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Autore: MaxB    01/10/2020    10 recensioni
Questa storia non è altro che una raccolta di tre capitoli, più o meno lieti, che raccontato gli ipotetici finali di Echi in tempesta.
Ho immaginato decine di diversi scenari conclusivi e ne ho selezionati tre, che vanno dal più lieto e indolore possibile a quello forse più improbabile e non proprio roseo. Ma del resto, nessuna storia è mai rose e fiori, e il quarto libro dell'Attraversaspecchi lo ha ampiamente dimostrato.
Spero solo che almeno uno dei miei finali possa colmare il vuoto che la fine della saga ci ha lasciato dentro.
Genere: Drammatico, Fluff, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, Raccolta, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Cercherò di non dilungarmi troppo, ma una piccola spiegazione è dovuta, sopratutto per questo capitolo iniziale.
Il capitolo racconta del più bel finale che la mia mente sia riuscita ad immaginare; il più bel finale, non il più irrealistico, quindi avviso già che chi era malato resterà malato e chi era vecchio continuerà ad invecchiare. Però ho dovuto modificare due piccoli dettagli per far sì che non tutti fossero perduti e che qualcuno a cui teniamo tantissimo tutti avesse una fine diversa. Quindi, ve lo dico subito, riescono a tirare fuori Thorn dallo specchio PRIMA che questo si sigilli.
A parte questa piccola precisazione, che rende il capitolo non proprio un vero finale, dato che ho dovuto modificare la storia originale, ma un finale what if, i prossimi due capitoli saranno sperimentali, soprattutto il secondo. Nel senso che, rispettando la storia, Ofelia troverà il modo di tirare fuori Thorn, ma a che prezzo? E lì ci saranno diverse diramazioni con contropartite diverse. Vorrei scrivere "leggete e lo scoprirete" ma devo ancora cominciare a scriverlo e ho due storie ancora in piedi che mi puntano la pistola alla testa, quindi sarò più dettagliata quando lo pubblicherò. Il terzo capitolo sarà il più drammatico, vi avverto. Ammazzo tutti. No ahahaha scherzo. Però... va be' dai. No spoiler.
Questo primo capitolo è LUNGO. Quando lo avevo pensato lo avevo iniziato a scrivere solo per, come si dice?, self-indulgence? Mh... non so come spiegare... l'ho scritto per egoismo, forse, per desiderio di rivalsa, perché amo i lieti fine e, per quando io creda che alla fine Echi in tempesta abbia un lieto fine contenuto nelle righe finali, non potrà mai essere lieto al 100%. Quindi, dal momento che era scritto così, giusto per accontentarci tutti, ecco, non gli davo importanza. Invece mi è cresciuto sotto le dita fagocitando sempre più spazio, tanto che mi sono fermata più volte a chiedermi da dove sbucassero tutte quelle pagine, ma non me ne pento. Credo che in fondo questo sia il finale che preferisco, che avrei amato, forse, un misto di speranza e tristezza, dolore della vita e desiderio di rinascita.
Insomma, mi ci sono davvero affezionata e spero che possa strappare un sorriso triste, e una lacrima, anche a voi.
Grazie♥


Scusatemi, mi è stato fatto presente che esiste un'altra fanfiction con questo finale diverso in cui Thorn riesce ad uscire dallo specchio. Io non l'ho letta, purtroppo, e mi dispiace che mi sia sfuggito questo particolare. In ogni caso, l'autrice è Birdylove. La sua ff si chiama Insieme.

Finale 1: lieto fine lieto.

- Mi correggo – disse Archibald. – Non abbiamo più tempo.
Ofelia ebbe un conato di vomito. Con un zampillio organico in cui si mischiavano lingue, denti e viscere l’Altro perse ogni parvenza di omogeneità. Cominciarono a spuntare non una, ma grappoli interi di teste, una delle quali si allungò su un collo smisurato, come una pianta a crescita fulminea, e colpì Renard spaccandogli il naso con un atroce rumore di ossa che Ofelia sentì sulla propria pelle. Renard perse l’equilibrio. Gaela riuscì a trattenerlo a stento, avvinghiata com’era alla sua vita, spingendolo affinché cadesse in avanti e non di lato, dove sarebbero precipitati, o all’indietro, dove la caduta sugli scalini avrebbe rotto loro l’osso del collo. Una sopra l’altro, con gli arti intrecciati come ad emulare il grottesco mutamento dell’Altro, insieme ripeterono: - Non rappresenti nessuno!
Il sangue che colava copioso dal naso spaccato di Renard non sembrò turbarlo minimamente.
- Non rappresenti nessuno! – fece eco la zia Roseline, che gesticolava dall’ultimo piano, visibile nonostante le lenti rotte degli occhiali di Ofelia.
Archibald indossava un sorriso che sarebbe stato più adatto ad una sala da tè che a quel luogo, con un mostro disgustoso che non aveva più nessuna parvenza umana, e con Gaela e Renard aggrappati alle scale per non cadere.
- Non rappresenti nessuno! Non rappresenti nessuno! – si unirono al coro le altre voci. Ofelia distinse chiaramente quelle della sua famiglia, che sembravano incitare lei invece che infierire contro l’Altro.
La zia Roseline scagliò il primo libro, proprio lei che amava tanto la carta, e presto tutti la imitarono. Infusi di animismo, presero il volo, guidati da paura, rabbia e soprattutto una volontà ferrea di farcela, di vincere, di annientare un male. Migliaia di libri si abbatterono sull’Altro, libri inanimati che presero vita a contatto con gli altri, offuscandogli la vista, impedendogli i movimenti.
Sentì la mano di Archibald, non più sorridente, sulla guancia, e la pelle di Elizabeth sulla sua, uniti da un unico legame. Niente più segreti.
Si abbandonò alla condivisione, lieta di poter finalmente restituire la sua altra memoria alla legittima proprietaria.
 
La comunione si ruppe. Ofelia notò con sgomento, con la testa confusa e gli occhi appannati, che vecchio e nuovo mondo si stavano mischiando, mentre il Dritto e il Rovescio non trovavano più il loro posto, i propri confini. C’era l’oceano, ma non c’era la sua famiglia.
- Posso riportarli indietro – la allettò l’Altro, il cui corpo era un guazzabuglio caotico di arti e organi che non sarebbero dovuti essere visibili. – È colpa tua e di Eulalia. Sta a voi dipanare la vostra polpa… riparare la vostra colpa. E il mondo è mio.
- Tu non rappresenti nessuno – rispose Elizabeth, in piedi, finalmente presente a se stessa. Consapevole. – Neanche me.
L’Altro parve rimpicciolire, come un bambino che viene sgridato dalla mamma dopo aver commesso fin troppe malefatte. Elizabeth gli parlò, annullando la sua volontà, palesando l’errore che entrambi avevano commesso e a cui lei poteva porre rimedio in quel momento.
Ma Ofelia non poteva perdere tempo. Si lanciò a testa bassa spingendo l’Altro nello specchio alle sue spalle, senza dargli la possibilità di capire cosa stesse accadendo. La superficie riflettente si mise a vorticare, pronta ad inghiottirlo nonostante la resistenza che l’Altro opponeva. Il Rovescio esigeva la sua contropartita, quella che troppo tempo era rimasta insoluta da quando Ofelia aveva liberato Eulalia, o meglio Elizabeth, da quello che credeva essere uno specchio.
Elizabeth ed Ofelia spinsero al massimo per farcelo cadere dentro, ma l’Altro lottava strenuamente, con una forza che aveva abbandonato loro già da diversi minuti.
Ofelia. Una vecchia. Un mostro. E il sangue. Lazarus aveva ragione: gli echi anticipatori non sbagliavano mai. Seconda non sbagliava mai.
Dallo specchio però spuntarono due braccia. Due braccia striate di cicatrici che si avvilupparono all’Altro per tirarlo giù con sé.
Erano le braccia di Thorn.
Li aveva seguiti dal Rovescio, in qualche modo, sfruttando quella breccia per aiutarle.
L’Altro non poté nulla contro i loro sforzi congiunti e precipitò con tutte le sue mani, braccia, nasi, occhi spalancati e bocche mute.
Con Thorn.
- Stavolta no.
La voce di Ofelia era dura quanto la sua determinazione. Era uscita dal Rovescio contro-invertendosi, dando le proprie dita, il proprio potere di lettrice, in cambio. Abbandonando Thorn lì dentro. Questa volta non lo avrebbe permesso. Non sarebbe più stata lontana da lui, o senza di lui.
Seppe senza ombra di dubbio che il prezzo pagato dall’Altro bastava anche per tirare fuori Thorn, così tuffò le braccia nello specchio. Sentì la mano di Thorn afferrare la sua, e scivolare per la mancanza delle dita. Poi la sentì ancora, forte, stretta attorno al polso. Il Rovescio era come un gorgo, reclamava indietro Thorn come se gli appartenesse. Le si slogò la spalla, urlò, ma mentalmente non faceva che incoraggiare Thorn, pregandolo di non mollare. Elizabeth la teneva per la sciarpa e quest’ultima, determinata quanto la padrona, senza preavviso infilò l’altra coda dentro lo specchio, avvinghiandosi al polso di Ofelia: là dove le sue dita non c’erano più, la sciarpa fungeva da collante, per tenere unite le mani sue e di Thorn.
Ce l’avrebbe fatta. Lo avrebbe riportato indietro. Doveva. Avrebbe dato qualsiasi contropartita pur di strapparlo al Rovescio.
Soffocò un altro grido quando due braccia le circondarono la vita con forza, tirandola indietro.
- Su, moglie di Thorn – la incitò Archibald in un roco sussurro contro l’orecchio. Provocatore fino all’ultimo. – Tiriamo fuori vostro marito.
Ofelia sentì una nuova ondata di fiducia scorrerle nelle vene, una scarica di adrenalina che le avrebbe permesso di contrarre le dita con più forza, se ne avesse avute.
Elizabeth mollò la presa sulla sciarpa e afferrò a sua volta Archibald. Con la coda dell’occhio, Ofelia vide anche Renard e Gaela caracollare alle sue spalle, aiutandoli a tirare fuori Thorn con quella strana catena umana. Lo strattone che diede Renard, nonostante il naso rotto e sanguinante, si sentì più che bene, facendo arretrare tutti di un bel po’.
Thorn compreso.
Tirarono con quanta più forza avevano, come i parenti di Ofelia avevano fatto con lei nel bagno del Memoriale. Insieme. Le sue braccia uscirono dallo specchio, seguite da quelle di Thorn, e poi dai suoi capelli biondi. Incontrarono resistenza, Ofelia sentì le mani di Thorn scivolare sui suoi polsi. Stava per gridare, ma la sciarpa la prevenne: scivolò del tutto dal suo collo, passò dalla sua vita a quella di Thorn, come una corda strettamente annodata. Renard e Gaela corsero al suo fianco, uno per lato, afferrando le braccia di Thorn con dita agili, sicure.
Con un ultimo, disperato strattone, caddero tutti come tessere del domino, Ofelia sopra Archibald e Thorn sopra di lei. Il respiro di Thorn sul viso, affannoso, i suoi occhi gelidi e brucianti di metallo, il suo ginocchio piantato nella gamba… Ofelia sentì le lacrime sul punto di traboccare.
Alle spalle di Thorn, la superficie dello specchio sospeso si spianò fino a tornare solida. Il passaggio verso il Rovescio si era chiuso.
Ce l’avevano fatta.
Non ci fu il tempo di gioire.
- Oh oh – mormorò Archibald, dando voce alla paura di tutti.
Rispedire l’Altro nel Rovescio aveva rotto il contratto. Il vecchio e il nuovo mondo si stavano riallineando sullo stesso piano. Le due parti stavano per entrare in contrasto. Non erano ancora al sicuro.
Elizabeth si mise le mani a megafono e piena di un’autorità nuova ordinò: - Evacuate l’edificio! Tutti fuori!
Gaela e Renard le facevano eco, gridando per sovrastare i rumori del crollo e dell’assestamento, precipitandosi poi giù per le scale. Chissà come, Salame li aveva raggiunti, ma Renard fu lesto a riagguantarlo tenendo per la vita anche Gaela.
Ofelia provò a muoversi, ma la spalla slogata le lanciò una fitta atroce che le appannò gli occhiali rotti e le fece girare la testa. Era sul punto di cedere, ma riuscì a vedere nitidamente una cosa, anzi, due, prima di perdere i sensi: le bracci di Thorn.
Solide. Marchiate dalle cicatrici. Forti.
Poi ricevette un colpo, e si abbandonò ad esse con un ultimo, insensato pensiero: piuttosto che perdere le mani di Thorn, era felice di aver barattato le sue.
 
La permanenza in ospedale, più lunga di quanto fosse necessario, a detta di Ofelia, fu estremamente tediosa. Quando si svegliò fu subito colpita dalla luce del sole che filtrava con prepotenza dalla persiana, facendole aumentare il bruciore alla testa. Per un attimo, smarrita, si chiese se non fosse stato tutto un sogno e non fosse ancora nella sua camera dell’osservatorio, vittima di qualche esperimento che le aveva scombussolato le percezioni.
Tutto acquistò nitidezza quando voltò la testa e incontrò gli occhi di Thorn, aperti, vigili, stanchi, marchiati da profonde occhiaie. Era lì con lei. Era riuscita a trascinarlo fuori dal Rovescio. Sentì gli occhi riempirsi di lacrime che si impose di trattenere, un misto di gioia, sollievo, soddisfazione, malinconia e dolore. Aveva male ovunque. La sciarpa le stava raggomitolata in grembo, come un gatto, e la sua calma sonnacchiosa faceva eco al suo intontimento. Aveva preso indipendenza, era dotata di una propria libertà, ma alla fine la sua sciarpa rimaneva legata a lei a doppio filo, contagiata dal suo stato d’animo.
Un lieve russare la fece voltare dalla parte opposta del letto, dove spaparanzata su una poltrona, in un misto di gonne vaporose, capelli rossi spettinati e guance paffute c’era sua madre. Le sue sorelline dormivano raggomitolate accanto a lei, su un divanetto, e un borbottio infastidito le fece capire che c’erano anche suo padre e Hector, probabilmente sdraiati da qualche parte per terra. Le sembrava di aver già vissuto quella scena, in un passato che quasi sentiva estraneo. L’unica cosa che differiva era la presenza di Thorn: in quel momento, lì accanto a lei, era suo marito, mentre la volta precedente, nelle stesse condizioni, era solo il fidanzato che stava per rompere il contratto matrimoniale.
Riportò lo sguardo su di lui, cercando di accertarsi della sua realtà, della sua solidità, e scoprì una brutta escoriazione sul suo avambraccio, che copriva persino le cicatrici. Le maniche arrotolate ne lasciavano scoperte molte, e la cosa non sembrava disturbarlo. Non più.
- Il tuo braccio… - mormorò, sentendosi la bocca impastata.
Per quanto tempo aveva dormito? Cos’era successo?
Thorn parve intuire le sue domande e le allungò un bicchiere d’acqua, senza mai distogliere lo sguardo da lei, nascondendo l’apprensione dietro lo sguardo duro. Ofelia fece per prenderlo, ma si rese conto che non aveva dita per afferrarlo. E aveva anche un braccio legato al collo. Si era slogata la spalla, ricordò. Thorn però non aveva avuto intenzione di porgerglielo: glielo accostò alle labbra.
- Bevi piano – le intimò, più che consigliarle.
 Thorn non si smentiva mai, e la cosa la fece sorridere leggermente mentre sorbiva l’acqua con cautela.
- Hai dormito due giorni. Dovresti preoccuparti più delle tue condizioni che delle mie.
Come se le sue parole avessero risvegliato in lei una certa consapevolezza, sentì un certo freddo alla testa, come se d’improvviso avesse cominciato a spirare un vento gelido. Sollevò il braccio libero e trattene a stento un’esclamazione quando sentì la pelle del cranio. Il palmo della sua mano non era percettivo quanto le sue dita perdute, ma era certa che mancasse qualcosa. L’avevano rasata.
Boccheggiò, ma Thorn allungò la sua esagerata colonna vertebrale su di lei, cercando di calmarla. Riempì il suo intero campo visivo, e la sua solidità indusse Ofelia a prendere un lungo respiro. Lui era davvero diventato il suo punto di riferimento, la sua torre, la fonte da cui attingere la forza quando il coraggio le veniva meno. L’idea di non averlo lì le procurava un dolore fisico, che si andava a sommare a quello alla testa e alla spalla.
- Ti hanno dovuto tagliare i capelli per suturare la ferita. Non sono riuscito a scansare del tutto la trave che ti è piovuta addosso – spiegò, non riuscendo a nascondere una nota di recriminazione nella sua voce. Nei suoi confronti, che non era riuscito a proteggerla del tutto.
Ofelia capì come si fosse procurato quell’escoriazione, e si commosse nuovamente.
Thorn fraintese l’emozione nel suo sguardo e, a disagio, si schiarì la voce. – Non è un gran male. Ricresceranno. Sarebbe potuta andare peggio.
In quel momento a Ofelia interessava poco nulla dei capelli, anche se tra la ferita e la rasatura non doveva essere un bello spettacolo. La sciarpa, ormai sveglia, le strisciò lungo il busto e sul collo, per poi arrotolarsi sulla sua testa. Le stava facendo da turbante come aveva fatto tante volte per Ambroise. Certa che stessero pensando la stessa cosa, con il braccio sano le toccò la frangia di una coda. Se avesse potuto, gliel’avrebbe stretta solidalmente. Lei non poteva più farlo, ma la sciarpa sì. Le strinse il polso, prima di lasciarla.
- Una ferita alla testa e una spalla slogata. Non è il massimo, ma dati i tuoi precedenti e la tua tendenza ad attirare sciagure, sarebbe potuto andare peggio. Anche un po’ di più.
Ofelia lo guardò, odiando il groppo che sentiva in gola, e che non aveva nulla a che fare con la bocca secca. Avrebbe voluto aggiungere che era ancora senza dita, ma in quel momento le interessava poco; sapeva che le avrebbe rimpiante, che si sarebbe dovuta reinventare per vivere senza di esse, che sarebbe stata diversa senza il suo potere di lettrice, ma non le pesava quanto l’altra subdola menomazione che aveva. Le parole che le aveva rivolto la donna con lo scarabeo la colpirono in pieno, inondandole la mente e acuendo il dolore delle sue ferite. Le venne mal di pancia.
- E sono ancora sterile – articolò a fatica.
Sentiva ancora dentro le vene il bruciore causato dalla fusione con il suo eco, dall’uscita dal Rovescio, la sofferenza che sgorgava dalla miscela di due corpi materialmente inaccostabili. Il fuoco, la sensazione di sventramento che era derivato dal mescolamento del suo corpo con Eulalia, tempo prima. Il mondo era tornato in equilibrio. Era tornato ad essere ciò che era in origine. Ma lei no. A lei era stata preclusa per sempre, con quel primo attraversamento di specchio, la possibilità di diventare madre.
E quello non sarebbe mai cambiato.
Quando vide Thorn stringere le labbra e assottigliarle fino a renderle una linea quasi invisibile, gli occhi pieni di preoccupazione come quando glielo aveva rivelato per la prima volta, sentì gli occhi inumidirsi. E traboccare.
La sciarpa le asciugò una lacrima. Thorn le altre, in silenzio, accogliendola tra le sue braccia come aveva sempre fatto. Thorn, il suo punto fermo, l’uomo che l’accettava, che l’amava, così com’era, che non le aveva mai, mai, mai imposto nulla, al contrario di sua madre, dei canoni di Anima, della vita stessa.
Se avesse avuto dita si sarebbe aggrappata a lui tanto da stropicciargli la camicia, e sentì per la prima vera volta tutta la gravità della sua situazione.
Quando ebbe esaurito le lacrime e i singhiozzi silenziosi ebbero finito di squassarle il petto, nessuno dei due si mosse, e rimasero abbracciati in silenzio.
- È tutto finito – le disse Thorn dopo così tanto tempo che Ofelia stava quasi per riaddormentarsi.
Si abbandonò al sonno nuovamente, per sfuggire al dolore, per non dover parlare con la sua famiglia caotica, che amava con tutto il cuore, e per non vedere lo stesso dolore riflesso negli occhi di Thorn.
 
- Scartoffie in aumento, temo.
All’orto botanico di Polluce, Ofelia, Thorn e Octavio osservavano la strana scena che si presentava loro di fronte. Seconda giocava a carte con Helena e Polluce, spensierata come non era mai stata. Una folla di persone di tutte le età del vecchio mondo, silenziose proprio come quelle che avevano incontrato quando si erano schiantati con il dirigibile, si muovevano indisturbate tra i babeliani.
Vecchio e nuovo mondo si erano ormai rimescolati del tutto, trasformando la terra, o qualsiasi cosa fosse lo spazio in cui vivevano, in quella che era prima della Lacerazione, come se niente fosse accaduto. O meglio, prima dell’Inversione. Thorn aveva usato talmente tante volte quel termine per sostituire il primo che Ofelia si era abituata, e ormai lo pensava come se non avesse mai pronunciato la parola Lacerazione. Nonostante tutto, il pragmatismo e l’attenzione al dettaglio di Thorn erano rassicuranti.
Gli abitanti di quelle nuove arche, più complete, che non fluttuavano in un cielo di nuvole infinite ma erano lambite da acqua, acqua e ancora acqua, erano quanto di più eterogeneo si potesse immaginare. Di per sé anche i vecchi cittadini delle arche erano tutti differenti tra loro: animisti, totemisti, babeliani, arcadiani… accenti diversi, colori di pelle diversi, mentalità diverse, sistemi giurisdizionali, leggi, abitudini… erano un guazzabuglio di poteri familiari, prima, e con l’arrivo degli abitanti del Rovescio si aggiungeva ancora più varietà a quella difformità inclassificabile. A Ofelia piaceva. A Thorn, che osservava tutti con occhio critico e, Ofelia lo sapeva, registrando chiunque con lo sguardo e chiedendosi come avrebbero fatto a ricominciare o a farsi capire da chi nemmeno utilizzava una lingua, sarebbe venuta la faccia verde di nausea, se fosse stato solo leggermente più espressivo.
- Due umanità diverse sullo stesso suolo – continuò Octavio, dando voce ai pensieri di tutti. – Mi stupirebbe assistere a una convivenza senza intoppi. Tutto dipenderà dalle scelte di ognuno, ma preferisco essere qui a scegliere con loro che non laggiù a subire il mio inferno.
Il sorriso di Ofelia si allargò di secondo in secondo, come se fosse la persona più gioiosa della terra e non avesse perso molto, troppo, in quella battaglia a cui non sapeva nemmeno di aver dato vita. E che aveva finalmente concluso, con Thorn. Octavio. E tutti quelli che amava. Lanciò una breve occhiata divertita a Gaela e Renard che, poco lontano all’ombra di una palma particolarmente bassa, sembravano incapaci di togliersi le mani di dosso.
- Hai il diritto di scegliere ciò che meglio ti si addice. Siamo a New Babel, dopo tutto, e in parte grazie a te. Non era facile apprezzare Lady Septima, ma a modo suo vi voleva bene.
Octavio non staccava gli occhi dalla sorella, che rideva e si divertiva un mondo a battere senza pietà Helena e Polluce. Aveva definitivamente messo via le matite, ora che il mondo era tornato in equilibrio e non c’era più nessun eco anticipatore da disegnare. Lei e Thorn erano stati fondamentali per la loro vittoria. Se Seconda non avesse spinto Thorn nella gabbia, lui non avrebbe potuto trascinare l’Altro con sé nel Rovescio. E se lei non lo avesse sposato, condividendo i suoi poteri, lui non sarebbe mai diventato un Attraversaspecchi, e non avrebbe potuto farlo. Al contempo, lei non sarebbe mai stata scelta come sua moglie, se non fosse diventata la migliore lettrice di Anima per compensare la sua goffaggine. Mosse le dita, che non risposero, rammentandole che non era più una lettrice. Era stata scelta anche perché la sua famiglia era molto prolifica, eppure lei non avrebbe mai potuto avere figli. Se non avesse liberato Eulalia dallo specchio sarebbe potuta diventare madre, ma a che prezzo? No, non si pentiva delle sue scelte. Nemmeno di una.
Eppure, si chiese se fossero davvero scelte quelle che aveva compiuto, e non passi esitanti e con una parvenza di libertà su un sentiero unico, contorto, ma già tracciato. C’erano così tante incognite, come le avrebbe definite Thorn nel suo gergo matematico. Se avesse fatto anche una sola cosa in modo diverso non sarebbero mai riusciti a vincere e riportare il mondo in ordine. Erano davvero decisioni che avevano preso loro, o c’era qualcos’altro dietro, un modo in cui magari potevano essere stati influenzati da echi anticipatori che li guidavano inconsciamente per il loro meglio?
Non lo sapeva, e non voleva saperlo. Era sterile. Non aveva più le dita. Ma aveva Thorn, proprio lì al suo fianco, il cui gomito sfiorò leggermente il suo braccio come per volerglielo rammentare. Avrebbe rinunciato a molto di più pur di averlo con sé.
- Cosa farai… cosa farete ora? – chiese Octavio, che ancora faceva fatica a rendersi conto che la sua amica era in realtà sposata con sir Henry, una figura che gli aveva sempre incusso rispetto e timore, un uomo come il quale avrebbe dovuto aspirare a diventare.
Ofelia guardò i membri della sua famiglia, che in lontananza bevevano tè e caffè sotto gli ombrelloni che giravano per effetto dell’animismo. Si erano ben abituati all’usanza di Babel di bere bevande calde quanto lo erano le giornate, ma stavano per ripartire alla volta di Anima. Avevano ritardato la partenza per attendere la dimissione di Ofelia dall’ospedale, non c’era più nulla che li trattenesse lì. Sua madre aveva provato a convincerla a tornare con loro su Anima, lanciando di tanto in tanto un’occhiata a Thorn, che la sovrastava silenziosamente, come a far capire che lui era incluso nell’invito.
Ofelia però non apparteneva più al loro mondo. Non era sicura nemmeno di sapere a che mondo appartenesse; era certa solo del fatto che il suo posto fosse al fianco di Thorn.
Lui le aveva detto, notti addietro, in un prato sotto le stelle, che si sarebbe consegnato alla giustizia del Polo in attesa di un processo equo. Guardando Faruk, intento a giocare a palla con Vittoria, sua figlia, non sapeva nemmeno più cosa aspettarsi da quel piano.
- Abbiamo ancora alcune questioni da risolvere – ammise alla fine, inclinando il collo per lanciare un'occhiata a Thorn.
Il bagliore metallico dei suoi occhi le fece capire che anche lui la stava fissando, ma distolse velocemente lo sguardo. – Io non sono ancora stato processato. Credo che le cose saranno molto diverse da ora in poi, ci sono talmente tanti variabili che quest’enorme equazione potrebbe diventare più complessa di quella affrontata finora. Anche un po’ di più. Ma non si può lasciare la questione in sospeso.
- Torneremo al Polo – concluse Ofelia a beneficio di Octavio. Thorn aveva ripreso il naturale accento del nord, e l’occhiata confusa di Octavio le confermò che il suo amico faticava a cogliere ogni singola parola della veloce parlantina di Thorn.
- Oh. Well, fine della mia pausa… Dovete scusarmi, ma ho del lavoro da fare da qui alla fine dei miei giorni. Se torni… se tornate a New Babel avete il dovere di bussare alla mia porta.
Ofelia osservò Octavio allontanarsi, mano nella mano con Seconda. Era felice per loro, e si augurava che potessero ricominciare da zero in un mondo senza pregiudizi o scalate sociali. Confidava nel fatto che, grazie alla diplomazia di Octavio, New Babel potesse diventare una nuova eterogenea dimora per persone di tutti i tipi e provenienza, sotto un sistema burocratico che non faceva distinzioni tra poteri, non poteri e immigrazione.
- Mi seguite, allora.
Sotto gli alberi con loro, Archibald palesò la sua presenza. Sdraiato con il cilindro sul naso non passava certo inosservato, ma Ofelia aveva creduto che fosse addormentato. Thorn, di fianco a lei, non si irrigidì come suo solito di fronte a quell’ambasciatore poco ortodosso e sregolato. E non sentì nemmeno la morsa degli artigli intensificarsi e riempire l’aria come una scarica elettrica crepitante. Avevano avuto poco tempo per parlare, loro due, ma dovevano assolutamente farlo.
Salame si era accovacciato contro Archibald, come se fosse una cosa naturale; forse lo era, dopo tutto il tempo che avevano passato insieme, lui, Gaela e Renard, a cercare Terra d’Arco. Ofelia vagò con lo sguardo, cercando di non muovere troppo il turbante sulla testa rasata, finché trovò le due persone che cercava. In lontananza sembravano un’unica entità, dato che stavano avvinghiati come se ne andasse della loro vita. Ofelia era felice per Renard, che con la sua mole imponente era quasi largo due volte Gaela, ma sperava anche che i due non dessero spettacolo in pubblico. Era sollevata di essere abbastanza lontana da non sentire i loro versi e gli schiocchi dei baci.
Quanto ad Archibald… non pensava che sarebbe tornato al Polo. La vita lo stava abbandonando velocemente, non sarebbe stato in grado di conservarla ancora a lungo. Eppure aveva intenzione di tornare al Polo. Ofelia avrebbe giurato che sarebbe partito per girare quel mondo nuovo ed esplorarlo finché avesse potuto. Ma forse, proprio perché di tempo non gliene rimaneva molto, desiderava ritornare alla normalità di un tempo, per quanto possibile. A vecchi luoghi, abitudini, mansioni, alla vita che non lo aveva mai completamente appagato, ma che era la sua vita, l’unica che conoscesse.
- Smettetela – le intimò di punto in bianco.
- Di fare che?
- Di pensare. Ascoltate, invece.
Ofelia chiuse gli occhi, estremamente consapevole della presenza di Thorn accanto a sé. Gli si avvicinò un po’, lieta di poter percepire il suo corpo solido a un soffio da lei. Sentiva l’inusuale chiacchiericcio di Vittoria, persino il silenzio di Faruk. Udiva i mormorii della zia Roseline e di Berenilde, la sua apprensione, persino i battibecchi della sua famiglia, più in fondo.
Riaprì gli occhi e li osservò, salutandoli poi con la mano. I guanti animati davano l’illusione che le dita ci fossero ancora, ma fu la sciarpa, fedele e sollecita, a raddrizzarle gli occhiali sul naso. Aveva perso qualcosa, ma aveva guadagnato molto, molto di più, tra cui il rapporto ritrovato con la sua compagna di una vita.
Thorn si schiarì la gola. – Credevo che aveste più interesse a lasciarmi lì dov’ero.
Con quella frase stranamente ambigua da parte di uno che conferiva a semantica e sintassi un valore assoluto come quello matematico, tutti capirono a cosa si stesse riferendo Thorn.
Archibald si sollevò la tesa del cappello.
- Mi sono stati affibbiati gli epiteti meno lusinghieri che possiate immaginare, ex intendente, alcuni dei quali sono stati sicuramente usati anche da voi, quanto meno mentalmente. Ma sadico assassino non rientra tra questi. E poi, è più divertente avervi qui. Che gusto ci sarebbe altrimenti?
Thorn aggrottò le sopracciglia, spronando Archibald a spiegarsi meglio.
Quest’ultimo si aprì in un sorriso accattivante, come se non avesse una preoccupazione al mondo. – Se vi avessi lasciato dov’eravate, temo che la vostra mogliettina sarebbe stata difficile da persuadere a fare alcunché. Probabilmente si sarebbe messa in testa di salvarvi. Con voi al fianco, sano e salvo, invece, si metterà il cuore in pace e sarà molto più facile sedurla. Se siete presente ho una chance, mettiamola così.
Ofelia non si prese nemmeno la briga di rispondere a quelle insinuazioni, ma si sorprese quando non sentì nessuno scatto di furia repressa provenire da Thorn. I suoi artigli erano… anzi, non erano… L’altra cosa che la colpì, invece, fu rendersi conto di quanto Archibald avesse ragione. Non voleva neanche pensare all’eventualità in cui non fossero riusciti a tirare Thorn fuori dal Rovescio, ma era sicura che in quel caso non si sarebbe data pace finché non lo avesse ritrovato.
- Per avere una chance con lei dovreste essere me – lo zittì Thorn prima di dirigersi verso Vittoria, che aveva incastrato la palla nei rami più alti di una palma. Grazie ad una nuova armatura che aveva perfezionato con l’aiuto del prozio, camminava dritto senza nemmeno produrre tutto quel clangore metallico che aveva accompagnato ogni suo passo in precedenza.
Sia Archibald che Ofelia rimasero senza parole. Thorn era… diverso. Non solo aveva tentato di essere umoristico per tirarle su il morale, nell’erba alta, troppe notti prima, addirittura ribatteva a commenti canzonatori tappando la bocca all’interlocutore. Ofelia non sapeva se fosse un cambiamento in atto, o se Thorn, acquistata fiducia verso di lei e il loro rapporto, si stesse finalmente aprendo rivelando tutto se stesso, ma era grata di cuore di poterlo scoprire. Con lui accanto, vivo. Lo osservò mentre raggiungeva senza fatica la palla, porgendola a Vittoria che chiacchierava senza sosta in una lingua inventata, con Faruk, goffo quasi quanto lei, al seguito. Thorn lanciò loro un’occhiata guardinga mentre si allontanavano, come per accertarsi che stessero bene. Ofelia si sentì stringere il ventre in una morsa. Non aveva mai voluto figli, forse non li avrebbe voluti se, in altre circostanze, avesse potuto sceglierlo. Ma in cuor suo sapeva che alla fine sarebbe voluta diventare madre, un giorno, com’era giusto che fosse. Le parole che aveva rivolto a Thorn tanto, troppo tempo prima, parole dure, erano solo un tentativo verbale di andare controcorrente, di affrancarsi dalle scelte che le venivano imposte dalla madre, dal ruolo di moglie e dalla vita stessa.
Se ne pentiva amaramente. Avrebbe davvero desiderato vedere Thorn nei panni di padre. Gli avrebbe fatto bene, lo avrebbe aiutato ad accettarsi di più. Perché, non aveva dubbi al riguardo, Thorn sarebbe stato un padre ineccepibile.
- Sarà uno spasso tornare tutti insieme al Polo. Già mi immagino l’ex intendente che perde la pazienza – sogghignò Archibald, nascondendo di nuovo il naso sotto alla tesa del cappello.
Ofelia non si fece ingannare. La sua situazione era peggiore di quanto volessero entrambi ammettere, e i suoi occhi erano tristi. Finalmente capiva per quale motivo i sorrisi di Archiblad non contagiavano mai il suo volto.
- Non torneremo insieme. Devo… dobbiamo fare una deviazione, prima. Ci vedremo direttamente là.
Si allontanò senza salutare o aggiungere altro. Il viaggio che si apprestava a compiere era lungo, non sapeva per quanto tempo lei e Thorn sarebbero stati lontani. Sperava abbastanza da poter vedere Archibald un’ultima volta.
Prima di andare voleva salutare un’altra persona. Era in attesa davanti al cancello, reggendosi alle sbarre come un’anziana signora, con le palpebre più appesantite che mai. Un orologio invisibile si era rimesso in moto insieme alla sua memoria.
- Non hai un gran bell’aspetto – disse Ofelia.
- Neanche tu sei molto presentabile.
- Come devo chiamarti, Elizabeth o Eulalia?
- Elizabeth. Da un pezzo non sono più Eulalia. Ma la cosa più importante non è il mio nome, sono loro.
Si voltarono insieme verso i giardini in cui gli spiriti di famiglia si trastullavano goffi.
Elizabeth rivelò di aver nascosto i libri dove nessuno potesse trovarli, arrecando danni. Gli spiriti di famiglia erano comuni bambini la cui vita era legata al deterioramento di carta e inchiostro, così come gli umani erano vivi grazie a carne e sangue. Cambiava la forma, ma non la sostanza. Avrebbero avuto una vita normale, una vita vera, senza poteri o vuoti di memoria. Sarebbero stati gli artefici del loro destino sotto ogni punto di vista. E forse nessuno si sarebbe reso conto che gli spiriti di famiglia, i grandi padri e le grandi madri che avevano dato vita a praticamente chiunque, nelle varie arche, erano di nuovo degli infanti da crescere ed educare. Faruk, che giocava con Vittoria, era paradossalmente suo padre, eppure non lo era. C’era di che far girare la testa.
L’Altro non si manifestava più, ulteriore prova che il Dritto e il Rovescio si fossero definitivamente divisi e sigillati. Non c’era più nessun mostro, nessuna matita rossa da temere.
Parlarono ancora un poco, mentre Elizabeth, finalmente libera dai canoni imposti dalle rigide regole babeliane, le parlava sul serio, da pari a pari. Come un’amica. Le confessò del suo ritorno, della mescolanza dei loro ricordi, che Ofelia poteva ben capire. Per troppo tempo aveva condiviso la memoria di Elizabeth, di Eulalia, che non le apparteneva. Ora era di nuovo padrona di sé, della sua mente e del suo futuro, forse per la prima volta.
Elizabeth alla fine si allontanò zoppicando verso gli spiriti di famiglia. Non si dissero addio, non si salutarono nemmeno. In cuor suo, però, Ofelia sapeva che quella era l’ultima volta che la vedeva.
In lontananza notò Gaela e Renard, ancora avvinghiati l’uno all’altra, che si rotolavano per terra. Ofelia arrossì rendendosi conto che lei aveva fatto più o meno la stessa con Thorn, ma si giustificò schermandosi dietro la scusa dell’erba alta. E della notte. Non si erano abbandonati l’uno all’altra, freneticamente, in pieno giorno. Però poteva capire la disperazione celata in quell’atto d’amore, quel tentativo di dar sfogo a tutto ciò che di opprimente il corpo conteneva.
Thorn incedeva verso di lei, scrutandola con i suoi occhi metallici che mandavano lampi sotto al sole. Il caldo di New Babel non gli si addiceva, proprio come quello di Babel. Con un cenno del capo la invitò a seguirlo.
- Mia zia e la tua partiranno da qui questa sera, su un’aeronave diretta al Polo. Anche Archibald e il tuo vecchio consigliere con la sua… - disse aggrottando le sopracciglia, alla ricerca del termine giusto, - …con la meccanica li seguiranno. La tua famiglia prenderà invece il dirigibile che tornerà su Anima. Gli spiriti di famiglia resteranno qui con Elizabeth, per tutto il tempo in cui lei potrà seguirli. Ha intenzione di riformare l’orfanotrofio.
Ofelia annuì, senza aggiungere altro. Elizabeth glielo aveva detto, ma sapeva che Thorn stava solo cercando di confortarla, a modo suo. A parte quella con Elizabeth, le altre non erano separazioni definitive. Niente le avrebbe impedito di rivedere nuovamente la sua famiglia, però sapeva che non ne avrebbe sentito il bisogno come in passato. Il suo posto era al fianco di Thorn, non le serviva altro da quando aveva accettato quella posizione con tutta se stessa.
- Sicura di voler fare questa deviazione? – la incalzò lui, confondendo il suo deciso silenzio con la titubanza.
- Sì.
Si diressero senza bagagli o borse verso un piccolo molo che dava sull’oceano. Non si poteva dire che gli abitanti di New Babel fossero pigri: nel tempo che lei aveva trascorso in ospedale avevano costruito moli e barche dall’aria fiduciosamente solida, anche se non erano imponenti e il numero di passeggeri che potevano ospitare era limitato. Loro però non cercavano la comodità, e quelle imbarcazioni erano più che sufficienti. Salirono a bordo insieme ad altre persone, passeggeri alla ricerca di qualcosa di meglio o semplici esploratori.
Quando salparono si guardarono entrambi alle spalle, sapendo che al loro ritorno le cose sarebbero state diverse.
 
- Miss Eula… Ofelia!
Ofelia sorrise quando il proprietario di quella voce fece cadere un vaso di rosmarino sul piede dell’uomo che aveva accanto. Quest’ultimo imprecò, costringendo il primo a profondersi in scuse e cercare di salvare pianta e piede come possibile.
Ofelia, incurante di tutto e tutti, corse verso di loro e abbracciò entrambi, sentendo gli occhi inumidirsi.
- Miss… - mormorò Blasius, altrettanto commosso. I capelli da istrice le solleticavano la guancia, mentre sotto all’altro braccio sentiva il corpo rigido di Wolf, decisamente non avvezzo alle effusioni.
Alle sue spalle, Thorn si schiarì la voce, dardeggiando sul quadretto uno sguardo infastidito.
- Sir Henry… - salutò Blasius con deferenza, staccandosi subito da Ofelia e chinando il capo.
Wolf non si fece intimidire né dall’altezza né dall’alterigia di Thorn. – Anche se sospetto che questo non sia il vostro vero nome.
Thorn non mosse un muscolo. – Difatti – disse, mentre l’accento del Polo non trattenuto faceva sgranare gli occhi a Blasius, inducendolo finalmente a capire.
Nonostante tutto, Thorn non si presentò, e fu Ofelia, al suo fianco, a toglierli dall’impaccio. – Lui è Thorn, intendente del Polo. Mio marito.
Questa volta gli occhi neri e umidi di Blasius si spalancarono tanto da far credere ai presenti che sarebbero usciti fuori dalle orbite. Wolf, nonostante la severità che ben si accostava a quella di Thorn, si mostrò altrettanto stupefatto.
- Ex intendente – corresse Thorn, come se fosse la questione fondamentale.
Blasius aprì e chiuse la bocca più volte, incerto su cosa e come chiederlo. Alla fine si voltò verso Wolf, sospettoso, ma sempre in modo gentile: - Tu non hai cambiato nome, vero?
Il professore alzò gli occhi al cielo, cosa cui Ofelia non fece nemmeno caso. L’alchimia che c’era tra quei due, il linguaggio dei loro corpi, il fatto stesso che Blasius gli avesse dato del tu… non c’erano più barriere sociali o di circostanza a separarli. Niente pregiudizi. Erano Blasius e Wolf, un ex commesso e un ex professore, che cominciavano una nuova vita in una terra più che mai scevra di tabù e proibizioni, dove la libertà individuale regnava sovrana.
Ofelia sorrise. – Credo di avere diverse cose da raccontarvi.
Wolf annuì con un secco cenno della testa. Blasius invece accennò alla porta della casa di fronte a cui si trovavano. – Accomodatevi, vi preparo del tè.
Si sedettero tutti attorno ad un piccolo tavolino rotondo, a sorseggiare tè, dopo che Wolf ebbe cambiato vaso e terra alla pianta di rosmarino e Blasius fatto gli onori di casa.
- Suppongo che sia lui, allora, l’uomo nella vostra vita, miss.
Ofelia sorrise ripensando a quella strana uscita avvenuta mesi addietro, in cui si era preoccupata di aver in qualche modo illuso Blasius. C’è un uomo nella mia vita, gli aveva scritto sul bordo di una carta da gioco, circondati da una cacofonia che li rendeva sordi, in un luogo di dubbia moralità. Anche nella mia, le aveva risposto Blasius, a disagio.
- Ora entrambi li abbiamo al fianco.
Thorn sollevò un sopracciglio, fuori luogo in quell’ambiente intimo e familiare, ma non espresse nessuna opinione e soprattutto non la lasciò trapelare. Wolf, stoico, finì di sorbire il suo tè e non diede segno di imbarazzo di fronte a quella rivelazione. Ormai la loro relazione era palese, ma sapevano che Ofelia non li avrebbe mai giudicati.
- Diteci cosa vi è successo da quando siete partita… partiti – si corresse Blasius, suo malgrado intimorito dalla presenza statuaria di Thorn.
- Credo che dobbiate prima raccontarlo voi a me. La mia storia è leggermente più lunga.
Blasius assentì, e così Wolf, sebbene il suo viso mostrasse l’entusiasmo che avrebbe pervaso un cadavere nel giorno del funerale.
Blasius, soprattutto, raccontò come si erano trasferiti lì. Wolf ogni tanto interveniva con qualche commento o precisazione, ma fu soprattutto l’olfattivo a narrare la storia.
Gli abitanti di quella terra, incapaci di parlare, si erano rivelati liberi, completamente privi di possedimenti. Vivevano in modo semplice, studiando con curiosità i nuovi arrivati, imparando da loro. Qualcuno aveva persino cominciato, a fatica, a scandire qualche parola. Alla fine si erano divisi le costruzioni esistenti, una volta capito che si trovavano lì da troppo tempo perché qualcuno potesse reclamarne il possesso. I Bad Boys avevano depredato le cantine di qualsiasi tipo di alcolico, deridendoli per le loro intenzioni e dandosi alla macchia. Wolf e Blasius avevano preso il comando delle operazioni di ristrutturazione e smistamento, assegnando compiti ai rimasti: chi si occupava delle riparazioni, chi delle coltivazioni, chi delle esplorazioni. Ognuno aveva abbandonato di buon grado i panni che vestiva in quello che ormai era il loro passato, la loro vita precedente, e persone di tutti gli accenti e con i poteri più disparati si erano alleati pacificamente per costruire un nuovo futuro. Inutile a dirsi, dopo qualche giorno anche i Bad Boys erano tornati e, una volta capito che nessuno avrebbe imposto loro divieti pesanti come a Babel e tutti se ne infischiavano dell’index, si erano dimostrati utili alla ricostruzione. Non avevano più nulla contro cui ribellarsi, se non persone che volevano, come loro, essere padroni del loro avvenire.
- Questo è quanto – sancì Wolf, lapidario.
Blasius sorrise timidamente. – Noi ci siamo stabiliti qui. Sapete, nessuno ha commentato quando ci hanno visto prendere possesso di una dimora insieme.
- Cosa vuoi che gliene interessi! – scattò Wolf, imbarazzato. – Poche case più a destra ci sono due donne che fanno lo stesso.
- Ah, well, buon per loro – mormorò Blasius.
Thorn non aveva ancora proferito parola. Del resto, non conosceva i padroni di casa bene quanto Ofelia.
- E voi, miss? È il vostro turno.
Ofelia prese fiato e li avvisò che sarebbe stata una storia lunga.
Partì dal principio, dalla storia di un’orfana di guerra che voleva salvare il mondo. Di qualcuno che invece, mentre prendeva coscienza di sé, voleva controllarlo. Parlò di una creazione, della creazione di spiriti di famiglia legati a libri incorruttibili. E del loro assoggettamento alla volontà di qualcun altro. Raccontò di una ragazza, sospesa tra infanzia e adolescenza, con i capelli rossi e le lentiggini, gli occhi perfettamente funzionanti, che prendeva una decisione per il solo gusto di andare contro le regole impostele. Quella ragazza, dopo il suo primo attraversamento di specchi, non sarebbe più stata la stessa. Narrò di come fosse arrivata al Polo, del matrimonio combinato, dell’intrigo di corte che c’era dietro, dell’ambizione del fidanzato che non capiva, che le taceva l’essenziale, ma che l’amava profondamente, sinceramente, e aveva fatto ammenda per tutto quello che non le aveva detto, per il ginepraio in cui l’aveva cacciata.
Si concentrò talmente tanto su quel punto che Thorn, imbarazzato, si agitò sulla sedia, mentre Blasius e Wolf lo guardavano con occhi nuovi, consapevoli.
Ofelia non lo perse di vista un istante quando disse ai presenti di come avesse costretto Thorn a celebrare il matrimonio in prigione, per salvarlo, per fargli capire che era ciò che voleva, sebbene lei per prima non se ne fosse resa conto subito. Rivelò l’arrivo di Dio, di quello che credevano Dio, della fuga del marito, dei due anni passati in un limbo, incapace di agire e fare alcunché, autocommiserandosi e ingrassando. Thorn fu particolarmente interessato a quella parte della storia, dato che non l’aveva rivelata mai nemmeno a lui. I suoi occhi da rapace la scrutavano nell’animo, rendendola incerta, timida quanto un’innamorata alle prime armi.
E poi entrarono in gioco loro. L’arrivo di vecchi amici, che l’avevano strappata alla sua vita monotona, l’approdo a Babel, la conoscenza di Blasius e di Wolf, il percorso per diventare virtuosa, tutto solo per ritrovare l’uomo che amava senza che se ne fosse accorta. Le rivelazioni, il luogo di mezzo, la scoperta della vera identità di Dio, lo spazzino del Memoriale, l’orfanotrofio militare.
Thorn accostò una gamba alla sua, durante il racconto, per darle forza.
Ofelia si sentì prosciugata quando concluse il racconto e svelò la verità sul corno, sull’Altro, sulla contropartita, sul mondo vecchio e nuovo, sul Dritto e sul Rovescio. Fuori era buio, come se la storia avesse risucchiato persino la luce del giorno.
Blasius le guardava le mani con apprensione, e Ofelia si tolse i guanti, aiutata dalla sciarpa e da Thorn, mostrando le sue mani senza dita. Wolf sembrò quasi intristirsi, oppure irritarsi, era difficile dirlo quando il suo volto rimaneva così teso e inespressivo. Blasius rischiò di piangere.
Non aggiunsero altro se non che Blasius aveva perso parte della sua sfortuna. La caduta del vaso di rosmarino al loro arrivo era dettato dalla sorpresa, non dalla iella.
Andarono in piazza a cenare, perché ogni sera le signore del villaggio cucinavano per tutti grazie ai prodotti raccolti da ognuno, in quella che sembrava una lunga catena di montaggio culinaria. Gli abitanti del Rovescio erano i più maldestri, e giocavano sempre con il cibo, cercando di studiarlo, prima di mangiarlo.
Blasius, Wolf, Ofelia e Thorn mangiarono un silenzio, i primi due troppo sconvolti dalle rivelazioni della giornata per poter fare domande, gli altri due troppo stanchi per aver ancora voglia di conversare.
Ad un certo punto Thorn attirò l’attenzione di Ofelia, indicando con un cenno del capo la distante collina su cui avevano passato un’intera notte, prima di ripartire.
Ofelia non arrossì nemmeno, sorrise tristemente e si avvicinò ancora di più, in modo discreto, al marito, lieta della sua presenza solida al suo fianco. Thorn incombeva su di lei, e non la perdeva mai di vista, preoccupato che potesse avere un crollo, prima o poi. La sciarpa gli batté dei piccoli colpi sulla schiena, come a volerlo rassicurare che andava tutto bene, e lui le sistemò il turbante che rischiava di caderle dalla testa.
Dormirono a casa di Blasius e Wolf, augurandosi la buonanotte in modo quasi impacciato. Del resto, cosa potevano dire due uomini a quella donna che era piombata nella loro vita, e in quella di tutti, mettendola a soqquadro ma, soprattutto, salvandoli tutti?
Ofelia non fece in tempo a chiudere la porta che Thorn le tolse il turbante e le accarezzò la nuca, baciandola dolcemente. Era da così tanto tempo che non stavano vicini in quel modo che si sentì mancare la terra sotto i piedi. Le braccia di Thorn furono pronte a sorreggerla, e a spogliarla, restituendola a se stessa per una notte. Ofelia fu grata al suo animismo, più preciso di quanto lo fossero mai state le sue vere dita, che le permise di spogliare a sua volta Thorn, anche se con difficoltà. Si ritrovò a letto senza nemmeno accorgersene, mentre la gamba di Thorn, che torreggiava su di lei, scricchiolava pacatamente. Lui accarezzò la sciarpa, che sembrava non voler lasciare il collo di Ofelia, finché non si allentò, permettendogli di baciarle le clavicole e di immergere il viso nel suo collo. Come ultima cosa le tolse i guanti, accarezzandole le mani con tenerezza. Ofelia si permise di piangere mentre Thorn l’amava lentamente, come se fossero i possessori del tempo, come se quella fosse l’unica cosa che contava. Pianse per tutto quello che aveva perso, per quelle dita che non potevano più affondare nelle spalle di Thorn, che non potevano stringerlo a sé quanto lei avrebbe voluto; pianse per il suo ventre vuoto, per la sua sterilità, per quella mancanza che la presenza di Thorn alleviava, ma non avrebbe mai potuto dissipare del tutto. Ma soprattutto, pianse di gratitudine per la sua presenza lì, perché era tangibile, sudato e caldo contro la sua pelle, solido. Inebriante. Lo baciò con foga, desiderando perdersi in lui e non trovare più la strada per tornare indietro.
Baciò ogni parte di lui che riuscì a raggiungere, collo, spalle, viso, petto, e lui baciò lei, soffocandone i gemiti, quando la spinse oltre il limite. Entrambi si rendevano conto che Blasius e Wolf dormivano proprio nella stanza accanto, e Thorn si incaricò di non far loro sapere cosa stessero facendo. Si augurava solo che le molle del letto scricchiolassero in quel modo infernale solo per loro, e che in realtà al di là del muro il suono non si sentisse.
Quando Thorn crollò su di lei Ofelia lo abbracciò strettamente, impedendogli di allontanarsi.
La mattina li sorprese in quella stessa posizione, con lui sdraiato sopra di lei, profondamente addormentato. Ofelia lo guardò con curiosità per quello che parve un tempo infinito. Da che aveva memoria, non aveva mai visto Thorn così rilassato. Non lo aveva mai visto dormire.
Non lo aveva mai visto in pace. Non lottava più contro se stesso.
Quando anche lui si riscosse, incontrando gli occhi affettuosi e leggermente gonfi di Ofelia, si affrettò a rotolare via, preoccupato di averle fatto male con il suo peso. Non si allontanò troppo, in ogni caso, e rimasero a lungo avvinghiati in silenzio nella luce soffusa del mattino.
- Gli artigli… - mormorò Ofelia, rompendo il silenzio. Se avesse potuto avrebbe infilato le dita tra i morbidi e sottili capelli argentei di Thorn.
Lui prese un respiro più profondo degli altri. – È finita – sussurrò.
Ofelia seppe allora che aveva perdonato se stesso, che si era accettato, che sarebbe stato un uomo nuovo, in grado di andare avanti a testa alta. In grado di guardarsi allo specchio. Non si fece spiegare cosa fosse cambiato. Nonostante tra loro non ci fossero segreti, nonostante fossero ormai un’unica entità, una coppia, sapeva che nel cuore di ognuno esisteva un piccolo confine invalicabile anche dalle persone che si amavano di più al mondo. Lo strinse a sé, però, infondendo in quella stretta tutto l’amore che provava.
Si alzarono in silenzio e si vestirono e lavarono altrettanto in silenzio. Wolf e Blasius non sembravano essersi ancora svegliati, e Ofelia e Thorn ne approfittarono per uscire a fare due passi. Non che Thorn fosse un amante delle passeggiate, ma aveva tanto da esaminare in quella piccola arca… o meglio, in quella terra vecchia e nuova abitata da personaggi di tutte le origini. Arrivarono fino in cima alla collina su cui avevano trascorso un’intera notte, più silenziosamente del solito, dato lo scricchiolio quasi impercettibile della nuova armatura di Thorn. Ofelia cercò tracce del loro passaggio lì, del fatto che per una notte avessero vissuto sotto quelle stelle, ma sole, pioggia e impronte di altri passi nell’erba alta avevano cancellato ogni loro ricordo, rendendolo vivo solo nel loro animo.
Fu Thorn a riscuoterla, posandole una mano sulla spalla in modo così pacato da rendere quel tocco più adeguato di un abbraccio. Poi le prese la mano, timidamente, e la condusse di nuovo a casa, mentre le dita vuote dei suoi guanti si attorcigliavano attorno alla sua stretta.
I lavori di restauro stavano procedendo bene e Thorn si fermò a dare alcuni consigli, che somigliavano più a degli ordini, ad uno degli abitanti che di prima mattina si stava già portando avanti con i lavori. Questi non diede segni di essere scocciato dalle parole di Thorn; non si inorgoglì, accettò umilmente le dritte e promise di farlo sapere anche agli altri che lavoravano con lui.
Se ne andarono senza aggiungere altro, e la sciarpa risistemò gli occhiali sul naso di Ofelia e il turbante che pendeva pericolosamente verso il terreno. Ofelia l’accarezzò con gratitudine e varcarono nuovamente la soglia di casa di Blasius e Wolf. Questi smisero immediatamente di parlare, o bisticciare, dato il tono pacatamente concitato delle loro voci, quando misero piede in cucina. Blasius le sorrise con dolcezza mentre Wolf la osservava con lo sguardo austero di sempre. Li invitarono a mangiare con la cordialità che li contraddistingueva, e fu allora che Blasius si mise a parlare, fulminato da Wolf.
- Miss Ofelia… ci tenevamo a ringraziarvi per tutto quello che avete fatto non solo per questo mondo, e quindi per le nostre vite, ma anche per noi a livello individuale. Siete stata… una messaggera per noi, e non avete mai espresso giudizi e condannato. Siete… - commentò con voce roca abbassando lo sguardo, - la migliore amica che potessi desiderare.
Wolf alzò gli occhi al cielo, disturbato da tutta quell’emotività, ma Ofelia vide chiaramente il suo braccio scattare, sotto al tavolo, per stringere la mano di Blasius. Lei sorrise a sua volta, rendendosi conto di quanto quel commesso bistrattato le somigliasse, in un certo senso, mentre Wolf non era altro che un burbero professore dal cuore tenero, come l’uomo che le sedeva al fianco, rigido.
- Sono io che devo ringraziare voi, entrambi, per l’aiuto. Non vi dimenticherò mai, e mi aspetto che riusciate a guidare la città per portarla a nuovi fasti.
Blasius tirò su con il lungo naso, annuendo con gli occhi lucidi prima di soffiarselo.
Non aggiunsero altro, e poco tempo dopo si salutarono sulla porta di casa.
Wolf fu il primo a rompere il silenzio, togliendoli dall’impiccio di capire come iniziare a dirsi addio.
- Vi ho fatto preparare questi. Tra i superstiti di Babel c’è un fabbro molto dotato. Studiando le guerre del vecchio mondo ho appreso anche interessanti particolari relativi alla medicina. Non era insolito perdere qualche… parte del corpo durante le battaglie, e in certi casi questa veniva sostituita con delle protesi, delle parti meccaniche. Un po’ come un sostegno, diciamo. Con il vostro animismo sono certo che ne farete buon uso.
Ofelia allungò le mani e le dita dei guanti si tesero per dare una forma a coppa a quell’intrico di palmi e stoffa. La sciarpa accorse in suo aiuto, protendendo una coda fin sotto ai suoi polsi, come una rete protettiva anticaduta. Wolf depositò sui suoi guanti dieci piccoli oggetti: dieci dita. Ofelia notò subito la straordinaria fattezza di quelle parti metalliche, identiche in coppia e, lo sapeva già, delle dimensioni giuste per entrare nei suoi guanti alla perfezione. Strinse le sue nuove dita al petto come poté, tuffandosi poi tra i due uomini, abbracciandoli come riuscì. I due non esitarono che un istante prima di circondarla in una stretta vigorosa, maschile, ma piena di calore e buoni sentimenti.
Ofelia si impose di non piangere quando indietreggiò, con le mani di Thorn sulle spalle, per una volta non possessive ma sostenitrici. Lui diede la mano ad entrambi, stupendo Ofelia. Da che ricordasse, non lo aveva mai visto toccare nessuno, se non lei e forse sua zia, quando quest’ultima lo abbracciava o gli si avvicinava a tradimento.
Quando si allontanarono le parve di camminare in un sogno di cui doveva ancora capire l’origine. Poi però vide Thorn contrarre le dita e portare una mano al taschino dove un tempo teneva il disinfettante con cui si frizionava le mani, e contrarle ancora di più, come uno spasmo, quando si rese conto di non averlo più. Ripiegò allora sul suo orologio da taschino, che si aprì e chiuse spontaneamente.
Tac-tac.
Ofelia sorrise. Quel suono, il cigolio della gamba di Thorn, i suoi sforzi, erano tutto ciò di cui aveva bisogno. Eppure strinse con più forza, grazie alla sciarpa, le dita metalliche che si era appoggiata al cuore, sapendo che per nulla al mondo avrebbe scordato coloro senza i quali lei e Thorn non avrebbero potuto salvare né il mondo né loro stessi.
 
La traversata di ritorno in mare fu più lunga che all’andata, disturbata da frequenti tempeste che fecero più volte rigettare i pasti fuori bordo ad Ofelia. Si ricordò del suo primo viaggio con Thorn, a bordo del dirigibile che li aveva condotti da Anima al Polo, un viaggio poco piacevole, in cui aveva addirittura tentato di offrire del tè al fidanzato, dietro insistenze da parte della zia, ottenendo in cambio solo parole amare. Thorn l’aveva sempre guardata con diffidenza quando aveva il colorito verdognolo tipico di chi soffre di cinetosi. In quella traversata, invece, era al suo fianco ogni volta che stava male, senza nemmeno tradire il disgusto.
Fu Thorn a collaudarle i nuovi guanti-mani. Ofelia e la sua sciarpa, per quanto fosse una valida aiutante e sostenitrice, avrebbero avuto difficoltà a sistemare con precisione le dita di metallo dentro ai buchi dei guanti; compito che invece si rivelò facilissimo per Thorn. Seduti sul letto nella loro cabina, stretti l’uno all’altra e chini sui guanti, crearono le nuove mani di Ofelia. Thorn non perse la pazienza con lei nemmeno una volta, né quando gli oscurava la luce, rendendogli difficile vedere cosa stesse facendo, né quando rovesciava la colla a caldo imbrattando coperte, vestiti e persino i loro capelli di bollente appiccicume. Saldare le dita si rivelò più agevole del previsto per Thorn, le cui mani, ora Ofelia ne era convinta, potevano fare tutto, e i guanti animati si dimostrarono particolarmente collaborativi. Era necessario incollarle, per evitare che le dita di metallo scivolassero fuori ogni volta che lei si toglieva i guanti. Fu Thorn a rimetterglieli sui palmi con cura, chiudendoli con precisione e osservando l’effetto ottenuto. Se i guanti di prima erano utili e le dita vuote davano la parvenza di normalità grazie all’animismo, quelli nuovi erano a tutti gli effetti delle mani sostitutive. Ofelia non era infastidita dal metallo freddo contro la pelle, lì dove un tempo sorgevano le sue vere dita; e nel giro di pochi minuti si scaldarono, adottando la temperatura del suo corpo. L’animismo le pervase, e Ofelia mosse guanti e metallo come se fossero le sue vere dita, le sue mani di un tempo, assoggettate alla sua volontà non da giunture e nervi e impulsi cerebrali, ma dalla determinazione e dal suo controllo degli oggetti. Guardò Thorn sorridendo e, prima che lui potesse chiederle come le sentiva, Ofelia si aggrappò ai suoi vestiti con urgenza, ridendo quando vide i suoi guanti stringere il bavero della giacca di Thorn come un tempo avevano fatto le sue vere mani. Lo spogliò lentamente, gli accarezzò il viso e il petto, gli salì addosso baciandolo con impazienza e… si fermò quando infilò le dita tra i capelli di Thorn. Pieni di colla.
Glieli tagliò come poté prima di riprendere da dove si erano interrotti, e il risultato non fu catastrofico come Ofelia si era immaginata. Non essendo davvero una parte di sé, non essendo quindi affette dalla sua goffaggine, le sue dita si mostrarono incredibilmente capaci e controllate. Furono brave sia a tagliare i capelli di Thorn che a spogliarlo, e Ofelia sapeva che in cuor suo avrebbe rotto molti meno oggetti che in passato. Qualche ora dopo urtò il comodino scendendo dal letto, facendo crollare la lampada che vi stava sopra. Thorn fu lesto a prenderla prima che si rompesse, e lanciò ad Ofelia un’occhiata impenetrabile da dietro i ciuffi di capelli che lei gli aveva spettinato, le sopracciglia aggrottate.
Forse, in fin dei conti, non avrebbe rotto molti meno oggetti, ma solo qualcuno. Un tredici percento, calcolò Thorn, sulla sua stessa lunghezza d’onda, senza però dirglielo.
Guardando il profilo di New Babel che si stagliava all’orizzonte, un pezzo di terra sottile quanto un foglio di carta, Ofelia pensò a quante cose fossero cambiate, e a quanto fosse grata di quel cambiamento. Aveva sempre sostenuto di non volersi sposare, più per ripicca verso sua madre e la vita preimpostata di Anima che per volontà di restare sola. Era contenta che almeno su quello sua madre l’avesse avuta vinta. Era quasi avvilente constatare quanto si sentisse vuota senza Thorn al fianco.
Sbarcarono solo per salire sul dirigibile che li avrebbe riportati al Polo. Avevano già salutato quella terra. Da lontano, prima di salire sul ponte d’attracco, Ofelia vide Elizabeth. I capelli fulvi, i suoi capelli, erano ormai interamente bianchi, e la sua andatura leggermente claudicante. Persino la postura era più incurvata. Nonostante tutto, a un passo dalla morte, con la vecchiaia inclemente che riprendeva possesso del suo corpo, Elizabeth sorrideva circondata da venti bambini bisognosi di attenzione. Ofelia scorse la lunga treccia rossa di Artemide e i capelli candidi di Faruk prima di involarsi.
Sperava davvero che, alla morte di Elizabeth, qualcuno fosse disposto a prendersi cura di loro e del loro potenziale, un potenziale nuovo e privo di poteri.
 
 
Il loro ritorno al Polo fu meno eclatante di quanto si aspettasse. Il giornale ne parlò poco, giusto un trafiletto. Era comprensibile, dal momento che tutti erano invece impegnati a fare congetture su cosa fosse accaduto, sul perché fuori dalla muraglia non ci fossero più nuvole ma acqua, su dove fosse finito il sire Faruk e come mai la sua favorita fosse tornata con la figlia, che a quanto pareva sapeva parlare, ma senza il padre di Vittoria. Un colpo di stato forse?
Ci pensò Thorn a dissipare i dubbi in seno al senato. Indisse un’assemblea straordinaria che venne trasmessa via radio in tutta Anima. Ofelia, la zia Roseline, Berenilde, Renard e Gaela, con un anello al dito che la metteva a disagio ma non si azzardava a togliere, ascoltarono dal salotto in un silenzio teso, augurandosi che la loro sorte fosse più propizia di quanto non fosse stata in passato.
Thorn spiegò a grandi linee la situazione, omettendo fatti fondamentali che nessuno avrebbe compreso, fornendo spiegazioni circa la sua gamba e la sua attività in quegli ultimi anni. Il dibattito tra lui e la crème della burocrazia del Polo fu trasmesso per intero, dal vivo, mentre gli occupanti del palazzo di Berenilde rimanevano con il fiato sospeso.
Alcuni dubitavano delle parole di Thorn, altri, solidali del barone Melchior che ancora volevano giustizia per la sua morte (e per i favori che non potevano più ottenere) insistevano per riprendere quel processo che era stato interrotto anni addietro e imprigionare Thorn; fortunatamente sembrarono prevalere i consensi alla sua riabilitazione secondo le ultime volontà di Faruk che, di fronte ad una folla non indifferente, dopo che Ofelia gli aveva rivolto quelle strane parole che solo il sire aveva compreso, davanti alla cella di Thorn lo aveva affrancato dalla sua situazione di bastardo e lo aveva eletto al rango nobiliare, dandogli il titolo e il credito che gli spettavano.
La differenza la fece Archibald che intervenne anche se non interpellato. Non era più ambasciatore, era letteralmente estromesso dalla sua famiglia, ma sapeva ancora quali segretucci sua sorella Pazientina non voleva assolutamente che venissero rivelati. Fu grazie a lui che Thorn venne giudicato innocente e riabilitato. Gli venne addirittura ridato il suo ruolo da intendente, anche se Ofelia sospettava che fosse più per il demerito dell’intendente in carica, troppo occupato a fare cruciverba per svolgere il proprio lavoro, che per riconosciuta competenza di Thorn.
Prima di togliere la seduta, Thorn ne indisse una seconda per il giorno seguente, dato che il loro sistema politico doveva essere rivisto a causa della scomparsa del sire Faruk, che non si prese la briga di spiegare. E come ultima cosa, dichiarò nullo senza mezzi termini il suo matrimonio con Ofelia. La comunicazione radiofonica si interruppe quando scoppiò il caos nel luogo in cui veniva trasmesso il processo, specchio di ciò che accadde nel salotto di Berenilde: questa scattò in piedi spaventando Vittoria, la zia Roseline cominciò ad imprecare, insultando la carta di qualità scadente e le presine inaffidabili con cui si finiva sempre per rimanere scottati, Renard fissò Ofelia con un misto di stupore e inquietudine e Gaela scosse le spalle, salutando tutti e andandosene in camera propria. Ofelia aveva appreso con perplessità come il palazzo di Berenilde fosse diventato il quartier generale di Archibald, Renard e Gaela, dato che il loro lavoro era in parte finalizzato anche al ritrovamento di Thorn. O così le avevano detto.
Dal canto suo, Ofelia sorrise di fronte a quella notizia sbandierata ai quattro venti. Un sorriso piccolo che divenne ben presto tanto largo da farle dolore i muscoli del viso. Si lasciò scappare persino una risata, che coprì lestamente con le dita di metallo guantate.
Thorn non tornò a casa quella notte, cercando di rimettere ordine tra le scartoffie che l’intendente che lo aveva sostituito aveva lasciato accumulare. Chiamò solo una volta, e si fece passare Renard invece di lei. Il suo consigliere, o ex consigliere, dal momento che ormai era un sindacalista, appariva al contempo euforico e spaventato, ma non volle dare spiegazioni ad Ofelia.
L’arcano si svelò il giorno seguente, alla nuova seduta del governo. Senza chiedere pareri, opinioni, consigli, in virtù dell’incarico che ricopriva e del potere di cui era stato investito da Faruk stesso, decretò che la loro forma di governo era ormai decaduta. Sarebbe stata istituita seduta stante una forma democratica, in cui i cittadini avrebbero votato per decidere i loro rappresentanti e ogni quinquennio avrebbero eletto un presidente, che avrebbe ricoperto il ruolo di Faruk in modo più efficiente, affinché si facesse portavoce delle loro idee e soprintendesse i politici, verificandone anche la trasparenza e correttezza. Inserì al governo anche la figura ufficiale del sindacalista, che sarebbe stato un vero e proprio ufficiale politico incaricato di farsi portavoce dei lavoratori e dei loro diritti. Il nome di Renard venne pronunciato senza incertezze ed esitazioni, e Ofelia lo vide commuoversi, stringendo i denti per non piangere, quando lo annunciò. Persino Gaela mise da parte la sigaretta per sorridere e stampargli un bacio sulla guancia. Quando si allontanarono di soppiatto, Ofelia non ebbe dubbi che fosse per approfondire quel bacio. Anche un po’ di più.
La decisione di Thorn non fu popolare, e lui rimase lontano da casa per altri tre giorni, insieme a Renard, che lo seguiva per prendere confidenza con il suo nuovo ruolo e, Ofelia sospettava, anche per fargli da guardia del corpo. Thorn non aveva bisogno di difensori, ne erano tutti consapevoli, ma avere al fianco un omone enorme e muscoloso che sembrava duro fuori tanto quanto era morbido dentro aiutava di sicuro a tenere lontani lamentatori incalliti. A casa invece Ofelia non se la passò tanto bene. Berenilde e la zia Roseline facevano pressioni per capire cosa fosse accaduto, e perché mai Thorn avesse preso una decisione del genere. Ofelia non provava nemmeno a dare spiegazioni, ma la sua calma serafica e lo sguardo enigmatico dietro le lenti rosate le faceva imbestialire e disperare, alla ricerca di risposte. La sua unica fonte di distrazione era Vittoria, che diceva una parola esistente su dieci inventate, e le faceva ricordare Elizabeth e i suoi codici.
Quando finalmente Thorn si degnò di presentarsi a casa, scoppiò il putiferio. Berenilde lo abbracciò forte, contenta di vederlo e che tutto si fosse risolto per il meglio, e poi lo sgridò per quelle decisioni sovversive che prendeva senza chiedere nulla a nessuno. La zia Roseline se ne rimase in disparte guardandolo trucemente, e la cena fu uno strazio che si concluse con una quantità di domande senza risposta e un Thorn più muto del solito che non diede informazioni a nessuno. Ofelia, seduta accanto a lui, avrebbe tanto voluto parlargli, ma aspettò che si fosse ritirato nel suo studio per seguirlo.
- Volevate dirmi qualcosa? – le chiese a bruciapelo prendendo posto alla scrivania in mezzo alla biblioteca di Berenilde.
Ofelia fu colta da un brivido quando lui usò formalmente il voi, un brivido non piacevole. La zia Roseline, che l’aveva seguita per poter inveire contro l’uomo senza paura di farsi sentire da orecchie innocenti come quelle di Vittoria, sbottò: - Vi siete bevuto la ragione? Per quale motivo avete annullato il matrimonio? Io non ci penso nemmeno a tornare su Anima, ma Ofelia cosa dovrebbe fare? Rimanere qui? Tornare lì? È la seconda volta che macchiate la nostra famiglia di una simile onta, Thorn, e non credo che, nonostante tutto quello che è successo, ci sia ancora qualcuno disposto a tollerarlo.
Col fiato grosso, la zia muoveva la testa come un uccello, mentre lo chignon infilzato dalle forcine veniva sballottato sulla sua nuca.
Lo sguardo di Thorn era impietoso, anche un po’ seccato.
- Va tutto bene zia, Thorn non l’ha fatto con cattive intenzioni o per recare offesa a qualcuno, ve lo garantisco. Potremmo parlarne in privato?
Fu il tono supplice della nipote a far sgonfiare l’ira di Roseline come un sufflé, ma la zia mantenne comunque la fronte e la mascella contratta, e non poté impedirsi di guardare male l’intendente.
- Ah, va bene – bofonchiò. – Tanto sei testarda come un ciocco di legno, quindi anche se te lo impedissi troveresti lo stesso il modo di disobbedire.
La zia fece per andarsene, ma si fermò sull’uscio della sala. – Ora che ci penso, dal momento che non siete più sposati tu hai ancora bisogno di uno chaperon!
Ofelia impallidì. L’ultima cosa che le serviva era che la zia ricoprisse il suo vecchio ruolo, seguendola per assicurarsi che non stesse mai da sola con Thorn.
Poi sbuffò, allontanandosi. – Ormai me ne frego delle opinioni di chicchessia, per quel che mi riguarda potresti già essere incinta.
Ofelia avvampò mentre le parole della zia si perdevano in lontananza, ignorando la fitta di dolore che quelle parole le avevano procurato involontariamente. No, non c’era rischio che rimanesse incinta. Thorn la osservò rilassando un poco il viso.
- State bene? – le chiese, percorrendo il suo corpo con lo sguardo alla ricerca di qualcosa fuori posto.
Ofelia si rese conto che la domanda non era solo indirizzata al suo stato emotivo, ma anche a quello fisico. Thorn si preoccupava per lei perché sapeva che la sua goffaggine in tre o quattro giorni poteva spedirla direttamente all’ospedale. In effetti si era graffiata il braccio, così ringraziò il vestito che le copriva l’abrasione.
- Sì, volevo solo vederti.
- A che pro volevate vedermi?
All’improvviso Ofelia si sentì di nuovo una bambina. Non era più sposata, si rese conto, e quello di fronte a lei, nonostante tutto ciò che avevano passato, era un uomo. Non un amico, perché Thorn era stato chiaro in merito, non un fidanzato o un pretendente. Non era nulla, se non l’uomo che amava. E che ricambiava il suo sentimento. In teoria.
Adottò anche lei il voi, per uniformarsi, ma quel distacco la faceva stare male. Scavava tra di loro un solco che non c’era più da molto tempo.
- Volevo chiedervi come intendete procedere. Con il matrimonio.
Thorn assottigliò gli occhi, e si raddrizzò. Ofelia vide un angolo della sua bocca incurvarsi, ma fu solo un attimo. – Quale matrimonio?
Ofelia si sentì vacillare, ma poi notò l’insistenza con cui Thorn la guardava, come a volerle far capire qualcosa, e si rese conto che le parole che aveva pronunciato quella notte sulla collina erano vere. Thorn si aspettava davvero che lei gli chiedesse di sposarlo. Lei, allora, voleva tenerlo sulle spine.
Potevano stare al gioco in due.
- Il matrimonio di Renard e Gaela.
Questa volta fu Thorn quello che rimase spiazzato; ossia aggrottò le sopracciglia. – Cos’ho io a che fare con il loro matrimonio?
Ofelia fece spallucce, avvicinandoglisi. Cambiò argomento.
- Come vanno le cose al governo?
Thorn mutò subito atteggiamento e cominciò a parlare la sua lingua, eloquente e fluida come un libro di diritto. – Potrebbero andare meglio, ma anche peggio. I politici si sono tutti convinti del fatto che il vecchio regime e le vecchie istituzioni hanno fatto il loro tempo. Renold sta facendo un ottimo lavoro, raccogliendo consensi e opinioni pubbliche, molte delle quali offrono degli ottimi spunti.
- Non temete per la vostra incolumità?
Thorn la guardò senza lasciarle intuire cosa stesse realmente pensando. – No. Temo solo una cosa, e ha a che fare con voi. Il resto non mi tange.
Ofelia sentì che il proprio corpo si sporgeva verso di lui, e vide Thorn fare altrettanto. Le loro labbra erano ad un soffio le une dalle altre quando Ofelia si ritrasse. Gli rivolse un piccolo sorriso. – Non sono sicura che stare così vicino ad un uomo, da nubile, sia una buona idea. Vi auguro buona notte, intendente.
Cercò di non scoppiare a ridere quando vide offesa, dolore e orgoglio ferito attraversare lo sguardo di Thorn. Lui serrò la mascella e si mise a lavorare mentre lei, certa di cosa dovesse fare, si diresse verso il salotto dove Berenilde giocava con Vittoria.
Thorn aveva detto che lei avrebbe dovuto chiedergli si sposarlo, e che sarebbe anche dovuta essere persuasiva. Prima di tutto, però, Ofelia voleva vederlo sulle spine, anche se non lo meritava.
- Berenilde, avrei bisogno di chiedervi un favore.
La madama la guardò con affetto e serenità, un’espressione che aveva spesso sul volto da quando erano tornati a casa e Vittoria sembrava essere guarita dal suo mutismo. Era vero ciò che le aveva detto tempo addietro: più di ogni altra cosa, Berenilde desiderava un figlio, e la mancanza di Faruk era sopportabile se paragonata a quella che sarebbe derivata dalla scomparsa di Vittoria.
- Cosa potrei mai fare per voi, cara?
Ofelia si sedette sul divano di fronte a lei, incerta su come affrontare l’argomento.
Intuendo il suo disagio, ma fraintendendolo, Berenilde smise di spazzolare Vittoria e la guardò seriamente. – Non so cosa passi per la testa di mio nipote. Spero che voi ne abbiate un’idea, perché io non so proprio cosa gli sia preso. Vi avevo detto di non abbandonarlo, di prendervi cura di lui, ma sembra che lui in qualche modo riesca sempre a trovare il modo di allontanarsi. Io sono certa che vi ami, Ofelia. L’ho capito appena vi ho visti insieme per la prima volta. Il suo modo di comportarsi, anche se di poco, era cambiato. Ne ho avuto la conferma schiacciante quando mi ha zittita dicendo che la vostra opinione per lui contava. Nemmeno la mia aveva mai importato molto, per lui. Sono di nuovo qui a chiedervi di non abbandonarlo, per il suo bene. Ha bisogno di qualcuno. Anzi, ha bisogno di voi, unicamente di voi.
Ofelia sorrise leggermente a quelle parole.
- Lo so, madama. Non temete, sono qui per questo. Avrei bisogno di un prestito che sono certa Thorn salderà quanto prima.
Berenilde la guardò senza capire, con le eleganti sopracciglia arcuate e la fronte aggrottata. Somigliava senza ombra di dubbio a Thorn, con quell’espressione.
Ofelia le spiegò a grandi linee cosa intendesse fare, mentre Berenilde la guardava scuotendo la testa. Alzò persino gli occhi al cielo, ma Ofelia vide che era felice. E lo era anche lei.
 
Stava per entrare nella sua vecchia camera, diversi minuti dopo, quando vide Thorn avanzare a grandi passi verso di lei. L’armatura anticipava il suo arrivo con il suo scricchiolio, ma lei era talmente distratta da non essersene resa conto.
- Vi ricordate cosa vi ho detto cinquantadue giorni or sono? – le chiese senza preamboli.
Fu il turno di Ofelia di aggrottare la fronte. – Temo dobbiate rinfrescarmi la memoria. Non ricordo nemmeno dove fossi, cinquantadue giorni or sono.
Thorn non si mostrò divertito, ovviamente. – Vi ho detto che… ti ho detto che sarebbe stata una tua decisione il matrimonio. Che avrei aspettato una tua mossa.
Ofelia tornò immediatamente seria. Thorn aveva gli occhi infiammati di una luce simile quasi alla… paura. Temeva che Ofelia non gli avrebbe chiesto di sposarlo? Paventava un ripensamento?
- Mi hai anche detto che non sapevi se avresti accettato – ribadì lei, tra il serio e il faceto.
Thorn accartocciò il viso, contraendo labbra e sbattendo più volte gli occhi. – Non intendevo dire che… - borbottò, ma Ofelia lo interruppe.
- Io ti ho risposto che mi sarei mostrata persuasiva.
Si alzò sulle punte per cercare di fargli intendere le sue intenzioni, e fortunatamente Thorn capì subito. Si chinò su di lei, facendola sprofondare nel buio. Si baciarono in mezzo al corridoio, incuranti del fatto che qualcuno avrebbe potuto vederli. Thorn allungò una mano per aprire la porta della camera e vi condusse dentro Ofelia, che lo fermò non appena lui la richiuse alle sue spalle.
- Non siamo sposati, non dovremmo…
Le labbra di Thorn la zittirono definitivamente, e anche se le parole di Ofelia volevano essere sarcastiche, lui le prese sul serio, e le ignorò completamente.
Ofelia fu così persuasiva che Thorn non tornò al lavoro quella notte, e l’alba lo sorprese ancora aggrappato a lei.
 
Il giorno successivo Ofelia riuscì ad intercettare Renard, nonostante la fretta che il suo nuovo ruolo imponeva, e gli strappò un’ultima commissione da consigliere.
- Per te, ragazzo, sono sempre disponibile, sindacalista o non sindacalista. Quello per te rimarrà sempre il mio lavoro principale.
Ofelia si fece accompagnare nella miglior gioielleria della zona.
 
L’ordine fu pronto due giorni dopo, due giorni durante i quali Thorn non era riuscito a tornare a casa per via dell’organizzazione delle elezioni. Il fatto che il popolo potesse votare per decidere chi dovesse governarli era una novità senza precedenti, e fioccavano candidature a destra e a manca, persino tra i ceti più trascurati. Ofelia fu costretta a recarsi all’intendenza per parlare a tu per tu con Thorn.
Quel giorno decise di accantonare il turbante; ormai i capelli le erano ricresciuti abbastanza da nascondere la cicatrice causata dalla trave, e le sembrava di essere di nuovo accettabile, nonostante i ricci fitti e corti le dessero l’impressione di avere in testa la lana di una pecora. Com’era abituata a fare una volta, sbucò dall’armadio nell’ufficio di Thorn, la cui anta rimaneva sempre aperta per lei.
Lui la notò con la coda dell’occhio e usò il telefono per chiedere al proprio segretario di bloccare gli appuntamenti fino a nuovo ordine. Fu allora che Ofelia uscì e prese posto di fronte a lui. Avrebbe voluto toccarlo, invece rimase in piedi dietro la scrivania, per una volta quasi più alta di lui.
- C’è qualcosa che non va? Cosa fate qua? – indagò subito, celando la sorpresa per la sua visita.
Ofelia sorrise appena. – Cerco di accasarmi. Pare che l’intendente del Polo sia da poco tornato disponibile.
Thorn inarcò un sopracciglio mentre Ofelia si inginocchiava per davvero. Thorn si alzò in piedi, preso alla sprovvista e confuso su come comportarsi.
- Alzati – le ordinò con voce brusca, accantonando la finta formalità. – Non intendevo davvero…
Ofelia prese dalla tasca una scatolina, che in qualche modo riuscì ad aprire di fronte a Thorn. Le veniva un po’ da ridere, ma la verità era che, nonostante sapesse che Thorn non l’avrebbe ovviamente rifiutata, era un po’ in apprensione.
- Vuoi sposarmi? – chiese, cercando di nascondere il tremito della voce.
Thorn si chinò con circospezione per osservare il contenuto della scatolina. Posti su un piccolo cuscinetto si trovavano due dadi d’oro di squisita fattura e indubbia precisione. Ofelia sapeva che un anello non si sarebbe ben adattato alla figura di Thorn, e un orologio da taschino era fuori discussione. A lungo si era interrogata su cosa potesse regalargli, e alla fine aveva optato, quasi come un’illuminazione, per i dadi.
I dadi del loro destino, i dadi che avevano restituito al mondo. Ora toccava a loro prendere delle decisioni dettate dalle scelte personali, e non dalle imposizioni.
Thorn si inginocchiò di fronte a lei con qualche difficoltà, dopo aver preso un involto dal cassetto della scrivania. La gamba storpia non rappresentava un grande problema, ma era il suo intero corpo a non essere adatto ad abbassarsi sul pavimento. Specularmente ad Ofelia, anche lui aprì di fronte a lei la scatola che reggeva: conteneva un paio di guanti di seta bianca, con i bordi tempestati di piccole pietre preziose e ricami in oro e argento sul dorso. Quei colori le ricordarono immediatamente Thorn: pallido come la seta bianca, con i capelli dorati che tendevano all’argento e gli occhi di metallo affilato.
Thorn si schiarì la gola, a disagio. – Ho pensato che ti sarebbero piaciuti, dal momento che ora non sei più costretta ad indossare dei guanti specifici antilettura.
Ofelia, profondamente commossa, spostò lo sguardo dai guanti a lui, e viceversa.
Il suo silenzio mise in ansia Thorn, che si contrasse nel lungo corpo ossuto. – Ovviamente è implicita la mia proposta di matrimonio. Non intendevo davvero dire che mi avresti dovuto chiedere di sposarti, ma dal momento che…
Ofelia gli si avvicinò e lo strinse a sé, senza baciarlo, solo abbracciandolo finché non lo sentì rispondere alla stretta con forza, fino a lasciarla senza fiato.
E poi ovviamente caddero uno sopra l’altra.
Thorn trattenne uno sbuffo, ma Ofelia vide che non era irritato per davvero. – Devi smetterla di trascinarmi con te ogni volta che perdi l’equilibrio. Rischio di farti male.
Ofelia ripensò a quando era caduta sopra di lui, nella stanza dell’Ordinatore a Babel. Si sarebbe fatta male se lui non ci fosse stato: Thorn aveva accusato volontariamente il colpo per proteggere lei.
Ofelia ridacchiò e cercò di rialzarsi senza far cadere i dadi che erano miracolosamente rimasti al loro posto. Si scambiò i regali con Thorn, che accantonò subito la scatolina e depositò i dadi nella stessa tasca in cui stava il suo orologio da taschino, e si diresse verso l’armadio per tornare da Berenilde. Prima o poi avrebbe dovuto dire a Thorn di saldare il debito che lei aveva contratto con sua zia, ma le sembrava di cattivo gusto chiedergli di pagare per un regalo che era rivolto a lui.
Gli lanciò un’ultima occhiata sorridendo con i guanti stretti al petto prima di attraversare lo specchio. Quado fu emersa nella sua camera, però, fu trattenuta.
- Ofelia – la chiamò Thorn, che sporgeva con mezzo busto dallo specchio, come una strana statua che sfidava le leggi di gravità.
Lei gli si avvicinò, chiedendosi cosa mai avesse da dirle Thorn di così urgente da spingerlo ad attraversare uno specchio. Invece lui la baciò a sorpresa come faceva sempre, graffiandola con la barba corta che nel turbine di impegni di Thorn non vedeva il rasoio da almeno un paio di giorni.
Quando Ofelia si aggrappò a lui, desiderosa di approfondire quel contatto, Thorn si ritrasse. Anche se i suoi occhi erano accesi, il suo tono era autoritario e distaccato. – Scegli un giorno per il matrimonio, io sarò a casa fra tre giorni.
Se ne andò salutando in quel modo, lasciando Ofelia in piedi in mezzo alla camera, accaldata. Scosse la testa, ma sorrideva, perché alla fine dei conti Thorn non si smentiva mai. E lei lo voleva esattamente così. Depositò con cura i guanti sul comodino; avrebbe dovuto aspettare che il fidanzato rientrasse per farglieli sistemare.
E indossarli nel giorno del matrimonio.
 
La cerimonia venne fissata da lì a tre mesi, per il tre agosto, la data che era stata scelta in origine. Né Ofelia né Thorn avrebbero voluto aspettare così tanto, soprattutto visto che la zia Roseline era stata costretta a riprendere il suo ruolo da chaperon, ma le incombenze al governo li avevano costretti a posticipare di almeno due mesi. Era stata Ofelia a far notare che due settimane non avrebbero cambiato nulla, così da metà luglio il matrimonio era stato sposato ai primi di agosto.
Quando si erano sposati ben quattro anni prima.
Berenilde si mise subito in moto per preparare il matrimonio, e Renard la imitò, per quanto possibile. Posticipò persino il suo, di matrimonio, perché voleva prima essere presente e aiutare con i preparativi per la sua ex padrona. Senza distrazioni.
Ofelia gliene era grata, ma ad un mese dal matrimonio si rese conto che sarebbe stato meglio per loro non procrastinarlo troppo, a giudicare da come Gaela si passava soventemente una mano sul ventre, come in cerca di conferme. Berenilde fu più che lieta di organizzare due cerimonie, di cui la seconda a distanza di una sola settimana dalla prima. Gaela, dopo quelle insistenze, rivolse un’occhiata di ringraziamento ad Ofelia. Si tolse la sigaretta dalla bocca e Ofelia seppe con certezza che non gliel’avrebbe più vista maneggiare per lungo tempo.
La scoperta della dolce attesa di Gaela e Renard la gettò in uno sconforto che la faceva sentire in colpa e faticava a mascherare. Sapeva che prima o poi avrebbero avuto dei figli, tutti ne avevano. Tutti tranne lei e Thorn. In qualche modo lui parve intuire cosa angosciasse la fidanzata; era sempre stato ricettivo quando si trattava di lei.
Per quanto la zia Roseline si impegnasse affinché non stessero troppo attaccati o non fossero mai soli, non si rendeva conto che una volta chiuse le porte delle loro camere non c’era niente che potesse impedire un attraversamento di specchi. Quelle rare volte in cui Thorn era a casa non esitava a varcare quello di camera sua per sbucare tra le braccia di Ofelia, e offrirle conforto come poteva.
Il terrore di non poter fare abbastanza per lei, di non poterle dare ciò che più voleva, era un tarlo che gli rodeva il cervello come un tempo avevano fatto i suoi artigli. Ma lei lo rassicurava sempre, facendogli capire che, anche se sarebbero rimasti sempre loro due, da soli, appartenergli le sarebbe bastato.
Lui le sarebbe bastato. Anche un po’ di più.
Le occasioni che ebbero per vedersi furono comunque poche, dato che nel primo mese di fidanzamento ci furono le elezioni, le prime elezioni del Polo, e nel secondo mese Thorn dovette abbandonare i panni di intendente per assumere quelli del presidente. Nessuno si aspettava che il popolo avrebbe scelto proprio lui, ma in fin dei conti, perché no? Era sempre stato un faro di integrità e neutralità in un governo corrotto. Aveva persino preso le parti dei clan caduti in disgrazia per aiutarli ad assurgere a nuovo potere, al posto che spettava loro. Era integerrimo, forse anche troppo, ma dietro la scorza dura e l’aria da cattivo, nessuno poteva negare che per il Polo avesse fatto tanto.
La sua vittoria alle elezioni, nonostante non si fosse nemmeno candidato, fu schiacciante. E nessuno, di nuovo, si sarebbe immaginato che rimanesse presidente per quindici anni. Il suo mandato fu rinnovato per le seconde elezioni, il massimo che un presidente potesse aspettarsi di rimanere in carica. Quando però fu nominato il nuovo presidente, eletto nelle terze elezioni del Polo, il suo mandato durò ben pochi mesi: fu stroncato da un infarto. Thorn venne designato come presidente temporaneo in attesa di un sostituto, ma la faccenda si protrasse per così lungo tempo che alla fine passarono altri cinque anni e vennero indette nuove elezioni. Che vinse Renard. Ma questa è una storia che non verrà mai raccontata.
Agata si adoperò per scegliere per Ofelia il miglior vestito di pizzo bianco che riuscì a trovare, e la sposa si lasciò vestire come una bambola per la prima volta in vita sua. Il vestito era ben lontano dall’essere un abito che avrebbe mai scelto spontaneamente, ma strinse i denti per la sorella. In quella circostanza si limitò ad obbedire di sua spontanea volontà, anche se la zia Roseline scuoteva la testa e borbottava maledizioni a base di meringhe e fagiani ripieni. Per fortuna avrebbe dovuto indossarlo una sola volta. La madre invece mise insieme il miglior corredino da neonati che riuscì a trovare sul mercato.
- Non voglio sapere a che punto sei con Thorn né se nel vostro precedente matrimonio avete parlato di queste cose o le avete messe in pratica – borbottò con la figlia, con le guance rubizze e i capelli fulvi che la facevano assomigliare più a Renard che a lei. – In ogni caso, questa volta ti sposi come si deve e questo è tutto ciò che ti serve.
Scarpine, tutine, pannoloni confezionati a mano e calzini si dipanavano sul tavolo del salotto, minuscoli come se fossero state sbagliate le proporzioni per un adulto. Berenilde annuì con vigore, il viso che si apriva in un sorriso trionfante. – Avremo la casa piena di bambini – canticchiò, scoccando un bacio a Vittoria, contagiata dall’entusiasmo della madre.
Sophie e Berenilde di misero subito a parlare di gravidanze, gestazioni e aneddoti sui loro figli, e Ofelia si allontanò silenziosamente per non mostrare le lacrime che rischiavano di tracimare. Si scontrò con la zia Roseline.
- Ti ho vista, cara – mormorò prima di notare che la nipote stava piangendo silenziosamente, le spalle scosse da piccoli tremiti. – Oh… non anche tu…
Ofelia venne avvolta dalle braccia incredibilmente forti di quella piccola e severa donna che era come una madre per lei, forse anche meglio.
- Speravo di essere l’unica nella nostra famiglia. Mi dispiace così tanto, bambina mia.
Ofelia si mise a singhiozzare senza ritegno, per sé e per la zia. Per la prima si sentì compresa davvero, perché per quanto Thorn soffrisse all’idea di non poterla accontentare, e in parte all’idea stessa di non poter diventare padre, una cosa a cui non aveva mai pensato in precedenza, nessuno poteva comprendere lo strazio e il dolore che derivavano dalla sterilità come un’altra donna nella stessa situazione.
Se possibile, Ofelia volle ancora più bene alla madrina, al suo chaperon, al suo punto di riferimento, e l’ammirò per la forza che mostrava nonostante la tristezza insita nella sua condizione. Non osava nemmeno immaginare quanto difficile dovesse essere stato vedere sua sorella, sua madre, sfornare un figlio dietro l’altro mentre lei non poteva darne alla luce nemmeno uno.
Si lasciarono dopo diversi minuti, senza dire una parola. Non serviva. Anche la zia Roseline aveva gli occhi rossi.
In qualche modo sua madre dovette capire la cosa, o qualcuno gliela fece intuire, perché Ofelia non vide più i corredini da neonato e una sera, a tavola, quando si parlava di bambini, le strinse la mano con forza. Senza guardarla.
Ofelia accarezzò le loro mani unite, con le sue dita di metallo, grata di poter ancora sentire i sentimenti che solo le mani erano in grado di comunicare.
 
Il matrimonio andò tutto sommato bene. Agata si rese conto da sola che il vestito scelto per la sorella non era decisamente nel suo stile, e glielo cambiò spontaneamente con uno che Ofelia reputò più che consono. E che si adattava perfettamente ai guanti di fidanzamento. I giornali parlarono per giorni di quello che venne definito il matrimonio del tira e molla, dato che era stato sancito e annullato così tante volte che nessuno avrebbe saputo dire se sarebbe durato. L’importante, in ogni caso, era che gli sposi fossero certi che niente avrebbe più potuto inficiarlo. La foto del loro breve e imbarazzato bacio vinse la prima pagina del giornale, cosa che rese Thorn di pessimo umore per giorni.
Alla fine optarono per non andare a vivere in uno dei castelli posseduti dalla famiglia di Thorn. L’idea rimase sospesa, come una futura azione da attuare, ma tutti sapevano che non sarebbe mai stata portata a termine. Il palazzo di Berenilde era abbastanza grande per contenerli, soprattutto dato che i bambini non sarebbero aumentati, e lei e Vittoria si sarebbero sentite sole in quella magione.
Ricevettero una cartolina di congratulazioni anche dalla terra di Blasius e Wolf, a cui loro avevano dato il nome di Liberterra. Ofelia sorrise leggendo il nome, ma non tanto quanto sorrise leggendo la lettera di Octavio. L’amico le scrisse canzonatoriamente che sapeva che tra loro non sarebbe durata, e Ofelia si promise non far mai leggere quelle parole a Thorn, data la sua gelosia, e che si stava occupando della crescita di ventuno scalmanati pargoli, tra gli spiriti di famiglia e sua sorella. Non le rese noto che Elizabeth se n’era andata, Ofelia lo lesse tra le righe, e gliene fu grata. Fu soprattutto grata del fatto che il compito di prendersi cura di quei bambini fosse passato ad Octavio. Sarebbe stato un ottimo punto di riferimento per loro, e si sarebbe preso cura di loro come un vero padre.
I giornali del Polo invece presero ben presto a fare del pettegolezzo circa le future gravidanze della moglie del presidente. La cosa si protrasse per diversi mesi, finché Archibald non fece scalpore presentandosi ad una festa con solo la biancheria addosso. Ebbe il suo momento di gloria per tre giorni, poi se ne dimenticarono tutti e tornarono alla carica per sapere dello stato di Ofelia.
Fu allora che lei capì che il primo tentativo di Archibald di attirare l’attenzione era solo un diversivo per distoglierla da lei. Quando vide che era servito a poco, l’ex ambasciatore ricattò tutti i giornalisti. Nessuno si chiese più se Ofelia fosse incinta o no, e a calmare del tutto le acque fu il parto di Gaela, che diede alla luce un paio di gemelli.
- Se i miei figli avessero la memoria del signor presidente – disse Renard, visibilmente provato, dopo il parto, - sono certo che come prime parole direbbero una sfilza di blasfemie irripetibili. Ma Gaela è stata così forte…
Dietro gli occhi stanchi dell’ex consigliere, Ofelia vide orgoglio per la moglie e un senso di realizzazione indescrivibile all’idea di essere diventato padre. Padre di un bimbo e una bimba bellissimi, con i capelli rossi e gli occhi eterocromi. Mime ed Eulalia. I suoi figliocci, suoi e di Thorn, che vennero designati come madrina e padrino.
Ofelia fu così felice per Renard e Gaela che quasi non sentì la puntura dell’invidia. Sorrise per tutto il tempo in cui fecero compagnia ai neo genitori, e sorrise anche quando scese la sera e si ritirarono a dormire. Sorrise quando lei e Thorn si abbandonarono l’uno all’altra per trovare conforto e coprire l’assenza di qualcosa che non avrebbero potuto avere, e sorrise anche quando la sciarpa si lamentò, come sempre quando Ofelia la accantonava per stringersi al marito.
- Cosa ti rende così felice questa sera? – le chiese Thorn alla fine, con il fiato ancora grosso.
Lei gli diede un lungo e pigro bacio, circondandogli il viso con i guanti che raramente si toglieva. I dadi di Thorn erano invece posati sul comodino, insieme all’orologio da taschino.
- Il fatto di averti – gli rispose. – Che mi basterai, sempre.
Thorn si chinò di nuovo su di lei, seppellendola nel calore della sua pelle, nell’oscurità del suo corpo, in quel luogo in cui c’erano solo loro e niente avrebbe potuto strapparli l’uno all’altra.
Quell’anfratto in cui c’era tutto quello di cui avrebbero mai avuto bisogno.
Anche un po’ di più.
 
 
 
 








Extra
Archibald non avrebbe voluto destare scalpore, per una volta nella vita. Avrebbe voluto andarsene silenziosamente, quasi senza essere notato, ma fu impossibile. Aveva preso dimora nella casa di Berenilde da quando erano tornati dal loro peregrinare alla ricerca di Terra d’Arco, ma trascorreva così tanto tempo in giro che si sarebbe potuto dire che la sua dimora erano le strade del Polo e il palazzo di Berenilde una specie di villa delle vacanze.
Aveva viaggiato, tra le rose dei venti, nelle nuove terre, aprendo e chiudendo scorciatoie, scoprendo nuovi passaggi. Quando tornava al Polo lo capivano tutti, perché una cosa in cui Archibald era bravo era quella di farsi vedere. Si poteva dire che avesse avuto una vita piena e felice, anche se breve.
Ma non sarebbe stata la verità.
La sua ora giunse dopo tre anni dal loro ritorno al Polo, più di quanto lui e Ofelia si sarebbero aspettati. Arrivò in casa di Berenilde con l’aria affaticata che celava a stento dietro la facciata indolente e scanzonata. Si ritirò in camera sua, e non ne uscì più.
Fu Ofelia a rendersi conto di quanto era grave il suo stato, entrando in camera sua senza permesso. Aveva uno strano presentimento, e gli oggetti fuori dalla camera di Archibald le avevano lanciato piccoli indizi che lei era solo stata lenta a cogliere.
Achibald scottava di febbre e sul suo volto era dipinta la sofferenza più estrema. Il cappello sbrindellato giaceva per terra, abbandonato. Ofelia aveva subito allertato tutti e fatto chiamare un medico. La situazione era risultata grave quando Archibald non aveva nemmeno provato ad opporsi.
Il dottore aveva confermato con sguardo afflitto la diagnosi: il male era incurabile e non gli restava molto da vivere. La zia Roseline, Berenilde e Ofelia fecero a turno per vegliare su Archibald, che alternava medicine narcotiche a lunghi sonni e rimaneva quindi cosciente sempre meno.
Le ultime parole che pronunciò le disse ad Ofelia, un pomeriggio dopo aver ricevuto la visita di Renard, Gaela e dei loro tre figli: Mime ed Eulalia i gemelli, Ildegarda la terzogenita. Archibald sorrise quando li vide allontanarsi dopo averlo salutato per quella che sarebbe stata l’ultima volta.
- Li invidio. Invidio pure voi, moglie di Thorn, per quello che io non ho mai potuto avere.
Ofelia si bloccò con le mani guantate strette attorno allo straccio che usava per tamponare la fronte bollente di Archibald.
- Come?
Archibald tossì. I capelli biondi, un tempo così fluenti e morbidi, erano sudati e spettinati, il volto su cui campeggiava una corta balba incolta era emaciato, e quegli occhi azzurri che avevano catturato il cuore e l’ardore di così tante fanciulle erano appannati.
- Una famiglia. Non ho mai potuto averla.
Ofelia si mosse per posargli sulla fronte lo straccio, accarezzandogli i capelli.
- Non avete mai voluto averla. Sono certa che moltissime signorine, di buona famiglia e non, sarebbero state disposte a passare sopra i vostri precedenti per sposarvi.
Archibald rise, o forse tossì di nuovo. – Appunto per questo non mi sono potuto sposare.
- Non capisco… - mormorò Ofelia, china su di lui per sentire meglio quella voce flebile che aveva perso tutto il suo fascino.
- So che molte sarebbero state disposte a sposarmi. So anche che molti mi considerano un libertino senza cuore, ma proprio perché ne ho uno non mi sono mai sposato. Avete idea di come debba sentirsi una vedova che ha amato ardentemente il marito, Ofelia?
Non erano molte le volte in cui Archibald l’aveva chiamata per nome, e fu quello, più di tutto, a stringere lo stomaco di Ofelia. Non sapeva cosa si provasse; lei era rimasta senza Thorn per quasi tre anni, ma prima di quei tre anni, nonostante l’amore che provavano l’uno per l’altra, non erano mai stati intimi e non avevano accettato del tutto il fatto di essere sposati. Pensare a come si sarebbe sentita se non fosse riuscita a tirarlo fuori dallo specchio le risultava difficile. Ma immaginare come dovesse essere vivere senza di lui da quel momento in poi diventava straziante. Thorn era tutto ciò che aveva, tutto ciò che voleva.
- Non vi siete sposato perché sapevate di essere malato?
Archibald annuì. – C’era una ragazza, una volta. Io avevo diciassette anni, lei quindici. L’ho amata come non ho mai amato nessuno per due lunghi anni, e pensate che non ho mai avuto nemmeno il coraggio di sfiorarla. Mi sembrava troppo preziosa per rovinarla. Speravo di allontanarla con il mio atteggiamento da seduttore, cercavo di dimenticarla concedendomi ad altre donne. Non c’era verso di togliermela dalla testa: la vita che avremmo potuto costruire, i figli che avremmo potuto avere… e che io avrei dovuto abbandonare prematuramente. Ho meno di trent’anni, Ofelia, e lo stesso mi meraviglio di essere durato così a lungo. Non potevo farle questo.
Ofelia gli afferrò la mano, cercando di trasmettergli conforto con quella stretta. Si morse il labbro per non piangere.
- Voi sapete cosa significa non poter realizzare una cosa naturale come questa, una famiglia. Ma almeno voi avete Thorn. Con quale coraggio avrei potuto sposarla, per poi lasciarla sola a crescere i miei figli in un’ambiente corrotto come la corte del Polo, in mezzo alle mie sorelle gelose e agli intrighi che sono brave quanto me a tessere? Mi sono dato alle gozzoviglie nel tentativo di allontanarla, e lei finalmente si è decisa a sposare un brav’uomo. Nemmeno una delle donne con cui sono stato è riuscita a lenire questo dolore.
Ofelia tirò su col naso. – Siete stato forte, Archibald. Siete stato coraggioso.
Lui sbuffò una risata affatto divertita. – A cosa è servito? Morirò solo e odiato da tutti. Verrò dimenticato velocemente così come mi hanno rimpiazzato le mie sorelle.
- Non è vero – asserì Ofelia duramente, più di quanto avrebbe voluto. – Non è vero. Noi non vi dimenticheremo. Non io, non Thorn, che non potrebbe scordarvi nemmeno se lo volesse, né Berenilde, Renard e Gaela, e soprattutto non Vittoria, che è innamorata del suo padrino.
Archibald sorrise quando Ofelia nominò la sua figlioccia.
- Avrei tanto voluto una figlia come Vittoria.
Ofelia non demorse, voleva che ad Archibald entrasse bene in testa il concetto che stava cercando di trasmettergli. – Io non posso avere una famiglia mia, eppure ne ho una più grande che compensa. Ho Thorn, ma ho anche Vittoria, i miei parenti su Anima, Renard, amici sparsi su più arche. La vostra famiglia vi ha abbandonato, ma talvolta i legami che stringiamo al di fuori di quelli sanguigni sono quelli più duraturi. Avete lavorato per anni al fianco di Renard e Gaela, e il fatto che vengano ancora a trovarvi significa che, al di là delle battute sul vostro conto e delle rimostranze, ci tengono a voi. Tutti ci teniamo a voi, perché siamo noi la vostra famiglia.
Archibald sorrise di nuovo. – Sono contento di avervi incontrato, moglie di Thorn. E di non avervi deflorato la prima volta che ci siamo incontrati -. Ofelia avvampò. – Come la mia adorata, anche voi vi siete dimostrata troppo preziosa per potervi raggirare. Abbiamo vissuto una bella avventura insieme. Davvero una bella avventura. Vi chiedo scusa. E vi ringrazio per aver creduto in me come persona, e non come influente membro della Rete. Ho vissuto come ho potuto per il breve tempo che mi è stato concesso infischiandomene delle convenzioni, lo ammetto. Eppure, per quanto si possa cercare di vivere senza creare dei legami, la solitudine è la malattia peggiore. Grazie per essere stata una di quelle persone che soffriranno quando me ne andrò.
Ofelia fu grata alla sciarpa quando le tolse gli occhiali per pulirglieli. Le lacrime le avevano appannato le lenti, e il grigio-azzurro malinconico del suo umore tingeva tutto di tristezza.
- Così è la vita. Il fatto che qualcuno soffra significa che avete lasciato un segno, e che avete fatto del bene. Quando giunge il proprio momento è impossibile andarsene senza che nessuno ne rimanga colpito.
Archibald scosse leggermente le spalle, poi tossì di nuovo.
- Non soffrite troppo a lungo. Prendetevi una bella notte con vostro marito, e suggerite lo stesso alla meccanica e al sindacalista. Una buona notte di… - un accesso di tosse coprì le sue parole, che Ofelia colse lo stesso. Gli occhiali si tinsero di rosso, invece che di blu. – …guarisce sempre tutto. Almeno per un po’, ma sono certo che quando si ama la persona con cui lo si fa, l’effetto sia permanente. Spero che a quei due scappi un altro bambino. Lo augurerei anche a voi, se fosse possibile. Vi prego, salutatemi tutti.
Ofelia gli asciugò il viso accaldato. – Non dite così, Archinald. Non è ancora finita.
Lui sorrise. – Non ancora, no. Ma non ho più nulla da dare. Potrei vedere Vittoria?
Ofelia andò a prendere la figlioccia, che si fiondò a letto accoccolandosi vicino ad Archibald. Per una volta non parlò molto, rimase zitta com’era stata per i suoi primi tre anni di vita.
Archibald la osservò sorridendo, mentre Vittoria ricambiava il suo sguardo, in modo innaturalmente docile per una bambina piena di energie come lei. Gli accarezzò il viso quando vide che stava per addormentarsi, e Archibald si lasciò sfuggire una lacrima.
Non si svegliò più.
 
Il funerale fu organizzato da Ofelia e Thorn in persona, e fu sobrio, sobrio come Archibald non era mai stato, ma come Ofelia sapeva che avrebbe voluto essere. Parteciparono tutti i membri della Rete, ma ad occupare le prime file dell’edificio in cui venne celebrata la funzione sedettero le persone che lo avevano conosciuto, apprezzato, detestato e amato davvero: Ofelia, Vittoria, Berenilde, Roseline, Renard, Gaela… e Thorn.
Il suo cappello venne depositato sulla tomba e lì fissato. Sembrava in attesa di essere colto e indossato, come Archibald faceva sempre, ma nessuno avrebbe potuto portarlo con più fierezza.
Stavano per tornare a casa quando Ofelia vide in disparte una figura ammantata di nero. Aveva un cappuccio calato sulla testa, ma alcuni ciuffi di capelli biondi sfuggivano dal riparo. Quando si voltò Ofelia riuscì a vedere chiaramente il suo viso: era una giovane donna, poco più grande di lei, bellissima. Piangeva. E si teneva la pancia tonda con una mano. La guardò finché non ne incrociò lo sguardo. Le rivolse un piccolo sorriso e si toccò il cuore.
La donna sembrò quasi annuire prima di andarsene.
Ofelia strinse il braccio di Thorn. Se c’era una cosa che poteva dire con certezza, era che lei avrebbe preferito soffrire la mancanza di Thorn dopo una vita piena di amore e compagnia che non soffrire a causa della sua mancanza da principio. Soffrire per aver vissuto qualcosa di meraviglioso che non soffrire per essersela negata. Archibald aveva avuto coraggio, era stato forte, altruista, ma a che prezzo? L’amore non si cancella da un giorno all’altro, e forse la sua amata avrebbe preferito piangere ciò che era stato, invece di ciò che non aveva mai potuto essere.
O forse no. Avrebbe preferito avere un figlio e perderlo, o non averlo affatto?
Intrecciò le dita con quelle del marito e si sentì scaldare dentro, persino quando lui le lanciò un’occhiata tagliente. Non gli piacevano i contatti in pubblico, tanto più se circondati dai giornalisti. Ad Ofelia non importava, non in quel momento. Lei aveva la persona che amava al fianco, e si augurava che la cosa potesse durare ancora a lungo.
La morte di Archibald, contrariamente a quanto lui si aspettava, venne pianta a lungo, e al Polo venne istituito giorno di lutto quello della sua dipartita. Ogni anno veniva celebrato, per il suo contributo a creare qualcosa di meglio, non per le sue scappatelle.
E nessuno, mai, lo dimenticò, tra coloro che più avevano lavorato al suo fianco.
Del resto, come avrebbero potuto, quando il quarto figlio di Renard e Gaela portava il suo nome?
  
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