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Autore: Shadow writer    31/10/2020    5 recensioni
In una metropoli urbana dominata da corruzione e giochi di potere, una giovane donna cerca di farsi spazio attraverso strade poco lecite.
Dopo gli ultimi eventi, la duchessa si trova alle strette e la posta in gioco si fa sempre più alta: il potere e le persone che ama.
Quello che non sa, è che qualcuno le sta alle calcagna, impaziente di vederla crollare. Ma come può combattere un nemico invisibile?
Dalla storia:
“Sentì un fermento nel suo stomaco e una sensazione di ebbrezza che le andò alla testa.
«Sei fortunata» replicò e si passò la lingua sulle labbra, come assaporando quel momento. «Si dà il caso che concedere favori sia la mia specialità».”
Genere: Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La duchessa '
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Conseguenze
 
 

 
Gabriel si rigirò tra le mani il foglio rosa su cui la scrittura svolazzante di Tracy aveva con cura segnato il nome: “Emily Rodak”, seguito da un indirizzo della periferia di Tridell. 
Fuori dal taxi, i grandi palazzi del centro avevano lasciato posto a condomini rettangolari o catapecchie in rovina. Sull’altra corsia non scorrevano più berline nere, ma auto bottate e vecchi motorini. 
Il taxi si fermò tra due edifici in mattoni che una volta dovevano essere stati rossi, ma l’inquinamento li aveva tinti di un colore grigiastro. Gabriel ricontrollò l’indirizzo che aveva tra le mani. Quando Tracy gli aveva teso il foglietto con gli occhi brillanti, lui si era per un istante chiesto se si dovesse sentire in colpa per aver manipolato la giovane ad accedere al registro delle adozioni del centro dove lavorava. Era stato così convincente che lei si aspettava ancora di essere invitata ad un altro appuntamento. 
Il taxista gli riferì il prezzo e Gabriel abbandonò ogni senso di pentimento. La sua testa era tornata concentrata su un unico obiettivo. A malincuore tese delle banconote all’autista e si appuntò mentalmente che avrebbe dovuto presentare il conto all’uomo barbuto del pub. La busta che gli aveva fornito qualche giorno prima era già diventata parecchio più leggera e molti di quei soldi erano stati spesi per portare avanti le sue ricerche.
Dopo aver pagato, scese dal taxi e mentre quello ripartiva, si prese un attimo per studiare il condominio. Una piccola scala scrostata conduceva alla porta d’ingresso e lì accanto un uomo in canottiera, nonostante il freddo invernale, stava fumando con aria distratta.
Quando Gabriel si avvicinò, l’uomo lo seguì con lo sguardo, ma non si mosse. Lo osservò mentre il ragazzo cercava il nome “Emily Rodak” tra quelli elencati sul citofono, invano. Alla fine, si decise a suonare quello dell’appartamento 24, come era indicato sul foglietto rosa.
La porta del palazzo si aprì vibrando e Gabriel ne approfittò per infilarsi all’interno. Salì lentamente le scale, disseminate di volantini stropicciati e borse di plastica. Quando raggiunse il quarto piano – con il fiato corto – notò che la porta dell’appartamento 24 era socchiusa.
Si avvicinò e suonò il campanello, cercando di sbirciare all’interno. La porta si spalancò, rivelando una donna di mezz’età dai capelli scuri raccolti in una coda disordinata. Indossava un top striminzito e un paio di pantaloncini corti e attaccato alla sua gamba stava un bimbetto con un ciuccio in bocca.
«Tu non sei John» gli inveì addosso la donna.
«No, sto cercando Emily Rodak».
«E allora cosa ci fai davanti alla mia porta?» gridò lei, gesticolando. «Cosa vuoi da me?»
Gabriel fece un passo indietro, intimorito. Cercò di valutare rapidamente cosa fare. Le informazioni che gli aveva dato Tracy erano sicuramente corrette, ma quella donna non sembrava conoscere la madre di Noah.
«Insomma, Ali, lascia in pace questo povero ragazzo» commentò una voce dalle scale ed entrambi si voltarono.
Una vecchia signora stava salendo, con una mano aggrappata al corrimano e una che reggeva una grossa borsa della spesa. 
«È lui che è entrato spacciandosi per John!» gracchiò Ali.
«Non mi sono spacciato per nessuno» protestò Gabriel mostrando le mani in segno di difesa. «Sto cercando Emily Rodak, credevo abitasse qui.»
La vecchia raggiunse l’ultimo gradino e si fermò per riprendere il fiato. Posò la borsa a terra e raddrizzandosi si rivolse all’altra donna: «Visto, Ali? Ora è tutto risolto.»
Ali lanciò ad entrambi uno sguardo poco convinto, poi sbuffò e sbatté la porta.
«Io… mi dispiace se ho creato qualche problema» farfugliò Gabriel sfoderando lo sguardo più innocente che sapesse simulare. Guardò la donna, poi si allungò per sollevare la borsa al posto di lei.
«Lasci che l’aiuti» le disse e lei gli rivolse un sorriso riconoscente.
«Quindi cerchi Emily?» gli domandò e Gabriel non riuscì a nascondere il proprio interesse.
«Sì, la conosce?»
La donna cercò nella giacca le chiavi di casa e si avvicinò alla porta di fronte a quella in cui era scomparsa Ali.
«La conoscevo. Onestamente, non credevo che avrei mai sentito quel nome mai più.»
Fece scattare la serratura e aprì la porta.
«Perché?»
La donna si voltò e lo squadrò.
«Ho ricevuto da dei parenti l’incarico di rintracciarla» si giustificò Gabriel e la vecchia parve immediatamente convinta dalle sue parole, perché gli sorrise e gli chiese con gentilezza di portare in cucina la borsa della spesa.
«La mia schiena non è più quella di una volta» si giustificò e Gabriel rise: «Tutto quello che le serve.»
Quando ebbero finito di sistemare i prodotti nella piccola cucina, la donna gli offrì un tè per sdebitarsi e lui accettò con simulato entusiasmo.
«Emily, Emily…da dove cominciare?» commentò lei sedendogli di fronte, con la tazza tra le mani.
«Sa dove posso trovarla?»
La donna scosse il capo, facendo schioccare la lingua.
«Da quando se n’è andata, anni fa, non l’ho più rivista.»
Tra di loro calò il silenzio. Gabriel valutò se uscire dalla casa, dato che la donna non sembrava poterlo aiutare, ma prima che giungesse ad una decisione, la vecchia riprese a parlare.
«Emily era una povera ragazza, sai? Non aveva nessuno al mondo da quando sua nonna se ne era andata. Eppure, c’era qualcosa in lei, una sorta di luce interiore che la faceva sembrare diversa da tutti gli altri disgraziati che vivono in questo palazzo.»
Gabriel non parlò, ma prese un sorso del suo tè. Era ancora bollente e si scottò la lingua, ma nascose una smorfia dietro alla tazza, in attesa che la donna riprendesse a parlare.
«Ero pronta a scommettere che lei ce l’avrebbe fatta a lasciare la periferia e a diventare qualcuno in città, soprattutto dopo che si è trovata quel ragazzo.»
«Quale ragazzo?»
Gabriel ipotizzò che se non poteva rintracciare Emily Rodak, avrebbe potuto seguire tutte le tracce che portavano a lei.
La donna fece un gesto con la mano: «Un ragazzo alto, biondo, bello come un divo. Ti assicuro che non ho mai capito come uno come lui fosse finito in una topaia del genere. Quel ragazzo era nato ricco, si vedeva da miglia di distanza.»
«Si ricorda il suo nome?»
La vecchia corrugò la fronte e rimase in silenzio per qualche istante, pensierosa. Si picchiettò sulla tempia: «Mi dispiace, ma anche la mia memoria non è più quella di una volta.»
Lui le rivolse un sorriso tirato. «Non c’è un problema. Quindi loro due stavano insieme?»
La donna annuì e sorrise. «Sì, e come erano innamorati! Sempre insieme, sempre sorridenti e gentili! Non avresti potuto trovare coppia più felice in tutto il quartiere. Ancora non capisco perché lui sia scomparso».
Gabriel sbatté le palpebre e ripeté: «Scomparso?»
Lei fece un cenno assenso e mescolò il suo tè con il cucchiaino. «Un giorno era qui ad aiutarmi con le faccende di casa e il giorno dopo non c’era più. Emily ha sofferto tanto tanto. Non è più stata la stessa da allora e poi se ne è andata anche lei».
«Se dovessi continuare a cercarla, dove potrei recarmi?» tentò lui e la donna scrollò le spalle, poi ci pensò un attimo e si corresse: «Ricordo che spesso andava a trovare la nonna al cimitero. Magari lì sapranno dirti qualcosa di più.»
Gabriel guardò la sua tazza. Era ancora mezza piena, ma sentiva che quella donna non aveva più nient’altro da dirgli. Se si affrettava forse sarebbe riuscito ad andare al cimitero se nessuno lo richiedeva altrove. Sapeva di non potersi assentare troppo a lungo dal palazzo.
Stava per congedarsi dalla vecchia, quando lei esclamò: «Oh, aspetta un attimo!»
Si alzò in piedi e lo lasciò da solo nella piccola cucina. La sentì rovistare nella stanza accanto, poi tornò indietro con qualcosa di piccolo e bianco tra le mani.
«Questa l’avevamo scattata a Natale, quasi me l’ero dimenticata. Magari ti può aiutare.»
La donna gli tese una polaroid che ritraeva lei stessa abbracciata ad una giovane ragazza. Gabriel si sentì raggelare. 
«Questa è Emily?» chiese, come per assicurarsi di non sbagliare.
La donna annuì, sorridendo e lui tornò a guardare la fotografia, anche se gli era bastata una semplice occhiata per riconoscere il volto della duchessa.
 
 
 
***
 
 
 
Alex si svegliò quando un fascio di luce calda, filtrando dalle veneziane, gli colpì il volto. Sospirando, si stiracchiò leggermente e si accorse di essere solo nel letto. Di scatto spalancò gli occhi e si mise seduto, mentre metteva a fuoco la piccola stanza della pensione. Le immagini ondeggiarono un poco davanti ai suoi occhi e la testa gli pulsava come a ricordargli di tutto il vino che aveva bevuto la sera precedente. Stava ancora allineando i ricordi della serata, quando la porta del piccolo bagno, di fronte al letto, si aprì e ne emerse Emily. Era già vestita di tutto punto, con il cappotto sulle spalle e quell’aria da duchessa dipinta sul volto.
«Buongiorno» gli disse con disinvoltura, mentre si piegava a raccogliere la camicia di Alexander da terra e gliela lanciava. «Ti consiglio di vestirti in fretta. È il momento di tornare a casa.»
Lui prese la camicia tra le mani, ma rimase a fissarla ancora per qualche secondo. Emily sollevò le sopracciglia, interrogativa.
«Quindi questo era il tuo piano dall’inizio?» le chiese.
Se possibile, le sopracciglia di lei si sollevarono ancora di più, passando dall’interrogativo all’allibito.
«Come scusa?» gli diede l’opportunità di riformulare.
«Appena hai visto l’occasione in questa pensione, l’hai colta. Cosa vuoi? Distruggere il mio matrimonio? Il tuo piano era provocarmi sensi di colpa nei confronti di mia moglie?»
Emily rimase immobile, con gli occhi sgranati e la voce muta. Il silenzio che calò tra loro era carico di tensione.
«Alex, hai fatto tutto da solo» mormorò poi, sottovoce e con le labbra che tradivano un leggero tremolio.
Lui fece una smorfia: «Risparmiami la recita, Em. Con te nulla succede per caso, ma tutto è frutto di un lucido piano programmato in anticipo. Ti aspetti che io creda che non l’avevi previsto?»
Emily cominciò a respirare a fatica e la vista le si appannò. 
«Come avrei potuto prevedere il temporale? E l’albero sulla tua auto?» replicò con un filo di voce.
Lui scrollò le spalle, poi prese ad infilarsi la camicia: «Come ho detto, hai colto l’occasione.»
La ragazza si voltò, rovente in viso, afferrò il bicchiere d’acqua sul tavolo vicino a lei e lo lanciò verso Alexander, contenuto e contenitore.
«Sei uno stronzo!» gli gridò a gran voce e, mentre lui le inveiva contro di risposta, dicendo che era una pazza, si lanciò fuori dalla porta e poi giù dalle scale.
Fuori dalla pensione c’era già il suo autista ad attenderla. Lo aveva chiamato appena sveglia con l’intenzione di tornare in centro – insieme ad Alexander – alle prima luci dell’alba.
«Dove andiamo, signora?» le chiese l’autista.
«A casa» rispose lei. «Ti prego, portami a casa.»
Non appena l’auto si mise in moto, Emily chiuse lo sportello che la metteva in comunicazione con il guidatore, e si sfregò furiosamente le guance per cancellare le lacrime.
 
 
Quando raggiunse il palazzo, le lacrime erano ormai secche, ma un generale senso di tristezza e dolore le artigliava il petto. Riusciva ancora a sentire il tono accusatorio di Alexander e vedere la sua espressione di condanna. Lui la disprezzava. Aveva costruito la figura della duchessa per gli altri, per tutti quelli che non l’avevano conosciuta prima, ma non credeva che anche l’uomo che amava sarebbe rimasto accecato da quell’immagine costruita.
Entrò nel palazzo strascicando i piedi, stanca. Aveva dormito sì o no un paio di ore e tutto ciò che voleva in quel momento era abbracciare Noah e dirgli che le era mancato, ma era ancora presto e il bambino stava dormendo.
Se c’era qualcuno che poteva essere sveglio a quell’ora, era Roman. Emily si stava dirigendo verso la camera di lui, quando notò che la porta della libreria era aperta. Si affacciò sulla soglia e lo vide in piedi vicino alla finestra, approfittando della luce naturale per leggere alcuni fogli che aveva tra le mani.
Lei bussò sulla porta e il ragazzo distolse gli occhi dalla lettura per portarli su di lei. Le rivolse uno stanco cenno di saluto.
«Non hai idea di cosa sia successo ieri sera» esordì Emily, entrando nella stanza e lasciandosi cadere sul divano che stava di fronte al camino.
«Ora non ho tempo» replicò lui, mentre riordinava i fogli che aveva in mano con altri che aveva posato sul davanzale.
«Non hai tempo?» ripeté lei sorpresa. «Negli scorsi giorni ti ho malapena visto.»
Lui alzò gli occhi al cielo. «Ti risulterà difficile crederlo, ma non tutto in questo mondo ruota intorno a te, Emily.»
Con più ore di sonno e un risveglio meno traumatico, la ragazza avrebbe di certo avuto più autocontrollo, ma in quel momento non riuscì a ragionare con freddezza.
«Ironico che tu lo dica nel mio palazzo» replicò a gran voce, scattando nuovamente in piedi. «Mentre indossi gli abiti di seta che io ti ho procurato»
«Dio, sei così stronza a volte» ribatté lui irritato.
Emily assunse un’espressione sorpresa, poi fece una risatina: «Be’, sai dov’è la porta. Se questo posto non ti è più gradito, non sarò certo io a trattenerti.»
Roman la guardò un istante, come incerto, poi sbuffò e lasciò a grandi passi la libreria. 
Non appena fu uscito, la ragazza si sentì come se con lui se ne fosse andato anche tutto l’ossigeno della stanza. Crollò nuovamente sul divano, priva di forze, e chiuse con decisione gli occhi come nella speranza di svegliarsi da quel brutto sogno.
 
 
 
***
 
 
Isabel Lopez sentì la porta della centrale chiudersi alle sue spalle e improvvisamente la stanchezza accumulata nelle ore precedenti le cadde addosso. Aveva lavorato tutta la notte seduta alla sua scrivania e il solo pensiero la fece sbadigliare nuovamente.
Si diresse verso la propria auto e, mentre si avvicinava, notò che il muso si piegava in una forma diversa dal solito. Girò intorno all’auto e imprecò a denti stretti. Sopra alla ruota destra, la carrozzeria era completamente ammaccata, rendendo poco sicuro utilizzare la vettura. Qualcuno l’aveva colpita e non aveva avuto neanche la decenza di lasciare un biglietto.
Isabel sarebbe potuta tornare nella centrale e chiedere le riprese delle telecamere di sorveglianza del parcheggio per identificare il colpevole, ma era troppo stanca e non si sentiva pronta ad affrontare tutto questo. Rimandò il processo a dopo la sua dormita e si diresse indolente verso la fermata dell’autobus. 
Cercò di rimanere sveglia mentre attendeva sotto alla pensilina e, quando il suo bus arrivò, crollò sul primo sedile disponibile. Decise di mandare un messaggio a Joey della sorveglianza, per chiedergli di controllare i video di quella notte e di prepararle quello in cui la sua auto veniva colpita, in modo da poterlo visionare più tardi.
Aveva appena premuto “invio”, quando il suo cellulare vibrò, segnalando l’arrivo di un nuovo messaggio. Era sua madre, che la informava dell’aumento del prezzo mensile per le cure di suo fratello. Isabel strabuzzò gli occhi alla vista della nuova cifra. Ebbe un capogiro nel constatare che ora metà del suo stipendio sarebbe andato all’ospedale in cui si trovava Juan. 
Stava pensando che la vita aveva proprio uno strano senso dell’umorismo quando Joey le rispose che aveva controllato le riprese e l’auto che aveva colpito la sua era un SUV di cui non si riusciva a leggere la targa. Sarebbe stato più difficile risalire al proprietario, ma Isabel confidò nelle proprie abilità investigative. In ogni caso, questo non ci voleva, non nel pieno di un’indagine.
Scese dall’autobus e dovette percorrere quasi un miglio per raggiungere il palazzo in cui si trovava il suo appartamento. L’ascensore era ancora rotto, così fu costretta salire a piedi fino all’ultimo piano. 
Aveva lasciato le tapparelle abbassate e, quando entrò nell’appartamento, lo trovò immerso nella penombra. Si tolse la giacca e si diresse verso il piccolo salotto. Accese la luce, per poco non lanciò un grido. 
Seduto sul suo divano, impeccabile nel completo dalle stampe barocche oro e scarlatte, stava Roman Deleon.
Isabel si paralizzò sulla porta che separava il corridoio dal salotto. Sapeva che se si fosse allungata sarebbe riuscita a raggiungere il mobile in cui aveva riposto la pistola d’ordinanza.
Roman la guardava impassibile, con un sorriso appena accennato sulle labbra morbide. Se ne stava seduto comodamente tra i cuscini, con le braccia aperte poggiate sullo schienale.
«Vengo con buone intenzioni» le disse, senza scomporsi.
«Sei indagato per omicidio e commetti un reato di infrazione. Non una mossa intelligente» replicò lei, cercando di apparire disinvolta mentre tutto il suo corpo era pronto a scattare verso la pistola.
«Ho una proposta per te e avrai la facoltà di scegliere se è intelligente o meno» ribatté lui. Lentamente si portò una mano verso la giacca e le mostrò l’interno come per metterlo bene in vista. Dalla tasca interna estrasse una busta e la posò sul tavolino di fronte a lui. Compì tutto con grande cautela, come per non allarmare la donna.
«Che cos’è?» chiese lei in tono duro.
Roman posò una scarpa lucida sul bordo del tavolino e lo spinse per avvicinarlo alla donna.
«Un assegno» rispose.
Lei lo studiò per qualche secondo, poi, con aria circospetta, avanzò quando bastava per afferrare la busta, poi retrocedette fino alla porta. Aprì la busta e scoprì che Roman non aveva mentito: si trattava di un assegno la cui cifra le fece girare la testa.
«Irrompi in casa mia e cerchi di corrompermi» replicò, stringendo gli occhi. «Continua a sfuggirmi come tutto questo possa essere intelligente».
Roman le rivolse un sorriso affabile, ma che non raggiunse i suoi occhi color nocciola.
«Avrei potuto mandare qualcuno a minacciarti, ma non è quello che voglio. Quell’assegno è un’offerta di pace. Non vorrai far mancare al povero Juan le cure di cui ha bisogno?»
A sentirlo nominare il fratello, Isabel si raggelò. Improvvisamente ripensò alla propria auto, colpita da un SUV non ritracciabile e al fatto che l’incidente fosse accaduto lo stesso giorno in cui avevano aumentato il costo delle cure di Juan. Non era una coincidenza.
«Tu» sputò, in tono accusatorio.
Roman non si scompose. «Quello che ti chiedo è semplice, Isabel. Chiudi il caso, lascia cadere le accuse.»
Lei lo fissò con odio. Ormai avrebbe voluto avventarsi contro di lui e prenderlo a pugni, anche senza bisogno di ricorrere alla pistola. Odiava la corruzione, odiava la disonestà e odiava il fatto di star veramente considerando l’offerta di Roman Deleon. Avrebbe voluto prendere l’assegno che ancora teneva tra le mani e stracciarlo di fronte al volto imperturbabile di lui, ma la verità era che quella cifra avrebbe risolto molte cose. Avrebbe pagato l’affitto a sua madre, avrebbe coperto le cure di Juan per un anno, le avrebbe permesso di riparare la sua auto…
Strinse i pugni, stropicciando un poco quel pezzo di carta.
Roman si alzò in piedi, senza fretta, e le mostrò le mani, come per dimostrarsi innocuo.
«Ti lascio un giorno per pensarci. Dopodiché non posso assicurarti che non compariranno nuovi danni e nuovi costi»
Isabel strinse i denti e lo guardò avvicinarsi. Roman era più alto di lei e pesava decisamente di più, quindi un eventuale scontro fisico non sarebbe stato alla pari, sebbene lei sapesse come difendersi. L’altro però non pareva per nulla intenzionato a farle del male.
Isabel arretrò nel corridoio, verso la cucina, e Roman attraversò la soglia dirigendosi verso l’ingresso. Le chiavi erano ancora inserite nella serratura, così non ebbe problemi a farla scattare. Non uscì subito, ma lasciò la porta chiusa alle proprie spalle e si voltò verso la donna.
«Se la cosa può essere di una qualche consolazione, sono davvero innocente. Non ho ucciso io Andrew Bellingham.»
Isabel non parve colpita, anzi, continuò a guardarlo, poco convinta. Roman sospirò: «Tutto questo – fece un gesto vago con la mano – le minacce, l’irrompere in casa, non è il mio stile e mi dispiace, ma non avevo scelta.»
Lei fece una smorfia. «Lo stai dicendo perché sai che le prove ti incastrano. Ho ricevuto oggi i risultati dell’analisi del sangue e il DNA coincide con il tuo.»
«Che immagino ti sarai procurata durante quel giretto per il palazzo durante la festa» ribatté Roman e l’espressione sul volto di lei gli diede conferma delle proprie parole.
«Sì, il DNA coincide con il mio» constatò sospirando ancora, «ma non l’ho ucciso io. Non sono un assassino.»
Per un istante, Isabel parve convinta dalle sue parole perché una luce di incertezza brillò nei suoi occhi.
«Sembra quindi che tu sappia chi sia il vero colpevole» si affrettò a dire, mentre Roman posava la mano sulla maniglia per andarsene.
Lui tornò a guardarla, con gli occhi scuri indecifrabili.
Fece un cenno di assenso: «Sì, ma non ha importanza. Ormai è morto anche lui.»
«Lo hai ucciso tu?»
Un guizzo sul volto di Roman ne tradì l’irritazione.
«Come ho già detto» scandì con una certa durezza, «non sono un assassino.»
«Eppure il DNA coincide» Isabel non demorse.
Roman strinse le labbra al punto di farle impallidire, poi sbuffò: «Se ti fa sentire meglio, il DNA coincide perché Andrew Bellingham è stato ucciso da mio fratello. Gemello.»
Isabel sgranò gli occhi a quella rivelazione, incerta se crederci o meno.
«Rafael Deleon è morto sette anni fa» ribatté lei e fu il turno di Roman di dimostrarsi sorpreso, anche se era prevedibile che la detective avesse fatto ricerche sulla storia familiare degli indagati.
«Io sono Rafael Deleon» le disse con voce monocorde. «Non ero io a lavorare come portinaio da Bellingham, ma il vero Roman, mio fratello. L’unica persona al mondo a conoscere questa storia era Liliane Lefebvre, che, come certamente saprai, ha un buon motivo per avercela con me.»
Il giovane fece per andarsene, ma parve ripensarci ancora e si voltò verso Isabel.
«Ti ho raccontato questa storia per aiutarti a fare la scelta giusta. Non deludermi».
Le lanciò uno sguardo lungo e pesante e nessuno fiatò, dopodiché aprì la porta e se ne andò.









 







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