1
Pripyat, Ucraina.
8 Novembre 2009.
Checkpoint ‘Pripyat’.
11:02.
Anatoli Zelenko, Vassili Karavaev, Serg. Olga
Petrova, Pvt. Feodor Kovalenko.
Parte del gruppo ha raggiunto Pripyat. La posizione e lo stato di Irina,
Sergei, Boris e del soldato Svatok è ignota.
«SVATOK!»
Feodor
corse fuori dall’UAZ, venendo rincorso e fermato da uno dei militari del
checkpoint.
«Lasciami,
Pyatov!» esclamò il soldato, lottando per liberarsi dalla presa del
commilitone.
«Fermati,
Feodor!» ordinò Olga.
Kovalenko
smise di agitarsi, e, accasciatosi, sbatté un pungo a terra, iniziando a
lacrimare e imprecare.
«Arrivano
le provviste, ma anche guai, a quanto pare» fece l’altro soldato al checkpoint.
Olga
si avvicinò a lui.
«Il
tuo nome?»
«Soldato
Andrei Sydorchuk, sergente.»
«Bene,
Sydorchuk. Avvisa chiunque comandi a Pripyat che le provviste sono arrivate, e
che abbiamo un commilitone con dei civili dispersi.»
«So
dove vuole arrivare, sergente, ma non credo sarà possibile» rispose Sydorchuk. «Nessuno
lascia Pripyat, che sia esso un civile, un militare o un membro della Militsiya.
Ognuno deve restare nel posto dove è stato assegnato, salvo ordine diretto del
maggiore Tsurikov.»
«È
così che trattate i vostri commilitoni e i civili, qui? Negando loro aiuto se
sono fuori dal perimetro della città? Ma che cosa avete in testa?» sbottò
Anatoli.
«Andiamo,
Sydorchuk» fece Pyatov, dopo aver aiutato Feodor a rialzarsi. «Il maggiore non
negherà un aiuto del genere. È Svatok, uno dei pochi soldati che conoscono la
Zona!»
«Il
maggiore ci ha dato degli ordini, Pyatov, e dobbiamo rispettarli. Chi entra a
Pripyat, resta a Pripyat! Chi lascia Pripyat, non può far ritorno!»
Ci
fu qualche secondo di silenzio, prima che qualcuno dei presenti tornasse a
parlare.
«Chi
comanda la Militsiya qui?» chiese Vassili.
«Nessuno.
Voi poliziotti siete subordinati a noi militari» rispose freddamente Sydorchuk.
I
tre si guardarono.
«Se
entriamo a Pripyat, non potremo più salvare Irina, Sergei, Boris e Svatok, se
sono sopravvissuti» fece Anatoli.
Olga
guardò il contadino.
«Conosci
la zona, Anatoli?» chiese.
Il
vecchio annuì.
«Da
giovane spesso passavo a prendere mia moglie a Yanov, e insieme andavamo a
spasso a Pripyat. La stazione ferroviaria è a tre chilometri da qui» disse.
«L’esplosione
proveniva da sud-ovest. Magari i soldati in cima alla fabbrica Jupiter
hanno visto qualcosa» fece Pyatov, rivolto al commilitone.
Sydorchuk
sbuffò, prendendo la sua radio.
«“Checkpoint
‘Pripyat’” a “Punto d’osservazione
‘Jupiter’”, potreste dare un’occhiata in
direzione della stazione di Yanov e riferirmi cosa vedete e
sentite?»
«Affermativo,
“Checkpoint ‘Pripyat’”. Dacci solo un secondo.»
Dopo
qualche attimo di interminabile silenzio, arrivò il responso.
«“Checkpoint
‘Pripyat’”, vediamo del fumo alzarsi a sud-ovest della nostra posizione.
Rilevamento sonoro e ulteriori riscontri visivi impossibile da attuare, la
foresta è troppo fitta e il fumo troppo lontano. Ad occhio e croce, dovrebbero
essere vicino al crocevia delle strade che conducono alla stazione di Yanov,
alla fabbrica Jupiter e alla discarica di Buriyakivka.»
Il
soldato stava per ringraziare e chiudere, quando un altro soldato parlò via
radio.
«“Checkpoint
‘Pripyat’”, parla “Posto di blocco sud-ovest”. Confermo le parole del “Punto
d’osservazione ‘Jupiter’”. Abbiamo udito un paio di spari, delle voci e dei
ruggiti, ma non sentiamo più nulla da qualche minuto.»
Vassili,
Olga e Anatoli si scambiarono uno sguardo.
«Vengo
con te, Anatoli» fece il poliziotto. «Tu, Olga, vai pure. Ce la faremo.»
La
soldatessa annuì, dando loro la sua radio.
«Portateli
qui… e non fatevi ammazzare» disse, sospirando, per poi abbracciare il
poliziotto.
«Siamo
sopravvissuti finora. Cosa può ucciderci?» sorrise Anatoli.
Partiti
i due, Olga si rivolse agli altri.
«Il
capitano Yaremchuk alla stazione radar Duga mi ha ordinato di restare a
Pripyat e unirmi alla vostra guarnigione. Dove posso essere utile?» chiese.
«Credo
che al caporale Yakovenko possano far comodo un paio di braccia in più
all’Hotel Polissya» rispose Pyatov.
«Continui
lungo la Prospettiva Lenin, fino ad arrivare nella piazza principale. Davanti a
lei vedrà il Palazzo della Cultura Energetyk. Alla sua destra, troverà
l’hotel.»
Feodor
si avvicinò. I suoi occhi erano ancora rossi dalle lacrime.
«Vuole
un passaggio, sergente?»
«No,
grazie. Non penso che capiti tutti i giorni camminare in mezzo a una città
abbandonata. Quanto a te, piuttosto, sii ottimista. Faremo il possibile per riportare
gli altri a Pripyat sani e salvi.»
«Lo
spero anch’io.»
Il
soldato si mise sull’attenti, facendo il saluto.
«È
stato un onore, sergente Petrova.»
Olga
ricambiò il saluto, accennando un sorriso. Nessuno le aveva mai espresso
gratitudine per esser stato sotto il suo comando.
I
due soldati alzarono la sbarra del checkpoint, lasciando entrare il mezzo e la
soldatessa.
Così,
questa è la città fantasma.
Olga
camminava lungo la Prospettiva Lenin come Alice una volta arrivata nel paese
delle meraviglie. Certo, l’atomo non aveva fatto meraviglie in quel luogo, ma
quel macabro fascino che permeava l’area di Pripyat rendeva impossibile a
chiunque non perdersi a guardare ciò che restava degli edifici dell’atomgrad
abbandonata.
Volgeva
lo sguardo oltre gli alberi spogli che avevano quasi ricoperto
l’asfalto della
strada, verso quegli appartamenti abbandonati che, con l’arrivo
dell’apocalisse, erano stati nuovamente occupati dai cittadini
ucraini della Zona o
giunti all’interno di essa in fuga dai non morti. Affacciato al
balcone del
proprio alloggio, qualche neo-residente osservava con aria incuriosita
la
soldatessa procedere solitaria lungo il viale.
Chissà
cosa direbbe Tetyana, se sapesse che sono qui.
Quando
iniziò ad andare alle elementari a Kiev, nell’ottobre 1986, nella sua classe
c’era anche una ragazzina del nord, Tetyana Ivanenko, figlia di una coppia
sfollata da Pripyat. Gran parte dei bambini, dopo un primo momento di
integrazione, iniziarono a rigettare la presenza di Tetyana all’interno della
classe, spinti dall’odio e dal disprezzo inculcatigli dai genitori verso chi
proveniva dall’area di Chernobyl. Solo Olga, che per natura era solidale verso
il prossimo, le stette sempre vicino, diventando la sua migliore amica. Le
raccontava spesso di quando viveva lì, di quanti fiori e bambini con cui
giocare ci fossero. Desiderava tornarci come non mai. Da quando la soldatessa
era entrata nell’esercito, però, le due si sentivano raramente. L’ultima cosa
che ricordava di Tetyana era che stava cercando disperatamente un gruppo metal
dove suonare.
E
soprattutto, chissà cosa direbbero mamma e papà.
Oleg
Petrov, nato a Kursk, nella Repubblica Socialista Sovietica
Russa,
negli anni Cinquanta, si era trasferito a Kiev per lavoro. Lì,
aveva conosciuto
e successivamente sposato Oksana Pavlyuk, una barista che lavorava in
un locale non distante dall'appartamento dove si era stabilito l'uomo.
Nel 1980, i due diedero alla luce la
loro unica figlia, Olga. Gli anni passavano, e Oleg, rimasto
disoccupato dopo
esser rimasto coinvolto in una rissa con un suo collega, vide nel
disastro di
Chernobyl un’opportunità per redimersi e render fiera sua
moglie e sua figlia. Si
unì ai liquidatori, e tra i tanti lavori disponibili, scelse
anche quello più
pericoloso. Oltre ai vari lavori di rilevazione dei valori delle
radiazioni, salì sul tetto della centrale, e per novanta secondi
fece il bio-robot,
facendo ciò che le macchine non erano riuscite a fare a causa delle troppe
radiazioni: rimuovere i detriti e i blocchi di grafite dal tetto del vicino
reattore numero 3. Per prendere più soldi ed essere riabilitato agli occhi
dell’Unione Sovietica, salì altre tre volte, spalando per un minuto e mezzo
all’ombra del camino d’aerazione dei blocchi 3 e 4.
Alla
piccola Olga, il padre raccontava di quando passeggiava per le strade buie di
Pripyat, illuminate solo dalla luna, o di quando andava a nuotare con i suoi
colleghi alla piscina Lazurny, l’unico luogo della città a restare
attivo fino al 1998.
Il
coraggio (o l’incoscienza) di Oleg fece migliorare leggermente le condizioni
economiche della famiglia, ma non la sua salute, che peggiorò con l’avvicinarsi
del nuovo millennio. Olga disse addio al padre nel 1997, vittima di un tumore
al cervello. Il suo corpo era stato minato troppo dalle radiazioni.
Oksana,
da allora, aveva fatto promettere alla figlia che non sarebbe mai andata a
Chernobyl.
Eppure,
eccola lì, in procinto di arrivare nella piazza centrale della città.
Quando
vi arrivò, Olga si sentì quasi una formica. L’immensa area antistante, un tempo
piena di vita, gioia e fermento, ora marciva in uno stato di abbandono.
L’enorme Palazzo della Cultura, l’Energetyk, si ergeva in condizioni
fatiscenti a qualche centinaio di metri da lei. Le immense vetrate che davano
sulla piazza erano state distrutte per far disperdere le radiazioni, così come
le finestre degli appartamenti di gran parte della città. Le insegne al neon
erano state divorate dalla ruggine, e ora i tubi giacevano allo scoperto. Sul
tetto, e all’interno dell’edificio, Olga riuscì ad intravedere dei soldati sorvegliare
l’area circostante.
La
ragazza, poi, volse lo sguardo a destra. L’hotel Polissya era in
condizioni simili al Palazzo della Cultura, collegato ad esso da un arco di
colonne. Anche qui, le finestre erano state distrutte, e le insegne al neon
avevano fatto la stessa fine di quelle dell’Energetyk. Un tempo
bianchissimo, ora la struttura tendeva al bianco sporco, con sfumature verdognole
causate dalla crescita di muffe o muschi. Notò con stupore delle piante
crescere sul tetto.
Dalla
terrazza, un soldato la salutò.
«Quassù,
sergente!» esclamò, facendole cenno di salire.
Olga
quasi lo maledisse per aver interrotto la quiete che aleggiava nella città,
nonostante, in lontananza, si sentisse il rumore dell’UAZ di Feodor.
Entrò
nell’edificio, restando impressionata dalla pressoché totale devastazione. Gli
stalker e i vandali avevano fatto razzia di ogni cosa possibile, non curanti di
star distruggendo un potenziale patrimonio storico. Salì le scale, dove fu
accolta dal caporale Yakovenko, un ometto barbuto che impugnava un fucile da
cecchino Dragunov.
«Benvenuta
all’hotel Polyssia, sergente. Si goda la vista.»
Olga rimase a bocca aperta.
Da lassù, riusciva a vedere tutta la città. I palazzi-dormitorio, arrugginite insegne
luminose recitanti slogan comunisti, l’infinita distesa di alberi… e, in
lontananza, come un gigantesco mostro, la centrale nucleare.
La soldatessa rivolse il suo
sguardo verso sud-ovest, dove il fumo continuava a salire. E, in silenzio,
iniziò a pregare qualunque Dio che non li avesse ancora abbandonati, di far
tornare i dispersi sani e salvi.
------------------------------------------------------
Salve, gente!
Vi avevo promesso l'arrivo del sequel di "Sangue su Chernobyl" in questo periodo, e intendo mantenere la promessa data. A causa dei miei impegni con la tesi, sarò però costretto ad aggiornare la storia solo mensilmente. Il prossimo capitolo è in fase di revisione, e il terzo deve essere ancora completato. Spero di riuscire nell'intento di proporvi la storia come piace a me.
Alla prossima,
Frenz