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Zona di Esclusione di Chernobyl, Ucraina.
8 Novembre 2009.
Poco
fuori Pripyat.
11:04.
Irina
riaprì gli occhi. L’odore acre
del fumo giunse alle sue narici.
Si girò
sul fianco, ma se ne pentì
quasi subito, dal momento che iniziò a sentire dolore.
Stringendo i denti, si
guardò intorno.
L’esplosione
aveva incendiato l’Honker.
Attorno al mezzo in fiamme, i corpi degli zombie che li stavano
inseguendo,
ormai morti. A pochi metri da lei, giaceva supino Masha, assieme alla
sua
Makarov.
La ragazza si mise
una mano nella zona
dolorante, e si guardò il resto del corpo. I pantaloni si
erano strappati nella
caduta dal mezzo. Sulle braccia c’erano ora numerose
escoriazioni.
Si rimise in piedi,
iniziando a
guardarsi intorno.
«Papà?
Boris? Svatok?»
I due mezzi
raggiunsero la stele che indicava la strada per
Pripyat. L’Honker sfrecciava lungo la strada. Davanti a loro,
l’UAZ stava per
iniziare la sua salita nel “Ponte della morte”.
«PREMI
QUELL’ACCELLERATORE E SEMINAMI!
CI VEDIAMO A PRIPYAT, FRATELLO!» urlò Svatok in
radio, mettendo nel mirino una
strada sulla sinistra.
Kovalenko
non rispose, ma lo scatto del
mezzo che lo precedeva fu una risposta abbastanza eloquente per il
commilitone.
«Tenetevi
forte, curva a sinistra!»
Irina,
che sparava dal finestrino,
rischiò di finire fuori bordo. Gli zombie, nonostante le
raffiche di Sergei,
continuavano a essere parecchi.
«Qualche
idea su come liberarci di loro?»
chiese Boris.
«A
parte cercare di seminarli? Nessuna!»
fece il padre di Irina.
Svatok
sospirò, mettendo una mano su una
tasca.
«Non
dovrei usarla, ma vista la
situazione…»
Il
soldato prese una granata, passandola
nei sedili posteriori.
«Sergei,
lanciala fuori!»
La
ragazza avanzò barcollando in direzione
dell’Honker, e quando le fu vicino
inorridì.
Svatok
era completamente carbonizzato. La portiera era chiusa; non aveva
nemmeno
provato a gettarsi dal mezzo.
Iniziò
a boccheggiare, guardandosi nervosamente attorno.
«Aiuto!
C’è qualcuno?» urlò, senza
ricevere risposta.
Guardò
indietro l’orsacchiotto e la sua
pistola.
Irina
raccolse Masha, fissando una parte leggermente bruciacchiata del
peluche.
Sergei
tolse la sicura.
«ATTENZIONE!»
Svatok
non riuscì ad evitare la carcassa
dell’alce che stava venendo divorata dai non morti in mezzo
alla strada,
facendo sobbalzare il mezzo.
La
granata cadde di mano all’uomo.
Prese
poi la Makarov, togliendo la polvere dal lato rimasto a contatto col
terreno.
Il
soldato invertì la marcia,
lanciandosi a capofitto contro gli inseguitori.
«GETTATEVI!»
Boris
aprì la portiera e si lanciò
fuori, rotolando fuori dalla strada. Sergei aprì il
portellone posteriore.
«Vai,
Irina!» urlò alla figlia.
La
ragazza si gettò fuori, cadendo
rovinosamente sull’asfalto. Sergei si apprestò a
seguirla.
Un’esplosione,
e la ragazza perse i
sensi.
«Ira…»
Alzò
lo sguardo.
«PAPÀ!»
Suo
padre giaceva bocconi in un bagno di sangue. Il corpo era stato
martoriato
dalle schegge provocate dall’esplosione del mezzo.
La
ragazza si avvicinò, mettendo Sergei in posizione supina.
L’uomo aprì gli
occhi, iniziando a lacrimare.
«Ira…p-perdonami…»
«Pà,
non puoi lasciarmi ora! Non adesso che siamo tornati a casa!»
disse isterica,
ripulendo la faccia del padre dal sangue.
«È
inutile… s-sono spacciato.»
«Zitto,
zitto! Boris, dove cazzo sei?»
«Irina!»
Boris
spuntò da un fosso poco più avanti a loro, e
corse verso di loro.
«Dobbiamo
portarlo al sicuro.» fece il ragazzo, chinandosi per tirarlo
su.
«Lasciatemi.
Vi rallenterei e basta.» disse l’uomo.
«Sparatemi in testa e andatevene. Non
voglio trasformarmi in una di quelle cose.»
«No!
Dev’esserci un altro modo... Boris?»
Il
ragazzo aveva iniziato a lacrimare. Guardò Irina, e scosse la
testa.
«Vieni
qui, ragazza mia.» sussurrò Sergei.
Sua
figlia si avvicinò.
«Ti
avevo promesso che ti avrei riportato a Pripyat, un giorno. Ed ora
eccoci qui,
a pochi chilometri dalla città che mi ha dato e tolto tutto.
Posso andarmene in
pace.»
Anche Irina
iniziò a piangere. L’uomo si voltò
verso Boris.
«Prenditi
cura di lei, ometto.»
Il
ragazzo annuì.
Sergei,
poi, si voltò verso la figlia.
«Fallo,
Irina. Fallo per tuo padre.»
La
ragazza, tra le lacrime, puntò la pistola al centro della
fronte di Sergei, che le strinse la mano.
«Ti
voglio bene.»
E
premette il grilletto.
Altro
sangue schizzò sul volto della ragazza. L’urlo che
uscì dalla bocca di Irina
ebbe del disumano. Per diversi attimi, tutto intorno a lei si fece
ovattato,
mentre la mano di suo padre mollava la presa e il corpo
sbatteva
pesantemente a terra. Nemmeno le urla di Boris, assieme ad alcuni
spari,
riuscirono a riportarla nella realtà. Alla fine, il ragazzo
fu costretto a
trascinarla via, mentre lei continuava a fissare il cadavere martoriato
del
padre, prima che svanisse dietro un muro di alberi.
Irina
cadde in ginocchio di nuovo, singhiozzando. Erano in mezzo ai
boschi
che circondavano Pripyat, in mezzo a una strada asfaltata.
«Papà…
perdonami…»
Boris
si voltò.
«Andiamo
Ira, non possiamo fermarci, siamo
ancora troppo esposti!» fece Boris, tornando indietro per
tirarla su.
«Lasciami
stare.» disse lei, allontanando la mano del ragazzo.
«Vattene. Mettiti in
salvo. Non preoccuparti per me.»
«Non
ti lascio. Tuo padre…»
«Non
nominarlo.»
«…
lui mi ha chiesto di prendermi cura di te. E intendo farlo. Voglio
arrivare a
Pripyat insieme a te sano e salvo.»
«Come,
Boris? Come? Hai a malapena imparato a sparare. Non sai nemmeno dove
siamo.
Semmai sono io a dovermi prendere cura di te.»
Boris
si passò una mano sul volto.
«Vogliamo
iniziare togliendoci dalla strada, magari?»
Irina
sospirò, e seguì il ragazzo tra gli alberi,
lasciandosi a diversi metri di
distanza la strada e curandosi di essere circondati da cespugli. Boris
tirò
fuori il dosimetro.
«0.29
microsievert… può andare. Fermiamoci
qui.» disse, continuando a guardarsi
attorno. Irina lanciò lo zaino a terra, assieme a Masha e
alla sua Makarov,
mettendosi le mani sul volto. Il ragazzo la lasciò sfogare,
tornando a parlarle
solo quando riuscì a calmarsi.
«Ora
che facciamo?» domandò Boris.
«Dovremmo
cercare di capire dove siamo.» fece Irina. «Ma non
ci riesco. Ricordo Pripyat,
ma il suo circondario no. Cazzo, avevo tre anni quando ci hanno
evacuato.»
«Grandioso.
Ecco, lo sapevo.» disse il ragazzo, scuotendo la testa.
«Fanculo le lezioni.
Dovevo giocare al nuovo S.T.A.L.K.E.R..»
«Cosa?»
«L’ultimo
gioco della serie di S.T.A.L.K.E.R.,
Call Of Pripyat, è uscito
un mese fa. Ha
tre mega zone, tra cui Yanov e Pripyat… ma sono rimasto
fermo a Yanov. Nella
missione successiva sarei dovuto arrivare alla fabbrica Jupiter con i
miei
compagni per raggiungere Pripyat…»
La
ragazza era sconcertata.
«Boris,
stai collegando il cervello prima di parlare?»
Il
ragazzo fece per ricominciare a parlare, ma si fermò.
«Perdonami.
Che cosa patetica. Cercare di capire dove siamo dalla mappa di Yanov di
un
videogioco...»
All’improvviso,
però, Irina alzò lo sguardo.
«Yanov…
ma certo! La ferrovia!»
Boris
restò basito.
«Che
ti è saltato in mente?»
«Ricordi
che Feodor e gli altri hanno proseguito dritti verso un ponte? Quello
è il
ponte della ferrovia. Se percorriamo i binari a ritroso, in direzione
della
centrale nucleare, tra circa un’ora dovremmo essere
arrivati.»
«Poco
fa li abbiamo oltrepassati. Dovremmo raggiungerli
rapidamente.»
«Inoltre,
se ci vengono a cercare, la stazione di Yanov è quasi
sicuramente il primo
posto dove si dirigeranno.»
Irina
si alzò, seguita dal ragazzo, incamminandosi verso la strada.
«Irina.»
la fermò Boris. «Forse è
un’idea stupida, ma… e se proseguissimo lungo la
strada? Più avanti ho visto un bivio, e una delle due strade
porta quasi
sicuramente a Pripyat.»
«Non
abbiamo una radio, e non la hanno nemmeno i nostri. Finiremmo per dover
tornare
fuori a cercarli.»
Il
ragazzo annuì.
«Va
bene.» sospirò la ragazza. «Torniamo a
casa.»