Fanfic su artisti musicali > EXO
Segui la storia  |       
Autore: moganoix    04/11/2020    0 recensioni
Kim Jongin, idol pentito in vetta alla sua carriera, in preda ai deliri causati dalla febbre alta, incontra Kyungsoo, senzatetto che bazzica nel piccolo quartiere di Seoul in cui abitano i suoi genitori, e decide di aiutarlo a cambiare vita a patto che il maggiore faccia lo stesso per lui.
.
!!! Ho iniziato a scrivere questa storiella nel lontano 2016, quindi quello è l'anno a cui in essa si fa riferimento, tutti i personaggi inoltre hanno la loro età reale ^^
.
Kaisoo + brevi accenni di Sulay
Enjoy ~
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: D.O., D.O., Kai, Kai, Lay, Lay, Suho, Suho
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Prologue
 
Kyungsoo osservava immobile le gocce rovinargli in faccia con schietta inerzia, non curandosi dei suoi vestiti fradici, del freddo, dei malanni, di tutto ciò che poteva scalfirlo. Era incrollabile, indistruttibile. Scrutava oltre la fitta cortina di una pioggia che avrebbe potuto fare concorrenza al diluvio universale, ma neppure lui sapeva bene cosa stesse fissando. Se lo era dimenticato, tutto risucchiato da qualche parte dentro di lui, in fondo. Erano mesi, forse anni, che non cercava speranze, sogni o qualsiasi cosa che non fosse legato, anche indirettamente, alla sfera sentimentale della sua mente. Aveva mai avuto una sfera sentimentale? Non lo sapeva. Forse. In ogni caso non necessitava più di possederne una. No, probabilmente l’unica cosa che stava cercando di distinguere in mezzo alla cupezza della pioggia era la sagoma di qualche passante occasionale che per pietà concedesse alcuni spiccioli a quel povero vagabondo, avvolto in un cappotto fatto di toppe e spazzatura che gli stava doppio, accucciato in un angolino. Ma non c’era nessuno, a Kyungsoo per un attimo dispiacque, quel giorno non aveva neanche racimolato il denaro necessario per una pagnotta, poi si ricordò di essere inscalfibile, e quelle rughe di rammarico che erano comparse sulla sua fronte scomparvero immediatamente, come se una mano invisibile le avesse distese a forza ed avesse ridonato la pace all’equilibrio creato dal serrato raziocinio del ragazzo. Si concesse un solo sospiro, non un’imprecazione, non un insulto, nessuno doveva capire che in quel momento Kyungsoo avrebbe potuto anche piangere, perché quel castello di vetro che era la sua stabile vita da sballato stava crollando, o almeno, lui credeva che stesse crollando. Meno soldi, meno cibo. Kyungsoo non rubava più, si sentiva stanco, terribilmente stanco. Ma tutto ciò non era comprensibile dagli immensi occhi del giovane, sembravano poter contenere il mondo, ed invece sbarravano l’ingresso a chiunque o qualunque cosa volesse chiedere ospitalità all’interno di essi. Poi, in quegli stessi occhi apatici si riflesse la figura longilinea di un altro ragazzo, alto, vestito bene. Sembrava piuttosto arrabbiato, quasi furioso, ululava qualcosa contro il vuoto. Kyungsoo avvertì in lontananza il rombo di un’automobile sgommare via, ma non ci dette peso. Il suo sguardo era incatenato al profilo scuro che si stava avvicinando con passi lenti, quasi insicuri. Strinse a sé la sua tavoletta di legno vuota, poi abbassò lo sguardo, non voleva farsi scoprire a fissare. L’altro gli giunse davanti, ed allora Kyungsoo poté vederlo meglio, gli sembrava di aver già incontrato il suo volto in giro, forse era famoso. Non che la cosa importasse più di tanto, anzi, probabilmente se era veramente un pezzo grosso l’unico motivo per cui lo stava squadrando era trovare il suo punto debole, per poi pestarlo senza motivo. Ovvio, gli era già successo. Ma se proprio ci teneva così tanto a riempirlo di botte, perché non si decideva?
Una voce calda e lievemente insicura sorpassò il fragore della pioggia: “Vuoi vedere il mondo dall’alto?”
Kyungsoo si ritrovò a rispondere: “E tu vuoi vederlo dal basso?”
 
L’esasperazione di Joonmyeon quella sera aveva toccato punti tanto estremi che ora lui stesso stava provando pena per quel piccolo Super Mario che continuava a cadere spudoratamente nelle piscine di lava di uno dei tanti Mondi presenti all’interno dell’omonimo videogioco. L’irritante musichetta di sottofondo proveniente dal malconcio Nintendo DS che da anni accompagnava le avventure del disgraziato idraulico suonava come una tortura alle orecchie del povero autista Kim, impegnato nella difficile guida di una costosa macchina nera vintage nel bel mezzo di quello che pareva il diluvio universale. Semplicemente, era un’ora e mezza che Joonmyeon conduceva il veicolo, tutt’altro che pratico, all’interno di una stupida tempesta d’acqua mentre il suo caro padroncino Kim Jongin, seduto comodamente sui sedili del vano posteriore della vettura, infradiciava di insulti quell’omino vestito di rosso che, poveretto, correva a più non posso, ma non riusciva proprio a sfuggire alla grinfie del magma ribollente. Forse era stupido e voleva farsi un bagno alle terme in un modo un po’ particolare, oppure, opzione completamente errata a detta di Kim Jongin, quello ritardato era proprio lo stesso ventiduenne seduto lì dietro, visto che non era in grado di premere il cosiddetto ‘pulsante A’ per far saltare Mario di piattaforma in piattaforma. Seriamente, dopo un’ora e mezza del genere, Joonmyeon aveva preso in considerazione l’idea di lasciare Jongin sulla vettura e rifugiarsi in qualche bar a prendere una cioccolata calda, senza pioggia, senza Super Mario, senza lava, senza quel noioso del suo padrone. E poi c’era la visuale. Un cieco ci avrebbe visto meglio di lui in quella bruma acquosa. Ma Joonmyeon non era assolutamente il tipo che si lamentava per tutto, assolutamente, solo un tantino… Va bene, sapeva di essere una persona lagnosa almeno quanto lo era Jongin, ma almeno non si metteva ad imprecare contro vari Mario vaganti che facevano bagnetti termali nei vulcani. In fondo tra i due c’era una sorta di rapporto amore-odio, un equilibrio alquanto strambo. Kim Joonmyeon, autista personale di Kim Jongin e in pratica la sua tata a tempo pieno, e Kim Jongin, idol emergente nel mondo dello spettacolo e come attore, piccola stella di una delle più importanti case discografiche di Seoul, eccellente ballerino e, tanto per completare il quadretto perfetto, pure bello abbastanza da far perdere la testa a migliaia di fan che aspettavano solo di potergli saltare addosso. A quel pensiero, l’autista sorrise. Chissà se tutti loro lo avrebbero ancora definito ‘figo’, ‘carino’ od ‘adorabile’ mentre, con le guance rosse, la fronte aggrottata, gli occhi colmi di esasperazione e la lingua che masticava ingiurie a manetta, se la prendeva con il suo DS. Alla fine voleva bene a Jongin come un fratello, aveva un carattere un po’ difficile da sopportare, ma alla fine, se si riusciva a dominare quella faccia ribelle che mostrava sotto il nome d’arte di Kai, si trasformava semplicemente in… in Kim Jongin, lo stesso disagiato che, in quel preciso istante, stava minacciando di dar fuoco alla console. Joonmyeon voleva quasi fargli notare che l’aria era troppo umida per poter far appiccare il fuoco, come se non ne avesse ancora abbastanza del vulcano.
Lasciandosi condurre dal filo dei suoi pensieri, l’autista seguiva con sguardo perso nel grigiore della foschia la strada principale che conduceva alla casa di Jongin. Una settimana di ferie trascorse con la famiglia per il suo giovane padrone, uguale a una settimana vuota di insulti, minacce, Super Mario e DS per lui. Si chiese se non si sarebbe annoiato a morte. Probabilmente sì, ma ci avrebbe pensato più tardi, ora doveva assolutamente far arrivare Jongin a casa prima che i genitori lo dessero per disperso. Mancava poco, doveva solo percorrere ancora una ventina di metri in rettilineo e girare a sinistra dopo l’angolo cieco che il muro portante di uno dei tanti grattacieli della città creava. Fermandosi allo stop prima di svoltare, Joonmyeon diede una rapida occhiata agli specchietti dell’auto e a quelli appesi lungo la strada per cercare di scorgere se qualcuno stesse arrivando dalla altre direzioni. Non pareva esserci anima viva, quando notò un qualcosa muoversi in uno di essi. Un bozzolo nero, troppo piccolo e bitorzoluto per essere un’automobile in lontananza. Allora parlò, rivolgendosi al giovane seduto nel vano posteriore: “Jongin, guarda qui, – ed indicò lo specchietto – secondo te è un animale?”
Jongin distolse finalmente lo sguardo dal DS, sporgendosi in avanti per vedere meglio il punto indicato da Joonmyeon e mugolando qualcosa che assomigliava molto ad un ironico ‘Quante volte ti ho già detto che non ti è permesso chiamarmi per nome, Hyung?’. Aguzzando gli occhi, riuscì ad intravedere la figura scura. Più che un animale sembrava una persona, probabilmente uno dei soliti vagabondi che chiedevano l’elemosina. Poi il giovane guardò fuori dal finestrino, provando a ricostruire la geografia del luogo in cui si trovava. Non doveva mancare molto per arrivare a casa sua. Riconobbe l’angolo cieco ed i due lampioni che gettavano una fiacca luce sui marciapiedi, ed allora si ricordò anche di lui, di quel giovane senzatetto che trascorreva le sue giornate rannicchiato con le ginocchia al petto, una tavoletta di legno a fianco, sulla quale, tra l’altro non era scritto nulla, ed un cappellino rosa da bambina con cui racimolava spiccioli. Non cambiava mai posizione, non si alzava, non si sdraiava, rimaneva immobile mentre trapassava i passanti con quegli occhi giganteschi e dannatamente vacui, spenti di un nero funereo, quasi chiusi alla realtà. O forse al sogno. Fatto sta che, prima ancora del provino che lo aveva portato al successo, a Jongin capitava spesso di passare di lì in bicicletta, o durante una passeggiata, nei bei pomeriggi quando ancora poteva definirsi un normale adolescente, e di vederlo sempre seduto nello stesso punto, munito del medesimo sguardo indagatore, tutti i giorni. Era da un po’ che non tornava più a casa, un anno almeno, anche a causa delle riprese in Giappone, e non aveva più avuto occasione di percorrere quella strada, ma voleva scommettere che quell’involucro scuro era proprio lo stesso ragazzo che osservava nei suoi tranquilli pomeriggi primaverili a tredici-quattordici anni. Non seppe il perché, ma Jongin si ritrovò a sorridere sotto i baffi davanti ad uno stranito Joonmyeon, il quale, non ricevendo alcuna risposta alla domanda espressa precedentemente, si limitava a fissare la gamma di espressioni che il suo caro padroncino aveva sfoderato nei dieci minuti nei quali non aveva staccato gli occhi da quel pallino nero.
“Lo conosci?” la voce di Joonmyeon fece riscuotere Jongin, che negò, forse troppo in fretta, con un cenno del capo.
“Okay, da quanto lo conosci?”
Joonmyeon era così, leggeva nel pensiero, a volte Jongin pensava sul serio che avesse poteri sovrannaturali, o almeno un grande fiuto nel capire ciò che la gente cerca di nascondere.
“Non lo conosco, Hyung. Semplicemente mi sono ricordato che, quando abitavo ancora in questa zona, c’era sempre un barbone che doveva avere circa la mia età seduto in quel punto preciso della strada. Ho semplicemente pensato che potesse essere lui.”
“Deve averti colpito molto…” disse l’autista con un ghignetto trattenuto. Jongin fece finta di non capire, emettendo un ‘Eh?’ stupito come risposta.
“Sì, doveva piacerti veramente tanto, se ti ricordi così bene di lui. Sai anche come si chiama per caso?”
Jongin avvampò, andò in palla, esplose, inveì contro il povero Hyung, si calmò un momento e riprese ad urlare, sovrastando il rumore del motore e lo scroscio di pioggia battente: “No, Hyung, non so come si chiami, e non lo voglio sapere! E poi, no, non mi piaceva!”
Joonmyeon non gli dette ascolto e, con occhi brillanti, continuò: “Che cosa carina, Jonginnie! E dimmi, da quanto ti piace? Pensavi a lui mentre eri via?”
Jongin lo trovò più inquietante di una sasaeng in quel momento, poi se ne uscì, vincendo l’imbarazzo iniziale, con un rocambolesco: “Joonmyeon! È solo uno stupido barbone! Uno che non ha saputo che farsene della sua vita ed ora aspetta che qualcuno continui a mandargliela buona affinché possa continuare a campare! Probabilmente non ha neppure uno straccio di diploma…”
“Okay, okay, ho afferrato il concetto. Sei proprio sicuro che sia lui? Insomma, potrebbe trattarsi di chiunque, non si riesce a scorgere il volto…”
“No, Joonmyeon,” Jongin roteò gli occhi “non so sei sia effettivamente lui! Ma sai che c’è? Sta letteralmente diluviando, io sono appena tornato dal Giappone, Super Mario non è capace a saltare e io vorrei tanto arrivare a casa incolume, quindi” e sottolineò con la voce il ‘quindi’ “perché diamine siamo fermi a questo maledetto incrocio a parlare di un qualche senzatetto che, tra l’altro, nemmeno conosco?”
Jongin manteneva un fittizio tono amichevole, accompagnato da un improvviso e, pensò l’autista, palesemente teatrale tic all’occhio destro. Joonmyeon si rese improvvisamente conto di star andando incontro ad un’atroce morte prematura, ma chiese comunque con espressione più seria: “Jongin, sinceramente, qualcosa doveva pur averti colpito di lui, di solito non ricordi per nulla la faccia di una persona di cui non sai neanche il nome…”
L’autista lasciò la frase in sospeso di proposito, affinché Jongin non potesse rispondere troppo obiettivamente ed omettere ciò che il maggiore voleva sentire.
“Io… forse la sua immobilità. Anni ed anni trascorsi a vederlo sempre nello stesso punto, senza spostarsi, senza lamentarsi, mentre guardava i passanti con quegli occhi scuri e maledettamente vuoti. In tutto quel tempo non l’ho mai visto giocare, mangiare, in effetti non l’ho mai visto in piedi. Non l’ho mai visto sorridere, sbadigliare, dormire, sorridere-”
“Hai detto due volte ‘sorridere’” lo interruppe Joonmyeon con tono quasi paterno e dannatamente dolce “e da quando sai come sono i suoi occhi?”
Jongin arrossì ancora, spalancando gli occhi e rendendosi conto delle parole che erano fuoriuscite dalla sua bocca senza avvisare prima il cervello, e Joonmyeon comprese dal suo colorito molto di più di ciò che avrebbe potuto ricavare da un normale terzo grado. Quest’ultimo stette un attimo in silenzio attendendo una risposta. “Allora, Jongin?” lo spronò, ottenendo una sottospecie di grugnito-mugolio come replica da parte dell’altro. “Che cosa?” disse ridacchiando divertito dall’improvviso imbarazzo dell’idol. Era uno dei vantaggi di conoscere anche Jongin, oltre che Kai. “Da quando mi sono fatto spillare anche io dei soldi” ripeté l’altro a voce tanto bassa da parere quasi un colpo di tosse del motore. Joonmyeon però allargò il sorriso, calmando momentaneamente i suoi istinti da fangirl.
“Ed in quel momento hai visto i suoi occhi…” riassunse quest’ultimo.
“Già…” concordò l’altro. Stettero in silenzio per attimi che parvero eterni, lo sbatacchiare solo delle gocce di piaggia che morivano schiantandosi sulla vettura scandiva un tempo irrisorio eppure quasi… chiarificante, Jongin lo avrebbe definito così.
Fu il maggiore a rompere la pace: “Sai, vero, che i tuoi non sono d’accordo?”
“Come dimenticare la scenata che avevano fatto di fronte a te scoprendo che eri, anzi, sei fidanzato con un altro ragazzo? Ci sono voluti mesi prima che capissero che non avevi una malattia contagiosa o qualsiasi altra cosa che la loro mente era stata capace di partorire…” dalle parole spinose di Jongin traspariva amarezza, ingannevole e dolente veleno che scioglieva nell’acido di un sentimento pericoloso, quello di cui aveva riempito fino all’orlo il rapporto con i genitori, un desiderio represso che spingeva dall’interno delle pareti del suo cuore, lacerandone il morbido tessuto. Un desiderio di libertà, rinchiuso a chiave e gettato in un’identità che piano piano stava scivolando via dalla pelle del ragazzo stesso, mentre Kai prendeva il sopravvento e salutava le folle urlanti, prigione sfrenata e passione sfumata. Jongin aveva trovato se stesso, e poi l’aveva perso, a causa di quelle due figure imponenti che avevano sempre torreggiato su di lui ed l’avevano protetto con la loro ombra, a causa di quei due avvoltoi che non gli avevano mai lasciato spiccare il volo da solo. Jongin era sempre stato loro succube e, anche se voleva loro bene, non voleva più costruirsi un cammino da star, sogno della più tenera età. Ma quando il suo corpo sinuoso da ballerino lo aveva inesorabilmente portato su un sentiero già battuto, la scalinata verso la gloria, i suoi avevano firmato senza esitazione in seguito ad uno stentato “Perché no?” pronunciato distrattamente guardando un film alla tv, a quindici anni. Di chi era la colpa? Non importava più, Jongin era Kai e basta, fine della favola. Il mondo di un idol faceva schifo, ma non poteva biasimare i suoi genitori per aver esaudito il suo desiderio di bambino di sette anni.
Joonmyeon notò quell’improvviso oscuramento negli occhi dell’amico. Voleva consolarlo, ma pensò che ogni parola fosse ormai superflua. Un’idea iniziò a balenargli un mente, e più ci rifletteva su, più pensava che quella fosse la volta buona che Jongin l’avrebbe ammazzato senza riguardi.
“Prendi un ombrello” enunciò l’autista, ricevendo un paio di occhi spalancati come risposta “Fallo.”
Jongin si tirò di nuovo indietro a sedere sui sedili posteriori, e nel tempo in cui cercava l’ombrello, Joonmyeon girò l’auto, facendola sbandare pericolosamente sull’asfalto bagnato, e accostò vicino al senzatetto. Senza esitare aprì la portiera e scese, correndo verso il lato in cui era seduto Jongin. Spalancò di botto lo sportello del veicolo e vi tirò fori Jongin, afferrandolo saldamente un braccio e scaraventandolo sotto la pioggia battente, munito solo di un misero ombrello che minacciava di lasciarsi trascinare via dal vento, librandosi come faceva Mary Poppins (ma senza Mary Poppins) e danzando il tip tap con il fulmini. Lasciò un Jongin strillante a dibattersi come un pulcino bagnato, mentre lui si fiondava di nuovo nel calore dell’automobile, prima che l’altro potesse raggiungerlo e risalire, e ripartì sgommando, ridendo mentre immaginava a tutti gli insulti che l’idol gli avrebbe rivolto una volta tornato indietro a prenderlo.
Jongin dal canto suo era molto più preso dallo sbraitare e dall’inveire per ridere. Si dimenava sotto la pioggia mentre combatteva strenuamente con il fragile ombrello, digrignando i denti a causa della particolare tendenza dell’oggetto a volersi girare a tutti costi al contrario. Vari ‘maledetto!’ fuoriuscivano dalla sua bocca mescolati ad altri insulti più coloriti come una cascata in piena. Si chiese perché mai facesse solo paragoni con qualcosa che avesse a che fare l’acqua, decisamente tutte quelle fastidiose goccioline gli stavano dando alla testa. Senza accorgersene, si avvicinò lentamente, passo dopo passo incespicando nelle pozzanghere, al marciapiede, ritrovandosi proprio di fronte al barbone. Quasi gli venne un colpo vedendoselo spuntare lì dietro, con i soliti occhi giganteschi a scavargli l’anima. Lo guardò insensatamente intensamente, e riconobbe il ciuffo di capelli castani, le labbra piene, quello stesso sguardo vuoto e terribilmente penetrante. Ne rimase scosso, non era per nulla cambiato, il tempo non l’aveva scalfito minimamente. Immobile. Immobile in una dimensione assurda e fuori dagli schemi. Era questo che Jongin pensava, prima di darsi dell’idiota mentalmente. Poi, trascorso il momento di autocommiserazione, qualcosa dentro di lui gli disse di muoversi a dire qualcosa, così pronunciò istintivamente, scandendo bene i suoni: “Vuoi vedere il mondo dall’alto?”
Per un attimo la pioggia tornò a fungere da ticchettante pendolo, poi, come in sogno, una voce bassa ed appena udibile si fece strada tra il battere e ritmare di quel metronomo naturale, rompendo la melodia casuale di esplosioni e schianti sul freddo terreno.
“E tu vuoi vederlo dal basso?”
Basso. Il basso non era esattamente il luogo preferito di Jongin, ma per una volta non si volle fare troppe domande. Riuscendo finalmente a mettere a posto l’ombrello, si sedette, non senza un leggero rimpianto verso i suoi pantaloni di marca, vicino al ragazzo, posizionando il paracqua sopra le loro teste.
Non si guardarono mai, stettero semplicemente seduti vicini, mentre in Kyungsoo qualcosa stava cercando di uscire dalla voragine ed in Jongin nasceva una strana curiosità in petto.
Quando, un’immensità dopo, due luci coraggiose si fecero strada attraverso le lacrime del cielo e Joonmyeon tornò a prendere l’idol, Jongin non avrebbe voluto andarsene. Si lasciò trascinare via a peso morto sul sedile posteriore del veicolo, in preda ad una sensazione particolare che solleticava le sue vene, correndo con il suo sangue ed irradiando tutto il suo corpo. Le sue dita tremolavano fradice, ma Jongin non era sicuro che fosse veramente per il freddo che la pioggia, infiltratasi ormai anche tra le sue ossa, regalava all’atmosfera angosciosa di quella sera o per il gelo che lo stesso ragazzo a cui era seduto vicino fino a prima emanava visibilmente. Joonmyeon notò lo sguardo perso di Jongin, così, in un timido tentativo di rompere il ghiaccio, domandò con voce distante un vago ed impacciato ‘com’è andata?’. Jongin impiegò alcuni secondi per rispondere, tuttavia, quando lo fece, non replicò direttamente alla richiesta, e neanche lo assalì come aveva intenzione di fare precedentemente. Le uniche sillabe che fuoriuscirono, lente, basse e tremolanti, dalla bocca dell’idol furono: “Gli ho lasciato l’ombrello.”
Lo stesso ombrello di cui, in quel momento, Kyungsoo stringeva vigorosamente l’impugnatura, reggendolo sopra la sua testa e rannicchiandocisi sotto.
Ci sarebbe voluto ancora poco, veramente poco, perché il mondo vitreo del ragazzo si sgretolasse. Magari un sorriso, sì un sorriso. Perché Kyungsoo in quell’istante stava per sorridere, poi però le crepe si risaldarono, ed egli venne riabbracciato dai lunghi tentacoli viscidi della sua notte infinita.
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > EXO / Vai alla pagina dell'autore: moganoix