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Autore: itsgiads    17/11/2020    1 recensioni
Maria è solo una bambina quando, da una delle finestre della maestosa Martiniana, guarda impotente Antonino lasciare la villa. Il rancore accompagna gli anni che seguono: attraversa il terremoto del 1908 e la Grande Guerra. Ed è proprio dopo la fine del conflitto che raggiunge il suo apice, quando Antonino ritorna alla villa dopo ormai quindici anni di assenza. Entrambi i ragazzi sono cresciuti: Maria, divenuta giovane donna, ha cominciato a lavorare alla Martiniana come domestica, mentre Antonino è uno dei membri di spicco della borghesia reggina. La memoria di ciò che è stato comincia ad abbattere il muro di ostilità che Maria ha costruito. La distanza, quella tra i corpi e tra i due ceti, si affievolisce sempre di più, fino a far riscoprire loro una felicità che sembrava appartenere al passato. Sullo sfondo di una Reggio Calabria liberty, i due giovani stringono un legame corporeo e intellettuale, che li soggioga e li rende al contempo liberi. Ma ci sono ostilità che non si esauriscono con un "cessate il fuoco". Apparenze e verità scomode non lasciano spazio a sentimenti ed emozioni. Sono gli anni Venti, gli anni del progresso, del trambusto, del prodigio della mente umana. Non certo dei romanzi d'amore.
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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Ciò che affascinava della Martiniana non risiedeva unicamente nel lusso dell'abitazione. C'era il suo sottrarsi all'estrema pretenziosità dei palazzi reggini, sia quelli dai richiami arabeggianti come Villa Genoese Zerbi sia quelli di stampo neoclassico come Palazzo Nesci. C'era la ricerca costante del nuovo e mai visto, anche a costo di risultare disorientante e troppo spinto. Ma soprattutto c'era quell'affascinante via vai di personaggi-perché definir loro 'persone' conferirebbe a ciascuno di essi una banalità che non merita- che si autoalimentava: la gente veniva per poter vantare la loro conoscenza e loro venivano proprio per farsi conoscere.

Ero io la prima vittima di quel turbinio di soggetti, nonostante vi fossi inclusa unicamente per la manutenzione di quel bell'altarino che Romeo era riuscito a creare. A volte, quando sul calar della notte gli altri domestici si ritrovavano in cucina per cenare, stremati dall'intensa giornata di pulizie e preparativi, provavo a sgattaiolare via dalla dependance per appostarmi sotto alla finestra della sala da fumo, quella adiacente al salone principale, dove i rampolli dell'alta borghesia reggina si inebriavano dell'odore del sigaro, prestando comunque attenzione ai discorsi di una delle tante menti brillanti che la Martiniana ospitava. Le due stanze erano comunicanti e la porta rimaneva costantemente spalancata. L'acustica da sotto la finestra era dunque perfetta: fatta eccezione per qualche colpo di tosse, indice dell'aver fumato troppo in quella serata, che sovrastava occasionalmente la voce dei vari relatori, questa risultava comunque squillante e comprensibile. Per questo motivo, durante le pulizie della saletta, facevo attenzione a lasciare già dalla mattina quella finestra aperta, cosciente che nessuno l'avrebbe richiusa più tardi per lasciar che la coltre di fumo abbandonasse la stanza. Così feci anche quel giorno.

Nonostante vi entrassi principalmente per svolgere questa mia mansione, mi piaceva quella stanza. I mobili di legno scuro erano impregnati dell'odore caldo e signorile di tabacco, che rendeva l'intero ambiente più intimo e accogliente; i posacenere erano incantevoli, di ottone e madreperla intagliata, souvenir che la famiglia Florio aveva portato da Trapani a Romeo, convinti che ne avrebbe apprezzato la fine fattura; c'era poi un abat-jour che mi aveva rubato il cuore: era ornata con frammenti di vetro colorati, quasi fosse una cupoletta del duomo di Monreale, con un arcobaleno di scaglie. Mi è stato riferito qualche tempo dopo che si trattava di "Art Déco", la nuova tendenza proveniente dal nord Europa.

Era tutta così la Martiniana: unica per i suoi pezzi unici, fossero essi oggetti od ospiti.

«Mi spieghi perché continui a perdere tempo con questa stanza? È piccola, ci sono tre oggetti in croce, quanto ci vorrà mai a pulirla?»

A invadere la saletta era stata Giuseppa, l'altra cameriera. Condividevamo i compiti, ci spartivamo la stessa camera da letto, ma per il resto eravamo diametralmente opposte: lei era tutta apparenza, aspirava a ottenere il consenso degli altri, nonostante fosse discutibile riporre in lei la propria fiducia; io semplicemente facevo di testa mia e incrociavo le dita. Tutto considerato, andavamo d'accordo. Infondo, in quella casa c'era sempre bisogno di un confidente o di qualcuno che fosse disposto a darti manforte quando necessario.

«Già che ci sono, preferisco farle bene le cose. Non ci vedo niente di sbagliato» sostenni mentre con una pezza lucidavo il tavolino di mogano.

Assunse l'espressione di chi non vuole sforzarsi di capire. «Se ne accorgesse qualcuno, ti darei ragione...ma qui non entra mai nessuno».

Si avvicinò all'abat-jour e cominciò a osservare il suo riflesso negli specchi colorati. Non era graziosa, né elegante o raffinata. Sapeva prepararsi, vendersi e, inevitabilmente, qualche cristiano riusciva pure ad accaparrarselo. La invidiavo per questa sua spavalderia? Forse un po' sì, lo ammetto. Io ero solita girare i tacchi non appena sentivo un paio d'occhi poggiati addosso.

«Avresti potuto aiutarmi al piano di sopra, al posto di startene rintanata qui. Almeno saresti stata utile a qualche cosa».

Alzai lo sguardo, trovandola che si passava le dita sui denti, quasi a volerli sbiancare. Soffocai sia uno sbuffo spazientito che una sincera risata per quel suo gesto stravagante.

«C'erano da pulire la matrimoniale di Romeo e la cameretta del signorotto» le comunicai, impiegando un tono aspro per quell'ultima parola «che c'è, ti serviva aiuto per due sole camere?».

Spalancò gli occhi «La cameretta? Credi che non debba servire una matrimoniale anche al figlio?»

Incrociai le braccia sul petto, quasi in imbarazzo. «Beh...quando stava qui aveva quella cameretta -e io lo sapevo bene- perché non dovremmo lasciargliela anche questa volta?».

Giuseppa ridacchiò, senza fingere alcun contegno. «Andiamo Marì, come se non gradisse avere un posto in più accanto a lui nel letto, a ventun anni».

«Peppa!» esclamai, decisamente scossa da quel suo commento.

Mi aveva messo la pulce nell'orecchio. Non mi ero disturbata di voler prendere in considerazione un altro scenario rispetto a quello che mi ero prefigurata: l'arrivo di un ragazzo adulto, certamente, ma con quell'indole dolce, pacata, innocente che l'aveva contraddistinto da bambino. Quel carattere a cui ero abituata, quello a cui ero affezionata. Non potevo ammettere anche solo l'idea che la natura del padre avesse potuto intaccare la bella persona che ricordavo.

«E poi non è detto che gli serva proprio un letto matrimoniale. Magari un singolo gli basta e avanza.»

Lei fece spallucce. «Se ha preso da Romeo, gli servirà eccome. E proprio se ha preso da Romeo, potrei essere io ad accertarmi che ne abbia bisogno».

Il disgusto non fece in tempo ad assalirmi, che un cane fece irruzione nella stanza, macchiando tutto il pavimento con le sue zampe fangose.

«Chi mm'era focu!» urlai chiaramente in preda a una crisi di nervi «guarda tu se devo rimettermi a pulire sto maledetto pavimento per colpa di questo dannato...» mi fermai. Non avevo mai visto quel cane prima.

Gettai uno sguardo stranito a Giuseppa. «Oh Pe', ma tu lo conosci?».

Sbarrò gli occhi «Non ho idea di chi sia».

L'animale si era seduto impettito sul tappeto, dopo aver finito di lasciare le sue impronte sudice per tutta la saletta. Non sembrava mordace, né squilibrato. Se ne stava lì, aspettando che qualcuno gli desse un comando. Era sicuramente stato ammaestrato da qualcuno. Da chi, però?

Col cuore in gola, lessi l'orario sull'orologio poggiato sul comò. Era quasi mezzogiorno.

Mi resi conto di avere la voce tremante, mentre comunicavo a Giuseppa: «Avevano detto che sarebbe arrivato per l'ora di pranzo»

L'espressione sul suo volto mutò da confuso a elettrizzato. Si fiondò alla finestra, vittima della sua eccessiva curiosità.

«E infatti...»

Ben più timorosa, mi avvicinai anche io al vetro. Sul viale d'ingresso c'era un'auto posteggiata. Non era quella di Romeo, era decisamente più nuova, dalle linee più moderne e dal colore più acceso. Di automobili del genere, non se ne vedevano da quelle parti. Provai a pensare a quanto potesse costare una bestia di quel calibro, ma decisi immediatamente di non permettere alla mia mente di concentrarsi su quel dettaglio inutile, non in quel momento, almeno.

Quando la portiera si aprì, avvertii decisamente un sussulto. Avevo paura. Paura, sì, e lo realizzavo solo in quell'istante. Quel giorno, quella visione, mi avevano infestato i pensieri per oltre quindici anni e non avrei potuto sopportare il peso di veder sgretolarsi sotto ai miei occhi tutte le mie supposizioni, le mie congetture, le immagini che mi ero creata nell'attesa; il peso dell'aver avuto torto, dell'aver puntato troppo in alto. Ma così non fu.

Una scarpa di pelle lucida si appoggiò sul selciato, poi emerse l'intera figura: i capelli color sidro, il pallore della pelle erano così familiari che sentii una fitta al cuore. Tirai un ultimo, sfinito sospiro di sollievo quando mi resi conto che non c'erano evidenti segni di ferite da guerra, purtroppo incredibilmente comuni tra chi riusciva a ritornare a casa. E invece lui sembrava che nemmeno li avesse visti i combattimenti, che non avesse lasciato che gli marchiassero il corpo o gli incupissero lo spirito. Lo notai, lo riconobbi quel guizzo di entusiasmo quando abbracciò finalmente suo padre. Era lui. Anche con sessanta centimetri in più, era lui; anche con la camicia di lino, le bretelle e i pantaloni sartoriali, era lui; anche senza i lineamenti più dolci e arrotondati, era sempre lui. E, dopo tanto tempo, sentii di poter cominciare a respirare di nuovo.

«Beh», pronunciò poi Giuseppa, ricordandomi dove fossi. «Non ha preso dal padre. Ma non ne sono per niente dispiaciuta, per carità!»

Un'ondata di gelosia si impadronì di me. Cercai di reprimerla per non lasciare che rovinasse quel tanto agognato momento.

«Dimmi, com'era da piccolo? Voglio dire, secondo te è tutto merito dell'aria del nord o...?»

Fu in quel momento che lo vidi sorridere, come allora, con gli occhi che diventavano fessure e il petto che si gonfiava. Non mi misi a cercare altre risposte, furono le parole stesse a rimbalzarmi fuori dalla bocca:

«Così. Era esattamente così.»

«Puru u cani!» esclamò Graziella esasperata. Dai piani alti non era ancora stato dato il comando di portare i piatti in sala da pranzo, nonostante fosse passata ormai un'ora dall'arrivo di quel ragazzo. Proprio per questo motivo, il tavolo della cucina era carico di portate che nel frattempo si freddavano e che, dato il loro odore allettante, avevano attirato il cane del figlio di Romeo. Si era appostato proprio vicino alla sedia di Graziella, sperando di riuscire con i suoi mugolii a convincerla a concedergli un morso del capretto in umido. Era un cane da caccia, di quelli col muso stretto e il pelo lungo a macchie. Agli altri disturbava non poco la presenza di un animale alla villa, mentre io, dopo avergli gridato contro per aver sporcato il pavimento della sala da fumo, avevo capito che, tutto sommato, averlo là avrebbe contribuito a risollevare il morale di tutti. Bastava gettare un occhio sul suo viso piccino e affabile per addolcire il proprio temperamento.

Graziella, però, non era di quell'avviso.

«Nun d'aju chi mi ti fazzu!» continuava a ripetergli «cibo da qua, non ne cavi. Ci doveva pensare prima il tuo padrone».

Sentendo quelle parole, Sebastiano, il cameriere, abbassò il giornale che stava leggendo e lo poggiò sul tavolo.

«Il tuo padrone ci pone un po' sullo stesso piano di 'sto cane. Dobbiamo obbedire alla stessa persona, dopo tutto.»

Giuseppa fece spallucce «Io non ho problemi al riguardo». Si guadagnò tutti i nostri occhi puntati addosso. Non avevamo dubbi che fosse seria, che fosse veramente disposta a esaudire qualsiasi richiesta di quel giovane, potesse questa anche deviare dai normali ordini a cui era costretta a rispondere. Nel suo tono, infatti, c'era una punta di malizia decisamente fuori luogo, che era riuscita a infondere imbarazzo ai più pudici e gelosia ai più passionali. È facile ipotizzare da quale sentimento fui invasa io dopo quelle parole.

«Ma è davvero così affascinante?» domandò allora il cameriere.

Non risposi. Quando lo intravidi da quella finestra, avevo rifiutato di scrutarlo, di analizzare il suo volto con attenzione o anche solo di incrociare il suo sguardo. Mi ero limitata a gettargli una piccola occhiata, necessaria per poter riconoscere quei tratti, fisici certamente, ma soprattutto quelli della sua spiccata personalità, che mi avevano accompagnata per anni e che speravo non fossero sbiaditi col passare del tempo. Non avevo interesse a comprendere quanto fosse cambiato, bensì mi serviva la certezza che, in un modo o nell'altro, fosse riuscito a rimanere lo stesso.

«Si direbbe un attore da cinematografo!» rispose lei di rimando. Portò le mani all'altezza del collo. «Due spalle così! Bello piazzato eh, ma non eccessivamente robusto. Avrà fatto attività fisica o chissà che, là dove stava. Poi la camicia non lasciava granché spazio alla fantasia, se sapete cosa intendo...». Disgustoso. «E poi il viso- continuò – da capogiro. Non è come Romeo, non è moro o bello abbronzato. Sembra uno di quegli emigranti tedeschi, nemmeno quelli che da qua si trasferiscono, ma come i figli di chi parte e si sposa qualche crucca bionda, chiara, affascinante. Quelli che quando tornano qua con i genitori non spiccicano una parola di italiano, o dialetto più che altro, però riescono comunque a fare uscire di testa tutte le ragazze. Ecco, lui è più o meno così. Ma non l'ho osservato bene, eh, ci devo fare attenzione la prossima volta».

Mi stupii di come lei fosse riuscita a studiarlo con un fare quasi scientifico, mentre io avevo a malapena intravisto i suoi occhi. Forse eravamo alla ricerca di cose diverse. Forse è meglio togliere quel forse.

«Mi raccomando, Peppa, poi vogliamo i dettagli» scherzò Graziella.

Giuseppe si alzò dalla sedia «Io ne faccio a meno, invece, grazie». Tirò fuori dai pantaloni un pacchetto di sigarette. Giuseppa allora lo guardò facendogli gli occhi dolci.

«Chi bboi?» domandò lui sconcertato.

«Posso una?»

Lui gettò gli occhi al cielo e ne estrasse due. «To'. Cattattilli a prossima vota»

«Perché comprarle se ci sei tu che mi rifornisci?».

Aprirono la porticina della cucina e scomparvero in giardino. Mi sedetti al posto di Giuseppe, vicino a Sebastiano.

«Hai sentito come ne ha parlato? Na vota u vitti e si 'nnamurau».

«Ma chi, Peppa? Macché, quella cerca prede, non fidanzati». Ironizzai.

Rimase zitto. Mi faceva quasi tenerezza.

«Perché non la inviti a fare una passeggiata?»

«Sì, vabbò...» si limitò a dire, tornando a leggere il suo giornale.

«Sono seria» gli strappai il giornale dalle mani. «Anche Giuseppe mi ha chiesto di uscire, perché tu non dovresti proporlo a lei?»

Incrociò le braccia sul petto. «Perché rifiuterebbe».

Lo guardai con sguardo indagatore «E chi lo dice?»

Si fissò i piedi. «Io» sussurrò poi.

Sbuffai «Che noia tu e le tue pare!»

«Oh, io mica entro qui e comincio a insultarti!» disse indignandosi mentre io ridacchiavo di rimando.

«Dammi il giornale, va, non è giornata».

«Te lo rendo se chiedi a Giuseppa di uscire» lo sfidai.

Mi gettò un'occhiata seccata. «Marì, dammelo, su».

Mi alzai sulla sedia, ancora col giornale in mano. «Chiedile di uscire o lo strappo».

«Strappalo, allora, chi mi n'da futti».

Ci rimasi male, non soddisfatta.

«Allora se non le chiedi di uscire, strappo il giornale e le urlo che ti piace».

Si allarmò. Posai le mani sul margine del foglio.

«Non oserai» mi intimò.

«PEPPAAAA!!!» gridai.

«Sta' zitta, mannaia la morti!»

Si aprì la porta. Mia nonna entrò di colpo, trovandosi davanti a una scena chiaramente indecorosa.

«Maria, scindi ddocu!»

«Solo un attimo» la congedai.

«No, ora!» mi ordinò.

Fissai Sebastiano con attenzione.

«Se non glielo chiedi, non scendo».

Lui si girò a guardare mia nonna. Il suo sguardo glaciale gli fece tremare i polsi.

«Va bene, basta che scendi».

«Giuralo!»

«Che gioco state giocando voi due?» si intromise la vecchia, ancora sulla porta.

«Nessuno, Maria scendi!» implorò lui chiaramente nel panico.

«Giura!»

«Giuro!» promise stremato.

Gli porsi il giornale con fare compiaciuto e scesi dalla sedia. La freddezza dell'espressione di mia nonna era un ammonimento silenzioso. Ne fui prima spaventata, poi me lo scrollai di dosso.

«Dov'è Giuseppa?» chiese con voce ferma.

«Sta fumando con Giuseppe» la informai.

Si portò la mano sulla fronte, come se questa affermazione le avesse scombussolato i piani.

«È successo qualcosa?» domandò Sebastiano.

«Doveva servire il pranzo, ora che si erano decisi a mangiare, finalmente».

Graziella si alzò di scatto e cominciò a sistemare tutte le portate sul vassoio. La testa del cane la seguiva nei movimenti, come se stesse osservando una partita di tennis. Andavano in concerto.

«La vado a chiamare, che problema c'è?» proposi.

«Che poi arriva tutta puzzolente di fumo!» sbottò.

Aveva senso. In momenti come quello, uno non può far altro che limitarsi ad acconsentire, evitando perfino di suggerire alternative, che potrebbero addirittura contribuire ad alimentare quel clima di tensione, non portando a niente se non a ulteriore confusione. Per questo restammo zitti, nonostante la nostra mente galoppasse alla ricerca di una soluzione che potesse non essere fraintesa o aspramente criticata dalla donna di piombo che era da poco entrata nella stanza. Non dissi niente, ma sapevo come sarebbe finita. E avevo paura. Ansia, meglio. Entrambe inducono alla ricerca di un nascondiglio, di una realtà alternativa, ma almeno la paura si cura col coraggio. L'ansia non si può curare, invece; ti puoi assuefare, arrenderti a quella costante sensazione di inquietudine e apprensione. In qualunque modo la si veda, questa porta comunque a una sconfitta. Non ero pronta a perdere, a espormi, non ancora. Ma sono convinta che nessuno sia mai pronto a ricevere la propria sentenza.

«Verrai tu, Maria».

Non mi mossi subito, tanto meno fece mia nonna. Era come se anche lei soffrisse quella decisione. Che non mi ritenesse all'altezza? Che avesse paura di far brutta figura? Forse avrei dovuto marciare su questi possibili scenari, per convincerla a cambiare idea. Capii anni dopo perché non lo feci e la motivazione risiedeva in quei labirinti della mente che a una ventenne priva di esperienze non possono risultare che estranei e inarrivabili. Si stava giocando tutto sul non detto.

Strinsi il grembiule dietro la schiena, quasi a volermi dare forza. Mia nonna mi porse il vassoio preparato da Graziella, non nascondendo una smorfia.

«Dove state andando?» chiese Giuseppa rientrando nella cucina. La vecchia la fulminò con lo sguardo.

«Dove credi? A servire, ovvio!»

La vidi sussultare. «Ma ci dovevo andare io! Maria, passami sto vassoio, va'».

Fui spinta in avanti, verso il corridoio.

«Ma va lavati, nzivata!» le fu risposto in tono aspro.

Mia nonna continuò a spingermi, desiderosa di concludere quel teatrino il prima possibile. Chiuse la porta alle sue spalle e cominciò a farmi strada verso l'abitazione principale. Voci ovattate attraversavano il legno spesso che ci stava dietro.

«Peppa, ma...» cominciò una voce timida. Sorrisi d'impulso.

«che ne diresti di, non lo so, uscire insieme, qualche volta?»

Ci fu silenzio. In tutta onestà non sapevo cosa aspettarmi.

«Ma chi, io e te?» chiese allora lei a Sebastiano.

Di nuovo silenzio. Immaginai che lui avesse annuito.

L'unica risposta che gli concesse fu una sonora risata derisoria.

A collegare la residenza dei Romeo con quella della servitù, c'era solo un lungo corridoio. Era ironico, quasi, il fatto che due mondi apparentemente così distanti fossero separati da un semplice passaggio e una pesante porta in mogano. Oltre quella soglia, ogni mattina, noi domestici prendevamo vie diverse: chi doveva riordinare le camere da letto saliva le scale, chi era destinato alla pulizia delle sale passava per l'androne. La sala da pranzo era anch'essa al piano terra, ma vidi che mia nonna si avviava verso il piano superiore.

«Cough cough» finsi di tossire cercando di attirare la sua attenzione.

Si girò. Era già a metà scala.

«Dimmi»

«La sala da pranzo è ancora qui a sinistra o l'hanno spostata per il lieto evento?» scherzai.

Non colse l'ironia.

«Si dà il caso che vogliano mangiare in camera»

Inclinai la testa «Oh»

Nel frattempo, migliaia di pensieri si stavano rincorrendo nella mia testa. Quale camera? Ma soprattutto, quella camera?

Salii i primi gradini. Era strano, ero solita fare su e giù per quelle scale da quelli che ormai erano anni, eppure quel giorno mi parevano diverse. Come se, oltre a un vassoio, stessi portando con me un macigno. Sentivo il peso dei miei passi e non riuscivo ad avanzare se non a passo incredibilmente lento.

«E dai! Moviti!» mi esortò la nonna.

Fu allora, con quelle parole, che si presentò davanti ai miei occhi un'immagine: due bambini, un maschietto e una femminuccia, che scorrazzavano su quelle esatte scale. Vidi la bambina inciampare e il ragazzino, ormai arrivato al piano di sopra, voltarsi per vedere dove fosse finita. Anche dalla sua bocca uscì un «E dai! Muoviti!». Fu allo stessi tempo uno schiaffo e una tenera carezza.

«Maria!» gracchiò poi la vecchia che mi stava davanti, riportandomi al presente. Accelerai il passo.

Arrivata di sopra, mi resi conto che l'agitazione si era tramutata in qualcosa di diverso. Non ero più spaventata o nervosa, ma piuttosto curiosa ed eccitata. Volevo incontrarlo di nuovo, non aveva più senso nascondersi. Ne presi piena coscienza quando bussai alla porta della sua camera. Peccato, però, che sentii il coraggio scivolarmi addosso non appena una voce dall'altra parte pronunciò «Avanti».

Aprii la porta. Niente in quella camera era stato spostato dall'ultima volta che c'ero entrata, ormai quindici anni prima. Era come se ogni mobile, ogni quadro appartenesse a un preciso punto, a una precisa posizione dalla quale non poteva allontanarsi. Constatare ciò mi rincuorò, sì, ma al contempo fui pervasa da una nostalgia quasi velenosa. Faceva male.

Mia nonna entrò con un sorriso smagliante, di facciata, naturalmente. Io non mi sforzai nemmeno, tanto ero pietrificata. Nel centro della stanza, l'uno di fronte all'altro, separati da un mero tavolino da caffè, c'erano Romeo e il figlio. Il primo sfogliava le pagine del suo quotidiano, probabilmente perché al mattino non aveva avuto il tempo di consultarlo; il secondo era nel procinto di accendersi una sigaretta. Nessuno di due aveva badato a noi e io decisi di fare altrettanto: andai dritta verso l'altro capo della stanza e poggiai lì il vassoio. Cominciai allora a distribuire i vari piatti sul mobile.

«Io non capisco perché tu abbia insistito per venire in automobile» ruppe il silenzio Romeo, rivolgendosi al ragazzo. Lui tirò una boccata dalla sua sigaretta prima di rispondere.

«Te l'ho già spiegato, mi pare».

Rimasi stupita da quanto la sua voce fosse cambiata. C'era da aspettarselo, certamente, ma forse, in cuor mio, mi ero illusa che potesse continuare a suonare tenera e innocente, così come me la ricordavo. Era una voce più matura, sì, ma limpida, calma, impostata. Pareva davvero quella di un attore del cinematografo.

«Continuo a non trovarci il senso, allora» continuò Romeo.

«Non c'è molto da capire: volevo avere la mia automobile anche qui e, voilà, l'ho portata con me. Cosa avrei dovuto fare, venire col treno e lasciare che fosse una concierge a guidarla fino a qua? Che spreco.»

Il padre sbuffò contrariato.

«I ragazzi dell'alta società se ne devono infischiare degli sprechi. Così hai fatto un viaggio sfiancante e da solo, per giunta!»

«Oh, non ero solo. C'era Oreste, innanzi tutto.» Guardò in basso, convinto di trovare il cane vicino a sé. Allora si girò, per vedere dove fosse. Io ero esattamente dietro di lui. Non mi voltai, continuai ad armeggiare con i piatti come se nulla fosse, ma avvertii i suoi occhi puntati addosso; stava cercando di inquadrarmi. Sentivo il cuore esplodermi nel petto. Passarono dei secondi, poi mi diede le spalle di nuovo. Sospirai.

«E poi c'era anche Salvatore»

«Chi?» domandò Romeo

«Oh, un siciliano. L'ho incontrato in una taverna a Firenze. È stato un soldato anche lui, sai? Era nella Marina, così come Rizzo. Era con lui quando ha affondato la corazzata Wien, ci credi? Incredibile, davvero incredibile. Dovevi sentire come descriveva l'accaduto, sembrava di...»

«E che c'entra ora sto siciliano?»

«Te l'ho detto, l'ho incontrato in una taverna a Firenze. Stava riscendendo l'Italia a piedi da Trieste, per tornare a casa in Sicilia. Roba da pazzi. Aveva giusto i soldi per pagarsi il traghetto e una corriera. Allora che ho fatto: gli ho offerto del vino, l'ho ammorbidito bene bene e quando gli ho chiesto se fosse disposto ad accettare un passaggio da uno sconosciuto, ha acconsentito senza problemi. Così ho avuto compagnia e un cambio alla guida. Certo, eh, non è abbia capito tutto quello che mi ha detto, però ci siamo arrangiati. Mi chiamava baruni . All'inizio pensavo che mi stesse dando del baro, ma in realtà credeva fossi un barone. Bel tipetto Salvatore.»

Mi piaceva come parlava di quell'uomo. Non lo considerava inferiore solo perché squattrinato e poco istruito, ma sembrava quasi che stesse descrivendo un suo pari. Addirittura, dal modo in cui ne esaltava le gesta, pareva che lo volesse esaltare. Fu dolce.

«Che stai facendo tu, qui?» mi sussurrò mia nonna.

«Metto a posto» sibilai.

Si morse la mano per trattenere le urla.

«Chi mmi ti bbampava, li devi servire, Maria!»

«Ma perché, non ce la fanno da soli?»

Sgranò gli occhi. La vidi diventare tutta rossa.

Acciuffai due piatti «Va bene, va bene».

Mi avvicinai verso di loro e velocemente poggiai i piatti sul tavolino da caffè. Con passo svelto, per non dare nell'occhio, tornai verso il mobile a prendere le pietanze.

«Come pensi di servirli senza posate?»

Mi guardai attorno, senza sapere come rispondere.

«Beh...»

«Al diavolo, le prendo io»

Feci per riappoggiare le cose sul tavolino, ma mia nonna inclinò la testa, indicandomi di chinarmi per lasciare che fossero loro a prendere il proprio cibo.

Mi avvicinai sempre di più al ragazzo, reggendo il vassoio con le mani sempre più tremanti. Lui non si accorse subito della mia presenza.

«Prego» dissi quindi con un filo di voce.

Si voltò. E fu la fine. Per me, per lo meno.

Lo lessi nei suoi occhi che mi aveva riconosciuta, dal modo in cui le sue pupille si ingrandirono, dal modo in cui corrugò leggermente le sopracciglia, dal modo in cui sollevò un angolo della bocca.

Mia nonna gli porse le posate, permettendogli di servirsi.

«Signorino Antonino, è un piacere rivedervi»

«Anche per me, Agata» rispose lui sorridendo. Continuò a guardarmi mentre portava al suo piatto un pezzo di capretto.

«È un piacere rivedere anche te» mi disse.

Restai immobile, congelata. Nella schiena sentivo tanti piccoli spilli conficcati nella carne, che mi impedivano di muovere un passo. Non sapevo cosa dire, non sapevo come reagire. Ero paralizzata ed elettrizzata. Non c'erano più dubbi sul fatto che si ricordasse di me e, anche se ciò mi riscaldava il cuore, riusciva a infondere anche una grande amarezza. C'era tanto di nascosto e pesante in quel nostro gioco di sguardi.

Romeo abbassò il giornale per prendere il cibo. Quando vide me e non Giuseppa, sobbalzò, quasi. Forse non se lo aspettava, forse non approvava, forse mi riteneva un'incapace che nemmeno sapeva come si dovesse servire il cibo ai padroni di casa, non che avesse torto. Fu per uno di questi motivi che guardò mia nonna e con voce fredda affermò «Bene, Agata, puoi poggiare il piatto qui, grazie. Facciamo da soli»

Mia nonna gli sorrise ancora, nonostante si sentisse profondamente in imbarazzo.

Ci avviammo verso la porta della stanza, seguite dallo sguardo insistente ma buono di Antonino.

Non appena ci lasciammo la camera alle spalle, mia nonna mi diede un pizzicotto.

«Ma chi cumbinasti, ah

Sorrisi, esausta. Il primo incontro era andato.

 

  
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