Quel posto era impregnato di bei ricordi e gli ricordava, con immensa nostalgia, anche i parchi verdeggianti di Miyagi, lì dov’era cresciuto nei primi vent’anni della sua vita.
E anche quella sera di Ottobre, come spesso accadeva, si ritrovava tra i vialetti di Villa Borghese con il telefono in mano a chiacchierare spensierato. Solo che, quella sera di Ottobre, non vi era nemmeno l’ombra della spensieratezza che solitamente lo accompagnava.
«Insomma, non ti va di parlarne.» Esordì l’interlocutore dall’altro capo della cornetta, aveva la voce di chi ha perso le speranze.
«Perdonami, Suga, so che vorresti solo aiutarmi a sistemare le cose, ma non vedo alcuna soluzione.» Il tono di Tobio non era disperato, non era nemmeno rassegnato.
Era apatico, come se tutto quel casino non fosse accaduto sulla sua testa.
«Io non credo che Shoyo possa nasconderti qualcosa, è sempre stato difficile affidargli un segreto, come quella volta che provai a organizzarti una festa di compleanno a sorpresa.» Sugawara portò una mano al viso e sentì Daichi ridere alle sue spalle.
Tobio scivolò su una panchina e rimase a guardare le lunghe ombre dei lampioni di fronte a se.
«Finì per entrare nella mia classe e urlarmi “tanti auguri, sono sicuro che la festa a sorpresa ti piacerà un sacco!”».
«Esatto. Come puoi pensare sul serio che Shoyo possa nasconderti qualcosa sulla sua vita? E’ sempre stato un libro aperto e ha chiesto consiglio a te per ogni cosa. Abbi fiducia. Ora devo andare, Daichi si lamenta dell’orario e vuole dormire!» Sugawara rise appena, il suo coinquilino era davvero fastidioso quando aveva sonno, ma portava pazienza. Comunicare con Tobio e Shoyo era un’impresa a causa del fuso orario, eppure si erano abituati e continuavano a raccontarsi tutto, esattamente come ai tempi del Karasuno.
Chi a Roma, chi a Rio e chi a Tokyo. Nemmeno i chilometri erano riusciti ad allontanarli davvero.
Eppure Tobio cominciava a dubitare della resistenza di certi rapporti, sospettava che il tempo e la distanza fossero abbastanza tosti da logorare anche ciò che lui credeva infinito.
Come il suo amore per quell’imbranato, chiassoso e pieno di entusiasmo che era stato il suo schiacciatore.
Shoyo si comportava in modo strano ormai da mesi, ogni volta al telefono sembrava volesse dirgli qualcosa senza trovare il coraggio per sputare il rospo. Negli ultimi giorni, però, la situazione era degenerata e le chiamate erano sempre meno frequenti, i messaggi sempre più freddi.
Quella mattina, poi, era caduta l’ultima goccia.
Si era svegliato di buon’ora e lo aveva videochiamato, come sempre, si era seduto a far colazione mentre lo vedeva prepararsi la cena, come ogni mattina, e stava cercando le ultime pagine del Fly Volleyball su internet per leggergliele.
Shoyo si era poi voltato verso il lato opposto della telecamera, aveva fatto cenno a qualcuno di rimanere in silenzio e, pensando di non essere visto, si era allontanato con una scusa per sdraiarsi sul materasso.
L’immagine era poco chiara e la posizione del telefono non aiutava, ma Tobio aveva capito: stava parlando con qualcuno. Sul suo letto. E gli chiedeva di far silenzio.
Aveva spento tutto e si era rifiutato di rispondere al suo ragazzo.
Non poteva evitare di pensare al peggio, a come la distanza li avesse separati così tanto da portarli a tradirsi. Sapeva che sarebbe potuto capitare, ma aveva sempre sperato che il loro rapporto fosse più solido, che fosse diverso.
Ma così non era.
La notte calò su Roma.
Tra le strade si potevano incontrare dei musicisti, se ne stavano seduti con le loro chitarre a intonare qualche sottofondo per chi, di buon cuore, avrebbe lasciato loro anche solo delle monete.
I lampioni illuminavano i volti dei passanti, le ombre dei vagabondi e disegnavano lunghe forme scure sui marciapiedi.
Tobio tirò un calcio ad una lattina e sospirò pesantemente. Salì sul primo bus sperando di tornare presto a casa.
 
Tobio era riuscito ad addormentarsi solo dopo aver visto un’intera partita di pallavolo.
Una di quelle davvero noiose con le matricole che conoscevano a stento due strategie e qualche trucchetto. Era stato davvero un tormento arrivare fino al set point con gli occhi aperti.
Quando finalmente si arrese alla stanchezza, però, squillò il telefono.
Erano le tre del mattino e poteva essere una sola persona.
Staccò la vibrazione e si girò sul lato opposto del divano. Preferiva continuare a dormire.
Il telefono squillò di nuovo e, giurò Tobio, la vibrazione sembrava sempre più urgente, come a pregarlo di rispondere.
Acconsentì, ma solo alla quarta telefonata.
«Devo parlarti.» Fu la prima cosa che sentì dall’altro lato della cornetta.
Shoyo era tremendamente serio e quel tono non fece che confermare ogni sospetto.
«Mi chiedevo quando ti saresti deciso a vuotare il sacco.» Rispose l’altro sollevandosi dal bracciolo scomodo. Un moto di nausea lo investì.
«No, devo parlarti di presenza perché non credo di poter reggere ancora.» Aveva il fiatone, sembrava gli mancasse l’aria e, dovette ammettere Tobio, la cosa lo ferì ancora di più.
«Come pensi di potermi vedere in faccia dopo quello che hai fatto?».
«Hai ragione, non ne ho idea ma devo parlarti e sto per salire sull’aereo. Ti chiedo solo di aspettarmi.» La voce di Shoyo era supplicante, non vi era nulla delle conversazioni sterili delle settimane precedenti, anzi, sembrava finalmente essere uscito da quella falsa normalità in cui erano incappati.
«Ti aspetterò.» Kageyama sentì la linea cadere e poi, come se solo in quel momento avesse realizzato, guardò l’orologio.
A che ora sarebbe arrivato? Alle diciassette?

 
***
Shoyo si sedette sull’aereo e portò la testa contro il finestrino. Si chiese con quale forza avesse potuto sopportare tutto senza parlare con la persona che amava.
Con la persona per cui avrebbe rinunciato quasi a qualunque cosa.
Strinse a se il piccolo fagotto che portava al petto e il suo ultimo pensiero, prima di cedere alla stanchezza, fu per quella piccola valigia in stiva.
Il suo unico bagaglio per il viaggio più incerto della sua vita. Aveva lasciato tutto in Brasile, al Brasile, e si era portato dietro solo i ricordi più importanti.
Le vecchie foto, le maglie della pallavolo, i disegni dei suoi allievi e un solo ricambio.
Rio gli aveva donato tanto, soprattutto la possibilità di cambiare la vita a delle persone. Oltre a giocare nella squadra nazionale, Shoyo aveva intrapreso la carriera di coach per un gruppetto di bambini che abitavano nelle favelas.
In tardo pomeriggio scendeva in spiaggia con loro e si divertiva a giocare e a spronarli tutti a dare il massimo.
Senza accorgersene aveva cominciato a vivere per loro. Le sue scarpe, i suoi vestiti, perfino il suo pranzo, spesso diventavano loro.
Ed era felice di questa sua vita, il tenore da pallavolista nazionale non era per nulla male e di tutti quei soldi, se non per qualche biglietto per l’Italia o il Giappone, non sapeva proprio di cosa farsene.
I bambini erano totalmente rapiti dal suo modo di fare, per quanto spesso smettessero di considerarlo un adulto e lo trattassero come un loro pari, rendendolo una povera vittima di scherzi più o meno crudeli.
Shoyo amava condividere quei momenti con Kageyama che, in videochiamata, si beava dei loro sorrisi e della gioia incontenibile del suo ragazzo. Gli mancava.
Da qualche settimana, infatti, Shoyo non gli aveva più mostrato i progressi dei “suoi kohai” e non gli aveva più parlato delle sue doti da “senpai”. Avrebbe continuato volentieri, ma Tobio avrebbe incominciato a fare domande e ad insospettirsi.
Non gli andava di risolvere quella situazione da dietro uno schermo e con quattordici ore di aereo di distanza.
La hostess spense le luci e, come se gli avessero prosciugato anche quell’ultimo briciolo di energia, Shoyo si addormentò.
 ***
Tobio non riuscì più a dormire, anzi, passò il resto della nottata e della mattinata sul divano, immobile, a fissare il soffitto.
Riuscì, solo dopo mezzogiorno, a raccattare dei vestiti sparsi per la stanza e uscì con intere ore d’anticipo, come se così potesse metter fine prima a quella agonia.
Il bus per Fiumicino portò solo pochi minuti di ritardo e presto si ritrovò davanti il tabellone che annunciava l’arrivo del volo da Lisbona.
Aveva controllato l’orario preciso, mancava solo l’ultima ora.
Si sedette al bar e ordinò un caffè.
Sul piattino, oltre la tazzina, trovò un piccolo cioccolatino.
Lì in Italia aveva imparato ad apprezzare dei gusti nuovi e si era divertito a farli scoprire a Shoyo, quelle rare volte che era venuto a trovarlo.
Il sapore deciso del caffè, quello acre e dolce della pasta al pomodoro, quello afrodisiaco del cioccolato fondente.
Non era decisamente il cioccolato che avevano loro in Giappone, spesso fin troppo dolce. Vi era infatti una gelateria, vicino la fontana di Trevi, dove aveva portato il suo ragazzo per fargli assaggiare un gelato buonissimo.
Era artigianale, cremoso come pochi, e avevano finito per sporcarsi il viso come due bambini e avevano riso, entusiasti di quella piccola avventura.
Tobio quella volta era rimasto a contemplare il sorriso di Shoyo, così sincero e genuino, non era cambiato di una virgola dalla prima volta in cui lo aveva visto in campo.
In quegli anni aveva imparato tanto grazie alla loro relazione, aveva imparato ad aprirsi con lui e a parlare, con un fiume di parole, di tutte le cose che gli passavano per la testa.
Quando si allontanavano per tornare ognuno alla propria squadra, non faceva altro che pensare a dei regali da spedirgli o a nuovi posti da visitare.
Quelle videochiamate alle ore più strane lo aiutavano a sentirsi meno solo, per quanto a Roma avesse ormai dei nuovi amici. E poi gli piaceva interagire con lui e con i ragazzi che allenava, lo chiamavano “Tobio-ojisan” e gli raccontavano tutto in un portoghese talmente stretto da non aver ancora imparato nemmeno una parola.
Aveva nostalgia di Hinata, e aveva nostalgia di ogni singolo momento che avevano passato insieme sia di presenza che tramite quelle chiamate.
Poi gli tornò in mente il motivo per cui era arrivato fin lì. Probabilmente si sarebbero visti per farsi una sfuriata faccia a faccia, avrebbero litigato malamente combattendo contro il desiderio di saltarsi comunque addosso e avrebbero tagliato un legame che perdurava da ormai quasi dieci anni.
Ci avevano messo così tanto per accettare i propri sentimenti, per esternarli e scendere a dei compromessi.
Non avevano mai potuto viversi completamente, con quella stupida distanza di mezzo, e non lo avrebbero fatto nemmeno questa volta.
Tobio provava un’intensa nostalgia per gli anni passati alla Karasuno dove aveva potuto godere del suo sorriso ogni mattina, dove lottavano fianco a fianco in una sincronia perfetta.
Si perse tra quei ricordi così confortevoli, così felici da far male.
Si avvicinò ad un portone con la scritta “Arrivi” e attese l’annuncio sull’atterraggio del volo. Aveva calcolato almeno mezz’ora in più per il ritiro delle valigie, invece la testolina rossa di Hinata fu tra le prime ad uscire.
Tobio notò prima la sua pelle ambrata per il forte sole di Rio, gli occhi grandi e lucidi che lo cercavano tra la folla, i capelli rossi troppo cresciuti che si erano schiariti e quel piccolo trolley malandato.
Quando Shoyo fu più vicino, Tobio notò il fagotto ancorato al suo petto.
Fu qualcosa di simile ad un pugno allo stomaco.
Shoyo aveva con sé una bambina.
Una bambina che, notò, non poteva avere più di sei mesi.
Di cosa dovevano parlare?
Lui aveva pensato ad un tradimento, ad un’eventuale rottura, non ad una bambina.
I loro sguardi si incrociarono, Hinata cercò di velocizzare il passo per raggiungerlo, ma Tobio era già andato via.
Senza lasciargli il tempo di parlare.
Dopo mesi senza sfiorarsi, lo aveva lasciato all’aeroporto.
 
***
Shoyo, grazie al suo inglese abbozzato, riuscì in qualche modo a prenotare una camera d’albergo e a prendere un taxi.
L’effetto del jet lag si era fatto sentire per benino sia sul suo stomaco che su quello della bambina, diventata improvvisamente inappetente e soporosa.
Si gettò sul letto comodo della camera, accanto Lilà, e si perse un momento a contemplare il suo profilo. Teneva il sederino all’insù e le piccole mani paffute sotto il viso mulatto su cui ricadevano dei piccoli morbidi ricci scuri, dormiva serena senza sapere né dove si trovava né cosa l’aspettava.
Probabilmente sarebbero finiti dall’altra parte del mondo, in Giappone, nella vecchia casa di Hinata alla periferia di Miyagi.
Si sentì un attimo soffocare al pensiero.
Certo, avrebbe potuto far crescere Lilà nei posti in cui era cresciuto lui, avrebbe conosciuto zia Natsu e la nonna, anche zia Yachi sarebbe stata felicissima. Non aveva alcun dubbio.
Ma non avrebbe mai conosciuto Tobio, il ragazzo di cui aveva sentito parlare ogni sera prima di dormire. Shoyo gli raccontava sempre di lui, del loro passato e di come immaginava il loro futuro.
“Tobio-otosan!” Esclamava con uno dei suoi inconfondibili sorrisoni, e la bambina lo seguiva a ruota mostrando i primi segni dei dentini.
Quel sogno però cominciava a sgretolarsi, sapeva di non poter aspettarsi la massima accoglienza dopo il suo comportamento e dopo avergli nascosto una cosa simile.
Shoyo si era davvero affezionato, non aveva alcuna intenzione di farla crescere nelle favelas e, soprattutto, voleva ricordare a quella bambina la gentilezza e il sorriso che Isabela - sua madre - gli aveva lasciato.
Era stata una donna sfortunata e con una vita molto difficile alle spalle, nonostante l’assenza del marito era riuscita a portare avanti la gravidanza e a dare alla luce una bambina splendida che non meritava il futuro da orfana che le era capitato.
Shoyo chiuse gli occhi e la rivide di fronte a sé: Isabela col pancione scendeva spesso in spiaggia nelle pause dal lavoro, li guardava giocare e gli mostrava sempre il suo entusiasmo per quella piccola squadra di pallavolo che era riuscito a creare.
Quando Lilà era nata, era subito andata da lui per mostrargliela. Così piccola e indifesa, Shoyo l’aveva presa in braccio chiedendosi se sarebbe mai diventato padre.
Immaginò Tobio con lo stesso fagotto in braccio e un moto di tenerezza lo portò a stringere Lilà al petto.
La bambina era attratta dai suoi capelli rossi, così inusuali, ogni volta che si vedevano non perdeva occasione per afferrarli e stringerli nelle sue manine paffute.
Lui la lasciava fare, ridendo e immaginandosi totalmente calvo.
Ma poco importava, era felice della vita che conduceva, della piccola squadra che aveva formato e di come rendeva altrettanto felice i suoi kohai.
La vita nelle favelas non era facile, era una lotta continua che Shoyo - senza saperlo - stava combattendo. Regalava sempre cose nuove ai bambini, giocava con loro come se fossero dei suoi pari.
Ignaro dei pericoli che stava correndo mettendosi contro chi approfittava della disgrazia dei poveri.
Lo scoprì solo dopo la morte di Isabela stessa che si era opposta allo sfruttamento a cui abbassava la testa ormai da troppi anni. Stare lì cominciava ad essere pericoloso, soprattutto per lui che si stava facendo coinvolgere troppo dalla vita difficile di quei bambini.
Dopo la scomparsa di Isabela, non ci aveva pensato due volte e aveva adottato Lilà immediatamente, portandola nella sua vita.
Era stata una botta di testa e poi aveva dovuto far fronte, da solo, a tutti i problemi che ne erano conseguiti.
Portarla con sé all’allenamento della squadra nazionale non era stata una buona idea, per quanto i suoi compagni avessero cercato di aiutarlo il più possibile.
Dormire era diventata un’impresa e, cosa non da poco, la bambina non mangiava ancora nemmeno le pao de queijo, rendendo il tutto ancor più difficoltoso.
Inoltre, si rendeva conto giorno dopo giorno, non poteva continuare quella vita senza Tobio.
Aveva nascosto tutto e se ne vergognava, ma aveva paura di perderlo, così come aveva paura di perdere il suo posto nella squadra di pallavolo.
Poi però aveva pensato che il suo sogno di arrivare ai mondiali lo aveva già realizzato, quello di vivere con Tobio no.
Aveva messo da parte abbastanza denaro per poter viaggiare fino a Roma e cercare una squadra in cui giocare o da allenare, sarebbe riuscito a fare qualcosa, purchè con lui accanto, se lo avesse voluto.
In caso contrario, come evidentemente era accaduto dalla sua reazione in aeroporto, sarebbe tornato in Giappone. A casa.
Il telefono squillò un paio di volte ridestandolo, era ormai sera.
«Hinata, dove sei?» La voce di Tobio era atona, faceva quasi paura.
«Ho preso una stanza nel vecchio hotel dove siamo stati l’ultima volta, quello di fronte la pizzeria buona.» Shoyo aveva notato sia il tono del suo compagno, sia il vocativo con cui lo aveva chiamato.
Era freddo nelle parole e nella voce.
«Dobbiamo assolutamente parlare.» Rispose l’altro, Shoyo lo sentiva camminare.
“Certo che dobbiamo parlare, perché credi che abbia fatto quattordici ore di volo?!” Avrebbe voluto urlargli. Portò una mano sulla fronte, era comunque lui dalla parte del torto per quanto non lo avrebbe mai ammesso.
«Sono d’accordo. La stanza è la duecentosedici, ti aspetto qui?» Non ricevette risposta, Tobio riattaccò la telefonata e riprese a camminare verso il centro di Roma.
Era sconvolto, nella sua mente si erano dipanate più ipotesi che raggiungevano comunque lo stesso risultato: Shoyo lo aveva tradito con una donna.
E da parecchio tempo a giudicare dall’età della bambina.
Aveva bisogno di capire cosa fosse successo.
Era etero e ci aveva messo ventiquattro anni per capirlo? Quella per lui era stata una semplice cotta adolescenziale?

Angolo autrice:
Eccomi qui con un'altra - l'ennesima - Kagehina! La seconda e ultima parte arriverà giovedì. Doveva, inizialmente, essere una One shot ma sembrava un po' lunga e scomoda da leggere, così ho preferito spezzettarla.
Spero di avervi fatto passare qualche minuto di spensieratezza!
Un bacio a tutti da parte mia e del piccolo cricetino Roy <3
   
 
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