Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: burnthemall    11/11/2020    0 recensioni
"L'amore è un chiodo sotto al piede. Chi ne è punto spreca anni sperando di trovare la propria controparte, il pezzo che avrebbe combaciato alle lacune dell'anima: un frammento di felicità elettrica. Ma perché dovrei essere la protagonista di questa storia? Ne conosco già la fine, e non sarà lieta."
Ovvero: drammi esistenziali di una adolescente convinta di sapere tutto della vita.
E che si sbaglia.
Genere: Angst, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Bondage, Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

II




 

Leopoldo raramente si mostra furioso. Per lui, palesare una qualsiasi emozione è considerata cosa rozza, mediocre, ignobile. Ma quel giorno di fine agosto nei suoi occhi c’erano capillari rossi a sporcare il bianco della sclera, e la bocca era piegata in un ringhio selvaggio - mezzo animale ferito e mezzo predatore in procinto di attaccare letalmente. 

Uno dei miei motti preferiti imparati dai mille libri che inalo va dicendo: tu sei quello che resisti. Più ti reprimi più ciò che ti tormenta si impossessa di te. Per questo, ogni tanto, mi sorprendo ad approvare della rigida alterigia comune alla sua famiglia. Perché la volta che perdi il controllo, offri uno spettacolo socialmente devastante i cui spettatori lasciano la scena quasi disgustati, come se hanno appena assistito a qualcosa di osceno; un abominio, tenuto incatenato, finalmente lasciato libero di agire d'istinto. A spettacolo concluso, rimane solo il rimorso e la vergogna con cui fare i conti. E quel pomeriggio, era successo proprio questo. Incredibile come un mero sentimento possa trasformare persino un’apparente statua di sale: Leopoldo passava quasi per un comune mortale. A contrastarlo, i tratti spudoratamente immobili del viso Vale, i muscoli della mascella controllati nella loro calma fittizia, e la fredda, educata efficienza con cui ha affrontato il suo avversario. 

Una faccia di bronzo che è valsa più del suo meritato trofeo placcato d'oro. 

Come era riuscito Vale a mantenere il coraggio? Forse essere alto uno e novanta dopotutto giova. D’altra parte la mia enfatica vulnerabilità - il mio metro e sessantatre, gli arti snelli adatti per ballare danza classica più che per giocare a basket, i fiocchi di seta a legarmi i capelli - è una maschera di innocenza perfetta da indossare quando si compie un crimine efferato. 

Anche io sono efficiente nell’usare le mie armi. 

E’ sempre stato così, da quando la signora Natura ha cominciato a dettar legge un botto lontano lontano. La gente è codarda, ecco tutto, anche se nessuno nella sua stupidità vuole accettarlo. Perchè, nonostante le proteste del contrario, una persona ordinaria si appaga rispecchiandosi nella superficie fosca del lago, priva dell’impulso di immergersi tra le acque a cercare il mostro accoccolato nel profondo. Quell’innata noncuranza rispetto al dubbio è puro istinto di sopravvivenza. Alla gente, Leopoldo lo sa bene, piace l'artificio. Ognuno preferisce le storie che si vanno a raccontare alla realtà senza fronzoli. Questo è un fatto che almeno io - abilissima Penelope nel tessere le mie fantasticherie - sono capace di ammettere. E di sfruttare. 

Così, nessuno ha notato - sospettato - la ragazza con i fiocchi nei capelli allontanarsi tra la folla quando il destriero ha disarcionato il suo cavaliere. Un tonfo duro sull’erba smeraldina, e il rumore a risacca di centinaia a trattenere il respiro, hanno decretato la fine dell’ultima partita di Polo stagionale. Una finale tanto agognata quanto controversa, per molti - quelli che contano - considerata come una completa disfatta. 

Se tutto fosse andato secondo i piani, sarei stata costretta, spinta dagli artigli di mia madre sulle spalle, a presentarmi sul podio e indossare un sorriso smagliante per congratularmi col team vincitore. Al leader della squadra che, trionfante, si sarebbe gloriato di fronte alla stupida massa plaudente, alzando contro il cielo blu la coppa del torneo regionale. Quello era ciò che aveva preveduto Leopoldo, declatando al tavolo dell’aperitivo le ottime probabilità di vittoria del figlio. 

Una blasfemia, avevo pensato io, intenta a ingollare limonata. Ma facilmente scongiurabile

E’ stato un gioco da ragazze.

Troppa gente si dimentica che i cavalli, grandi e grossi come sono, non sono animali predatori. Per farti temere, basta un comunissimo rinforzo negativo. Nella psicologia del comportamentismo studiano come gli animali tendono a imparare una determinata condotta se incoraggiati da specifici stimoli. Mettiamo Caligola, il cavallo preferito del clan Monterossi, sui cui Leopoldo aveva speso un malloppo per pascolarlo nel maneggio e nei propri terreni. Io e Caligola ci conosciamo da un po’, complice il trascorrere troppe estati in una certa dimora infestata da mostri, e l’essere soci dello stesso Club Ippico a Roma.

 Il mio piccolo esperimento ha presto dato risultati soddisfacenti. Bastava presentarmi - da sola - al suo box, e cavalcarlo per qualche sessione avanzata dopo aver rabbonito gli istruttori. Sì che ho il permesso, siamo praticamente una famiglia! Poi le parole magiche. Devo chiamare mio padre? E questi poveracci, adeguatamente rinforzati negativamente, mi porgevano le briglie e si congedavano, mandandomi all’inferno nelle loro sempliciotte menti.

 Lasciandomi libera di educarlo come nemmeno un dottore della CIA anni ottanta. 

Un rinforzo negativo funziona così: serve uno spavento, tipo indossare una maschera da clown, quella carinissima di IT con le zanne; e dopo aver istruito il cavallo a seguire un ordine preciso, nascondere la cosa che lo fa spaventare, come suddetta adorabile maschera. Col tempo basta il mero rinforzo a scatenare il ricordo della paura: basta la mia presenza a farlo obbedire. E’ un utile metodo d’addestramento, non così crudele come sembra. Se un cavallo ti poggia lo zoccolo sul piede, premi sul suo stinco fino a quando smette di schiacciarti; anche quello è un rinforzo negativo. Caligola è, contrariamente al suo padrone, intelligente, perciò c’è voluto appena un mesetto per addestrarlo a dovere. A lavoro terminato, il risultato ha pagato i miei sforzi: Caligola si impennava sulle potenti zampe, interrompendo il suo galoppo, ogni volta che scorgeva la mia faccia sorridente - denti in vista. 

Anche nel bel mezzo di una finale regionale. 

Così, non è servito a niente Leopoldo che sugli spalti tifava contegnoso il figlio, o sua moglie che si riparava dal sole con un cappello piumato assurdo, parlottando tra la folla  attorno il campo da gioco; non è bastato il frustino degli atleti a spronare i loro cavalli. Perché io mi sono cacciata a forza di gomitate in prima fila. Ho poggiato le mani sulla balaustra di legno bianco che delimita il campo, intercettando il percorso di Caligola. E’ bastato mostrare la mia faccia sorridente, le zanne in mostra - e voilà. 

Quel giorno Leopoldo si è mangiato il fegato e ha pagato la somma puntata a chi ha avuto il coraggio di rivendicarla. Quella strega della moglie ha smesso di sorridere raggiante ed ha iniziato ad urlare inorridita, la prima tra madri angosciate e altrettanto strepitanti. Le giovani accanto erano intente ad additare il corpo a terra e poi centinaia teste erano ruotate all'unisono dall’altro angolo del prato per vedere il punto segnato subito dopo; il fischio dell'arbitro ha decretato la fine della partita e altre urla erano iniziate, gioia frammista a rabbia e accoramento. 

Io sono stata zitta. Oh, ho goduto silenziosamente, ma ho tenuto acceso il cervello.

 Ho immediatamente iniziato a indietreggiare zigzagando tra la folla formicolante, accorsa allo strillo di quella strega della Gina e ai lamentii del ragazzo riverso a terra, intento a cingersi la spalla. Vivo, purtroppo. Intento a maledire non la bendata signora, ma una tipa molto più familiare: sa bene che quando qualcosa va storto più del fato c’è il mio zampino di mezzo. E siccome la fortuna aggrada me, le sue lagnanze si sono perse nel mare di voci circostanti, un coro concitato di “Stai bene?”, “Ti sei rotto qualcosa?” e, “Peccato per il match, campione.”

Nessuno ha notato - sospettato - il nome Caterina intercalarsi alle sue imprecazioni, nessuno a meno di chi temeva la commozione cerebrale; nessuno eccetto suo padre. Ma non si sarebbe osato, mi ero detta, affrontarmi in pubblico.

 Un crimine perfetto. 

Cara Tilde, ti narro una storia: quando ero una giovinetta di tipo dieci anni, intendevo diventare giocatrice di Polo professionista. Più per distruggere i sogni agonistici del Vampiro che per bruciante passione, lo ammetto. All’annuncio dell’ambizioso progetto mammina si è premurata di spiegarmi che lo sport era una cosa da uomini. Certo, le femmine giocavano pure, ma non mi sarebbe mai capitato di sfidare un uomo ad una vera partita. Mia madre sapeva - diceva stizzita - quanto fossi competitiva, ma sarebbe giunto il giorno - aveva sospirato invocando pazienza - in cui avrei dovuto arrendermi alla natura: i maschi erano più forti delle ragazze. Avevo sprecato molti anni e lacrime per capire che, nonostante partissi svantaggiata, ciò non significava che avrei perso comunque. Combattere ad armi pari in guerra? Cesare avrebbe scosso il capo disgustato. Il fair play esiste sul campo da gioco, non nella natura. 

Mi ero concessa un piccolo sogghigno osservando il nemico prostrato a terra, prima di voltarmi. 

Roma Invicta,” avevo canticchiato sotto voce, scappando. 

Peccato che nessun altro avrebbe potuto aprezzarne la morale.

 

*

 

Camminavo di buona lena, ma non tanto velocemente da destare sospetti. Scansavo gente tra la scia di persone intente ad accorrere per fingere di aiutare - sono tutti dottori freschi di Harvard quando qualcuno famoso si fa un graffio. Quello che in realtà facevano era rovesciarsi drink addosso peggio di me, e sgomitarsi l’un l’altro meglio di me, per avere un panorama privilegiato sul nuovo spettacolo: la tragedia del Leone Caduto. 

Quante storie, avevo pensato io. Non è neppure morto.

Raggiunta un'adeguata distanza di sicurezza, mi sono voltata indietro. 

Vestiti pastello svolazzanti nella brezza calda, indicibili cappelli inglesi alla Ascot, gentlemen in completo da chiesa; vecchi e giovani, tutti lì a far baccano. E ovviamente in mezzo a loro spuntava il capo ramato di mio padre; lui e i suoi stramaledetti riflessi da squalo. E’ stato uno dei primi ad arrivare sul fatto, ed era attualmente intento a stemperare il panico generale e la rabbia degli atleti. 

La partita si era chiusa con un colpo sulla caduta, vincente. 

Ora mio padre aveva smesso di rassicurare e aveva cominciato a dirigere la calca con quel suo tono professionale che usava quando c’era una reale emergenza in corso, intimando di stare calmi, non c’era nulla da vedere (la rissa scoppiata tra le due squadre lo avrebbe presto smentito). Il suo sguardo scorreva sugli spalti oltre il campo di gioco. Cercava me.  

Mi sono sono fiondata dietro una quercia vicina. 

Nell’ombra, ho posato una mano sudata sul cuore tamburellante: paura? Pentimento? 

No, mi sono corretta, questo è il battito della felicità. 

Il Vampiro se lo era meritato - e come Dracula, sarebbe ritornato, dopotutto. 

Che esagerate, ho pensato occhieggiando un gruppo di ragazze scattarsi selfie sullo sfondo della baraonda creatosi. A dire il vero, le avrei copiate se non fossi stata l’artefice della baraonda, inviando una foto commemorativa a Tilde. 

Era meglio stare fuori dal pericolo, lontana dai miei e, soprattutto, dai suoi. Nascosta da mio padre, sotto quell’ampio vecchio albero, ero salva. Ho tirato sospiro di sollievo - prima che una mano mi acciuffasse il braccio in un moto di vera furia, piantandomi la faccia contro fino a quando il suo naso aquilino si era quasi cozzato con il mio. 

Ed erano iniziate le vere urla. 

Quante storie, avevo pensato ancora, stordita, badando di mordermi la lingua all’aggiungere, nessun morto, per sfortuna. Tempo di sembrare contrita - e mentire. Non che servisse a qualcosa, perchè Leopoldo non era un’idiota. 

Una persona normale avrebbe notato l’adorabile ragazza nel vestito bianco di pizzo e si sarebbe subito sciolta al vedere il paio di occhioni pieni di lacrime, all’ascoltare la vocina tremolante trattenere eroicamente i singhiozzi. E’ stato terribile, ho visto tutto dalla prima fila. Ho bisogno di rinfrescarmi. Quelle cretine di madri chiocce mi avrebbero accompagnato al bar, offrendomi personalmente un’altra limonata, tentando di consolarmi dato che tutti sanno quanto vi volete bene, siete come una famiglia, Caterina, vero? 

Già... una famiglia…

Quel povero ragazzo, solitamente è un asso. Vedrai che si rimetterà subito!  Finirà tutto bene, vero?

Certo, come nelle favole. Io, la Principessa sotto il maleficio; loro, quel nugolo di demoni, i Reali…

Lo hanno chiamato Leone, come se fosse il Re Leone, Lord della roccia, capo della combriccola, leader glorioso della classe duemiladiciotto, Mufasa e Simba ritiratevi pure allo Zoo a suon di fischi; voi sfigati con nomi ordinari udite il suo portentoso ruggire - pronti a fargli l’inchino. Lo hanno chiamato così, quei due squilibrati di Leopoldo e Georgina Monterossi, perché la loro hybris è un continente sconfinato mentre il buon senso è ampio quanto gli inesistenti pori delle mie guance. 

Ogni volta che mi figuro il Vampiro provo l’impulso di sghignazzare. Uno dei miei libri spiega che l’essenza di una persona è racchiusa nel proprio nome; a quello stimato autore regalerei un bel pernacchione. Appellarsi Leone, se non altro, può essere considerato in questo specifico caso come una maledizione senza perdono, un marchio nero d’infamia, una lettera scarlatta da appuntare al petto - anzi - un famigerato Meno Due della Taperazzi. L’apoteosi del peggio. 

Caterina, invece, significa purezza, ed è azzeccatissimo alla mia persona. Ma ogni regola ha un'eccezione, così eccoci a trastullarci su l'erede dell’antica e illustrissima casata nobiliare dei Monterossi, al secolo dedito più a guaire come un cagnolino randagio, perchè - povero - era intento a rotolarsi dolorante a terra dopo essere stato sonoramente sconfitto. 

Ad una persona normale, sarebbe bastato rispondere certo che ci sarà un lieto fine, mordendomi le labbra subito dopo, tentando di non far trapelare il mio riso da iena, pensando alla vera storia che non avrei mai raccontato in pubblico. Leopoldo, invece, mi conosceva da quando ero in fasce; conosceva tutte le mie armi, i pianti fasulli ed i sotterfugi. Sapeva cosa ero disposta ad architettare perché, sopra ogni cosa, io odiavo Leone. E Leopoldo la sua famiglia ricambiavano. 

Essere da sola con un Leopoldo impazzito, mentre gli occhi di tutti, per una volta, non si filavano di noi… ebbene, non avevo esattamente paura. Ero sicura che la mia marachella non fosse stata scoperta. Ero solo infastidita dalle dita che mi sciupavano la manica del vestito, strette com’erano sul mio braccio. Poi ho riportato il mio sguardo nel suo, e… avrei voluto che papà fosse qui con me. 

“Cosa è servito questo gesto idiota? Cosa credevi di dimostrare?” 

Non ho risposto. Avevo perso la voce.

“Volevi umiliarci?” Leopoldo mi aveva tirato uno strattone abbastanza forte da farmi tremare i denti. “Hai esagerato! Tu e la tua arroganza siete costate a Leone il suo meritato trofeo!” 

Non hai nessuna prova! era quello che volevo urlare. “Magari avrebbe perso comunque,” era quello che avevo borbottato. 

Merda. 

“Voglio dire - non ho idea di cosa lei stia parlando! Ho visto l’incidente dalla prima fila e sono molto, molto traumatizzata.

Se avessi pensato che fosse arrabbiato, prima, ora iniziavo aver paura sul serio, perché aveva sorriso. 

“Ho capito...” aveva quasi sussurrato, “Vuoi passare per l’ingenua, però ti conosco bene.” 

Mi aveva letto nel pensiero. Non era la prima volta che capitava con il padre della mia Nemesi. 

C’era un'altra cosa che mi era sovvenuta riguardante Leopoldo. Se trami contro di lui non devi commettere fesserie. Questo l’ho imparato col trascinarmi vari anni di fallimenti sulle spalle. Essere efficienti è arduo. Giocare contro gli adulti lo è ancora di più. Specialmente contro uno intelligente quanto sadico - uno che, per appagare la sua sete di vendetta, dopo avermi tirato fuori la verità come nemmeno un torturatore CIA anni ottanta, mi avrebbe voluto trascinare oltre la folla e piazzarmi di fronte all’arbitro, solo per il malvagio piacere di vedere la finta innocente crollare sotto pressione -  

“Come la vogliamo mettere con il tentato omicidio di mio figlio?” aveva chiesto sibillino, interrompendo la corsa folle del mio cervello. 

“Prego?” Ero ancora più smarrita. 

Il suo sorriso si era allargato, tutto zanne alla IT, una visione terribile nella sua rabbia mostruosa. Eppure, il suo contegno era appena più saldo di quanto mi fossi aspettata, come se la mia difesa smorzata gli avesse ridato il controllo sulle sue emozioni - e su di me. Ma non era solo quello.  

Il gruppetto di ragazze starnazzanti era abbastanza vicino per captare il nostro alterco; giusto una manciata di secondi dal messaggiare tutti dello scandalo extra che tale disastrosa partita avrebbe regalato ai gossipponi dell’Olimpo Romagnolo. Un paio di ridacchianti bambini stavano rincorrendosi tra i tavoli dell'aperitivo, ora che genitori e babysitter erano distratti. Un uomo attempato ci aveva sorpassato, sorseggiando il suo cocktail come se nulla fosse, l’unica persona che aveva ignorato il pandemonio creatosi. 

La gente ancora brulicava intorno a noi. Ergo, non sarei stata torturata in maniera plateale

Ciò ha mancato di rasserenarmi. Una tortura ci sarebbe stata, solo non sarebbe avvenuta dove altre persone avrebbero potuto intervenire. Essere consapevole dell’inevitabile mi ha fatto rabbrividire. Anche la mia agitazione è passata inosservata nel clamore. Il breve momento di serenità era già svanito ed il mio istinto mi gridava di perdere: chiedere scusa, supplicare aiuto, scappare da quella situazione in cui non avrei trovato alcun lieto fine.

Quel moto d’istinto di sopravvivenza ha quasi taciuto il mio orgoglio; per un attimo avevo capito perché la gente normale non và a svegliare i draghi dormienti. Poi, come al solito, l’ego aveva prevaricato su ogni ragione: non volevo rinunciare alla battaglia prima del colpo finale, anche se si fosse trattato di un fendente che mi avrebbe mozzato il respiro. Questa era una cosa di cui Leopoldo era consapevole, e che aveva sfruttato a suo favore. Ho imparato il gioco dalla sua famiglia, dopotutto. 

Leopoldo contava sul mio rifiutarmi di arrendermi. Non avrei aperto bocca per attirare l’attenzione su di noi, sul fatto che mi stava ancora stritolando il braccio e rovinando il vestito. Non avrei detto: questa intimità improvvisa mi rende leggermente inquieta. Non avrei detto: Leopoldo, mi fai paura. L’ultima cosa che avrei fatto - di questo eravamo consapevoli entrambi, io a malincuore - era chiamare i miei genitori. Ero, in tutti i sensi che contavano, da sola.

Mi aveva intrappolata.

Oh, non che qualcuno sarebbe corso ad aiutarmi se avessi gridato al maniaco. Sarebbe stato un faux pas, un suicidio sociale, uno smacco alla gerarchia di quell'antico circolo d’elite cui, aimè, il mio ingombrante cognome faceva parte da generazioni centenarie. Ed i leader della combriccola, i Lord della roccia a cui era educato fare la riverenza, si chiamavano Monterossi - i Reali, de facto, tra gli ultimi Principi dell’aristocrazia Romana.

Così, bastava il suo cognome per decretare che tale signore fosse autorizzato a bullizzare una teenager terrorizzata. Mi rimaneva solo da piangere.

 Eppure, l’orgoglio che mi ha messo tante volte nei guai aveva vinto su ogni emozione che minacciava di traboccare dagli occhi. Non avrei rinunciato alla mia dignità. Non mi sarei concessa di arrendermi, anche di fronte all fauci schioccanti del leone. Ho alzato il mento, sperando di andargli di traverso.

Leopoldo aveva assottigliato gli occhi grigi al mio gesto: al rifiuto di prostrarmi a terra... come quel perdente di suo figlio. 

Lo hai fatto arrabbiare di più, aveva bisbigliato Matilde, apparsa giusto in tempo per commentare il mio suicidio sociale.

“Hai visitato molte volte il cavallo di Leone,” Leopoldo aveva ricominciato a parlare, sibillino, “Pensi che lo staff non mi abbia tenuto aggiornato, ragazzina? Caligola non ha mai disarcionato mio figlio in gara, perciò ho il sospetto che centri tu. Devi aver tramato qualcosa di folle per farlo disobbedire, solo per svergognarci. Se io chiamassi il trainer di Leone qui, converrebbe che ciò sia un atto assai grave. La tua intromissione avrà serie conseguenze, ti assicuro.” 

Calmati, ti provoca per farti reagire, ha ragionato Matilde. Invece di calmarmi, mi è salito il panico. Leopoldo mi aveva ricordato mio padre. 

“Conseguenze che potrebbero non giovarti, mia cara. Sono tentato di raccontare a tua madre la tua malefatta. O forse è meglio portarti all'ospedale con mio figlio, tanto sei praticamente una di noi. Così ci potrete spiegare la vostra versione in tutta tranquillità.”

Santa pupazza. Suo figlio avrebbe narrato all’equipe medica, col braccio fasciato, gli occhi lucidi e la voce tremolante, di essere stato la vittima di una pazza carnefice, inventandosi qualunque fandonia fosse più attendibile, anzi, inventandosi di essere stato abusato come Caligola. E addio mondo dei liberi, buongiorno prigione di massima sicurezza. Addio Londra! 

Il panico mi ha avvolto più strettamente della mano di Leopoldo.

 Mantieni la tua versione! Matilde mi ha praticamente urlato contro. 

“Eeep,” ho squittito. 

Silenzio.

Caterina, sei troppo stupida, Matilde aveva gettato lo straccio immaginario.

Ci eravamo guardati soltanto; lui nauseato, io atterrita. 

Ho schiarito la gola. “Si è trattato di un comunissimo incidente, forse è addirittura caduto perchè andava troppo veloce - ” 

Oh, no. L’espressione di Leopoldo era diventata ancora più aggressiva. L’insinuazione che Leone potesse aver sbagliato lo aveva solo reso più risoluto ad accusarmi. 

Ho fatto marcia indietro, il coraggio a pezzi. “Non voglio andare all’ospedale - c’è il sangue, l’odore mi da giramenti di testa...” Ho ridacchiato come una scema del primo anno di fronte al flirtare di Vale. 

La faccia di Leopoldo comunicava che lui non era impressionato dal mio biascicare. Dio, ecco l’errore: perchè non ho costruito un alibi decente? Ero stata così presa dalla mia idea geniale che avevo dimenticato la fase successiva: l’interrogazione Taperazziana. Ho guardato a terra, come per trovare risposta. Aveva piovuto in mattinata, i sandali bianchi si erano sporcati grazie all’erba ancora umida. Nella mia testa rimbombava una familiare voce aspra: Meno Due, signora Caponeri! 

“Sono così scioccata per quello che è accaduto… insomma... vorrei andare a casa, temo di scoppiare in lacrime se assisto alla sofferenza di suo figlio.” 

Ho riportato i miei occhi nei suoi. 

Merda.

No, non ci crede per niente.

“Mio figlio…” era giunto il ruggito, il tono improvvisamente rauco, come se Leopoldo faticasse ad articolare le parole, “Il mio unico figlio è quasi morto - per colpa tua. Tutti i trofei del mondo non valgono un suo capello. Dice che si è rotto un braccio!” 

Leopoldo aveva cinto il mio braccio con più vigore. Avevo storto il viso persa nel dolore. Non sapevo più cosa inventarmi. Ho aperto di nuovo bocca, incerta se continuare a negare o se per iniziare a supplicare -

“Suo figlio sta bene.”

Ci siamo voltati entrambi. 

Un cavallo grigio chiaro scuoteva la coda intrecciata, fermatosi dirimpetto noi. Il suo cavaliere ha tirato le briglie, ancora vestito con l’uniforme candida da Polo, elmetto nero e frustino saldo nel pugno guantato. Doveva aver saltato la ringhiera per raggiungerci al trotto, sfruttando la calca per fregarsene delle regole.

Era stato il vincitore di oggi, in tutti i sensi, compreso quello che contava: aveva segnato lui il punto del match.

La cosa non era sfuggita a Leopoldo. 

“Guarda chi ci grazia… hai trovato il tempo di raggiungerci a chiacchierare, invece di stare ad ascoltare le tue lodi.” Leopoldo lo aveva soppesato con gli occhi ancora assottigliati, calcolatori, per nulla meno minaccioso. “E come faresti a saperlo, Valerio?”

 
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: burnthemall