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Autore: ShanaStoryteller    05/11/2020    0 recensioni
Una raccolta di storie brevi che dipingono una nuova versione dei miti antichi.
O:
Quello che accadde a Icaro dopo la sua caduta, come Ermes e Estia si immischiarono e salvarono l’umanità e di come Ade voleva solo schiacciare un pisolino.
Genere: Dark, Generale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri | Personaggi: Afrodite/Venere, Ares/Marte, Era/Giunone, Poseidone/Nettuno
Note: Lime, Raccolta, Traduzione | Avvertimenti: Tematiche delicate
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L’amante di Zeus, Io, rimase nella sua forma di mucca, sorvegliata dal servo di Era, Argo, ed Era era soddisfatta.

La donna sarebbe rimasta in quelle vesti fino alla morte. Era si augurò che giacere con suo marito fosse valsa la pena di quel sacrificio.

Zeus non le parlava, riluttante ad ammettere che la mucca era in effetti la sua amante segnandone così la morte, e altrettanto riluttante a sfidare la moglie per tentare di salvarla. Era lo teneva in pugno proprio come voleva, e non sarebbe durata, non durava mai, ma era decisa a godersela finché durava.

Poi, giunse da lei Artemide, dorata e fiera. Non scostava mai lo sguardo dalla sua regina, fissandola in volto come se non fosse altro che una delle sue cacciatrici. Se Era non l’avesse odiata per essere figlia di suo marito, credeva che l’avrebbe addirittura presa in simpatia. “Io ha un destino,” disse lei, “devi lasciarla libera.”

“Non mi interessa del suo destino,” disse Era, pigramente, “soprattutto quando quel destino prevede di farsi ingravidare da mio marito.”

“Darà alla luce una nuova generazione di re,” sibilò Artemide, “sarà la moglie di un dio della morte, dea madre di un nuovo popolo. Non dobbiamo immischiarci. Devi lasciarla andare.”

“Io sono Era,” disse lei, “io sono la Regina. Non devo fare proprio niente.”

Artemide ringhiò, la mano che fremeva per afferrare l’arco, ma Era si limitò a inarcare un sopracciglio. Che ci provasse pure. Erano ben pochi coloro che potevano tenerle testa e la cacciatrice non era tra quelli. Artemide esalò un sospiro basso e disse: “Fallo, mia regina, e ti darò ciò che più desideri.”

“Pace e tranquillità?” Domandò Era.

“Un figlio.” Rispose lei. “Lascia andare Io, lascia che compia il suo destino come dea della Scura Terra del Nilo. Se lo farai, io, dea patrona del parto, userò fino all’ultima goccia del potere che possiedo per far sì che tu concepisca e partorisca un figlio di Zeus.”

Era assottigliò lo sguardo. “Non ci siamo riusciti né col mio potere né con quello di mio marito. Cosa ti fa pensare di essere diversa?”

“Tutti abbiamo il nostro dominio,” disse lei, “proprio come tu non puoi comandare il mare, come tuo marito non ha potere sull’arte della tessitura, io posso concederti un figlio sano e tu no.”

Era picchiettò le dita sul trono. La chiamavano dea madre anche se non aveva mai cresciuto un figlio. Efesto poteva anche essere il suo prezioso figlio, ma lui non sapeva che non era stata lei a scagliarlo dall’Olimpo. Pochi lo sapevano. E, comunque, non l’aveva cresciuto lei, quel merito spettava a Ecate.

Un figlio, suo e di Zeus. Un figlio da poter crescere.

“Accetto.” Annunciò. “Puoi prenderla e Zeus può fare in modo che Io compia il suo destino.” Si sporse in avanti, portando il peso opprimente del suo potere con lei, e abbassò la pressione dell’aria fino a quando Artemide non rimase lì, tremante. “Sappi questo, Dea Patrona del Parto. Se Io darà alla luce un figlio di Zeus prima di me, viaggerò fino alle Scure Terre del Nilo e ucciderò lei e i suoi figli con le mie stesse mani. Nemmeno Ade riuscirebbe a ricomporla.”

“Sì, mia Regina.” Disse Artemide, incapace di smettere di battere i denti.

***

Era mantenne la parola. Lasciò che Ermes credesse di aver ingannato Argo e portasse via Io. Finse di essere oltraggiata dal suo affronto, da quella mucca dal vello immacolato che viaggiava verso le sabbie del Nilo.

Artemide mantenne la parola. Era giacque con Zeus, come aveva fatto molte altre volte prima, e le crebbe un figlio nel grembo. Un giorno, si parò di fronte a suo marito e gli portò la mano sul gonfiore del suo ventre. “Questo è tuo figlio.”

Qualcosa di simile a felicità gli serpeggiò sul volto. A volte dimenticava che si odiavano tanto quanto si amavano. Dopo così tanto tempo insieme, molti avrebbero pensato che avrebbero provato o l’uno o l’altro. Loro avevano scelto entrambi.

Artemide era lì durante il parto, e la sua semplice sicurezza le fu più di conforto di quanto Era avrebbe mai ammesso. Il parto di Efesto era stato più semplice a confronto. Urlò e pianse e le mani di Estia sulle spalle furono l’unica cosa che le impedirono di cadere a terra e implorare che la aprissero per toglierle dal ventre quel bambino. Non pensava che sarebbe potuta morire di parto, non con Artemide tra le gambe. Desiderò di averglielo chiesto prima che iniziassero, però.

Ma non morì. Suo figlio nacque, bello e in salute come lo era stato Efesto. “Ben fatto.” Disse Artemide piano, posandole il bambino agitato tra le braccia.

Zeus le toccò i capelli e baciò la fronte di suo figlio. “Lo chiameremo Ares.”

“Molto bene.” Concordò lei, talmente stanca da non riuscire a tenere aperti gli occhi.

Affidò suo figlio a Estia e concesse finalmente al sonno di prenderla.

***

Ares crebbe e divenne la copia esatta di suo padre. Stessa pelle di bronzo, stessi capelli morbidi e scuri. Suo marito li teneva corti, ma suo figlio li lasciò crescere. I momenti che Era trascorreva a pettinargli i capelli ogni mattina erano i suoi preferiti.

Aveva un sorriso entusiasta e un cuore tenero. Era non capiva come fosse possibile perché non l’aveva di certo preso da lei o Zeus. Demetra tollerava che la seguisse impacciato, ma quando Kore cercava di incontrare suo cugino andava su tutte le furie. Poseidone gli permetteva di esplorare le profondità del mare con una divinità marina minore come guida. Apollo suonava per lui e Artemide gli insegnò a cacciare. I fulmini di Zeus non lo bruciavano e quando le tempeste infuriavano, il padre lo portava sulla cima dell’Olimpo e gli insegnava a scagliare saette.

Per puro egoismo, Era non gli permise di andare negli Inferi. Sapeva che lì sarebbe stato al sicuro, che Ade l’avrebbe protetto come aveva fatto con Efesto, ma era proprio per questo che non glielo permise. Avevano già cresciuto uno dei suoi figli. La addolorava dover condividere anche Ares con loro.

Ares era felice e gentile, più di quanto ci si sarebbe aspettato da uno dei figli del suo ventre.

“Deve scegliere un dominio.” Tuonò Zeus, osservando Ares che tirava frecce con una precisione letale.

“È ancora un bambino,” disse Era, “lascia che rimanga tale ancora per un po’.”

“Se non sarà lui a scegliere un dominio,” la ammonì Zeus, “sarà un dominio a scegliere lui. Siamo dèi. Dobbiamo essere dèi di qualcosa.”

Lei posò lo sguardo su di lui, e suo marito si scostò di qualche centimetro da lei. “È un bambino, e per ora rimarrà tale. Non siamo come Demetra. Non dobbiamo gravare un bambino delle responsabilità e poteri di una divinità quando non è ancora pronto.”

Zeus disapprovò, ma non aggiunse altro.

Suo figlio sarebbe diventato il dio di qualcosa di paziente, di dolce. Il dio dei bambini sperduti, degli spasimanti rifiutati, del perdono. Di qualcosa che permettesse al suo cuore gentile di aiutarlo invece che ferirlo.

Era aveva ceduto la sua felicità per il potere. Non se ne pentiva. Ares, però, non avrebbe dovuto fare lo stesso – lei era la dea più potente che camminava sulla Terra. Lui era suo figlio e non gli avrebbe mai fatto mancare nulla.

***

Ares era un giovane uomo ormai. I suoi capelli gli arrivavano alla vita anche raccolti in una treccia e la forza delle sue membra era tale da poter tenere il passo di Artemide nella più sfiancante delle battute di caccia e da poter scagliare i fulmini di suo padre fino alla metà del mondo.

Era stato ovunque e aveva incontrato ogni divinità della terra, del mare e del cielo.

Tranne una.

Non fu difficile trovare il vulcano. Era abbastanza grande e forte da poter badare a se stesso e sua madre non si preoccupò quando le disse che andava sulla Terra. Ma non le disse dove stava andando di preciso.

Aveva gambe forti. Fu facile scalare il vulcano fino alla cima. Era quasi arrivato quando qualcosa lo afferrò per le spalle, bloccandolo. Si girò e si ritrovò a fissare un unico gigantesco occhio. “Cosa stai facendo?” Ringhiò il ciclope.

“Sto cercando Efesto.” Rispose lui. “È mio fratello.”

“Il mio padrone ha molti fratelli.” Disse il ciclope.

Ares scosse il capo. Lui non era il frutto di una delle scappatelle di suo padre con una ninfa o un mortale. “Io sono Ares, figlio di Zeus e Era. Proprio come Efesto. Sono venuto per incontrare mio fratello.” Il ciclope esitò. Ares gli domandò: “Come ti chiami?”

“Brontes.” Rispose lui, sorpreso.

“Brontes,” sorrise lui, “voglio solo incontrarlo. Non l’ho mai visto prima. Non mi tratterrò a lungo.”

Per un attimo, Brontes sembrò tentennare e Ares cercò di esibire un’espressione umile. “D’accordo,” sbuffò quello, “ma non arrabbiarti con me se poi ti butta nella lava.”

“Sarebbe divertente.” Disse lui, felice. I fulmini non lo bruciavano. Il fuoco di Estia era stato l’unico abbastanza caldo da provocargli dolore. Forse sarebbe riuscito a nuotare nella lava.

Brontes lo guardò come se fosse pazzo. Ares continuò a sorridere.

***

Dentro la montagna c’erano molti altri ciclopi e macchinari luccicanti di cui Ares non riuscì a comprendere il funzionamento. “Chi sei?” Gli domandò una voce, e si sentì afferrare il polso, venendo trascinato via da una tinozza di lava bollente su cui si era affacciato.

Osservò quell’uomo più alto e grosso di lui. Aveva la pelle scura quasi quanto l’ossidiana del suo vulcano, ma gli occhi più chiari. Erano del colore dell’ambra scura, della melassa. “Abbiamo gli stessi occhi.” Gli disse Ares, felice.

Efesto lo lasciò andare all’istante. “Non dovresti essere qui.”

“Perché?” Gli domandò. “I mortali parlano di te. Nessun’altro lo fa. Ma tu sei mio fratello, giusto?”

“Non dovresti essere qui.” Ripeté lui. “Zeus lo sa?”

Ares fece spallucce e si avvicinò di un passo. Suo fratello fece un passo indietro. Si chiese se avrebbe dovuto comportarsi con lui come si fa con un cavallo spaventato. “Nostro padre non si cura di dove sono. Nostra madre sa che sono sulla Terra.” Efesto sussultò piano, così indistintamente che per poco Ares non se ne accorse. “Abbiamo i suoi occhi, sai?”

Non riusciva a distogliere lo sguardo dalla pelle di Efesto. Gli dèi non erano come i mortali – Demetra, Estia, Zeus e Era avevano tonalità diverse nonostante avessero gli stessi genitori. Ma Ares assomigliava comunque molto a suo padre. Kore assomigliava a Demetra. Eppure, Efesto non assomigliava affatto a loro padre. Poteva vedere i tratti della loro madre in lui, nei suoi occhi e nella linea della mascella, perfino in come si era arrabbiato in quel momento. Sembrava proprio Era quando era in procinto di perdere le staffe, le labbra strette in una linea sottile e l’immobilità calcolata delle spalle.

“Non volevo farti arrabbiare,” disse, mesto, “volevo solo salutarti.”

Al contrario di come avrebbe fatto loro madre, Efesto fece un lungo sospiro e lasciò che la sua rabbia defluisse con esso. “Ti volevo evitare.”

“Perché? Non mi conosci nemmeno.”

Efesto gli allungò un calcetto sul polpaccio e l’oro e il rame della sua gamba di metallo catturarono l’attenzione di Ares. “Tu hai delle gambe, io no. Era non ti ha scagliato dal Monte Olimpo come ha fatto con me.”

Ares guardò intentamente il volto di suo fratello. Si diceva che sua madre avesse lanciato via il figlio perché deforme, ma a lui sembrava bello come qualunque altro dio avesse incontrato. Aveva lineamenti marcati e definiti e quelle caratteristiche su un bambino sarebbero certo parse brutte, ma…

…sua madre lo amava. Era lo amava con una ferocia eguagliata solo dalla sua furia, lo amava anche dopo la più terribile delle marachelle e delle provocazioni, lo amava anche se aveva reciso i capelli di Demetra con un fulmine vagante, lo amava anche quando Artemide e Apollo si stancavano delle sue stranezze, lo amava anche quando Atena non sopportava più le sue domande. Era suo figlio e il suo amore per lui era incondizionato.

Non credeva che Era avrebbe amato di meno suo fratello solo per il suo aspetto.

Sapeva anche che se avesse cercato di dirglielo, Efesto l’avrebbe buttato in una pozza di lava.

“Beh, non è colpa mia.” Disse lui. “Se non vuoi che siamo fratelli, possiamo almeno essere amici?”

Il volto di Efesto si addolcì. Anche così sembrava loro madre. Incrociò le braccia. “Non puoi dirlo ai tuoi genitori.”

I nostri genitori, pensò Ares, ma non disse niente. “Certo. Dove hai trovato tutti questi ciclopi?”

Gli ultimi frammenti della maschera di serietà di suo fratello si sgretolarono e lui abbandonò la testa indietro e rise.

***

Ares era prossimo alla maturità, più adulto che bambino, e suo padre lo incalzava in continuazione perché scegliesse un dominio. Di solito si acquietava con un’occhiataccia di sua moglie, ma la realtà era che ormai era tempo per Ares di prendere il suo posto tra le divinità del pantheon, di avere templi eretti in suo nome e dei fedeli e di diventare finalmente una divinità.

Non lo voleva davvero. Voleva continuare a cacciare con Artemide, a imparare con Atena e a costruire con Efesto.

Suo fratello gli permetteva di aiutarlo nella sua officina, a volte, se stava attento e faceva esattamente quello che gli veniva detto. Altrimenti si sedeva su un tavolo, le gambe a penzoloni, e osservava suo fratello all’opera e gli raccontava di quello che aveva fatto nel tempo che separava una sua visita dall’altra. Gli parlò così tanto di loro madre che Efesto non sussultava più a sentire il suo nome, cosa che Ares considerava un passo avanti. A volte, Brontes rimaneva al suo fianco e mangiavano pan dolce insieme.

Sfortunatamente, tutte le cose, belle e brutte, hanno una fine.

***

C’erano due giganti, Oto ed Efialte, che un giorno si stancarono di sentir parlare del ragazzo d’oro dell’Olimpo e divennero gelosi della sua bontà e bellezza.

I due giganti si intrufolarono sul Monte Olimpo nel cuore della notte, si introdussero nelle stanze di Ares e lo rapirono. Non erano così stupidi da cercare di ucciderlo. Così, lo infilarono in un’urna e lo sigillarono al suo interno. Ares si infuriò e oppose resistenza, ricorse a ogni trucco che gli venne in mente per scappare dalla sua prigione, ma niente funzionò.

Prigioniero sul fondo dell’urna e ribollente di rabbia, pensò che se avesse dato ascolto a suo padre e avesse scelto un dominio, sarebbe stato abbastanza forte da liberarsi. Ma non l’aveva fatto, dunque non poteva, e quindi aspettò.

E aspettò.

E aspettò.

I giorni divennero settimane e mesi. Sapeva che lo stavano cercando. Sapeva che almeno sua madre avrebbe fatto a pezzi l’intero universo per cercarlo. E… se non ci fossero riusciti? Se fosse rimasto bloccato in quell’urna per il resto dell’eternità?

Nei momenti più bui, la sua disperazione si trasformava in furia. Era un dio, figlio di Era e Zeus, come avevano osato?

Poi, un giorno, l’urna si aprì.

Ermes si affacciò all’imboccatura e il suo volto si aprì in un sorriso. “Ti stavamo cercando!” Si sporse e lo tirò fuori, e per un momento, tutto quello che Ares riuscì a fare fu sbattere le palpebre a causa del sole. Poi, la sua vista si fece più chiara e vide che erano nel bel mezzo di una battaglia. Era un massacro sanguinoso, eppure – non poté fare a meno di commuoversi alla vista di tutti coloro che erano venuti a cercarlo. “Quasi tutti si sono offerti di aiutare a cercarti,” disse lui, “ma Era non voleva che attirassimo troppo l’attenzione mentre ci infiltravamo nel loro territorio.”

Ermes non aveva ancora finito di parlare che un gigante caricò sua madre e la colpì con uno schiocco spiacevole. Le spalle di Era si afflosciarono in un’angolazione scomposta, ma lei non si fece affatto fermare.

“Devo fare qualcosa.” Disse, sentendo una fretta disperata crescere in lui. Erano accorsi per aiutarlo e ora venivano feriti. Non era ciò che voleva.

“Ares, aspetta!” Gli urlò Ermes mentre correva verso la battaglia. Non aspettò. Combattere sul campo andava bene fino a un certo punto, erano forti ma svantaggiati: uno contro cento. Si affrettò verso Artemide, che lanciava oltre la spalla i corpi dei suoi nemici. “Ho bisogno del tuo arco!”

“Ares!” Disse lei con gioia, e poi aggiunse: “Cosa?”

“Fidati di me,” disse lui, “dammi il tuo arco.” Un gigante li caricò. Artemide lo lanciò oltre la spalla e continuò a fissarlo, confusa. Ne sarebbe stato ammirato se solo non fosse stato così preoccupato. “Artemide, ti prego!”

Lei gli cedette il suo arco. Fece per allungargli anche la faretra con le frecce, ma lui si era già allontanato. Poi, fu accanto a suo padre, che faceva saettare i suoi lampi sul grumo di giganti che lo accerchiava. Potevano essere colpi letali, ma solo a lungo raggio. Prese dalle mani di Zeus uno dei suoi lampi sfrigolanti, ed era l’unico essere del pianeta che poteva farlo e sopravvivere, e continuò a correre. “Sparpagliatevi!” Urlò da dietro la spalla. “Scappate tutti!”

Superò Ermes. Doveva andare su un posto alto per fare quello che aveva in mente. “Fa’ che tutti si tolgano dal campo di battaglia,” disse a Ermes, “ora.”

Ermes fece una smorfia, ma quando raggiunse la vetta della montagna, gli dèi si erano liberati dalla maggior parte dei giganti ed erano abbastanza lontani. Non doveva preoccuparsi.

Poteva farcela. Era Ares, figlio di Era e Zeus. Addestrato nel tiro con l’arco dalla grande cacciatrice in persona. Prese un respiro e incoccò il lampo di suo padre. Caricò il colpo, espirò e lasciò la presa.

Il lampo atterrò al centro del campo di battaglia, gremito di giganti confusi. Con un clamore di tuono e un lampo di luce, erano scomparsi.

Tutto ciò che rimaneva dei giganti traditori era un cratere.

Gli dèi si avvicinarono a lui, sua madre con un’andatura zoppicante che gli fece stringere il cuore. Zeus gli fu accanto per primo, un grande sorriso in volto, e lo afferrò per le spalle. “Ragazzo mio! Sei stato grandioso!”

“Grazie.” Disse lui. L’odore di carne bruciata nell’aria gli faceva rivoltare lo stomaco.

L’avevano rapito. L’avevano rinchiuso in un’urna per più di un anno. Avevano fatto del male a sua madre.

Ma non significava che gli era piaciuto. Non voleva rifarlo mai più.

“Era destino.” Disse suo padre, entusiasta, e Ares non aveva idea di cosa stesse parlando. “È questo che sei chiamato a fare, figlio mio.”

Lui lo fissò. Sperava di no.

Gli altri dèi erano rimasti indietro. Artemide e Apollo reggevano sua madre tenendo un suo braccio attorno alle spalle per aiutarla a scalare la montagna. Ermes ed Efesto erano ancora più lontani.

Non aveva mai visto suo padre così fiero di lui. Sentiva un pozzo scavarsi nello stomaco che non riusciva a spiegarsi.

“In onore delle grandi gesta di mio figlio,” tuonò Zeus, la sua voce trasportata dal vento, parlando con la voce del re degli dèi cosicché le sue parole divenissero legge, cosicché arrivassero a ogni angolo del mondo, “proclamo Ares Dio della Guerra.”

Ares non riusciva a respirare.

Non era questo che voleva.

***

Note dell’autrice:

Spero che vi sia piaciuta!

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