Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: Shadow writer    13/11/2020    4 recensioni
In una metropoli urbana dominata da corruzione e giochi di potere, una giovane donna cerca di farsi spazio attraverso strade poco lecite.
Dopo gli ultimi eventi, la duchessa si trova alle strette e la posta in gioco si fa sempre più alta: il potere e le persone che ama.
Quello che non sa, è che qualcuno le sta alle calcagna, impaziente di vederla crollare. Ma come può combattere un nemico invisibile?
Dalla storia:
“Sentì un fermento nel suo stomaco e una sensazione di ebbrezza che le andò alla testa.
«Sei fortunata» replicò e si passò la lingua sulle labbra, come assaporando quel momento. «Si dà il caso che concedere favori sia la mia specialità».”
Genere: Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'La duchessa '
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


Punto di rottura
 
 


 
Il profumo della primavera era nell’aria, Roman riusciva a percepirlo mentre passeggiava per le vie del parco. Passò accanto ad un cespuglio di camelie e si fermò per un istante ad ammirare i colori vivaci tra l’erba smeraldina appena bagnata dalla rugiada del mattino. Prese un respiro profondo, cercando di assaporare ogni profumo che giungeva alle sue narici, prima di riprendere a camminare.
La sua meta era la collinetta sulla cima del parco, da cui si riusciva a vedere tutta la città. 
Il sentiero si fece in salita e per un istante si chiese perché non avesse pensato di mettere scarpe più comode dei mocassini in pelle. Cercando di non scivolare sulla ghiaia umida, mantenne un buon passo con gli occhi rivolti verso la boscaglia che celava la cima.
Incontrò poche persone. Gli unici presenti parevano gli sportivi che correvano prima di andare al lavoro, ma il sole era sorto da poco e, a parte rare eccezioni, Tridell era ancora completamente addormentata.
Si immerse in un punto dove la boscaglia si faceva più fitta, poi il sentiero svoltava a destra, conducendo all’unica panchina che era stata sistemata sulla cima. Da quella distanza, i grattacieli non erano altro che parallelepipedi dalle facciate specchiate che riflettevano il cielo pallido del primo mattino.
L’unica panchina era occupata, ma Roman non si stupì. Dopo tutto, si trovava in quel parco proprio perché l’aveva fatta seguire e sapeva che tutte le mattine si recava in quel punto.
Isabel Lopez sedeva con lo sguardo rivolto verso l’orizzonte da cui si era da poco sollevata la palla infuocata del sole. Teneva gli occhi socchiusi, mentre il suo volto era accarezzato dai primi pallidi raggi del giorno.
Roman la osservò per qualche istante da lontano, in silenzio, poi riprese a camminare e le si avvicinò.
Isabel non si scompose, neanche quando lui si sedette sulla panchina al suo fianco.
«Mi chiedevo quando avresti smesso di mandare i tuoi servi e ti fossi presentato di persona» gli disse, senza guardarlo. Non c’era rabbia né risentimento nelle sue parole, solo una normale affermazione.
«Semplice precauzione» replicò lui. «Sono venuto a ringraziarti per aver chiuso il caso ed eliminato le prove contro di me.»
Isabel sbuffò. «Non mi hai dato molta scelta.»
Roman non disse nulla, ma si mise a seguire la direzione dello sguardo di lei. Pensò che la città pareva molto più bella dall’alto. Non si vedeva la corruzione che correva dentro quei palazzi, i senzatetto che dormivano sotto i ponti, la violenza che dilagava nelle strade… da lassù, tutto era immerso nel silenzio e nella luce delicata del mattino.
«Perché mi hai raccontato quelle cose?» gli domandò la donna, voltandosi a guardarlo. Roman sentì il peso dei suoi occhi scuri su di sé.
Sospirò. Non aveva senso nascondere alcunché. «Mi sono rivisto in te, detective Lopez. So cosa significhi fare dei sacrifici per il bene della famiglia. Mio fratello è sempre stato debole di salute ed era compito mio occuparmi di tutto.»
Isabel non distolse lo sguardo. «Da quello che mi risulta, sotto il nome di Rafael Deleon sono segnati diversi crimini minori. È questo che intendi con “occuparmi di tutto”?»
Di nuovo, la sua voce non nascondeva accuse, ma si limitava a porgli una domanda.
Lui annuì e Isabel aggiunse ancora: «E quando lui è morto hai pensato che fosse meglio prendersi la sua identità con una fedina penale immacolata.»
Roman si voltò a guardarla e i loro occhi si incrociarono. Nessuno dei due distolse lo sguardo per qualche secondo, quasi si sfidassero, poi Roman sospirò e abbassò gli occhi.
«Mio fratello non era una brava persona, ma non meritava di essere distrutto dalla sua malattia. Spero che riuscirai a salvare il tuo» disse soltanto.
Fu il turno di Isabel di prendere un respiro profondo. La donna tornò a guardare il sole, sempre più lontano dall’orizzonte e luminoso.
«Hai detto che l’unica a conoscere la tua vera storia era Liliane Lefebvre. L’amavi davvero, o sbaglio?»
Roman non rispose, ma il modo in cui la sua mascella si irrigidì fu piuttosto eloquente.
«Quindi nemmeno la duchessa conosce il tuo vero nome?»
A sentire quelle parole, lui si voltò di scatto, allarmato. Si trovava in un momento di vulnerabilità e solo quell’accenno di Emily lo aveva messo involontariamente sulla difensiva. Fu come se all’improvviso qualcuno gli avesse tirato un secchio di acqua gelida in faccia, facendolo ripiombare nella realtà. Cosa diavolo gli era saltato in mente? Cercare il conforto di una detective? Solo perché avevano qualcosa in comune, non significava che quella donna non avrebbe colto la prima occasione per metterlo in manette.
Si alzò bruscamente in piedi e, senza salutare, si allontanò a passi rapidi.
«Aspetta!» sentì Isabel gridare, ma non si voltò. «Rafael!»
Quel nome gli provocò un brivido lungo la schiena, ma continuò a camminare. Ormai non gli apparteneva più da troppo tempo.
 

 
 
***
 
 

 
Non appena l’auto si fermò davanti all’ospedale, Emily spalancò la portiera e si diresse a grandi passi verso i gradini che salivano all’ingresso. Sapeva già verso quale reparto dirigersi, così prese l’ascensore e fissò i numeri digitali che indicavano il piano mentre tamburellava nervosamente le dita sulla coscia. L’infermiere che era salito con lei, la guardò di sottecchi, ma non fece commenti.
Quando le porte si aprirono, si lanciò all’esterno e i suoi passi decisi risuonarono tra le pareti azzurrine del corridoio, mentre la gonna dell’abito le frusciava sulle gambe.
Il risveglio di quella mattina era stato a dir poco traumatico. Si era appena seduta per fare colazione con Noah, quando una chiamata l’aveva informata dell’incidente.
«Stanza 409» le avevano detto, ed Emily si fermò davanti a quella.
La porta era socchiusa e non sentì alcuna voce all’interno, così la spinse e avanzò all’interno. L’odore di medicinali e disinfettante le invase le narici. La stanza era immersa nella penombra a causa delle veneziane abbassate e un rumore di macchinari era l’unico suono che si udiva.
Solo uno dei due letti era occupato e la sagoma di un corpo si intravedeva sotto al lenzuolo bianco. Alcuni tubi per la respirazione rendevano impossibile vedere il volto dalla distanza a cui si trovava Emily.
Accanto al paziente stava un medico che, quando si accorse della presenza di un’intrusa, si voltò di scatto, come per redarguirla, ma una volta riconosciutala ammutolì.
«Come sta?» domandò Emily senza togliere gli occhi da quel corpo.
Il dottore esitò un istante prima di rispondere. «Per ora è stabile, ma si è trattato di un brutto colpo.»
«Mi hanno detto che l’auto è distrutta» continuò lei e l’uomo annuì: «Sì, il camion l’ha colpita in pieno. È una fortuna che fosse vivo quando sono arrivati i soccorsi.»
Emily raccolse le forze e avanzò ancora, fino a che fu abbastanza vicina per vedere il volto pallido e tumefatto di Gabriel. Lo fissò per qualche istante in silenzio, rabbrividendo ogni volta che vedeva un livido sulla sua pelle chiara, poi chiese al dottore di tenerla informata e si voltò per uscire dalla stanza. L’odore di medicinali e il senso di morte che si respirava in quella camera la stavano nauseando.
Quando tornò nel corridoio, notò due persone sedute fuori dalla porta. Non aveva mai avuto occasione di conoscerli ufficialmente, ma sapeva che si trattava dei genitori di Gabriel. Sua madre, una donna dal viso dolce, contornato da una chioma biondo-rossiccia, le rivolse gli occhi sgranati e pieni di lacrime. 
Emily la fissò impassibile, mentre il signor Leroy si alzava e le si avvicinava. Le fece cenno di seguirlo a pochi passi di distanza, al riparo dalle orecchie della moglie.
«Mi sorprende vederti qui» le disse l’uomo.
Lei strinse gli occhi. Richard Leroy aveva amministrato Tridell per anni e lei non aveva mai messo in dubbio che l’uomo sapesse quanto di poco spontaneo ci fosse nel fidanzamento del figlio. Era un uomo intelligente, dopo tutto.
«Non so cosa Gabriel le abbia detto di me, ma di sicuro vederlo in fin di vita è l’ultima cosa che vorrei.»
Lanciò un’occhiata alla porta della camera e l’uomo parve sinceramente sorpreso della sua apprensione.
«Mi dispiace» aggiunse Emily e lui fece un cenno di assenso, ma tenne gli occhi sul volto di lei.
«Dicono che avesse dell’alcol in circolo. Non molto, ma abbastanza per impedirgli di fermarsi allo stop» le disse l’uomo e alla giovane non sfuggì il tono di scetticismo che celavano le sue parole.
Intuì che entrambi stavano pensando alla stessa cosa: Gabriel non sapeva guidare e non si era mai messo dietro al volante di un’auto in vita sua.
 
 
 
Il viaggio di ritorno a casa non fu piacevole. Tanto era chiaro che il signor Leroy avesse intuito tutto, altrettanto era evidente che la moglie fosse all’oscuro di come funzionavano le cose. Emily doveva metterla in soggezione, perché le si era avvicinata con aria circospetta, ma poi l’aveva stretta a sé, sussurrandole nell’orecchio: «Vedrai che andrà tutto bene.»
La ragazza aveva ricambiato la stretta, dato che la donna sembrava averne bisogno più di lei. La madre di Gabriel era una bella donna, ma numerose rughe le circondavano gli occhi stanchi ed Emily si era chiesta quante di queste fossero dovute alle preoccupazioni che il figlio le aveva dato negli anni. Credeva davvero che il ragazzo si fosse sistemato con lei e che presto si sarebbero sposati. Una cosa era certa: per quanto fosse uno stronzo narcisista, Gabriel non meritava di essere su quel letto d’ospedale.
Durante il viaggio di ritorno al palazzo, Emily non riusciva a togliersi dalla testa lo sguardo di Richard Leroy. I suoi penetranti occhi azzurri l’avevano scrutata, come per capire se ci fosse la sua responsabilità dietro a quell’“incidente”. Era questo che Emily non riusciva a rimuovere. Non dubitava che in passato Gabriel avesse fatto incazzare qualche persona con cui era meglio non scherzare, ma tutti sapevano del suo fidanzamento. Un torto a lui equivaleva a un torto alla duchessa e poche erano le persone che se lo sarebbero potuto permettere.
E poi c’era la questione della patente. Viziato fin dalla nascita, Gabriel non aveva mai avuto bisogno di imparare a guidare perché aveva sempre avuto al suo servizio uno stuolo di autisti privati. Di certo non si sarebbe messo a farlo mentre era ubriaco. Perché prendersi la briga quando avrebbe potuto semplicemente chiamare un taxi?
Guardando i grattacieli scorrere fuori dal finestrino, mentre si facevano più radi e declinavano verso la periferia, Emily si convinceva sempre più che il signor Leroy avesse intuito tutto: suo figlio era solo un pedone sulla scacchiera, ma il vero obiettivo di chi aveva inscenato quell’incidente era lei, la regina.
 
Quando poté finalmente rimettere piede nel palazzo, pensò che tutto quello che voleva era passare la giornata con Noah. Magari lo avrebbe portato nella piscina sotterranea e avrebbero potuto giocare nell’acqua.
«Avete avuto notizie da Roman?» domandò al maggiordomo quando entrò nell’atrio. 
L’uomo scosse il capo: «No, signorina.»
Emily non dovette neanche sforzarsi di nascondere il proprio disappunto, perché in quel momento sentirono suonare il campanello. Questo significava che qualcuno era stato fatto entrare dal cancello e in quel momento si trovava davanti al portone d’ingresso.
Emily fece cenno all’uomo di aprire la porta – non si era mai fidata a installare un sistema automatizzato, così il grande portone di legno che occupava gran parte dell’atrio, di fronte alla scalinata di marmo, doveva essere aperto a mano. 
La giovane si diresse verso l’apertura e, con sua sorpresa, si trovò davanti un uomo di mezz’età alto e corpulento, accompagnato da una decina di poliziotti, come le uniformi di tutti loro mettevano in evidenza.
«Capitano Grayson» salutò Emily senza scostarsi dalla porta per farlo entrare. «A cosa devo questa visita a sorpresa?» gli chiese, enfatizzando quanto non fosse un ospite gradito.
L’uomo tese le labbra in un sorriso che, a differenza di quello di Emily, almeno si sforzava di non palesare tutta la sua falsità.
«Possiamo accomodarci?»
Emily si guardò alle spalle e vide che poco distante c’era il maggiordomo, pronto a ricevere i suoi ordini.
«Sono piuttosto impegnata al momento. Credevo che avesse ricevuto il suo stipendio questo mese».
Il sorriso della ragazza si spense, riservandogli uno sguardo di ghiaccio. Si era assicurata di non abbassare la voce, in modo che anche tutti gli agenti alle sue spalle sentissero che il capitano prendeva mazzette da lei.
Il collo taurino dell’uomo si tese, ma lui non si mostrò intimidito. «Mi dispiace, ma questi sono ordini che vengono dall’alto.»
Emily strinse gli occhi. «Quanto in alto?»
Il capitano le mostrò un sorriso di sfida. «Così in alto che i tuoi soldi sporchi non ci possono arrivare.»
La giovane indietreggiò, di scatto, e fece cenno al maggiordomo di chiudere la porta. Questo si affrettò ad eseguire, ma il capitano Grayson la bloccò con una manata e mettendo il proprio corpo massiccio nel mezzo.
Emily lo guardò con gli occhi sgranati, mentre un senso di rabbia le montava dentro. Quell’uomo la stava sfidando.
«Forza ragazzi» ordinò infatti agli altri agenti e rapidamente due di quelli lo aiutarono a spalancare il portone, mentre gli altri si riversavano nell’atrio.
«Cosa diavolo pensate di fare?» sbottò Emily, inviperita. «Grayson, se non ritiri immediatamente i tuoi soldatini dal mio palazzo, ti faccio finire a spazzare le strade!»
L’uomo non parve per nulla intimorito da quelle minacce, anzi, sorrideva divertito. 
«Non agitarti, tesoro, possiamo fare le cose con le buone.»
«Hai perso quell’occasione irrompendo in casa mia» sputò lei, velenosa. Il maggiordomo rimaneva poco distante, in attesa dei suoi ordini,  ma c’era poco che potessero fare contro undici poliziotti armati.
Grayson rise, scuotendo il capo. «Voglio essere un gentiluomo e fare un altro tentativo. Ora, potresti gentilmente dirmi dov’è il bambino?»
Emily sentì il sangue defluire dalla sua faccia e le gambe farsi molli. Un improvviso giramento di testa la fece sentire sul punto di svenire, ma si sforzò di rimanere lucida e cosciente, mentre stringeva i pugni con tale forza da sentire le unghie conficcarsi nei palmi.
«Di quale diavolo di bambino stai parlando?» replicò in tono duro.
Il capitano sospirò, ma non smise di sorridere. «Ho dieci agenti che possono setacciare l’intero palazzo in meno di due ore. Oppure puoi dirmi dove si trova e risparmiamo tempo a entrambi».
Emily scoppiò a ridere. Una risata dirompente e un poco isterica. «Ti sembra questo il luogo adatto ad un bambino? Sei nel posto sbagliato e sinceramente mi avete già fatto perdere troppo tempo.»
L’uomo sbuffò e si diresse verso la scalinata di marmo. Emily rimase immobile, con i muscoli in tensione, ma circondata com’era non vi era nessuna direzione in cui potesse scappare. E decisamente non sarebbe riuscita a seminare quello squadrone.
Grayson posò un piede sul primo gradino e guardò in su, verso il piano superiore. Poi, con in aria beffarda, mise le mani intorno alla bocca e, rivolto verso l’alto, gridò: «Noah!»
Emily ebbe uno spasimo e scattò verso di lui. Fu solo un passo, una gamba portata più avanti dell’altra verso il capitano, ma per l’uomo fu abbastanza.
Lei si accorse del proprio errore e impallidì.
«Dov’è il bambino?» le chiese ancora mentre si avvicinava lentamente, come un predatore che si prende il proprio tempo prima di avventarsi sulla preda.
«Hai detto “ordini dall’alto”» replicò lei. «Chi ti ha mandato?»
Grayson la guardò con i suoi occhi piccoli e maligni. «Non mi sei mai piaciuta, duchessa. Sempre con quell’aria arrogante di chi crede di essere migliore degli altri, quell’atteggiamento altezzoso da reginetta. Chiunque mi abbia mandato, ha deciso che sei troppo in alto e che è il momento di farti precipitare nuovamente nella fogna da qui provieni». L’uomo le si fermò davanti e le puntò l’indice contro, premendoglielo nella carne sotto alla clavicola. Emily soppresse una smorfia di dolore. 
«Quello è il posto adatto a te.»
La ragazza afferrò il dito dell’uomo con entrambe le mani e glielo torse in modo innaturale, prima che quello riuscisse rapidamente a liberarsi e a sferrarle uno schiaffo violento. Lei cadde a terra, picchiando i palmi delle mani sul pavimento duro. Un dolore intenso si diffuse dai polsi e dal fianco su cui era precipitata.
«Ho provato ad essere un gentiluomo, piccola, ma non mi lasci altra scelta.»
Fece cenno a due agenti di sollevarla e, nonostante lei scalciasse e si divincolasse, quelli le ammanettarono un polso al corrimano della scalinata. Intanto altri due agenti trattenevano il maggiordomo poco distante.
«Grayson prova solo a muoverti nel mio palazzo, che ti pentirai di essere nato!» tuonò Emily.
L’uomo rise e si posizionò davanti a lei. «Darò la chiave per quelle manette a qualcuno di quei servetti quando avremo trovato il bambino.»
Emily lanciò un grido e cercò di avventarsi contro di lui, ma le manette la tirarono indietro con la stessa forza con cui lei si era lanciata in avanti, facendola cadere a terra.
«Patetica» commentò lui. 
«Patetico sarai tu quando mi sarò liberata!» 
L’uomo rise ancora, facendo tremare il suo petto imponente. 
«Forza, all’opera. Usciremo dal retro» disse poi rivolgendosi agli agenti, che rapidamente si divisero e scomparvero alcuni nei corridoi laterali e alcuni su per le scale. Uno di loro portò con sé il maggiordomo, tenendogli la pistola puntata nel fianco.
Grayson tornò a rivolgersi alla ragazza per l’ultima volta: «Quando qualcuno verrà a liberarti, saprai che il bambino avrà lasciato il palazzo con noi.»
Lei cercò ancora di colpirlo, ma il capitano si allontanò, senza degnarla di un altro sguardo.
Non appena rimase sola, Emily sentì il panico comincia ad artigliarla da dentro e lanciò un grido, che risuonò nell’atrio deserto, senza risposta.
 
 
L’attesa la stava facendo impazzire. Il suo polso destro, ancora imprigionato nelle manette, era arrossato e sul punto di sanguinare da tanto si era dimenata nel tentativo di liberarsi. L’ira e il dolore avevano ormai completamente offuscato la mente. Aveva gridato, disperata, ma nessuno era accorso in suo aiuto. Gli scenari che la sua immaginazione stava producendo la mandavano fuori di testa. Dov’era Noah? Cosa stava facendo? Lo avevano trovato? Era così disperata che si guardò attorno alla ricerca di qualcosa di tagliente. Nella sua follia, era pronta a tagliarsi la mano pur di liberarsi.
Non aveva fatto tutto questo per tornare nella stessa, terrificante situazione. Noah era suo figlio, aveva lottato per esercitare questo diritto e avrebbe lottato di nuovo. Non era una ragazzina spaventata, non era una perdente. Era la duchessa e la sua ira avrebbe carbonizzato tutti quei miserabili, travolgente e irrefrenabili come la lava di un vulcano.
Un rumore di passi sui gradini attirò la sua attenzione e si voltò di scatto, raddrizzando la schiena, ma rimanendo seduta a terra con la mano ammanettata in alto.
Vide che si trattava dello stesso maggiordomo che era con lei prima. Ogni passo dell’uomo le risuonava nel petto come un proiettile. Pregò che fosse venuto a dirle che Noah era in salvo. Sì, era così. La bambinaia che si prendeva cura di lui quando Emily non c’era doveva aver ricevuto la notizia che la polizia era nel palazzo e lo aveva portato in salvo. Le cose erano andate così, Emily se ne stava convincendo.
L’uomo la raggiunse e si chinò di fronte a lei.
«Sta bene? Dimmi che sta bene» lo supplicò, priva di forze.
Lui non rispose, ma le mostrò cosa teneva tra le mani: era la chiave delle manette.
Emily crollò sui gradini e lanciò un altro grido di dolore.
 
 






 







 Ciao, sono anche su instagram!

 




 
   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Shadow writer