Libri > L'Attraversaspecchi
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Autore: MaxB    28/10/2020    4 recensioni
Questa storia non è altro che una raccolta di tre capitoli, più o meno lieti, che raccontato gli ipotetici finali di Echi in tempesta.
Ho immaginato decine di diversi scenari conclusivi e ne ho selezionati tre, che vanno dal più lieto e indolore possibile a quello forse più improbabile e non proprio roseo. Ma del resto, nessuna storia è mai rose e fiori, e il quarto libro dell'Attraversaspecchi lo ha ampiamente dimostrato.
Spero solo che almeno uno dei miei finali possa colmare il vuoto che la fine della saga ci ha lasciato dentro.
Genere: Drammatico, Fluff, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, Raccolta, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Oooooook ho un sacco di cose da dire, cercherò di essere veloce e non noiosa.
Ho dovuto dividere il capitolo, ovviamente, perché come sempre l'idea da cui parto diventa ingestibile e quando ancora sono lontana dal mio obiettivo ho in realtà già scritto troppo (digressioni e mancanza di disciplina a gogo).
Punto 1: non so se questa idea vi convincerà, io stessa ne sono convinta a momenti sì e a momenti no, ma questa povera Ofelia dovrà pur trovare Thorn, no? E allora questo è quello che mi è venuto in mente. Non tutto. Il resto sarà nella terza versione del finale.
Il punto 2 lo tratto a fine capitolo per non farvi spoiler.
Buona lettura e se avete dubbi su ciò che ho scritto o volete discutere delle mie scelte sono sempre a disposizione^^ Mi auguro non sia troppo difficile da capire o macchinoso, il mio procedimento mentale... aiuto...


Finale 2: lieto fine forse - Prologo

Ofelia riemerse dallo specchio di camera sua. La sua vecchia camera.
Scrutò la penombra familiare della stanza e osservò con affetto la figura del fratello, profondamente addormentato nel letto. I suoi genitori, o meglio, sua madre gli aveva permesso di cambiare il letto a castello con uno singolo tutto per lui. Le gemelle condividevano ancora la stanza, ma Ofelia sapeva che nel giro di poco tempo si sarebbero messe a litigare per poter ottenere quella camera: anche Hector, alla fine, stava per sposarsi.
Aveva solo intravisto la sua fidanzata, non aveva avuto modo di conoscerla, ma si augurava che potesse rendere felice il fratello e che insieme potessero vivere una bella vita. Amarsi. Avere dei figli. Ofelia sospirò e si sedette alla scrivania.
La sciarpa accese il lume schermando la luce perché non disturbasse Hector, prese la carta da lettere e intinse la penna nel calamo. Era diventata a tutti gli effetti le sue mani, e Ofelia la ringraziò per il suo aiuto con una carezza del palmo guantato.
Quando ebbe finito si immerse nello specchio lasciando dietro di sé una lettera e infilandone altre tre in tasca.
 
Riemerse nell’altrettanto familiare museo dello zio. Da quando avevano ricomposto il vecchio mondo erano cambiate alcune cose ad Anima, cose delle quali si era del tutto disinteressata, se non per una: il museo gestito dal prozio era stato riaperto e dotato di tutti i documenti e oggetti espositivi di cui era stato privato dalle Decane. Ofelia trovava sempre un certo conforto nello stazionare lì, nel respirare il passato. Al di sopra di tutto si ricordava di quando era andata lì con il prozio e avevano parlato del Polo. I dipinti e le testimonianze che aveva trovato all’epoca l’avevano spaventata, e la sua voglia di sposarsi, già di per sé sotto i tacchi, era ulteriormente diminuita.
In quel momento sarebbe volentieri tornata a quel tempo, al tempo in cui stava per conoscere Thorn. Non avrebbe cambiato nulla della sua vita se non quello: i primi mesi passati con lui. I primi mesi di incomprensioni e segreti, che avrebbero potuto passare insieme a godere della reciproca compagnia invece che a farsi la guerra ed evitarsi l’un l’altra. Ofelia scosse la testa. Era stata più che altro lei a tenere le distanze. Sapeva che se gliene avesse data l’opportunità, Thorn si sarebbe avvicinato a lei da subito. Quello era forse il suo più grande rimpianto: l’incomprensione iniziale.
Il dolore della mancanza la colpì con forza, lasciandola senza fiato. La sciarpa le si avvolse attorno ai fianchi, abbracciandola, condividendo con lei lo struggimento che comprendeva bene: uno per Thorn, l’altro per Ambroise. Quest’ultimo era ormai irrecuperabile, ma Ofelia non avrebbe mai perso le speranze per suo marito.
Doveva solo perseverare.
Diede le spalle al museo e si immerse nuovamente nello specchio.
 
Quando si ritrovò nel piccolo alloggio del prozio si sentì vacillare. Inciampò e dovette reggersi ad un mobiletto basso per non cadere.
- Ti aspettavo – la salutò il prozio esalando uno sbuffo di fumo dalla pipa.
Le fece cenno di accomodarsi e Ofelia prese posto di fronte a lui solo dopo alcuni interminabili secondi.
Il prozio aveva l’aria triste dietro i baffi a manubrio, ma gli occhi erano pieni di nostalgico affetto. – C’era un tempo in cui morivi dalla voglia di venire qui e coglievi ogni occasione per farlo. Ora sfuggi come un gatto randagio.
Ofelia usò quel che restava delle sue mani per sistemarsi la sciarpa. O meglio, per importunarla, tesa com’era.
- È molto tardi, cosa fate alzato?
- Ti aspettavo, figliola. Non credere che non sappia che sei tu a lasciare sul pavimento di fronte alla porta le lettere. Pensavi di fregare il tuo vecchio zio? Chi mai recapiterebbe una lettera sotto l’uscio di casa in piena notte? E con regolarità, per giunta. Ah! Ho sempre saputo che usavi gli specchi, ma non ho voluto forzarti a vedermi. Sapevo che se avessi avuto bisogno di me saresti venuta di giorno. Ora però credo che tu abbia bisogno di me ma non te ne renda conto.
Ofelia sentì gli occhi riempirsi di lacrime e la sciarpa le tolse gli occhiali con movimenti frenetici. Aveva perso così tanto. Ridare al mondo i suoi dadi le era costato davvero, davvero molto. Troppo, pensava a volte. Non si sarebbe mai data per vinta riguardo a Thorn, ma c’erano persone che non avrebbe potuto riportare indietro. Come Renard e Gaela. O il prozio, che alla fine evitava per proteggerlo. Ed era lo stesso per Berenilde e la zia Roseline. Un contatto fugace una volta ogni tanto era assai più duro da sopportare rispetto alla mancanza perpetua, specialmente se non si aveva nessuna novità da riferire.
Inoltre, finché lei non avesse ritrovato Thorn non se la sentiva di godere di quegli affetti che a lui erano preclusi.
Di fronte al silenzio della nipote, il prozio sospirò. – Sono passati due anni, Ofelia. Hai ottenuto qualche risultato?
No. Nessun risultato.
Ofelia aveva passato le prime settimane solo ad attraversare specchi, a cercare di tornare in quel luogo di mezzo che le era precluso definitivamente. Con tenacia si era decisa a voler trovare una breccia che non c’era. Aveva studiato molto alla biblioteca di Anima, cercando di documentarsi quanto più possibile sul suo potere di Attraversaspecchi. L’unica cosa che aveva scoperto era che il suo era un dono raro e misterioso, che nessuno aveva potuto studiare approfonditamente in quanto era peculiarità di pochi, e non sperimentabile.
Aveva però scoperto di essere ancora in grado di percepire tutti gli specchi di quel mondo ricostruito. Con un solo attraversamento poteva giungere a Babel, il Polo e persino in arche che non aveva mai visitato. Era una reminiscenza rimastale da dopo la visita al luogo di mezzo e al Rovescio, un piccolo lascito che le tornava utile per muoversi indisturbata. Era come se dopo aver perso il potere da lettrice, quello da attraversaspecchi si fosse migliorato, amplificato, come quando i sensi rimasti sopperiscono alla perdita di uno di essi, o il corpo si ingegna in seguito alla mancanza di un arto.
Lo zio sospirò di nuovo di fronte al suo silenzio. – Ti preparo un tè.
Ofelia gradì molto la bevanda calda e i biscotti che lo zio le offrì. Viveva come una nomade, cercando freneticamente qualcosa che non sapeva come trovare, dormendo ogni notte in una camera d’albergo diversa e mangiando nelle cucine silenziose di qualche palazzo sperduto o taverna.
Non parlava con qualcuno da mesi, e la voce le uscì roca e pigolante quando disse: - Grazie infinite.
La sciarpa ripose la tazza sul ripiano, senza romperla com’era solita fare Ofelia, e spazzolandole le briciole di biscotto dalla gonna.
Il prozio la fissava in silenzio fumando la pipa. – So bene che nessun tentativo di dissuasione potrà avere buon esito, quindi non provo nemmeno a farti restare. L’unica cosa che può porre fine a questa tua fuga è la riuscita, e allora ti aiuterò come posso. Non ho trovato nulla di utile riguardo a tutto quello che è successo da quando tu e quel tuo marito avete cambiato il nostro mondo. Però ti lasci tante tracce dietro, figliola. Disordinata come sempre. Ho studiato i libri della biblioteca che sfuggivano al tuo tentativo di rimetterli a posto, e posso solo dirti questo: stai studiando il tuo potere, ma non credi che dovresti conoscere meglio quelli dell’arca natale di tuo marito?
Ofelia increspò la fronte. Di che utilità le sarebbe stato studiare i poteri familiari di Thorn o del Polo?
- Vedo che sei scettica, ma non ho trovato altre strade da percorrere. Ho scoperto della cerimonia del dono, e ho ragione di credere che ne sia stata sottoposta anche tu.
- Sì – confermò in un sussurro Ofelia.
- Dunque hai dentro di te altri poteri che hai ereditato dalla famiglia del tuo coniuge. Sarebbe utile scoprire come questi doni possono influenzarsi fra loro, no?
Ofelia aprì la bocca, ma quando si rese conto di non avere nulla da dire la richiuse.
Il prozio si diresse verso di lei e le prese i palmi guantati, accucciandosi con qualche imprecazione e scricchiolante rumore di ossa non più molto giovani.
- Se rimarrò bloccato in questa posizione ti considererò direttamente responsabile – borbottò, e in risposta le dita vuote dei guanti di Ofelia si strinsero attorno alle sue mani.
- Io rivoglio mia nipote. La mia cocciuta, forte, determinata e vitale pronipote, che mi rompe tutto quello che tocca e viene da me per ogni piccolo problema che ha.
Ofelia scosse la testa. – Non sono sicura che esista ancora quella ragazza.
- No, perché ora è una donna cocciuta, forte, determinata e vitale, il che è anche peggio. Prova a fare ciò che ti ho detto, tentare non costa nulla. Hai già buttato due anni, cosa vuoi che siano pochi giorni?
Lo zio si rialzò a fatica, ma Ofelia gli gettò le braccia al collo senza preavviso e caddero entrambi per terra. Il prozio borbottò e poi scoppiò a ridere, imitato da Ofelia. Le depositò un bacio sulla zazzera di capelli ricci che non aveva più tagliato dopo la rasatura dell’ospedale. Le arrivavano di nuovo a metà schiena, poco più corti di quando aveva conosciuto Thorn.
- Resta qui per questa notte, domani è un nuovo giorno.
Ofelia seppellì il viso nel suo petto, desiderando liberare le lacrime di scoramento, solitudine, affetto e speranza che serbava da troppo tempo, ormai. Invece aiutò lo zio a rialzarsi, si lavò e solo dopo essersi coricata si permise di piangere in silenzio.
 
La mattina fu svegliata dall’odore invitante della colazione che il prozio stava già servendo a tavola. Mangiarono in silenzio, anche se qualche volta lo zio la metteva a parte delle ultime novità, come il numero dei figli di Agata, l’imminente matrimonio di Hector e il pretendente di Beatrice, che la scambiava soventemente con Eleonora e Domitilla. Ofelia rise di gusto e si sentì più rinfrancata dalla chiacchierata amena con lo zio che dalla notte di riposo e dal pasto.
Lo aiutò a lavare le stoviglie come in passato, anche se a ruoli invertiti: fu lui a strofinare e lei ad asciugare, dato che era un compito più facile per la sua sciarpa. Nessuno dei due proferì parola mentre si perdevano in altri ricordi di altri lavaggi e asciugature dei piatti. Ofelia, anzi, la sciarpa non ruppe nulla, e il prozio mugugnò qualcosa a proposito dell’inutilità del suo potere, se nessuno fracassava alcunché.
Alla fine si preparò per uscire e salutò Ofelia sulla porta di casa.
- Non ti troverò al mio ritorno, vero?
Ofelia non gli rispose, ma lo abbracciò per l’ultima volta e lo guardò andarsene.
Depose ugualmente la lettera sul suo letto e si rituffò nello specchio, ricaricata di un’energia nuova che solo l’affetto delle persone più care poteva generare.
Lasciò una lettera alla zia Roseline e una a Berenilde e Vittoria prima di riprendere la sua ricerca.
 
Lo zio non aveva avuto torto, ma nemmeno ragione.
Ciò che Ofelia aveva cercato per tutto quel tempo, una possibile risposta alle sue domande, si trovava al Polo, ma non era relativa al potere familiare di Thorn. La memoria che non aveva ereditato non le sarebbe servita, e tantomeno le sarebbero tornati utili gli artigli.
Un potere di comunione, però, forse faceva al caso suo.
Insieme a quello di poter uscire dal proprio corpo e proiettare la propria coscienza in un mondo inaccessibile.
 
Quando emerse dallo specchio della camera di Archibald, lui la guardò distrattamente, sorridendole come sorrideva a chiunque. Alloggiava presso il castello di Berenilde dato che, non essendo più in contatto mentale con la Rete, la sua famiglia, era considerato radiato dal loro clan. Ofelia la trovava una cosa orribile. Nonostante tutto quel tempo ancora non riusciva ad abituarsi alla mancanza di affezione naturale e alle brutalità del Polo.
Archibald non si mostrò sorpreso dalla sua visita, né contento o triste.
- Moglie di Thorn! Siete in cerca di consolazione? Non credo che vostro marito lo verrà a sapere, se passerete una notte con me, e la cosa toglie un po’ di divertimento alla faccenda, lo ammetto, ma a chi importa?
Ofelia fu al tempo stesso sollevata e infastidita da quel commento: sollevata nel rendersi conto che se Archibald faceva ancora dell’umore significava che non stava troppo male; infastidita dal commento in sé e dall’incapacità dell’uomo di essere serio, in qualsiasi situazione.
- Ho bisogno del vostro aiuto – gli disse solo, senza aggiungere o chiedere altro.
Doveva ammettere che quei due anni di solitudine, ricerche, vagabondaggi e lontananza l’avevano resa ruvida quasi quanto Thorn.
Il sorriso di Archibald si allargò, sebbene i suoi occhi rimanessero come al solito privi di un’effettiva luce gioiosa.
- Sapete che non faccio mai nulla per nulla. I miei favori hanno sempre un prezzo, moglie di Thorn.
Ofelia ignorò spudoratamente l’espressione maliziosa dell’ex ambasciatore.
- Possiamo parlarne. Non ho nulla da perdere. Accettate?
- Per quanto sia allettante immaginarmi la ricompensa che potrei chiedervi, non accetto molto spesso incarichi che non mi vengono quanto meno accennati.
Ofelia non si lasciò scoraggiare, ma non espose nemmeno la sua idea.
- Avrei prima bisogno di vedere anche Vittoria. Ho ragione di supporre che sia necessario anche il suo contributo.
Questa volta la curiosità di Archibald prese il sopravvento su tutto, persino sul suo sorriso. Per un attimo parve un uomo serio e distinto, e Ofelia si rese conto che dietro ai modi scanzonati, incuranti del decoro e fuori luogo, Archibald avrebbe potuto essere un ottimo ambasciatore. Se solo gli fosse mai importato.
- Spero non sia una cosa pericolosa, moglie di Thorn, ipotesi di cui dubito dati i vostri precedenti.
Ofelia non negò né confermò i suoi timori e Archibald si corrucciò, facendo increspare la fronte persino ad Ofelia. Era insolito che mostrasse così tanto interesse nei confronti di qualcuno.
- Va bene, allora accetto l’incarico a scatola chiusa. La mia condizione è che mi spieghiate ogni dettaglio e che il vostro piano non mini in alcun modo la sicurezza di Vittoria.
Ofelia dovette trattenersi per non sgranare gli occhi, e persino la sciarpa si agitò, appallottolando le due estremità delle sue code come i pugni che la sua padrona non poteva più stringere. Le dita vuote dei guanti che indossava cominciarono a muoversi convulsamente, attirando lo sguardo di Archibald. Ofelia sapeva che non era un bello spettacolo vedere i suoi guanti che si dimenavano scompostamente.
Avrebbe ovviamente accettato, ma trattenere le domande che le affollavano la mente fu difficile. Le sfuggì un piccolo sorriso triste al ricordo di quando ancora era con Thorn: non c’era domanda che non fosse uscita dalle sue labbra, a volte in modo indiscreto, altre in maniera improvvisa, altre ancora inopportuna. Lo aveva sempre, sempre interrogato, un po’ come Hector aveva interrogato lei con i suoi perché.
Ma Archibald non era Thorn, e lei non avrebbe indagato la natura di quel rapporto con la sua figlioccia. Calcolò che ormai Vittoria dovesse avere quasi sei anni.
- E sia. Ma non fate sapere né a mia zia né a Berenilde che sono qui.
Archibald sgranò gli occhi e ritrovò il consueto sorriso, seppur leggermente attonito e recalcitrante. – Volete dire… subito? Ora?
Il tono di Ofelia si fece più duro del previsto. – Cosa dobbiamo aspettare, di preciso?
Sembrava una vecchia zitella inacidita. Comprese in quel momento perché la zia Roseline avesse modi tanto bruschi, troppo diretti, spesso pungenti: la perdita dell’amore inaridiva dentro, soffocando la gentilezza con il dolore della mancanza.
La prima volta che Thorn era sparito, Ofelia aveva la certezza che fosse vivo, da qualche parte, in forze, e che lo avrebbe ritrovato. Si era impigrita e nascosta in casa, si era sentita vuota, ma non era cambiata. Dopo due anni di ricerche infruttuose, invece, il seme dello sconforto aveva messo radici in lei, ed era divenuta insofferente, irritabile. Scoraggiata.
Talvolta perdeva completamente le speranze.
Non poteva più attendere.
Il suo sguardo risoluto parve convincere Archibald.
- Vado a chiamare la piccola. Fate sì che ne valga la pena, moglie di Thorn.
Lei era la moglie di Thorn, sì. E suo marito valeva la pena di qualunque tentativo.
 
Vittoria la accolse con uno sguardo incuriosito e reticente al tempo stesso. Ofelia l’aveva sentita arrivare chiacchierando, ma quando aveva varcato la soglia della camera mano nella mano con Archibald e aveva notato Ofelia si era subito zittita.
Le due si squadrarono in silenzio, e alla fine quel visino pallido dai grandi occhi e dai lucenti capelli candidi non poté nulla contro la barriera isolante di Ofelia. Quest’ultima si aprì in un sorriso tenero, riportata indietro nel tempo da quella mescolanza di Berenilde e Faruk. Riportata indietro ad un’altra epoca, quasi, in cui tutto era diverso.
Aveva scelto lei il nome di quella creatura, si rese conto. E lei credeva nell’importanza dei nomi, che ad un nome corrispondesse un carattere specifico. Chissà se Vittoria sarebbe stata la stessa, con un nome diverso.
- Ciao Vittoria – la salutò, avvicinandosi a lei. La bambina era più alta della media, e aveva solo cinque anni, quasi sei. La sua bellezza era comunque evidente e innegabile, e Ofelia sperò tanto di poterla proteggere da malelingue invidiose e da falsi pretendenti, quando fosse cresciuta. Del resto… - Sono la tua madrina, Ofelia.
Vittoria guardò Archibald, che negli occhi serbava un sentimento di affetto così puro e profondo da far commuovere Ofelia. Era la prima volta che vedeva un vero sorriso sulle labbra di quell’uomo tanto schivo quanto irriverente, e Ofelia fu grata aver avuto l’opportunità di scorgerlo. Archibald era innegabilmente bello, di quella bellezza angelica e seducente che fa battere il cuore delle fanciulle e ribollire il sangue degli uomini gelosi. Ofelia si rendeva conto di non aver sposato un uomo eccezionalmente affascinante, ma non le importava perché Thorn era tutto quello che avrebbe mai desiderato, anche se era stata lenta a capirlo. In ogni caso, ora capiva per quale motivo Thorn fosse sempre stato rigido e scostante con Archibald accanto, in sua presenza. Chissà quante donne aveva visto scappare con lui proprio di fronte al proprio promesso sposo, o al marito.
Lei non avrebbe mai tradito Thorn, di quello era più che sicura, ma a vedere Archibald con quel sorriso sul volto si sentì arrossire mentre gli occhiali si tingevano di un tenue rosa. Chissà cosa avrebbero dato le donne per essere guardate in quel modo…
La voce morbida e caramellata di Vittoria la distrasse da quel sortilegio, facendole sentire ancora di più la mancanza di Thorn, se possibile. Il suo accento era lo stesso. – Lo so. Mi ricordo di voi, madrina.
Vittoria le sorrise timidamente e si avvicinò a lei per prenderle la mano. Poi si voltò di nuovo verso Archibald, come in attesa di ordini; le dita irrequiete e vuote dei guanti l’avevano fatta desistere. Lui le si inginocchiò di fronte, accarezzandole i capelli.
- Ora la tua madrina ci spiegherà cosa vuole che facciamo. Sarà divertente. Spero. Non si può mai sapere, con lei. È un po’ pazza, sai.
Vittoria sorrise e guardò Ofelia come se Archibald le avesse appena detto che le avrebbe regalato un sacco di dolci. Lei, dal canto suo, scoccò un’occhiataccia ad Archibald, che aveva la solita espressione canzonatoria sul viso. Era tornato in sé. O forse era tornato ad indossare la maschera, smettendo di essere se stesso.
Ofelia propendeva più per la seconda ipotesi.
- Siamo qui per ritrovare il cugino? Mamma dice sempre che voi siete in giro tutto il tempo per riportarlo a casa. Lo avete trovato?
Ofelia esitò, mentre le parole di Vittoria la facevano vacillare. Si sedette sul letto di Archibald, per quanto quella frase sembrasse indecorosa. Berenilde sperava ancora nel ritorno di Thorn, così come confidava nel fatto che lei sarebbe riuscita nell’intento. Non l’avrebbe delusa, si augurava, o avrebbe deluso anche se stessa.
- L’ho trovato, sì. Ma perché ho sempre saputo dove si trova. Il difficile è raggiungerlo, non trovarlo.
Vittoria aggrottò le sopracciglia, poi annuì come se in realtà avesse capito perfettamente il significato delle parole di Ofelia. Per qualche motivo seppe che era proprio così.
- Su, moglie di Thorn, madama Berenilde diventa un po’ isterica quando Vittoria si allontana per troppo tempo.
Ofelia lo guardò sgomenta. – Non l’avete avvisata?
Archibald si strinse nelle spalle, ma Vittoria glielo confermò con un cenno d’assenso. O forse confermò che sua mamma diventava particolarmente sensibile quando non l’aveva sotto controllo. Forse Berenilde non aveva cicatrici fisiche come Thorn, ma era a sua volta segnata nell’animo e certi sentimenti di apprensione e paura non sarebbero mai cambiati.
- Allora? – la incalzò nuovamente Archibald, prendendo in braccio Vittoria senza sforzo.
Ofelia prese un profondo respiro.
- Ho formulato una teoria.
Rimase in silenzio, mentre le dita vuote dei suoi guanti si muovevano impazzite. Vittoria sembrava ipnotizzata da esse, Archibald stava lentamente perdendo il sorriso.
- Mi sono informata sui poteri che qui al Polo prevalgono. So già cosa siete in grado di fare voi, Archibald, e credo che il vostro dono sia potente e utile, ma non da solo. Insieme a quello di Vittoria potrebbe aiutarmi a recuperare Thorn.
Archibald non sorrideva più. Il volto serio e concentrato non gli si addiceva, sebbene contribuisse a renderlo fascinoso in modo diverso. In ogni caso, Ofelia gli fu grata per quella presa di coscienza e attenzione.
- Cosa intendete dire?
- Ho letto molto in questo periodo. Ho studiato le peculiarità di tutte le arche per cercare di capire se e come potessero tornarmi utile. Paradossalmente, ho ignorato i poteri familiari del Polo, l’arca natia di Thorn, di certo l’arca che più mi sarebbe potuta servire.
Ofelia sorrise amaramente e scosse la testa. Le sembrava di parlare come Thorn, e le mancava la sua eloquenza trasparente e diretta, il suo modo di esporre i fatti con concretezza e decisione. A lei la voce già veniva meno e lo sguardo di Archibald non l’aiutava di certo a spiegarsi con chiarezza.
- Come ho detto, so bene di cosa siete capace voi. Avete poteri telepatici, che non sono sminuiti dalla recisione del contatto con la Rete. Avete soprinteso alla cerimonia del dono, permettendo a me e a Thorn di condividere i nostri poteri. Avete messo in collegamento le coscienze mia e di Elizabeth, scambiandoci le memorie. Inoltre, avete nelle vene il sangue di Madre Ildegarda, e la capacità di creare scorciatoie. Passaggi.
Distolse lo sguardo quando vide quello di Archibald adombrarsi. Aveva anche scoperto della sua malattia in quel modo, cosa che non gli faceva molto piacere.
- E Vittoria?
Ofelia prese un profondo respiro. – Vittoria ha un nuovo potere familiare, essendo una diretta discendente di uno spirito di famiglia. Un potere che nessuno aveva capito all’inizio, com’è stato correttamente riportato nelle varie enciclopedie familiari del Polo. Vittoria può viaggiare, può scindersi dal suo corpo, disincarnarsi in una forma eterea mentre il suo fisico si ferma e rimane sospeso in una specie di stasi, impotente. Sostanzialmente, Vittoria può diventare l’ombra, l’eco di se stessa e arrivare al Rovescio.
Archibald aggrottò le sopracciglia, imitato dalla bambina.
- Non avete torto, moglie di Thorn. Vittoria stessa mi ha fatto capire di avermi seguito a Terra d’Arco mentre il suo corpo rimaneva qui, una bambola inerte nelle mani della madre. Oh, Berenilde ha dato di matto, potete starne certa. Ma se avete letto queste fantomatiche enciclopedie come si conviene, saprete anche che Vittoria non ha più viaggiato da allora. Troppo pericoloso.
Vittoria sembrava più a disagio di chiunque altro, in quella stanza. Sembrava anche la più vecchia, e forse era la più saggia, data la disperazione che pervadeva i due adulti che discutevano. Disperazione che si manifestava sotto forme diverse, ma faceva ugualmente male. Vittoria sapeva che se si fosse scissa da se stessa in quel momento avrebbe visto un tripudio di ombre farsi lotta fra di loro.
Ofelia le sorrise. – Lo so. Questo però non significa che tu non sia in grado di farlo, vero Vittoria?
La bambina annuì con riluttanza.
Ofelia le si avvicinò e le accarezzò lievemente una guancia con un dito floscio. – Hai paura?
Vittoria annuì nuovamente. La piccola sapeva parlare, certo, ma questo non significava che l’eloquio le confacesse. Se poteva, evitava di proferire parola, e spesso si ingarbugliava e usava invece vocaboli che non esistevano.
- Perché hai paura, Vittoria?
La bambina esitò, guardò Archibald, che le sorrise incoraggiante, e poi disse: - Non voglio perdermi ancora.
Ofelia la osservò con perplessità. – Ti sei persa perché eri troppo lontana dal tuo corpo, vero?
Vittoria assentì.
- Come hai fatto a tornare?
Esitando, la piccola tirò fuori le parole a fatica. – Cugino mi ha aiutato.
Sia Archibald che Ofelia sgranarono gli occhi. Thorn e Vittoria non si erano mai visti.
- Come…? – mormorò Ofelia, incapace di formulare una domanda sensata.
- L’ho trovato di là. In un pozzo. Ero tanto lontana. Padrino non c’era. Mamma non c’era. Nessuno c’era. Ma cugino mi ha riportata dall’Altra Vittoria. Da Mamma.
- Tu non hai mai visto Thorn – le fa notare Archibald, serio.
- Era cugino.
Ofelia non indagò oltre: la parte più irrazionale di sé credeva ciecamente alle parole di Vittoria. Thorn aveva riportato indietro la figlia di Berenilde. L’aveva trovata nel Rovescio quando ci era entrato per causa di Seconda. Quella nuova rivelazione non faceva che avvalorare la tesi di Ofelia, che cercò di trattenere l’emozione.
- Non potete farla viaggiare, Ofelia. E non lo dico perché temo la furia di Berenilde, ma per Vittoria stessa. Quando ha smesso di proiettare all’esterno la sua mente è diventata anche in grado di camminare, muoversi e parlare.
Ofelia sorrise. – Non sarà lei a viaggiare, ma io.
Archibald la scrutò in silenzio mentre arrivava a comprendere il piano di Ofelia. Il cilindro sbrindellato gli cadde dalla testa, e Vittoria fissò la sua discesa con sconcerto. Poi fu distratta da Salame, come se niente fosse più importante al mondo. In fondo, era una bambina.
- Non posso eseguire una cerimonia del dono su voi e Vittoria. Questa è un’idea balzana persino per me, moglie di Thorn. Avete perso il senno. Non avrei mai immaginato che sarebbe arrivato il momento in cui avrei dovuto ricondurre alla ragione…
La sciarpa di Ofelia, reagendo alle intenzioni della padrona, si attorcigliò al suo polso. Ofelia lo fissava con intensità inquietante, sorridendo sempre di più, estatica. Speranzosa.
- Non voglio assorbire il potere di Vittoria. Voglio che voi ci mettiate in contatto telepatico e fisico con i vostri due doni, che creiate un passaggio tra noi, e che Vittoria sfrutti questa connessione per proiettare mentalmente me.
Archibald appariva confuso. – Proiettarvi dove?
Vittoria guardava ai piedi di Ofelia, concentrata su qualcosa che solo lei sembrava notare. – Ombra-specchio.
- Esatto. Dentro lo specchio.
 
Pochi minuti dopo erano tutti in piedi di fronte allo specchio della camera di Archibald, con la porta ben chiusa.
- È una follia. Ve lo dico io, moglie di Thorn, e se lo dico io…
- Vuol dire che è folle follissimo – ripeté Vittoria ridendo.
Archibald aveva ripetuto quella parola talmente tante volte che Vittoria l’aveva presa e plasmata a proprio piacimento in innumerevoli vocaboli derivati senza significato. Ofelia pensò distrattamente che storpiare in quel modo la sintassi sarebbe stato un affronto, per Thorn.
- Non vi ho chiesto un’opinione, ma un’azione.
Archibald bofonchiò. Poi sorrise, ovviamente. – In ogni caso, era da tanto che non facevo qualcosa di folle. Morirei senza un po’ di brio, odio la monotonia.
Poi rise delle sue macabre parole e posò una mano sulla guancia della donna al suo fianco e della bambina dall’altro lato.
- Non funzionerà.
- Vi facevo più positivo, Archibald.
- Sono stato positivo tutta la vita e guardate dove mi ha portato – disse sorridendo.
Ofelia non gli diede retta.
- Avete capito tutto? Vittoria?
La bambina emise un mormorio che Ofelia interpretò come un assenso. Era ridicolo quello che stava cercando di fare, ma era tutto ciò che aveva.
Immerse una mano nello specchio, palmo e polso, e disse: - Ora.
Com'era accaduto tanto, tanto tempo prima, Ofelia si sentì sbiadire nelle coscienze altrui, diventando un uomo malato e una bambina piena di energie e con una visione del mondo distorta e percettivamente alterata. Sentì la sua pelle diventare pallida come quella di Vittoria e sentì la pelle di Archibald toccare entrambe mentre lei entrava in contatto con la bambina e diventavano un tutt’uno tutti e tre. Venne pervasa da un sentimento di ammirazione e affetto così profondo nei confronti di Archibald che se non fosse stata attenta avrebbe rischiato di dimenticare il suo amore per Thorn e sostituirlo con quello per l’uomo che le stava accanto, anche se quelle che provava erano le emozioni infantili di una bimba. Allora strinse gli occhi e fece emergere da dentro di sé tutto quello che provava per il marito, come un fiume impetuoso che travolse tutti e tre facendoli gemere per il dolore della mancanza, di quei due anni di lontananza, perché in quel momento amavano tutti Thorn.
Desideravano tutti Thorn.
Si fusero insieme e si separarono e Ofelia era Vittoria mentre Archibald era Ofelia e poi Vittoria divenne Archibald e i confini si fecero labili mentre la bambina usciva dal proprio corpo e Archibald vedeva le ombre di tutti che si sfalsavano e Ofelia percepiva i pensieri di tutti e una malattia giunta al suo parossismo che bruciava e bruciava e Vittoria si sentiva morire mentre si aggrappava alla gonna della madre e Ofelia si immergeva in uno dieci cento infiniti specchi e scappava fuggiva baciava le labbra di una dieci cento donne ma quello era Archibald che cercava di sopprimere la paura e Vittoria voleva tornare a casa e Thorn mancava mancava mancava e Vittoria viaggiò.
Thorn le mancava. Si proiettò fuori da sé. Thorn le mancava. Guardò se stessa da fuori. Thorn le mancava. Guardò la sua madrina e il suo padrino. Thorn le mancava. Rientrò dentro il proprio corpo. Thorn le mancava. E poi buttò fuori Ofelia.
Thorn mancava.
Finì tutto, silenzioso e immediato come un battito di ciglia. Ofelia si sentì leggera e priva di forma, incorporea e incosciente, i suoni e i colori le arrivavano ovattati. Poi si vide da fuori, con gli occhi vitrei e spalancati, al fianco di Archibald e Vittoria, entrambi con le fronti corrugate, concentrati al massimo. Ofelia tornò presente a se stessa. Vittoria aprì gli occhi, imitata da Archibald; essendo connessi, avevano entrambi percepito la proiezione mentale di Ofelia staccarsi da loro, lasciandosi solo un guscio vuoto alle spalle. I due le sorrisero, in grado di vederla. Ofelia diede loro le spalle e si tuffò nello specchio.
 
Come aveva pensato, come aveva sperato, sperato con tutta se stessa, uscì nel Rovescio. Quella proiezione mentale era quanto ci fosse di più simile ad un'eco, un'ombra, a cui non era precluso il viaggio tra i versi. Si trovava nella stessa camera in cui aveva lasciato il suo corpo, solo che i colori erano in contrasto e la simmetria era invertita. Guardandosi alle spalle, Ofelia vide Archibald, Vittoria e il suo corpo al di là dello specchio, e la sua stessa mano immersa in esso. Capì allora che in realtà, per tutti quegli anni, lei aveva sempre viaggiato attraverso il Rovescio, ma senza ma percepirlo. Era come se recto e verso fossero sullo stesso piano di esistenza, ma sfalsati gli uni rispetto agli altri, come la superficie di uno specchio che rifletteva ogni dettaglio ma non permetteva la collisione dei due mondi che venivano a crearsi, speculari e inversi. Infatti notò subito la consistenza nebbiosa della propria mano, come un alone su una foto, visibile ma non esistente. Immateriale.
Chiuse gli occhi con forza, disturbata da tutto quel bianco innaturale.
Si chiese dove potesse essere Thorn, dove avrebbe potuto cominciare a cercarlo. Fece un elenco dei luoghi da cui partire con l’indagine, ma quando si volse se lo trovò di fronte.
Alto. Magro. Rigido. Con le svettanti cicatrici nere sugli avambracci scoperti. Con gli occhi chiari che mandavano inquietanti lampi scuri, invece che argentei come se li ricordava. Con la gamba storpia posizionata ad un'angolatura del tutto innaturale.
Eppure la forza che emanava dal suo corpo, la sua determinazione, erano le stesse di sempre.
Ofelia notò solo in quel momento che ai propri piedi si agitavano scompostamente delle ombre nere, dotate di vita propria. Al contrario, sotto di sé Thorn aveva una pozza di liquida oscurità che si muoveva sinuosamente, placida. Solo per un attimo la vide diramarsi come un groviglio di rovi letali, ma fu un istante troppo breve per appurare se non fosse solo uno scherzo della sua mente.
Ofelia sentì le lacrime salirle lungo la gola, come se avessero avuto origine dal suo intestino, da dove risiedevano tutte le emozioni negative e alienanti che aveva provato nel corso di quei due anni. Paura, tristezza, solitudine, scoraggiamento, abbandono, gratitudine mista a rabbia per il gesto di salvezza che Thorn aveva compiuto per permettere a lei di salvarsi. Ma a che prezzo?
Le aveva promesso che lei avrebbe sempre avuto una scelta, che avrebbe avuto in mano i dadi del suo destino. Ironicamente, le mani non le aveva più, non completamente, e con la sua decisione di condannarsi all'esilio nel Rovescio per salvare lei Thorn le aveva tolto ogni possibilità di scelta. Le aveva imposto un'esistenza diversa da quella che lei voleva. Un'esistenza senza di lui.
Solo in quel momento si rese conto di come dovesse essersi sentito Thorn per la maggior parte della sua vita, costretto a subire le decisioni altrui, assaggiandole sulla pelle.
Rimase immobile, ad osservarlo, sentendo ancora di più la mancanza che aveva provato in quegli anni.
Aprì la bocca per parlare, ma con sua sorpresa non ne uscì nulla. Si spaventò appena prima di rendersi conto che era normale in quel mondo, che non era un problema solo suo. Ma aveva così tante cose da chiedere e dire a Thorn...
Prese atto in ritardo del fatto che lui era fermo, rigido, corrucciato come al solito ma con una parvenza di timore negli occhi.
Ofelia si spaventò. E se lui non l'avesse riconosciuta? Se gli fosse successo qualcosa in quegli anni? Il Rovescio non rispondeva alle stesse regole del loro mondo...
L'oscurità piombò su di lei, più nera del nero, più nera di quanto fosse quel luogo già fin troppo scuro. Ma era un'oscurità calda, un'oscurità che le fece venire voglia di piangere sebbene non ci riuscisse. Un oblio che la accecava con la sua luce. La fece infuriare non poter buttare fuori tutto il dolore che portava dentro. Ricambiò comunque l'abbraccio di Thorn, temendo che potesse allontanarsi.
Non gli avrebbe permesso di far durare quell'abbraccio solo cinque secondi, come suo solito. Sorrise e scosse la testa al pensiero. Lo aveva appena ritrovato, e già la sua presenza aveva cancellato quei giorni, mesi, anni di isolamento, colmando il vuoto dentro di lei al punto che traboccava.
Si ritrovarono accasciati sul pavimento, incapaci di sostenere i propri corpi, e ad Ofelia venne in mente la prima volta che Thorn l'aveva stretta tra le braccia in quel modo, come a voler tenere insieme tutti i suoi pezzi. Anche in quell'occasione la circostanza non era stata felice, dato che Ofelia aveva rischiato di morire a causa di un'illusione del barone Melchior. La presenza solida di Thorn le dava sempre, imprescindibilmente la forza di continuare a respirare, a vivere anche quando faceva male.
Non seppe dire per quanto tempo rimasero in quella posizione, con le braccia intrecciate, i corpi uniti.
Thorn si scostò poco tempo dopo, o tanto tempo dopo. Non aveva alcun significato lo scorrere dei secondi, lì.
Allungò una mano ossuta, quella mano che Ofelia trovava tanto elegante e forte, e con estrema delicatezza le accarezzò una guancia, asciugandole con il pollice una lacrima che non esisteva.
Si baciarono quasi con timore, come se paventassero la scomparsa dell'altro se fossero entrati in contatto; terrorizzati all'idea di svegliarsi, di scoprire che era tutto falso, che non si erano ricongiunti. Invece era tutto vero, e la pressione delle labbra di Thorn fu leggera ed esitante come la prima volta che l'aveva baciata, sulla muraglia del Polo, ma divenne ben presto insistente e profonda come la seconda volta che lo aveva fatto, quando erano crollati una sopra l'altro nella stanza dell'Ordinatore a Babel.
Approfondirono il contatto più che poterono, stringendosi quanto fosse fisicamente possibile, desiderandone ancora, trattenendosi per non consumarsi in quel fuoco che li stava sciogliendo dall'interno, come olio bollente nelle vene. Quando Ofelia si aggrappò a lui, ai suoi vestiti vecchi di anni ma non per questo rovinati, si rese conto con stupore di riuscire a farlo. Mosse le dita senza smettere di baciare Thorn, usandole per avvinghiarsi a lui, stringerlo, toccarlo. Thorn sgranò per un istante gli occhi prima di rispondere con lo stesso impeto. Sapeva che una volta tornata nel proprio corpo le sue mani sarebbero nuovamente state mutilate, ma non le importava. Non era riuscita a trattenere Thorn quando aveva cercato di tirarlo fuori dallo specchio, e la mano immateriale che bucava quello alle loro spalle era ancora senza dita, eppure sapeva che questa volta ce l'avrebbe fatta. Che l'avrebbe tirato fuori ad ogni costo. Intrecciò la mano alla sua sorridendo, commuovendosi quando sentì le sue lunghe dita affusolate racchiudere le sue, piccole e delicate, nella propria stretta. Erano poche le volte in cui aveva preso Thorn per mano, tante le volte in cui avrebbe voluto farlo. Si godette quella sensazione più che poté, desiderando di essere riuscita ad ereditare anche la memoria degli Storiografi per conservare il ricordo indelebile di quel momento nel suo cervello. Invece sorrise, perché non le importava più nulla a parte il presente, la loro riconciliazione.
Finalmente lo aveva trovato, nel qui e nell'ora.
Non si rese nemmeno conto di aver cominciato a sbottonare la camicia di Thorn finché lui non la bloccò per i polsi. Negli occhi gli ardeva una luce che scaturiva da intense emozioni contraddittorie: desiderio di avvicinarla e insieme allontanarla, disperazione e beatitudine, paura e bramosia. Scosse impercettibilmente la testa, e Ofelia sapeva che sarebbe avvampata se la sua pelle non fosse apparsa nera. Non potevano... non lì. Non era il momento, non quando Archibald e Vittoria erano legati a lei mentalmente. Si districò dal groviglio di braccia e gambe e si rialzò di scatto, perdendo l'equilibrio. Thorn fu più lesto di lei ad alzarsi e afferrarla, lasciandola poi andare quasi con riluttanza. Quel posto sembrava aver conferito al suo fisico ancora più scioltezza e velocità, come se fosse slegato dai limiti che la realtà imponeva ai loro corpi.
Avrebbe voluto chiedere a Thorn cosa gli fosse successo in quei due anni, come avesse fatto a sapere che lei era proprio lì, come avesse vissuto e cosa avesse scoperto, ma non aveva parole per esprimere la sua curiosità.
Chiuse gli occhi, desiderando tornare all'intendenza, ad anni prima, quando di notte sgattaiolava nell'ufficio di Thorn nei panni di Mime. Avrebbe fatto le cose diversamente se fosse tornata indietro? Sì, alcune cose le avrebbe cambiate. Innanzitutto: si sarebbe goduta i pochi momenti sola con Thorn all'intendenza, quando erano insieme, senza schermi, orecchie indiscrete o chaperon. Rimpiangeva di aver perso quell'opportunità.
Come rispondendo al suo rimuginare velleitario, l'ambiente attorno a lei cambiò. Fu sommersa dalla nebbia, da un bianco abbacinante, e si aggrappò a Thorn chiudendo gli occhi.
Quando li riaprì si trovò proprio all'intendenza. Il funzionario scansafatiche che aveva preso il posto di Thorn stava oziando mentre il telefono suonava, a giudicare dalle vibrazioni dell’apparecchio e dalle occhiate torve dell'intendente. Questo Ofelia lo vedeva dall'altra parte della specchiera nuova che l'uomo aveva fatto appendere di fianco alla porta della stanza. Quella in cui si trovava lei era il riflesso della camera vista attraverso lo specchio. Non le giungevano parole, i colori erano normali anche se annacquati come in un acquerello, ma la scena era comprensibile e nitida. Dov'erano loro, invece, non c'era nessuno. Ofelia capì come Thorn avesse fatto a sapere dov'era lei: l'aveva seguita attraverso gli specchi. Per due anni.
Divisi da un sottile strato di vetro. Impossibilitati ad entrare in contatto.
La rivelazione era così ridicolmente paradossale che Ofelia rise senza emettere un suono.
Scosse la testa. Thorn, di fianco a lei, si era fatto rigido nel vedere lo stato di abbandono e disordine in cui versava il suo vecchio ufficio. Di nuovo, Ofelia vide le ombre ai suoi piedi agitarsi e allungarsi in rovi spinosi, ma questa volta ebbe la certezza di averli visti. E capì anche che erano gli artigli di Thorn, la proiezione del suo potere familiare.
Lui le afferrò la mano all'improvviso e il panorama cambiò nuovamente.
 
*
 
Tornarono nel riflesso della camera di Archibald, bianca. Bianca. Bianca.
Ormai Thorn si era abituato allo straripamento dei suoi numerosi pensieri, allo strabordare della sua memoria che non conosceva confini in quel luogo-non-luogo, nel Rovescio (rovescio, invertito, Ofelia).
Non era piacevole conviverci, e Thorn non avrebbe saputo dire se fosse meglio lottare contro i suoi artigli o la sua memoria incontenibile. Forse contro gli artigli, dal momento che lì non rischiava di ferire nessuno e il dolore, qualsiasi dolore fisico, era tollerabile. Ovviamente, quindi, quel potere non gli dava più problemi.
Thorn non sapeva se sarebbe uscito, ma al di là dello specchio (riflesso, Eulalia, Ofelia) vedeva Archibald, che scatenò in lui un mare di ricordi confusi e amari, Vittoria (bianca, cugina, Faruk, Berenilde) e il corpo di Ofelia, il suo vero corpo (Babel, erba alta, matrimonio). Ofelia non poteva rimanere lì con lui. Aveva aiutato Vittoria a tornare da sua madre, sapeva quindi che Ofelia sarebbe rimasta in uno stato di sospensione finché non fosse tornata in sé. Come ci sarebbe riuscito non lo sapeva (missione, Corno dell'abbondanza, dadi), ma era sicuro che avrebbe fatto di tutto per rimandare Ofelia nel Dritto; perché vivesse.
Il suo sguardo fu attratto dalla sua mano (mano, madre, mutilazione, memoria), dalla mano che Ofelia aveva immerso nello specchio, ma che non era effettivamente lì. Era anch'essa una proiezione (ombra, eco, Rovescio), la proiezione di un oggetto che attraversava un luogo per raggiungerne un altro ma non passava realmente per quello spazio.
Era una mano senza dita (dita, lettura, Ofelia, Libro). Non sapeva che cosa fosse capitato ad Ofelia per perderle, sapeva solo che non era riuscito a trattenerle quando lei aveva provato ad afferrarlo per tirarlo fuori da lì (due anni, un mese, cinque giorni, sette ore, ventotto minuti, quattro secondi).
Fu spinto da un impulso errante a toccarla, e allungò il braccio per farlo, ma incontrò solo aerargyrum. Quella mano non era davvero lì.
Sentì invece il tocco dell'Ofelia-proiettata, che gli aveva afferrato la manica (Sabbie d'Opale, Polo, famiglia animista, matrimonio) e lo guardava con affetto e un'incalcolabile quantità di altre emozioni nascoste negli occhi neri.
Fu lei ad afferrare la sua stessa mano, che divenne solida a quel contatto. Fu lei ad aggrapparsi a lui con l'altro braccio, invitandolo a prendere quella mano che prima era immateriale (eco, aerargyrum, Corno dell'abbondanza, Altro).
Fu lei a tirarlo fuori dallo specchio.
Specchio. Attraversaspecchi. Ofelia.
 
*
 
- Ce l'ho! - gridò Ofelia tornando in sé. - Aiutatemi a tirarlo!
Aveva funzionato. Lo aveva trovato. La connessione di Archibald e il potere di Vittoria l'avevano aiutata ad individuare Thorn. E ora doveva farlo passare attraverso lo specchio grazie al suo potere di attraversaspecchi e a quello di Vittoria. Ofelia si sarebbe concentrata in un secondo momento sulle implicazioni di quella riuscita, sulla conclusione del suo pellegrinaggio; prima voleva vedere Thorn di fronte a lei, fuori dallo specchio.
- Devo mantenere la connessione - mormorò Archibald tra i denti, affatto sorridente. – Appena si romperà non saremo in grado di fare alcunché, moglie di Thorn. Ricordate?
Certo che ricordava. Archibald svenuto a terra dopo aver interrotto il legame con lei ed Elizabeth; quest’ultima rannicchiata, gemente, inerte; la sua difficoltà ad affermarsi come entità individuale, dopo essere stata Eulalia, Elizabeth e Archibald insieme. Una vecchia, una smemorata, un malato.
Ofelia immerse anche l'altro braccio nello specchio, affinché Thorn potesse aggrapparvisi. Lui lo fece, stringendole le braccia fino a farle male, ma non si sarebbe lamentata minimamente. Avevano poco tempo.
Vittoria, seppur vicina ad Archibald e connessa a lui, riuscì ad andare in soccorso della cugina afferrando e rinsaldando la presa delle mani di Thorn sulle braccia di Ofelia. Avevano oltrepassato la soglia dello specchio, erano visibili, reali. Ofelia si sarebbe stupita della forza di Vittoria in quel frangente, se fossero stati in un’altra circostanza. Eppure la bambina ansimava, stremata.
Le mani di Thorn erano lì, vere…
Bastava solo fare uscire il resto del corpo.
Ofelia avrebbe stretto i pugni se avesse potuto, e in mancanza d'altro digrignò i denti e chiuse gli occhi.
Le sembrava che Thorn le remasse contro invece di aiutarla. Opponeva resistenza.
Poi sgranò gli occhi quando si rese conto di aver dimenticato una cosa fondamentale.
Per tornare nel mondo al dritto bisognava cedere al mondo al rovescio una contropartita simbolicamente equivalente. Se non si rispettava la regola si sarebbe dato nuovamente vita al ciclo delle inversioni e contro-inversioni che per decenni avevano lacerato il mondo. I mondi. I sacrifici di tutti, Elizabeth, Renard, Gaela… Ambroise… tutto vano.
Ofelia trasalì sotto il peso di quella consapevolezza, e Archibald e Vittoria, legati a lei, vacillarono a loro volta, inclinandosi. Archibald rinsaldò la carezza sulle loro guance, per non perdere il contatto.
Thorn doveva pagare per uscire da lì, o non sarebbe stata una vittoria, ma un annientamento.
Ofelia lo tirò ancora, sentendo le forze venire meno. La resistenza aumentò.
E poi svanì.
La contropartita era stata ceduta.




Nota
Punto 2: se avete idee su quale debba essere la contropartita pagata da Thorn, fatemelo sapere, sono ben lieta di discuterne. Io ho già scelto 3 possibile contropartite, vediamo se le indovinate. Una però è mooooolto drastica e temo sarà impopolare ma, va be', tanto la Dabos ci ha fatto finire il libro così quindi mi metto a sperimentare pure io. Cose paradossali xD
Quindi la parte 2 riguarderà 3 finali che seguiranno il pagamento di una specifica contropartita.
Poi ci sarà l'ultimo finale che per me sarà il più straziante ma forse per voi no.
Grazie a tutti a prescindere♥

 
  
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