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Autore: Ghostro    09/11/2020    8 recensioni
Ogni anno Serpente Bianco, il Negromante, visita la tomba materna per compiere un immancabile rituale. Colpa e angoscia solcano i suoi pensieri, agitati come un mare in tempesta. Il suo gesto è un'omaggio alla madre tanto odiata... e amata.
Questa storia partecipa al contest “Wr-Ink-Tober” indetto da fantaysytrash sul forum di EFP.
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'Le cronache dei lupi'
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Sindrome di Ottobre
 
L’oscurità avanzava divorando il crepuscolo. Un vento insistente soffiava contro la sua pelle pallida, facendo sventolare dietro di sé i lembi di una lunga veste violacea e scura. La strada era deserta. Il sentiero che stava attraversando, nel mezzo di una fosca foresta, era dominato da cumuli di foglie rosse, secche, e alberi stopposi. Piangevano le loro figlie cadute, e le sorelle che cercavano strenuamente di resistere su rami spogli, irti come ossa morte. Lacrime di resina, il loro dolore; umido il simulacro dove la loro prole giaceva morente.
  Miracolo della vita, lo chiamavano… Ciechi, stolti. Era l’ennesimo trionfo della morte. Un ciclo che si ripeteva anno dopo anno, generazione dopo generazione. Di guerra e sconfitta, senza fine.
  Ottobre era il mese sacro alla morte. I corvi gracchiavano rendendo omaggio a una volubile padrona, che con una mano concedeva e con l’altra prendeva per sé. Le creature della notte, sue serve, si muovevano guardinghe nell’ombra, in attesa che l’oscurità contaminasse gli ultimi barlumi di una fragile luce crepuscolare.
  «Anche tu sei il mio servo.» Una voce nel vento. «Assassino…»
  Non provava dolore, né gioia, non più. Il suo sangue non ribolliva, freddo e calore per lui non avevano consistenza. Di umanità era privo. Eppure, un sentimento primordiale e intenso fece contrarre a pugno la sua mano nodosa. «Non lo sono. Vita e morte, mi avete deluso. Io servo solo me stesso.»
  Il gracchiare di quelle nere creature echeggiò come un coro: la risata della morte. «Eppure ci servi entrambe! Mi offri in sacrificio le anime degli innocenti che mieti e studi il mio potere per offrirlo alla vita. Negromante, ti chiamano. Assassino. Non sei vivo, non sei morto. Ma lo sei, non è vero? Il corpo perisce, la volontà resiste. La tua anima è sporca e contamina la purezza che ti circonda. Conservo ancora il tuo lieto dono, per me.»
  Odiava quel dannato mese. Essere testimone della vittoria della morte sulla vita lo repelleva. Le foglie cadevano e annerivano, un vento di guerra si alzava e la luce cedeva spesso e a lungo il passo a un plumbeo scenario. Un conflitto che non lasciava dietro di sé giubilo ma silenzio; non incendio o cenere ma il presagio di una fine imminente, e freddo.
  In un mondo dove i Demoni camminavano tra i vivi, altri e più insidiosi si celavano nell’ombra del libero pensiero: per Ashàn, il suo padrone, erano il destino e il caso; per lui, morte e vita.
  Poteva essere biasimata, ma la crudeltà del suo demone era pura ed equa. Quanto alla vita… essa confondeva. Non aveva senso, eppure lottava per cercarne uno, un’identità; come un prigioniero che cercava di giustificare le scellerate azioni di un carceriere, con cui troppo a lungo aveva convissuto. Gli uomini civilizzati chiamavano questo male Sindrome di Stoccolma.
  Si fermò a raccogliere una delle tante foglie rosse, in una fossa comune che si estendeva fin dove occhio poteva vedere. Ne studiò i contorni bucherellati, chiazzati di un giallo che andava marcendo; prima che il vento gliela strappasse bruscamente dalle dita.
  «Assassino…» soffiò, contro la sua spalle.
  Lo era. Da quel maledetto giorno di Ottobre, lo era.
  E come sempre accadeva, i ricordi riaffiorarono senza avvisare. Dolorosi, lo fecero sibilare a denti stretti. Cercò consolazione artigliandosi il viso con la mano, morta.
  Come potevano quelle dita pallide, che tanto aveva odiato in gioventù, rassicurarlo ora che avevano perso anche il loro calore? Solo un’effimera forma di vita era stata in grado di donarglielo.
  E l’aveva data in pasto alla morte.
  I corvi gracchiarono di nuovo. Il suo demone rideva di lui…
 
Il vento agitava le fronde, le foglie finivano trascinate in piccoli vortici e spazzati via. Calava la notte. Il fresco odore dell’autunno avrebbe sfiorato le sue narici, un tempo, i suoi occhi rossi e malati ringraziato la tregua imposta dall’oscurità.
  Gli scheletri fuoriusciti dal suo corpo e dalla terra si affaccendavano a formare un perimetro difensivo, curavano la tomba dove lui si era accovacciato. Una stecca di legno infilzava un recinto di terreno molle, lì dove aveva seppellito le ceneri di sua madre… e il corpo di suo padre.
  Chiuse gli occhi. I ricordi riaffiorarono di nuovo, come un pugno nello stomaco. Rivide sua madre, Cerva Argentea; rivide sé stesso mentre la pregava di avventurarsi insieme a lui nel bosco. “Stupido ragazzino” avrebbe voluto gridargli! Per quanto abile lei fosse, sua madre non era riuscita a evocare gli spiriti totem prima che quell’orso sbucasse dietro un albero e le dilaniasse le carni sotto i suoi occhi.
  Quella bestia, imponente e nera come il manto notturno, occhi come pozze scure e tenebrose, aveva spalancato le fauci per azzannare. Erano stati gli spiriti di sua madre a proteggerlo; gli stessi antenati che avevano fallito nel proteggere l’unica donna che avesse mai amato da quello scempio d’interiora e sangue.
  «Assassino…»
 
«Temi ancora il rimpianto, invece di affrontarlo, Serpente Bianco.» Furono queste le prime parole del Sommo, suo padre, dopo anni di esilio volontario sulla montagna.
  Quando aveva appreso che la sua compagna era morta, non si era premurato di consolare suo figlio, non aveva provato a vendicarsi, né provato rabbia verso la morte che gliel’aveva portata via. Si era semplicemente ritirato a vita solitaria. A pensare, come suo solito.
  Corvo Argento, il suo austero zio materno, aveva dovuto crescerlo. Inculcargli idee che giorno dopo giorno sentiva di non poter condividere. Una vita dopo la morte? Pace tra gli spiriti dei loro antenati? Lui voleva sua madre, in carne e ossa, non uno spirito che dalla grande aurora boreale sopra la tua testa lo guardava da lontano, giorno e notte: un prigioniero silenzioso che osservava attraverso sbarre fatte di luce.
  Quando aveva scalato la montagna a mani nude per affrontarlo, il Sommo non si era presentato a lui come padre, no. Era Cerva Argentea che aveva visto nel suo viso, con un’espressione di biasimo che lei non gli aveva mai riservato.
  Quando aveva incontrato suo padre, per la prima volta dopo anni di silenzio, aveva scoperto il sapore del rimpianto e dell’odio.
  Quando avrebbe incontrato suo padre, anni dopo, il suo aspetto non sarebbe cambiato. Ma l’esito del loro incontro sarebbe stato assai diverso: il giovane Serpente Bianco, lo stupido, l’albino, era stato scaraventato giù dalla cima della montagna; il Negromante, servo del Ragno, avrebbe affondato il petto nel cuore del Sommo e l’avrebbe strappato.
 
«Assassino…»
  Anche dalla tomba sembrava rimproverarlo. Anche nella morte la sua ombra lo seguiva. Le sue ultime parole non erano state di perdono: avevano profetizzato della sua morte. Invece di chiedere perdono, d’implorare pietà, l’aveva guardato deluso e con lo sguardo sereno.
  Non provava nulla. Eppure un sentimento così umano fece tremare le sue braccia, e le mani che scoprì stringere a pugno.
  Si alzò in piedi di scatto. Gridò. Forte e a pieni polmoni, disperato. La sua mano ossuta penetrò l’addome al di sopra della lunga veste violacea, estrasse la falce d’ossa che custodiva all’interno e in preda all’ira iniziò a graffiare l’aria. Il filo della lama falciò qualunque cosa contro cui entrasse in contatto: foglie, ossa, terra e rami. Sferzò la falce come se i suoi demoni avessero forma fisica e potesse ucciderli!
  Il metallo, per quanto affilato, nulla poteva contro le forze che lo opprimevano, né falciare l’essenza luminosa che gli si parò dinanzi agli occhi. Abbagliante, pura come un ruscello poteva essere nel mese della morte; gli ultimi istanti, i più belli, prima che l’inverno avanzasse e l’acqua congelasse al cospetto del vero freddo.
  Lo spirito argentato di una cerva apparve dinanzi ai suoi occhi piangenti. Lo spirito di lei, sua madre. Un’opalescente figura, l’idea di una forma, e lo guardava con tristezza. Ecco, in cosa si era trasformata Cerva Argentea: una lontana reminiscenza della vita; com’era lui, eppure non potevano essere più lontani. Un’anima che guardava negli occhi della Non-Morte, cercando di scovare un simile; ignara che fosse stato sacrificato sull’altare del progresso.
  Scosse la testa. «Eccomi, madre. Tuo figlio.»
  Cerva Argentea non rispose. Non avrebbe potuto, o voluto.
  «L’essere a cui hai dato la vita e se n’è privato di propria iniziativa. Ti ho ucciso, ho ucciso mio padre…»
  «Assassino…»
  «Sei fiera di me, dimmi? Approvi le mie azioni?» Un tuono scosse il cielo. Cerva Argentea non si mosse, fomentando la sua ira. «Rispondimi!!»
  Ella non lo fece. Si avvicinò e il suo muso gli sfiorò il viso. La luce argentata, la sua anima, diffuse un calore ora doloroso. Un abbraccio di luce che consumò la pelle, lasciando intravedere la vuota vita fatta d’ossa al di sotto dell’illusione: un abbraccio materno.
  «Tu mi condanni, eppure continui a proteggermi.» Sfidò la luce per incontrare l’ombra del suo sguardo. «Io ti odio… eppure non riesco a lasciarti andare. Ogni anno, a ogni respiro, ci incontriamo e ci facciamo del male.»
  Cerva Argentea si allontanò. Una lacrima d’argento discese dal muso e divenne fumo. Gli diede le spalle. Con un balzo prese il volo. Sparì tra le fronde degli alberi spenti, che s’innalzavano ora verso una luna piena per mezzo delle folate di vento, come le braccia dannate dei disperati; il vento trascinava i loro ululati d’agonia mentre i tuoni si susseguirono senza sosta.
  Poi, anche la luce della luna si oscurò. Un acquazzone si riversò nella foresta: le lacrime di una vita che piangeva, straziata dalle torture della morte.
  Chinò la testa. In ginocchio, lasciò che l’acqua inzuppasse le sue vesti violacee e il terreno, le sue ossa e quelle dei non-morti che lo circondavano. Le risa della morte si erano spente, il pianto della vita si posava su cumuli di foglie e fango, annerendoli.
  Rimase a lungo sotto la pioggia. Quando levò lo sguardo, notò decine di scheletri osservarlo da orbite vuote, i loro corpi scricchiolanti che parlavano una lingua per molti ancora sconosciuta.
  «Presto, amici miei. La vita ci ha tradito, la morte è dolore e catene. Se il destino ci impone di accettare d’essere effimeri, dovrà essere schiacciato. L’esistenza e la memoria non meritano l’insulsa condanna di trasformarsi in veleno. Il vecchio non può e non deve lasciare spazio al nuovo. Io ci salverò. Sconfiggerò la morte, imprigionerò la vita in una prigione dalle catene dorate. Lo giuro sull’unica forza che mi tiene ancorato a questa non-vita: il rimorso, il dolore.»
  La vita era angoscia, la morte distruzione; non l’avrebbe accettata in nessuna forma.
  Si alzò. Risoluto, come ogni anno da che aveva cominciato quell’assurdo rituale. Viveva per ridare vita a uno spirito che l’avrebbe rifiutata, eppure persisteva nel raggiungere i suoi scopi. Nonostante il dolore che, sapeva, la delusione di Cerva Argentea gli avrebbe causato. Era giunto il momento che anche la morte evolvesse, che maturasse rigettando finalmente il suo capriccio.
  Questa era la via. Non avrebbe abbandonato le sue spoglie immortali finché non avesse diffuso la cura in tutto il mondo. Era diventato null’altro che questo lo scopo della sua esistenza, la forza che lo spingeva ad andare avanti e non accettare le regole di un mondo sbagliato.
  «Sindrome di Stoccolma» commentò. «Offrii mia madre nel tuo mese più sacro, ma non fu un dono. Morte, vita, io vi avverto: io non sono lo strumento del vostro diletto, sarete voi il mio. In Ottobre diffonderò l’immortalità e il grigiore. Diverrà il mio mese sacro. Continua ad adularmi, morte, continua a temermi, vita. Gli uomini civilizzati la chiameranno Sindrome di Ottobre, oh sì.»
  Sorrise. «Temetemi.»
 
 Angolo autore: 
Salve a tutti. Oggi vi ho proposto un piccolo approfondimento sul Negromante: un villain delle Cronache dei Lupi, ma anche un uomo che ha sofferto e amato. 
Questo racconto alla fine non aggiunge molto ai suoi obiettivi o alla sua persona, ma spero abbia approfondito almeno un poco il complesso rapporto che vive con lo spirito della madre.
Ringrazio Fantaysytrash per aver creato l'occasione giusta per mettere in piedi questa storia e spero che vi sia piaciuta; nella sua acidità xD
Alla prossima
Spettro94
   
 
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