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Autore: futacookies    13/11/2020    0 recensioni
{soukoku - post Dead Apple - non tiene conto degli avvenimenti della terza stagione dell'anime - happy ending}
Dopo aver quasi distrutto Yokohama nel suo scontro con Shibusawa, Chuuya Nakahara entra nella lista nera del governo: considerato un pericolo pubblico, ancor più poiché sottotenente della Port Mafia, va eliminato. Ango avverte Dazai nel tentativo di risparmiargli un’ennesima sofferenza. Si presentano a quest’ultimo due possibilità: lasciar morire il suo storico partner, oppure cercare di salvarlo; deciso a volerne evitare la morte, Dazai prova quindi a spingerlo ad unirsi all’Agenzia dei Detective Armati, dove non sarebbe più visto come una minaccia. Tuttavia convincere uno dei fedelissimi di Mori a voltargli le spalle è più difficile del previsto, e per strappargli la promessa di abbandonare la Port Mafia saranno necessarie misure drastiche.
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Ango Sakaguchi, Chuuya Nakahara, Osamu Dazai
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note (che probabilmente sarebbero dovute andare all’inizio del primo capitolo - ma va be’): queste storia, che ha finalmente visto la luce quest’estate, ha avuto una lunghissima gestazione. Chuuya che finisce all’ADA è un po’ il sogno nemmeno troppo segreto di ogni soukoku shipper, ma dato che io sono fissata con il canon ho dovuto riflettere a lungo per trovare una trama che mi convincesse e sostenesse questo tipo di prompt - e ciò non toglie che in ogni caso la caratterizzazione dei personaggi (salvando giusto qualcuno) mi sembra comunque in alcuni casi forzata o comunque giustificata solo dagli eventi della trama stessa della storia. 

In realtà, quello che ho appena pubblicato è la prima parte di un capitolo che per forza di cose (soprattutto per la mia pigrizia nell’editarlo) ho tagliato a metà: se alcuni temi sembrano lasciati sospesi saranno sicuramente ripresi e conclusi nel prossimo - e penultimo - capitolo. 

Per ulteriori note, alla fine! Buona lettura!


 


Capitolo 2 


(parte prima)



 

«Allora, è filato tutto liscio?», chiese Ranpo, pescando una caramella dal barattolo che si accertavano di mantenere sempre fornito.

«Come l’olio», gli rispose Dazai, distendendo le gambe sulla sua scrivania. Kunikida, stranamente non in anticipo, ancora non s’era fatto vedere. Erano stati giorni difficili per lui, costretto ad improvvisare mossa dopo mossa oltre che a dover fare i conti con la sua continua presenza. Dazai non l’avrebbe biasimato se si fosse preso un giorno di ferie ‒ anzi, sarebbe stato addirittura apprezzabile, considerando che in tal modo sarebbe riuscito a portare avanti il piano di Ranpo-san senza ulteriori intoppi.

«Eh, ovviamente non c’erano dubbi.», Ranpo sorrise sornione, masticando rumorosamente. «Dazai-kun, questo significa anche che-»

«Via, via, Ranpo-san, non sai ancora leggere il futuro. Non ci sarà bisogno di arrivare a tanto.»

Dazai ignorò l’occhiata penetrante che Ranpo gli rivolse. Se ci fosse riuscito, avrebbe anche completamente ignorato Ranpo, visto che non poteva fare a meno di pensare che secondo i suoi calcoli una semplice prigionia e qualche blanda minaccia di consegnarlo alle autorità competenti non sarebbero state sufficienti per convincere Chuuya ad unirsi all’Agenzia. E pensare che ancora ne doveva parlare con il Presidente, che forse avrebbe anche dovuto discuterne con pezzi grossi del governo che gli avrebbero semplicemente chiesto la testa di Chuuya. Cercò di non dare peso alla sensazione di nausea che gli montava nello stomaco. 

Il Presidente arrivò un quarto d’ora dopo, annuendo solennemente mentre Kunikida gli descriveva in maniera dettagliata tutte le violazioni del suo codice etico-lavorativo a cui era stato costretto ‒ Dazai sentì soltanto baffi e pennarello indelebile e nascose il suo ghigno soddisfatto. Quando Kunikida rientrò, puntando direttamente alla sua scrivania e facendo finta che lui non esistesse, Dazai capì che sarebbe stato un ottimo momento per andare a parlare con il Presidente di- be’, di tutta la questione di Chuuya. 

Fissò ostilmente la porta del suo ufficio: avrebbe proprio dovuto alzarsi. Di certo, se avesse continuato a fissarla, non si sarebbe aperta rivelando che il Presidente aveva già magicamente compreso tutto e si era impegnato per risolvere i suoi problemi ‒ non che Dazai volesse che il Presidente risolvesse i suoi problemi, ma che almeno gli spianasse la strada? Sarebbe stato molto più facile se gli avesse spianato la strada.

Quindi. La porta. Adesso doveva proprio muoversi, altrimenti sarebbero arrivati anche tutti gli altri e poi la segretaria sarebbe passata per riferirgli eventuali richieste giunte all’Agenzia e poi Kunikida avrebbe completato il suo rapporto ‒ e vista la furia con cui batteva sulla tastiera doveva già essere a buon punto ‒ e discutere discretamente sarebbe diventato impossibile. Sì, era proprio il caso che si alzasse. 

Continuò a fissare la porta. Cosa avrebbe dovuto dirgli? Tutto? Avrebbe dovuto omettere qualcosa? Avrebbe dovuto cercare di convincere il Presidente che era nell’interesse di tutti mantenere Chuuya all’Agenzia a tempo indeterminato per interrogarlo? E come avrebbe dovuto dirglielo? Gli sarebbe toccato usare un tono strappalacrime per impietosirlo? Sarebbe dovuto sembrare freddo, calcolatore e disinteressato? Avrebbe dovuto casualmente proporre di convincere Chuuya ad unirsi a loro? Arricciò il naso, vagliando le sue possibilità ‒ avvertiva addosso lo sguardo divertito di Ranpo-san che lo stava giudicando. 

Poi la porta si aprì.

«Dazai-kun, una parola.», gli chiese il Presidente, facendo cenno di seguirlo. Dazai scattò su come una molla.

«Magari è la volta buona che ti licenzia.», suggerì Kunikida, senza nemmeno sollevare lo sguardo dallo schermo. 

«Nei tuoi sogni!», sentenziò Dazai, sciogliendosi un po’. In fondo, non c’era bisogno che si preparasse chissà che discorso. Mica era Kunikida, lui. Avrebbe sentito quello che il Presidente aveva da dirgli e avrebbe seguito il flusso della situazione per portarla a suo vantaggio. 

 

******

 

«Mi sembra di capire», iniziò, indicandogli la poltrona di fronte alla sua scrivania e offrendogli del tè, «che quello che sta dormendo nella nostra infermeria sia un sottotenente della Port Mafia.»

«Mhh.»

«E che, oltre a essere il tuo ex partner, sia anche un dotato estremamente pericoloso.»

«Uhm.»

«Non è una situazione semplice.», spiegò, schiettamente. «Puoi almeno giustificare la sua presenza?»

«Dovremmo interrogarlo.»

Fukuzawa gli rivolse un’occhiata scettica: «Non mi sembra in condizioni ottimali per un interrogatorio.» 

Dazai sbuffò, mentre il Presidente continuava: «Vista l’eccezionalità della situazione, stamattina sono stato costretto ad avvisare la Divisione per le Abilità Speciali. Taneda-sensei ti ha dato due settimane per ricavarne qualunque informazione pensi ti possa servire. Poi sarà prelevato dal governo e si deciderà se restituirlo a Mori-sensei oppure-»

Lasciò la frase in sospeso. Dazai tacque per qualche istante, sorseggiando il suo tè. Doveva dire qualcosa ‒ qualcosa di diverso da una tiepida scusa. Due settimane erano troppo poche. Chuuya odiava i cambiamenti: aveva impiegato mesi per adattarsi ai ritmi della Port Mafia. 

«E se, ipoteticamente, Chuuya si unisse a noi, Taneda-sensei sarebbe disposto a concederlo?»

Ci fu un lampo negli occhi di Fukuzawa che Dazai poté interpretare solamente come pietà. Fu un istante, davvero, ma forse era abbastanza per sperare di ammorbidirlo.

«Mori-sensei non ne sarà felice.», commentò, asciutto.

«Non è stato felice nemmeno quando io ho defezionato.», Dazai rispose, alzandosi. «Eppure eccoci qua.», aggiunse con una scrollata di spalle. Fukuzawa non disse più niente, quindi Dazai si congedò e iniziò a riflettere sulla sua prossima mossa. 

La proposta di Ranpo-san, che fino a mezz’ora appariva come un’estrema soluzione finale, forse era una delle poche opzioni che gli restavano. Non gli piaceva, l’idea di dover ingannare Chuuya per spingerlo a fare qualcosa che in condizioni normali non avrebbe mai accettato ‒ ma queste non erano condizioni normali e Dazai stava soltanto cercando di proteggerlo. Solo che avrebbe preferito farsi amputare la lingua piuttosto che ammetterlo ad alta voce. 

Andò verso l’infermeria. L’effetto dei sonniferi somministrati da Yosano-sensei sarebbe dovuto durare per almeno un altro paio d’ore, poi avrebbero dovuto pensare ad un metodo efficace per renderlo inoffensivo abbastanza a lungo da intavolare una discussione civile. Forse potevano sperimentare quella nuova arma su cui stavano lavorando Kunikida e Yosano-sensei. Oppure gli sarebbe toccato stargli continuamente appiccicato mentre qualcun altro si occupava di tenerlo impegnato.

«Ah, Chuuya, Chuuya», mormorò, accasciandosi sulla sedia affianco al lettino. «Quanta fatica mi costi.»

Chuuya, immerso in un sonno profondo, non accusò minimamente le sue parole. Il suo profilo era molto più affilato di come ricordava, c’erano rughe sconosciute e la sua espressione non era rilassata nonostante stesse dormendo già da parecchio. Un tempo Chuuya perdeva tutta la sua minacciosità nel momento in cui chiudeva gli occhi, sembrava sempre più piccolo, stanco e indifeso di quanto in realtà non fosse. Adesso c’era una perenne tensione sul suo viso ‒ era forse perso in un incubo, in uno dei numerosi mondi in cui non riusciva a salvarlo?

Gli scostò una ciocca di capelli dal viso e le sue dita indugiarono sulla sua fronte, sul naso, sulle labbra semi-socchiuse, spinte da una memoria muscolare che pensava di aver soppresso. Faceva quasi male guardarlo ‒ c’era un dolore sordo, nel suo petto, al pensiero che la sua vita forse appesa ad un filo che diventava sempre più labile e sempre più corto ogni minuto che passava.

«Oh!», esclamò Yosano-sensei, spalancando la porta. «Ho forse interrotto qualcosa?», chiese, ironica.

«No, affatto.», confermò Dazai, ritirando immediatamente la mano. «Stavo giusto pensando che sarebbe il caso di spostarlo, prima che svegli. Potrebbe opporre resistenza.»

 

******

 

«Chuuya~, Chuuya~, Chuuya~», cantilenò Dazai, cercando di scuoterlo. Chuuya, ammanettato e rilegato in uno sgabuzzino dell’Agenzia, continuava a dormire.

«Chuuya~», si lamentò, «lo sai che è cattiva educazione far aspettare le persone?»

Secondo i calcoli di Yosano-sensei, Chuuya avrebbe dovuto svegliarsi un’ora e mezza fa ‒ Dazai non era nemmeno sicuro stesse dormendo, probabilmente era sveglio da un pezzo e stava aspettando una buona occasione per attaccarlo. Lo scosse con maggior vigore. Chuuya schiuse una palpebra.

«Oi, idiota. Cos’è che mi avete fatto? È da un pezzo che non riesco ad attivare la mia abilità.», chiese, cominciando a dimenarsi. Dazai lo ignorò.

«Mhh~»

«Dazai, maledetto, se non inizi a parlare ti faccio a pezzi!», sbraitò, cercando di muovere le gambe quanto bastava per tirargli un calcio. Dazai lo evitò con un saltello nella direzione opposta.

«No, no, Chuuya, non ci siamo proprio:», lo riprese, picchiettando con l’indice la sua fronte, «dovresti essere molto più garbato nei confronti dei tuoi ospiti.»

«Ospiti?», domandò, guardingo.

«Be’, sì, per le prossime due settimane. Poi sarai prelevato dal governo e-», non terminò la frase, ruotando un paio di volto il polso ad indicare cose che avrebbe preferito non dover spiegare.

«E?»

«Be’, probabilmente la tua testa verrà servita al Primo Ministro come prova che si sta davvero facendo qualcosa per fermare la Port Mafia.», annunciò, osservando divertito il ghigno di Chuuya.

«Che ci provino! Finirei solo con l’ucciderli tutti.», poi lo guardò, indispettito. «E Ango Sakaguchi sarà il primo.», minacciò.

«E hai tutta la mia approvazione per questo, davvero. Ma ci sarebbe anche un’altra possibilità.», tentò, cercando di suonare quanto più distaccato possibile. Se Chuuya avesse solo subodorato la puzza di qualcosa di grosso, sotto tutte le sue bugie, non gli avrebbe dato pace finché non avesse vuotato il sacco ‒ cosa che non sarebbe successa e avrebbe portato soltanto a più bugie e ad un Chuuya molto più insistente, in un ciclo infinito di botta e risposta al sapore di menzogna.

«Davvero? Tu mi aiuteresti a scappare da qui?», chiese, sarcastico. La sua voce, sebbene impastata di sonno, risuonava dolorosamente sprezzante alle sue orecchie. Non era il solito sfregio con cui si riferiva a lui, non era l’avversione velatamente affettuosa con cui pronunciava, esasperato, il suo nome. Era, e quasi riusciva a capirlo, perché lui si era trovato nella sua stessa situazione, prigioniero sotto un tetto sconosciuto che in altre circostanze avrebbe potuto essere amico, la voce di qualcuno che si sentiva tradito ‒ con l’unica differenza che Chuuya, disceso nei sotterranei della Port Mafia per vendicare un voltafaccia mai davvero perdonato, non l’aveva mai tradito. 

«Be’, diciamo. Insomma. Scappare, sicuro. Da qui, eh, un po’ meno.», fece una pausa. Questo era il momento in cui si giocava e possibilmente chiudeva la partita. Se avesse accettato spontaneamente, bene ‒ in fondo, gli stava mostrando una via di scampo da una morte certa. E se avesse rifiutato, avrebbe trovato il modo per trattenerlo. «Perché non ti unisci a noi

Forse fu il fatto che disse noi, marcando una distanza che tra loro esisteva da anni ma che non era mai stata ufficialmente riconosciuta ‒ perché c’era l’Agenzia contro la Port Mafia, certo, ma c’erano anche Chuuya e Dazai, che in casi eccezionali costituivano un fronte tutto loro che risolveva i problemi autonomamente ‒, forse fu il tono con cui lo disse, trattandola come una semplice transizione che non sarebbe costata fatica a nessuno, il semplice risultato di una sottrazione e un’addizione, non il totale cambiamento di peso di una bilancia che si teneva in equilibrio per miracolo. Fatto sta che Chuuya non la prese bene.

«Ahhh?»

In ultima analisi, era ovvio che avrebbe reagito così. Chuuya non era né un codardo, né un traditore ‒ e si sentiva, ed era, a tutti gli effetti, un criminale. Piuttosto che voltare le spalle a Mori-san, avrebbe preferito affrontare l’intero dipartimento governativo, e conoscendo la sua testardaggine avrebbe vinto o sarebbe morto tentando. Chuuya, al contrario di Dazai, teneva molto di più al suo onore che alla sua vita ‒ ed era un lusso, Dazai gli concesse, che poteva permettersi: la sua vita non implicava il salvataggio di altre.

Mentre Chuuya sbolliva il suo moto d’indignazione, Dazai ne approfittò per riflettere: avrebbe dovuto cercare di farlo ragionare, subito? In fondo aveva altri tredici giorni e sicuramente con il passare del tempo Chuuya avrebbe compreso quanto erano limitate le sue scelte. E avrebbe scelto lui. Loro.

 

******

 

«Oi, sensei, cos’è ‘sta roba appiccicosa che sento addosso? È questo che mi impedisce di usare la mia abilità?», chiese, appena vide il camice bianco fare capolino dalla porta. A occhio e croce era lì da quattro giorni. La luce fioca che filtrava dalla finestra oscurata serviva a malapena per distinguere le forme ‒ gli portavano da mangiare a turno, e Dazai tornava spesso per tormentarlo con quella stronzata di unirsi all’Agenzia. Come se avesse mai potuto accettare. 

«Quella roba-», spiegò con un sorriso divertito ‒ gli dava sempre l’impressione che lo stesse prendendo per il culo ‒ «-è sangue di Dazai. Un piccolo esperimento su cui stavamo lavorando io e Kunikida-kun, per capire fino a che punto funzioni la sua abilità. È stato straordinariamente entusiasta quando mi sono avvicinata a lui con un bisturi e una siringa.»

«Che schifo.», borbottò, osservando corrucciato il sangue raggrumato sul suo braccio. 

Lei scrollò le spalle. «Si fa quel che si può.», commentò, lasciandogli in grembo il vassoio. Aveva mandato indietro intatti tutti gli altri. «Mangia.», lo minacciò, inginocchiandosi affianco a lui, «Altrimenti la prossima volta dovrò presentarmi con una flebo. Chi sa che non permetta a Dazai di scegliere cosa metterci dentro.»

Chuuya afferrò di cattivo umore le bacchette e si ficcò un boccone di riso in bocca. Probabilmente era davvero orribile come gli sembrava, ma la prospettiva di qualunque cosa stesse minacciando di somministrargli era peggiore: sotto il suo sguardo arcigno vuotò rapidamente la scodella. 

«Sai, nessuno pensa davvero che sia una buona idea tenerti qui.», iniziò, riprendendosi il vassoio, «Ma Dazai non ha voluto sentire ragioni.»

Non voleva davvero sostenere quella conversazione. Voleva che quelle due settimane passassero in fretta, così avrebbe potuto risolvere ‒ be’, qualunque problema ci fosse con il governo ‒ e poi sarebbe tornato a casa e avrebbe stappato in una bottiglia in onore delle proprie vicissitudini. 

«Vuole che mi unisca all'Agenzia.», borbottò contrariato. Quell’informazione sembrò attirare l’attenzione della dottoressa, che si girò verso di lui incuriosita ‒ gli diede la spiacevole sensazione di essere sotto la lente di un microscopio, pronto per la dissezione. 

«Non vuole farti finire nella mani del governo.», rifletté. «Gentile, da parte sua.»

«Gentile. Certo. Come se Dazai fosse capace di gentilezza.»

E se anche lo fosse stato, di certo quella non era gentilezza. L’aveva praticamente sequestrato, adesso era perennemente ammanettato e chiuso in uno sgabuzzino, con l’unica, saltuaria compagnia di gente con cui solitamente si scontrava su ogni piano possibile e inimmaginabile, in attesa che un triste destino si dovesse compiere. Certo, quella era gentilezza. Sicuro. Dazai teneva così tanto a lui che il suo ultimo, strampalato piano prevedeva di tenerlo chiuso lì finché non avesse fatto quello che voleva. Gentilissimo.  

«Puoi pensare ciò che vuoi, ma dire che Dazai non sia capace di gentilezza-», si interruppe, un sorriso amaro stampato sul volto. «Non so che Dazai tu abbia conosciuto. Ma so che è diverso da questo. E so quali effetti può avere l’influenza di Mori sulle persone.», si alzò, chiaramente a disagio. «È inutile arrovellarsi il cervello in cerca di qualche secondo fine. È inutile cercare di misurare le azioni di questo Dazai con i parametri del tuo Dazai. A volte può trattarsi davvero di semplice gentilezza.», concluse, cominciando a rovistare tra i cassetti.

Chuuya non disse nulla. Avrebbe voluto protestare nel momento in cui aveva nominato il Boss, ma c’era un dolore terribile nella sua voce che gli aveva impedito di fare alcunché. Non si stava davvero arrovellando il cervello in cerca di un secondo fine. Era più che altro convinto che si trattasse di un capriccio ‒ lui ci stava bene, alla Port Mafia, si sentiva a suo agio, circondato da persone che conosceva e che lo rispettavano e più probabilmente lo temevano. E l’influenza del Boss non era tanto orribile quanto cercava di dipingerla.

Forse Dazai era cambiato, nel momento in cui si era unito all’Agenzia, o forse era quello che i suoi colleghi continuavano a ripetersi per non dover fare i conti con la consapevolezza che fosse un ex mafioso. Forse li aveva semplicemente ingannati tutti. Ma se pensava di riuscire a ingannare anche lui ‒ be’, si sbagliava di grosso. Chuuya lo aveva  visto commettere, senza neanche battere ciglio, atti che la maggior parte dei membri dell’Agenzia non sarebbe nemmeno stata in grado di concepire. Aveva visto ogni possibile sfaccettatura di Dazai e ne aveva concluso che tutti i suoi lati fossero il peggiore, perché davvero non esisteva qualcosa di buono di lui ‒ forse, all’inizio, non era esistito nemmeno un seme tremendamente malvagio, ma la sua naturale pigrizia e l’assoluta assenza di una morale aveva reso molto più facile la discesa verso la spirale di crimine in cui già era avvolto quando si erano conosciuti per la prima volta. Forse, effettivamente, anche l’influenza di Mori c’entrava qualcosa.

Ma che persone che lo conoscevano a malapena da un paio di anni gli venissero a dire che fosse cambiato, e che quello non era più il suo Dazai ‒ con qualunque implicazione questo potesse avere ‒ non era semplicemente inaccettabile. Era assurdo. Ai limiti del comico. 

«Ti darò qualcosa su cui riflettere, Nakahara-kun: perfino stare qui è meglio che far parte della Port Mafia.»

 

******

 

«Oi, Dazai! Possibile che non abbiate niente di decente da bere in questa topaia?»

Dazai, che aveva appena fatto capolino dalla porta, rise. Gli diede fastidio. Era proprio una risata. Chuuya realizzò distrattamente che non lo aveva mai sentito ridere così ‒ non c’era mai stato nulla di così autentico, spontaneo e cristallino nel Dazai che ricordava. Non con lui, almeno. 

«Ah, Chuuya, effettivamente ero sul punto di offrirti il mio preziosissimo sake, ma dal momento che questa è una topaia~», canticchiò, brandendo la suddetta bottiglia sotto il suo naso. Era di buon umore, e il solo pensiero che Dazai potesse godersi le sue giornate e il suo alcol mentre lui era rinchiuso lì, con il suo sangue perennemente addosso, senza vedere la luce del giorno, senza sapere quando sarebbe stato finalmente libero da quello stillicidio, lo mandò in bestia. 

«Il tuo sake ha sempre fatto schifo.», ringhiò. «E anche tu.», aggiunse, ripensandoci. 

Dazai rise, di nuovo, chiaramente per schernirlo. Se solo avesse potuto muoversi, se solo avesse potuto usare la sua abilità, adesso gli sarebbe toccato fare un volo dalla finestra. Oppure no, visto che ogni volta che cercava di colpirlo, Dazai miracolosamente evitava l’impatto ‒ che poi si trattasse davvero di un miracolo, o fosse soltanto il risultato della facilità con cui riusciva a leggerlo o peggio, della mancata forza che utilizzava contro di lui, be’, era tutta un’altra storia.

«Non ti facevo così schifo, prima.», sussurrò, avvicinandosi. Chuuya sbuffò. Se quello era un tentativo di flirtare?, fare leva su vecchi sentimenti per cercare di convincerlo?, testare il territorio alla ricerca di suddetti sentimenti?, faceva abbastanza schifo. Un po’ come lui. 

«Se non ti allontani dalla mia faccia ti dò una testata.», lo avvertì, buttando il capo all’indietro per darsi lo slancio. Dazai cacciò un’altra risatina, ma fece qualche passo in direzione della porta.

«Ah, Chuuya!», esclamò, squadrandolo divertito, «Certo che tu non cambi mai!»

Chuuya si rabbuiò. Un po’ perché davvero non sopportava la faccia di bronzo di Dazai, che aveva il coraggio di andare a gongolare quasi tutte le mattine da lui, rinfacciandogli il suo attuale stato di prigioniero, e un po’ perché tutto questo discorso sul cambiare non gli piaceva. 

«Perché, tu saresti cambiato?»

“Non so che Dazai tu abbia conosciuto. Ma so che è diverso da questo.”, gli aveva detto la dottoressa. Semplicemente, non ci credeva. Era molto più facile rifiutare una verità scomoda che sforzarsi di accettarla. Il fatto che adesso adoperasse il suo genio strategico per salvare le persone non implicava che lo facesse per altro motivo che soddisfare il suo gigantesco ego. Certo c’era una sorta di vitalità, una luce nei suoi occhi che prima mancava, ma era perfettamente comprensibile: in fondo l’idea di non dover più sottostare agli ordini di Mori e poter prendere propria iniziativa doveva essere elettrizzante.

«Mi vedi cambiato?»

«No.»

Il ghigno strafottente che Dazai aveva stampato in volto si fu rapidamente sostituito da un sorriso amaro. 

«Allora non sono cambiato.», gli concesse, scrollando le spalle. Poi si sedette accanto a lui. «E nemmeno tu.», aggiunse, schioccando le dita contro la sua fronte. 

«Chi ha detto che sarei dovuto cambiare?», sbottò, risentito. Non aveva mai sentito il bisogno di cambiare, non aveva mai ricevuto una mistica vocazione al bene e seppure l’avesse ricevuta probabilmente non avrebbe abbandonato la Port Mafia ‒ e di certo non avrebbe abbandonato quella merda di Dazai come era stato abbandonato lui. E adesso aveva il coraggio di fargli la predica perché non era cambiato. Se lo poteva infilare su per il culo, il suo cambiamento.

«Nessuno, nessuno.», borbottò, sollevando le mani in segno di resa. La bottiglia di sake era abbandonata tra le sue gambe. Appoggiò un gomito sul ginocchio e cominciò a fissarlo. Era uno sguardo diverso rispetto alla svergognata radiografia della dottoressa: era come se stesse cercando qualcosa. «Solo che- be’, penso sarebbe stato carino, se in quattro anni fossimo diventati diversi. Almeno un po’.», spiegò, come se fosse ovvio. «Invece ci comportiamo ancora come due ragazzini capricciosi.»

«Oi, Dazai-», minacciò, perché poteva andare la predica sul non essere cambiato ‒ no, in realtà non andava bene manco quella ‒ ma che Dazai lo vedesse ancora come un ragazzino era più umiliante di quanto potesse sopportare.

«In fondo, tu sei ancora una rottura di coglioni e sei testardo come un mulo. In più fingi di odiarmi-», aggiunse in tono canzonatorio.

«Io non fingo di odiarti.»

«-e io cerco ancora di salvarti il culo.»

Chuuya rimase in silenzio. Non gli aveva chiesto mica di proteggerlo. Nessuno aveva supplicato per avere il suo aiuto. A quanto aveva capito, nessuno gli aveva nemmeno ordinato di catturarlo e trascinarlo in quel covo di svitati ‒ e adesso voleva interpretare il ruolo dell’eroe a sue spese. Avrebbe voluto dargli una testata.

«Sai, adesso potrei facilmente darti una testata e cercare di evadere.»

«Comunque non hai la tua abilità. E seppure l’avessi, penso che non saresti in grado di cavartela contro tutti i membri dell’Agenzia.», Dazai si sporse verso di lui e poggiò la testa sulla sua spalla. «Chuuya-», si lamentò, strascicando l’ultima vocale. «Perché non ti unisci a noi? Sarebbe tutto molto più facile così.»

«Cosa sarebbe più facile?», chiese, esasperato.

«Tu.», Dazai fece una pausa, «Io.», sollevò la testa dalla sua spalla, cominciando a gesticolare ampiamente. «Tutto questo.»

«Dazai, cosa cazzo stai dicen-»

«Sai cosa sto dicendo.», gli disse, brusco. 

Era ancora seduto accanto a lui, ma si stava allontanando. Qualunque cosa Dazai stesse cercando di dire, Chuuya non era sicuro di volerla sapere. Benché avesse appena affermato il contrario, era molto più facile lasciare immutata la loro situazione. Era molto più facile fingere di odiarlo per aver lasciato la Port Mafia e per aver lasciato lui ‒ era molto più facile convincersi di odiarlo piuttosto che doversi crogiolare nella consapevolezza di non aver mai smesso di-

«Chuuya, io non ho mai smesso di-»

«Stai zitto.», gli intimò, prima che potesse terminare. «Stai mentendo.», aggiunse, guardando ostinatamente nella direzione opposta alla sua ‒ e anche se fosse stato sincero, cosa avrebbe dovuto fare? Dazai aveva compiuto le sue scelte e doveva pagarne le conseguenze, anche adesso, anche se diceva di-

«Forse.», concordò Dazai. «Oppure no.», esclamò, scrollando le spalle.

C’erano tante cose che avrebbe voluto dire ‒ e la maggior parte erano sonorissimi insulti ‒ ma nel momento in cui si girò verso Dazai, la bocca già aperta in una protesta, incontrò invece le sue labbra. 

Chuuya non aveva ancora assaggiato il sake che Dazai si era portato appresso, ma avrebbe potuto giurare che fosse proprio quello il sapore della sua bocca ‒ avrebbe voluto irrigidirsi e avrebbe voluto rifiutarlo, ma la verità era che seppure non fosse stato ammanettato a un muro e privato della sua abilità non l’avrebbe fatto comunque. 

Avevano trascorso, separati, più tempo di quanto non ne avessero passato insieme, eppure il tocco di Dazai e la pressione della sua bocca erano ancora vividi nei suoi ricordi ed erano ancora, tragicamente, come li ricordava ‒ e Dazai aveva il coraggio di parlargli di cambiamenti quando era il primo che ancora si comportava come un ragazzino innamorato. 

Nel momento in cui si staccò, a corto di fiato, un lampo indecifrabile illuminò il suo sguardo, ma Dazai fu svelto a camuffarlo sotto la solita espressione trionfante e soddisfatta.

«È ancora bello come ricordavi?», chiese, e Chuuya era ancora abbastanza confuso da potersi lasciar scappare un sì.

«Idiota.», abbaiò invece. «Vedi di sparire.», aggiunse, dandogli le spalle e ignorando tutti i suoi ulteriori tentativi di conversazione.





 


 


Note: allora. In particolare in questa prima parte la caratterizzazione di Chuuya e Dazai non mi convince per niente - soprattutto la scena del bacio, è stata una gatta da pelare non indifferente. Il dialogo con la dottoressa fa parte di una trilogia (???) di dialoghi che Chuuya avrà con membri dell’Agenzia che non sono Dazai e che cercano, pur non sollecitati da quest’ultimo, di portare Chuuya dalla loro parte. Per quanto riguarda il cambiamento - o mancanza di questo - di Dazai, la riflessione nasce effettivamente da quello che gli dice Odasaku prima di morire, ossia che niente di quello che farà riuscirà mai a riempire il vuoto che sente, quindi davvero la sua non è una mistica conversione alla filantropia, quando più forse una sua convinzione che lavorare per l’Agenzia sia la cosa giusta da fare, a prescindere da quali siano i suoi sentimenti o le sue sensazioni a riguardo. L’idea di usare il sangue di Dazai come una specie di arma (inizialmente sarebbe dovuta essere una specie di pallottola a salve, ma quell’idea è stata scartata) nasce da una curiosità personale su quanto si estenda effettivamente la sua Abilità - in questo comprende qualunque cosa porti traccia del suo dna - e spero non abbia fatto troppo schifo. Spero di riuscire a pubblicare la seconda parte la prossima settimana, ma non prometto niente a causa della mia naturale pigrizia.

A presto! Fede ❤

  
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