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Autore: Mr Lavottino    06/11/2020    3 recensioni
STORIA AD OC
In una fredda giornata di Ottobre, Noah Hayden, famoso avvocato, riceve una lettera anonima che lo invita a tornare a Wawanakwa. Una volta giunto all’indirizzo indicatogli, incontra sei ragazzi che, circa sette anni prima, aveva aiutato a salvarsi dal carcere mentendo sulla loro colpevolezza, e scopre di essere all’indirizzo della casa di Dawn, la ragazza uccisa dal gruppo in un incidente d’auto.
Lo spirito di Dawn è tornato per vendicarsi ed il gruppo è rinchiuso all’interno della casa fino a che il fantasma non otterrà ciò che vorrà.
Genere: Horror, Introspettivo, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Altro personaggio, Emma, Noah, Nuovo Personaggio
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Contesto generale
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Disegno di: reginaZoey1999


- Allora Brodie, ormai sono anni che ci conosciamo. Onestamente, penso che tu abbia fatto grandi passi in avanti. - la psicologa prese il fascicolo rosso dalla scrivania ed iniziò a sfogliarlo leggendolo con attenzione – Abbiamo fatto davvero un ottimo lavoro. - 

- Grazie mille, dottoressa. - Brodie si guardò le mani, che teneva intrecciate fra loro, e portò lo sguardo verso la donna, ancora impegnata nel leggere. Lei, resasi conto dell’occhiata ricevuta, alzò la testa e gli sorrise.  

- Chiami pure Zoey, te l’ho detto un sacco di volte. - disse, mentre con una mano si sistemava i capelli rossi raccolti in due boccoli.  

- Ancora la notte non riesco a dormire bene. - ammise Brodie, rivolgendo lo sguardo verso la finestra. Non riusciva a dire quelle cose guardandola negli occhi, sentiva un forte peso all’altezza dello stomaco che non gli permetteva di farlo.  

- È normale. Purtroppo difficilmente riuscirai a rimuovere il trauma dalla tua testa. - Zoey sospirò e chiuse il fascicolo – Quello che devi fare è imparare a conviverci. Lo so che è difficile, ma devi provarci. - la psicologa lo guardò dritto negli occhi. Aveva imparato a conoscerlo, sapeva che anche se il suo sguardo non era puntato verso di lei lui l’ascoltava.  

- Cosa mi consiglia di fare? - tenne gli occhi ancora puntati verso il panorama che vedeva dal sedicesimo piano del palazzo.  

- Potresti visitare i luoghi della tua infanzia. - propose – Oppure – si fermò, non del tutto convinta di quello che stava per dire.  

- Oppure? - la invitò lui. - Oppure puoi provare a parlare con quel ragazzo. - rimase sul vago, perché sapeva che Brodie avrebbe perfettamente capito di chi stesse parlando: Scott Wallis, il fidanzato di Dawn Medrek, ovvero il ragazzo che lo aveva picchiato a sangue all’uscita della scuola qualche giorno dopo l’incidente, quando ancora Noah non era entrato nel processo e non aveva potuto provare la sua fittizia innocenza.  

- Non sono pronto. - scosse la testa e portò gli occhi sulle sue scarpe. Ricordava quel giorno, aveva permesso a Scott di picchiarlo senza fare nulla, nel tentativo di espiare la sua colpa con il dolore. Ne era uscito con un braccio rotto e più rimorsi di prima.  

- Lo immaginavo. - Zoey sospirò – Brodie, devi fare le cose un passo alla volta. Penso che già tornare nel tuo paese natale possa essere un buon inizio. Dai tempo al tempo e vedrai che riuscirai ad andare avanti. - la psicologa gli sorrise, come era solita fare. Prese poi un foglio ed iniziò a scrivere – Questi sono i farmaci che devi continuare a prendere. Noi ci vediamo il mese prossimo. - glielo consegnò gentilmente. Brodie rimase fermo a leggere quelle righe scritte a mano per qualche secondo. Si alzò lentamente e, dopo aver salutato Zoey con un mezzo sorriso ed un cenno della mano, uscì dalla stanza senza avere la minima idea di cosa fare. 

 

Era stata quella conversazione con Zoey a convincerlo ad andare all’indirizzo segnato nella misteriosa lettera. Aveva passato notti insonne a decidere se andare o no, ma alla fine era partito. Col senno di poi, se avesse saputo che avrebbe incontrato tutte quelle persone del suo passato, difficilmente ci sarebbe andato. Eppure in cuor suo si sentiva un tantino più leggero, forse per via degli psicofarmaci, forse perché sentiva di star almeno provando a redimersi. 

Infatti, vedere Abbey vessata dalle accuse di Delfina aveva scatenato in lui sentimenti contrastanti: una parte di lui era felice di vederla allontanarsi, un’altra avrebbe voluto raggiungerla per tenerla stretta a se. Non sapeva quale delle due prevaleva, sentiva solo questa enorme diatriba all’interno della sua testa come un confronto a fuoco fra due fazioni. Era un gusto agrodolce, di questo ne era certo.  

Perché che aveva amato Abbey ne era sicuro, sull’odiarla no. Era stato tutto un insieme di fattori che lo avevano portato ad allontanarsi da lei e da Wawankwa. Abbey ci aveva provato a chiamarlo, a scrivergli, addirittura a telefonare ai suoi genitori, ma Brodie non l’aveva minimamente considerata. Nella sua testa, vedere Abbey era come vedere Dawn, senza alcuna distinzione. Sarebbe bastata qualche accortezza in più, magari ricordare al ragazzo che non era tutta colpa sua, ma Abbey non lo fece mai, perché, almeno in facciata, lei aveva rimosso quell’incidente e faceva di tutto pur di non ricordarlo.  

E fu proprio quel tentativo di vivere in una bellissima teca di vetro che allontanò Brodie, troppo occupato a combattere a pugni contro i rimorsi, da lei.  

- Io non vi ho costretti a venire. - Abbey provò a difendersi come poteva. Mentendo, fra l’altro. Quella frase, tuttavia, era menzogna soltanto per Brodie. Effettivamente, Abbey aveva costretto Brodie ad accompagnarla, ma lo stesso non si poteva dire delle altre, che avevano scelto di loro spontanea volontà di venire alla festa. Clara per divertirsi, Delfina per provarci con Brodie, Ginevra per staccare dalla sua vita fatta di studio-lavoro. Addirittura, Aya si era aggregata a loro al ritorno. Perciò, a conti fatti, quelle accuse non erano che un castello di sabbia destinato a crollare.  

- Senza di te non ci saremmo andati. - le argomentazioni di Delfina iniziavano a perdere di forza. L’unica cosa che la teneva in piedi era la sua rabbia e la sua voglia di dilaniare la rivale in amore che aveva davanti, oltre che il pensiero di star facendo ciò che il suo amato voleva. 

- Questa è una grandissima cazzata. - obiettò Abbey, che pensò di poterla spuntare – Non c’entra nemmeno niente con quello che stavi dicendo. - concluse, intrecciando le braccia all’altezza del petto. Forte dell’esitazione della mora, Abbey provò ad attaccare a sua volta, così da poter porre fine a quello stupido teatrino.  

- Non fare l’altezzosa con me, stupida oca. - Delfina iniziò ad offendere, conscia di star perdendo colpi. 

- Oh, forza, smettila di sparare stronzate. Piuttosto, ritroviamo gli altri. - Abbey scosse la testa e sospirò. Voleva risolvere quella storia il prima possibile, così da cercare un modo per uscire da quella casa. - Cambi argomento perché sai di essere nel torto. la mora si fece un passo in avanti.  

- No, perché questa conversazione è come il cazzo alle vecchie. - la guardò dritta negli occhi – Totalmente inutile. -  

- Ah, è inutile solo perché si sta parlando male di te, giusto? - Delfina alzò le braccia al cielo – Perché non vuoi che davanti a lui – indicò Brodie – si dica che è tutta colpa tua? Pensavo che dopo sei anni saresti riuscita a crescere, ma evidentemente non è così. - quelle parole uscirono dalla sua bocca come un fiume in piena.  

- Oh, Cristo, quante stronzate sto sentendo. - Abbey le dette le spalle e fece per allontanarsi.  

- Sei sempre stata egoista, ti prendevi tutto quello che volevano gli altri per il puro gusto di farlo e poi scappavi quando la gente te lo faceva notare. Sei la persona peggiore del mondo. - Delfina cacciò fuori tutti i rimorsi e le parole non dette che le avrebbe voluto dedicare gli anni addietro. E per Abbey sarebbe stato facile smontarla, ci avrebbe messo giusto qualche secondo e qualche parola affilata, ma non le fu possibile. Perché quello che diceva era vero, in particolare se razionalizzata all’interno della sua storia con Brodie. Esatto, Abbey si era avvicinata a Brodie solo per fare un dispetto verso Delfina. Sapeva che Delfina amava Brodie alla follia, perché tutti lo dicevano a scuola, e nonostante ciò aveva voluto sottrarglielo senza pietà. Il motivo? Quella famosa festa di compleanno alla quale era stata invitata. Abbey aveva visto tutto quello sfarzo, tutta quell’organizzazione minuziosa e si era sentita umiliata, perché lei mai sarebbe riuscita ad avere una cosa del genere per se. Così, per puro divertimento, ci aveva provato con quel Brodie che Delfina tanto amava e, dopo un rapido scambio di battute, si era resa conto che c’era del feeling tra di loro. Di certo per arrivare ad innamorarsi un po’ ce ne aveva messo, ma nemmeno così tanto. Le erano bastate due settimane passate fra le mani di un ragazzo che, invece del puro sesso adolescenziale, cercava qualcuno con cui confidarsi e di cui potersi fidare. Abbey e Brodie erano stati assieme per due anni, da due settimane dopo la festa di Delfina fino al giorno dell’incidente. A dirla tutta, sulla carta, non si erano mai lasciati. Brodie, dopo quell’avvenimento, non le aveva più rivolto la parola, arrivando addirittura a disertare le udienze in tribunale pur di non vederla.  

- Smettila di provocarmi. - disse Abbey con i denti digrignati.  

- Sto solo dicendo la verità, lurida puttana. 

 - Delfina non indietreggiò. - Dannazione, Brodie, le vuoi dire qualcosa?! - era esplosa Abbey che, sulle prime, nemmeno si rese conto di star invocando l’aiuto del ragazzo. I suoi occhi, da prima gettati rabbiosamente sul moro, si sgranarono sempre di più, sotto lo sguardo confuso di lui. Per un attimo Abbey pensò di essere ancora la sua fidanzata. Per un attimo solo. 

- Che dovrebbe dirmi, che si è lasciato fregare per due anni da te? - la mora rincalzò la dose. 

- No, niente. - Abbey si cucì la bocca quando capì che Brodie non sarebbe intervenuto in quella discussione. Glielo leggeva negli occhi. Però gli occhi non potevano dire tutto, ad esempio tralasciavano il dilemma interno che il ragazzo stava subendo in quel momento. 

- Nemmeno lui vuole avere niente a che fare con te. - gridò Delfina. Quelle urla colpirono Abbey come un martello contro un pezzo di vetro. La castana si sentì crollare per terra. La sua testa le stava giocando un brutto scherzo. Guardò Delfina, poi Brodie ed infine le scale. Sentì la gola secca e delle lacrime pizzicarle gli occhi.  

Era davvero colpa sua quell’incidente? Lo sapeva perfettamente, ma in quell’istante c’era altro ad intasarle la testa, cioè che dopo sei anni non era ancora riuscita a dimenticarsi del ragazzo che l’aveva fatta innamorare e che l’aveva lasciata di punto in bianco senza dirle una parola. Fu proprio per quel motivo che corse dritta verso le scale. 

 

 

- Noah, sono sicuro che tu abbia già sentito quello che è avvenuto due giorni fa. - il signor McPherson entrò nel suo studio di colpo senza neanche avvisare. 

- Si riferisce all’incidente in cui è coinvolta Ginevra? Alla TV non si parla d’altro. - Noah scosse la testa in segno positivo e vide il suo capo fare lo stesso.  

- Esattamente. - McPherson si avvicinò alla sua cattedra e vi appoggiò una cartellina marroncina contenente una discreta pila di documenti – Voglio che tu li guardi attentamente, Noah. - disse poi, invitandolo a leggerli. Seppur esitante, Noah fece come richiesto. 

- D’accordo. - disse, per poi iniziare a sfogliarli. I suoi occhi si spalancavano ad ogni riga che leggeva. Le prove erano schiaccianti, non c’era dubbio: Ginevra ed i suoi amici erano colpevoli. La macchina rotta, le ferite riportate dalla vittima e le testimonianze della pattuglia di quella sera. Tutto coincideva alla perfezione. 

- Ti sei fatto un’idea? - domandò il signor McPherson, che era immobile in piedi al centro della stanza ad osservare il suo miglior dipendente. 

- Sono chiaramente colpevoli. - Noah si lasciò andare ad un lungo sospiro – Diciamo che al massimo si potrebbe dare la colpa solo a chi stava guidando, ma sarebbe alquanto difficile. -  

- Proprio come pensavo. - il capo si avvicinò alla finestra ed iniziò a guardare fuori – Voglio che tu faccia in modo che nessuno di loro venga incolpato. - sulle prime Noah rimase spiazzato, non si aspettava un comportamento del genere da parte del signor McPherson. Lo aveva sempre visto come un uomo risoluto amante ferreo del lavoro che lasciava la vita sentimentale al di fuori delle questioni lavorative.  

- Vuole che salvi sua figlia? - aveva suggerito Noah, con voce sorpresa. 

- Una cosa del genere. - McPherson si prese un secondo per pensare bene a cosa dire – La mia immagine non può essere imbrattata per un simile incidente. Non è tollerabile. - e fu proprio dopo quella frase che si accorse di aver perso Noah. Se prima lo sguardo del giovane era ricolmo di ammirazione e rispetto, adesso era pieno di tutt’altro. Noah si era appena reso conto che quel mondo a cui tanto aspirava era piano di persone senza scrupoli disposte a tutto pur di mantenere la loro immagine. 

- Per cosa lo sta facendo? - chiese l’indiano – Per lei o per sua figlia? - aggiunse, così da non permettergli di sviare la domanda. 

- Ho impiegato anni ad arrivare a questo punto. - guardò Noah dritto negli occhi – Quello che fa mia figlia non mi interessa, almeno finché non mi reca danni. - concluse McPherson.  

- Quindi di Ginevra non le interessa. - Noah afferrò la penna accanto a lui ed iniziò a giocarci. 

- Non ho detto questo. - il capo scosse la testa – Comunque sia, non è tuo interesse. Io ti sto affidando un lavoro e tu devi fare come ti dico. Sono stato chiaro? - il tono intimidatorio di McPherson lasciò Noah interdetto.  

L’indiano gettò gli occhi sul fascicolo e ci pensò attentamente. Quei ragazzi erano colpevoli, ergo avrebbe dovuto mentire per salvarli. Ce l’avrebbe fatta? Oh, certo che sì. Era il migliore in circolazione, avrebbe sconfitto qualsiasi avvocato d’ufficio che Wawanakwa gli avrebbe posto davanti. Ne valeva la pena? Si era sempre detto un avvocato senza rimorsi, ma quella era la prima volta che un caso del genere gli si presentava davanti. Poteva scegliere la strada della verità, ma ciò lo avrebbe sicuramente portato ad un sacco di problemi, McPherson per primo. D’altra parte, mentire gli avrebbe anche consentito di salvare Ginevra. Poi, solo a quel punto, si ricordò dei soldi, ovvero il motivo principale per il quale era diventato un avvocato. Trasse un respiro e chiuse il fascicolo con un gesto secco. Odiava quando gli dicevano cosa dovesse fare, ma quella era senza ombra di dubbio l’occasione della sua vita. 

- Va bene, ci penso io. -  

 

 

Dopo la chiamata di Emma nella stanza era sceso il silenzio. Noah era troppo occupato a pensare alla moglie e al pargoletto che a breve sarebbe nato, mentre Ginevra aveva la testa intasata proprio dall’indiano che aveva al suo fianco. Perché, seppur lo odiava per essere sparito senza farsi sentire per sei lunghi anni, nel profondo sperava ancora di poterlo avere tutto per se e quando lo aveva rivisto si era ripromessa di riuscirci. Noah era acido, noioso e cinico, ma innegabilmente competente e ciò lo rendeva un marito perfetto, soprattutto per lei. Era l’unico che era riuscito a tenerle testa. Eppure lo aveva perso per colpa di una stupida insegnante di diritto che Noah aveva conosciuto durante gli studi in una conferenza indetta proprio dal padre di Ginevra e proprio per quel motivo provava un profondo odio verso di lui. 

- Quindi fra poco diventerai papà. - disse, nella speranza che parlare francamente con il diretto interessato potesse portarla a demordere definitivamente. 

- Sì, esatto. - Noah fece l’unica cosa che riusciva a fare bene in quelle situazioni: sospirare. Portò gli occhi verso il muro e scoppiò in una risata ironica. Sapeva perfettamente dove quel discorso sarebbe andato a parare. 

- Sempre con quella donna, immagino. - disse Ginevra, senza paura di essere troppo intrusiva. Ormai aveva poco in cui sperare, le conveniva giocarsi tutte le sue carte senza esitazioni. 

- Immagini bene. - Noah si grattò la testa. Sul lato giuridico era imbattibile, ma quando si parlava di relazioni interpersonali o amorose era un vero e proprio inetto. 

- Fra quanto nascerà? - domandò lei. 

- Qualche settimana, non lo sappiamo di preciso. - scosse la testa – Io dovrei essere lì in questo momento. - si dette un colpo sulla fronte.  

- Non sappiamo quando usciremo di qui. - Ginevra si guardò attorno. 

- Non sappiamo se usciremo di qui. - rettificò lui, con una punta di acidità. Ne seguì un breve silenzio che fece comprendere all’indiano quanto Ginevra stessa si sentisse in difficoltà a parlargli. 

- Quindi di noi cosa rimane? - Noah sentì gli occhi della ragazza addosso, come se stessero dilaniando le sue carni con degli artigli affilati. 

- Niente, Ginevra. - si alzò da terra e si pulì i pantaloni con le mani – Non rimane assolutamente niente. Ormai è passato parecchio tempo, io mi sono fatto la mia vita e tu la tua. -  

- Io ti ho cercato per questi sei anni. - Ginevra non riuscì a trattenersi – Non mi hai mai voluta vedere. Hai ignorato tutte le mie chiamate e i miei messaggi. - strinse i pugni con forza. Era vero, Noah lo sapeva benissimo. Più volte aveva detto alla sua segretaria di non rispondere a quelle chiamate che, soprattutto dopo la causa, si susseguivano di continuo. Perché Noah non voleva più avere niente a che fare con quella storia, ma soprattutto non voleva avere nulla a che fare con il signor McPherson. Aveva capito che lo scopo di quell’uomo era di farlo sposare con Ginevra, così da poterlo usare a suo piacimento. E questo non gli andava bene. Noah voleva essere il migliore in assoluto e per esserlo non doveva avere nessuno alle sue spalle e nessun punto debole. Fu propria la sua rigida fedeltà a quel suo credo che lo portarono a chiudere definitivamente la porta a Ginevra. Amava Emma, ma ancora di più amava la sua libertà e la sua indipendenza. 

- La nostra relazione è stata un errore. - disse schiettamente, senza darle possibilità di replica. E Ginevra non replicò. Non replicò perché non poteva e, soprattutto, non aveva modo di farlo. Avrebbe potuto urlare, gridare, dimenarsi ed anche aggredirlo, ma cosa ne avrebbe guadagnato? Una caduta di stile senza fondo. Provò, tuttavia, a rispondere per non lasciargliela vinta così platealmente. 

- Resta comunque - La porta si aprì all’improvviso con tale violenza da rischiare di crepare il muro. Sia Noah che Ginevra portarono gli occhi verso Abbey, appena entrata e con il fiatone. La castana rimase immobile con la mano sulla maniglia mentre riprendeva fiato. La prima cosa che fece, ancor prima di guardare i due, fu sgranare gli occhi non appena si rese conto della stanza in cui era entrata. Solo in quell’istante Noah e Ginevra si resero conto delle foto di Dawn appese sulle pareti, del letto rifatto pieno di pupazzi, degli armadi e delle tende tendenti al verdolino. Era proprio la stanza di un’adolescente, un’adolescente che Abbey conosceva fin troppo bene. Forse fu proprio per quel motivo, o per la semplice stanchezza o per i rimorsi, che perse i sensi. 

 

 

 

Clara stava attendendo l’inesorabile crisi che di lì a poco l’avrebbe senz’altro colpita. Non ne aveva certezza, ma sapeva che sarebbe capitata a breve, lo sentiva nel sangue. D’altronde poco poteva fare, era rinchiusa in quella stanza con una piccola nanerottola muta e dai grossi disturbi comportamentali, e l’idea di sniffare in continuazione le bustine di Oki non le sembrava propriamente la migliore in assoluto. Già il naso aveva incominciato a colare sangue, ma fino a quel momento niente di grave. 

L’Oki attenua la sensazione, ma sparisce all’improvviso.”  

Quella frase, che era un tormentone di una sua cara amica abbastanza tossica da essere finita in comunità, le ronzava in testa come un’ape intorno al nido. 

- Senti un po’, Aya – richiamò l’attenzione della ragazza rannicchiata al suo fianco, che inclinò leggermente la testa verso di lei – Perché mi stai sempre appiccicata? - domandò Clara guardandola fissa negli occhi. Aya si prese qualche secondo, poi estrasse le mani dalle grosse tasche della felpa di due taglia più grosse che portava addosso ed iniziò ad utilizzare il linguaggio dei segni.  

- No, no, no, no, frena. - Clara le afferrò le mani impedendole di andare avanti – Sono sei anni che non uso quel linguaggio dei segni del cazzo, non ricordo niente. - le dette un leggero schiaffo sulle dita – Inventati qualcos’altro. - 

Aya ci pensò su per qualche istante. La soluzione le arrivò non appena mise le mani in tasca, da lì estrasse un piccolo blocco note ed una penna, che di solito si portava dietro per quando era costretta a chiedere delle cose ai cassieri nei negozi e che aveva usato per far capire all’autista dell’autobus a quale fermata voleva essere lasciata. Questo perché i segnala fermata a Wawanakwa non funzionavano mai.  

Slipknot” scrisse sul blocco note giallo canarino. Clara alzò le sopracciglia e la guardò senza sapere cosa dire.  

- Sono una band, e quindi? - chiese, intimandola ad essere più chiara. Il volto di Aya si tramutò da serio ad arrabbiato in poco tempo, senza permettere all’altra di capire il perché. Prese la penna e cerchiò la scritta più volte per metterla in evidenza. 

- Scusami, ma continuo a non capire. - la mora scosse la testa – Anzi, ci capisco sempre meno. - Aya, sconfortata, si lasciò andare ad un lungo sospiro.  

- Ehi, dovrei essere io qui ad arrabbiarmi, non tu! - Clara le dette un colpetto in testa, ricevendo una linguaccia come risposta. L’altra strappò il foglio, lo accartocciò e lo lanciò via cercando di farlo cadere nel water senza tuttavia riuscirci.  

“Ho la voce come il cantante degli Slipknot” scrisse poi. L’espressione di Clara, sempre stranita e confusa, fece capire ad Aya di essere davanti ad un vero e proprio pesce rosso. 

- Eh, sono contenta per te. Questo però che c’entra? - Aya si dette una pacca sulla fronte. 

“Me lo hai detto tu” sottolineò la frase con una linea talmente spessa da rompere il foglio. Clara aprì la bocca e spalancò gli occhi, facendole capire che aveva finalmente compreso cosa volesse dire. La memoria di Clara ripescò da uno degli angoli più remoti del suo subconscio un evento accaduto più di sette, se non addirittura otto, anni prima.  

 

 

 

Aya odiava parlare. Odiava parlare perché odiava la sua voce, ma ancora di più odiava dover telefonare il medico. Perché le dottoressa Bridgette, così tanto premurosa con lei, insisteva affinché le parlasse, così da cercare in qualche modo di farle abbattere quel muro di silenzio che Aya si era creata. 

- Qui la dottoressa Bridgette Fairlie, chi parla? - Aya arricciò il naso. Bridgette sapeva benissimo chi fosse, perché lei era l’unica paziente che la chiamava direttamente al telefono cellulare. 

- Sono Aya. - disse, cercando di parlare con il tono più basso possibile e con la mano davanti alla bocca per evitare che qualsiasi altra persona potesse sentirla. Era nel bagno della scuola, ma non poteva sapere se qualcuno sarebbe passato di lì e, visto che all’interno dei gabinetti la connessione era scarsa, era costretta a stare ferma piantata davanti ai lavandini stando alla bella vista di tutte quelle che entravano.  

- Oh, Aya, che piacere sentirti. - quella frase, che andava a creare un brutto gioco di parole che ad Aya non piaceva per nulla, erano le solite con le quali Bridgette la salutava. Non lo faceva a posta, era solo l’abitudine. 

- Ti ho chiamato per la visita di domani. - sussurrò guardandosi attorno.  

- Ah, sì certo. Dimmi pure. - 

- Sarebbe possibile spostarla alle sedici e quindici? Ho una lezione nel pomeriggio, quindi non penso di arrivare in – 

- Cavolo che figata! - un urlo attirò la sua attenzione, costringendola a voltarsi di colpo. Aya sbiancò non appena vide il volto di Clara Deville. 

 La mora fece un passo avanti, portando Aya ad indietreggiare per la paura. Ansia, terrore e voglia di morire iniziarono a crescere in lei. Non voleva essere giudicata per la sua voce, il solo pensiero le faceva ritorcere lo stomaco. 

- Il tuo tono è simile a Corey Taylor quando grida. Che spettacolo! - detto ciò, la ragazza uscì dal bagno canticchiando il ritornello di “Psychosocial” allegramente. 

Aya rimase intontita, non credeva a quello che era appena successo.  

Aya, mi senti? Sei ancora al telefono? - fu Bridgette a riportarla alla realtà. 

- Eh? Ah, sì, ci sono. -  

 

 

Ripensando a quell’avvenimento, Clara scoppiò a ridere. Lo fece talmente forte da doversi mettere le mani sulla pancia per cercare di contenersi, il tutto sotto lo sguardo confuso, quasi offeso, di Aya. Resasi conto del modo in cui la stava guardando, la mora cercò di darsi una calmata.  

- Oddio, scusami è solo che – venne presa nuovamente dalla ridarella – Oh, Cristo, non riesco a – altre risate. Provò di nuovo, e di nuovo e di nuovo, ma non riusciva a smettere. 

 La storia andò avanti per quasi due minuti, dopo i quali le risate si trasformarono in colpi di tosse pian piano sempre più forti. Il prurito alla gola, che era diventato insopportabile, portò Clara a chiedere aiuto, perciò tentò di parlare senza alcun risultato. Boccheggiò per diverse volte mentre Aya, dopo aver poggiato penna e blocco note per terra, le dava dei sommessi colpetti sulla schiena per farla riprendere, ma Clara non riuscì comunque a dire nulla. I colpi si fecero ancora più forti, talmente tanto che Clara si sentiva sbalzata in avanti ogni volta. Poi, all’improvviso, così come era partita, la tosse si fermò e Clara riacquisì il perfetto controllo del suo corpo. 

- Ecco – prese fiato – adesso mi sento molto meglio. - un altro colpo di tosse, sapore metallico sulla lingua ed un rivolo di sangue che le uscì dalla bocca. Poi cadde per terra, segno che l’effetto dell’Oki era finito.  



ANGOLO AUTORE: Dannazione, sono proprio una drama queen! Se non metto un po’ di drammi all’interno di una storia non sono contento… beh, sono le parti che mi piace di più scrivere LOL.  

Quindi, carissimi, siamo giunti ad un punto di svolta: le sottotrame iniziano a dissiparsi e Clara si avvicina sempre più ad una morte lenta e dolorosa. Povera chicca!  

Abbey litiga con Delfina mentre Brodie mangia i pop corn come se fosse al cinema. Per non parlare di Ginevra, che riceve una father-zone. Pesantuccia davvero… 

E poi c’è la piccola Aya… cavolo, sento come se fosse mia figlia. L’aver plasmato il personaggio in questo modo mi da una soddisfazione immensa. Sono fiero di me, una volta tanto. 

Beh, direi che possiamo salutarci. Appuntamento a Venerdì prossimo!  

P.S.: ho aggiunto Zoey per due motivi: 1) perché la amo con tutto me stesso; 2)per evitare che mi venissero in mente collegamenti idioti fra le storie (perché un attacco Moonlight Camp – Care Project – Total Drama Series e House of Memories – The Bus ronvaza fin troppo nella mia testa.) boh, chi lo sa, magari quando mi stancherò di scrivere deciderò di fare un tutt’uno per davvero (anche se ci sarebbero parecchie incongruenze, ma vbb) 

P.S.S.: mi scuso per eventuali errori di stesura del capitolo, ma libre Office oggi non voleva collaborare. 

   
 
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