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Autore: Ms_Hellion    20/11/2020    0 recensioni
[“È inutile rimpiangere ciò che è stato, Shizu-chan. Gli eventi passati sono ormai incisi nella condizione necessaria che gli umani chiamano realtà.”
La voce di Izaya si interrompe e lui esita, anche se solo per un secondo. Quando riprende, è con una nota di rammarico.
“Inoltre, non lo vedi? Tutto questo è già scomparso da tempo.”]
Post Ketsu.
Angst con un lieto fine!
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Izaya Orihara, Shizuo Heiwajima | Coppie: Izaya/Shizuo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Heyaaa! (~^.^)~

Questa è una storiella breve – solo due capitoli – che avevo già pronta da un po’… e finalmente, dopo avere dibattuto sul titolo per tipo una settimana, mi sono decisa a pubblicarla così!

È angst con un lieto fine, perché è quello che tutti ci meritiamo.

Buona lettura~ o(^▽^)o
 

- - -



 

IIII-ZAAA-YAAAAA!”

Fallo, mostro.”

Fuoco e fiamme infuriano tutt’attorno, il bagliore minaccioso riflesso in mille lame d’argento. L’aria è impalpabile, eppure è in grado di ostruire le vie aeree di Shizuo, comprimendo la sua gola in una presa invisibile.

L’oscurità serpeggia tra le fiamme dapprima in timidi riccioli di fumo, poi come un’ondata di marea, cancellando ogni cosa in una pennellata nera, annichilendo l’ira e la morte e la vita. Tutto svanisce tranne quelle lame. Tranne quel sorriso.

La rovina e la devastazione insensata cedono il passo a una scena familiare. Davanti a lui, sanguina una figura esile, quasi accartocciata su se stessa per il dolore.

Pugni da sempre evasi con scioltezza finalmente atterrano.

Ossa delicate schioccano come bastoncini.

Mille lame lampeggiano nella notte, e ognuna di esse porta in sé un bagliore rosso.

Fallo, mostro.”

La mano di Shizuo si stringe attorno a un oggetto di plastica e metallo. Sarebbe impossibile da sollevare per chiunque, ma per lui è poco più che cartone, e le sue dita affondano con facilità, torcendo il duro materiale.

Fallo, mostro.”

Shizuo solleva in aria il distributore automatico.

Non c’è nessuna luce improvvisa, stavolta.

Vorona non interviene mai.

Il distributore atterra con uno schianto agghiacciante, e Izaya non è più visibile. È questione di secondi prima che una densa aureola rossa si formi attorno al rottame contorto.

Si allarga e si allarga sempre di più, e quando Shizuo abbassa gli occhi, il mare rosso sta già lambendo i suoi piedi. Eccetto che non si tratta di sangue.

Sono petali.

Shizuo non può distogliere lo sguardo. Sotto i suo occhi, dal sangue sbocciano mille e mille fiori rossi.


 

. . .


 

Un oceano di fiori rossi frusciava quietamente al vento, appena al di fuori delle mura del cimitero. Dall’altro lato del pallido muricciolo, una manciata di fiori si affollava contro il muro, quasi anelando, vanamente, a ricongiungersi con i loro simili, dalla mano dell’uomo per sempre separati.

Un singolo fiore era gentilmente retto tra le dita della mano crudele che lo aveva estirpato.

Era un giglio del ragno rosso; un fiore scontato da presentare in un cimitero, a dire il vero, e non migliorava la situazione il fatto che fosse stato colto di tutta fretta, appena fuori dalle basse mura, dopo un breve ripensamento.

Era pur sempre meglio di niente, si disse Shizuo. Sarebbe stato scortese presentarsi a mani vuote, chiunque fosse il defunto.

Defunto.

Shizuo distolse rapidamente lo sguardo dal fiore. Lo metteva a disagio, e non solo per via della pesante connessione popolare tra quei fiori e la morte. Non poteva sopportare la vista del suo colore.

Si affrettò a posarlo sul terreno ghiaioso di fronte alla lapide, e i suoi petali cremisi formarono un’unica macchia di sangue colore sulla tomba altrimenti spoglia. E ancora era una vista misera comparata alle tombe vicine, adornate da fiori colorati e candele accese dai cari dei defunti. Da persone a cui importava.

Ma non questa tomba – no, ad essa era concesso un unico fiore, colto di tutta fretta, dopo un ripensamento.

“È un tributo misero per rendere omaggio, eh?”, mormorò Shizuo tra sé. “Ah… scusa. La prossima volta porterò qualcosa di meglio.”

Le parole giunsero come una sorpresa alle sue stesse orecchie. Fino a quel momento, non sapeva neppure che ci sarebbe stata una prossima volta, e ora aveva appena promesso di spendere soldi per adornare la tomba a cui l’umanità intera pareva essere indifferente; davvero ironico che chi giaceva in quella terra avesse un tempo dedicato tutta la sua attenzione ed energia a suddetta umanità – sebbene in modo non convenzionale.

“È per questo che sei qui”, gli disse, mentre nelle sue vene risuonava l’eco di un’antica furia, ciò che era solito essere un incendio inarrestabile ora ridotto a l’ombra di se stesso. “Se non fossi un tale bastardo, le cose non sarebbero andate così.”

Pronunciò le parole, ma il debole fuoco si era già spento, e di nuovo era ghiaccio a scorrere dentro di lui, un torpore con cui ormai aveva avuto modo di acclimatarsi.

Succedeva spesso, ultimamente. Dapprima era stato nient’altro che una vacuità indistinta, sovrappostasi al senso di pace di cui godeva da quando Ikebukuro era diventata sua e sua soltanto. Tom lo aveva preso per un buon segno, si era congratulato con lui per essere finalmente riuscito a estinguere l’ardore nelle sue vene. Shizuo si era limitato a scrollare le spalle, liquidando la questione senza pensarci troppo.

Era peggiorato, però, da quando aveva scoperto che lui era lì.

Da quando Simon lo aveva preso da parte e gli aveva detto: “È tempo di lasciare rancore alle spalle, Shi-zu-o. Dimentica odio. Odio è andato ora.”

Ma non era andato da nessuna parte. Era lì, era stato lì per mesi.

Spiegava perché non fosse mai tornato a Ikebukuro.

“Finalmente ce l’ho fatta, eh?” Deglutì, tentò un sorriso. “Ce l’ho fatta a cacciarti via da ‘Bukuro. Maledetto bastardo, non ci metterai mai più piede.”

Deglutì di nuovo, e in quel momento avrebbe potuto essere ancora laggiù, in ginocchio in un cantiere edile, ad annaspare e strozzarsi sul suo stesso respiro; avrebbe potuto essere ancora laggiù, per come la sua gola era serrata da una presa invisibile.

Ancora il suo sguardo fu attirato dal giglio.

Rossi i petali.

Rossi gli occhi.

Rosso il sangue.

Devo andarmene da qui.

“Tornerò”, riuscì a dire.

Naturalmente sarebbe tornato. Lo aveva promesso. E per quanto Heiwajima Shizuo fosse un mostro, era onesto a sufficienza da mantenere le sue promesse.

“Avevo promesso di ucciderti, dopotutto… non è così, Izaya?”

Per la prima volta da quando lo aveva conosciuto, Izaya non offrì alcuna replica.

Gli rispose l’insopportabile silenzio, e il lontano frusciare di un oceano di fiori.


 

. . .


 

Shizuo crolla in ginocchio, i suoi respiri ridotti a rantoli rauchi. I suoi polmoni implorano che venga loro concessa una boccata d’aria, e Shizuo artiglia il cemento con furia come sente li sente bruciare, il corpo un tempo inarrestabile ora indebolito, incapace di portare a termine un compito così semplice come respirare.

Dall’alto di un edificio in costruzione, Shizuo osserva se stesso contorcersi in agonia.

Ho veramente esagerato stavolta, eh?”

Izaya è seduto accanto a lui, e dondola le gambe nel vuoto mentre guarda la scena con grande attenzione. È esattamente come Shizuo lo ricorda, da quella sua amata giacca di pelliccia fino alla zazzera corvina; e tuttavia fa eccezione l’espressione sul suo volto, da cui è assente il sorriso malizioso così vivo nelle memorie del biondo.

Quando Izaya piega gli angoli della bocca all’insù, è con una punta di amarezza.

Immagino che le conseguenze siano inevitabili.”

Shizuo deglutisce contro la pressione nella sua gola che non è determinata dal gas velenoso, e che costituisce in sé un veleno ancora peggiore. Guarda Izaya come se potesse sospendere il tempo con la sola forza del suo sguardo, come se la semplice volontà fosse sufficiente a preservare il corvino da quanto già sa che sta per accadere.

Izaya sembra fraintendere la sua espressione, perché il suo viso si ammorbidisce un po’, e muove la mano in un gesto che allude alla scena sottostante. “Non temere”, gli dice. “Non morirai. Tra poco ti rialzerai e verrai a finirmi.”

Shizuo lo sa, e pensa che Izaya sia un folle a restare lì con lui, quando invece dovrebbe fuggire il più lontano possibile mentre è ancora in tempo. Pensa che per quanto Izaya sia un genio, è anche più ingenuo e imprudente di un bambino.

Perché sei qui?”

Izaya gli rivolge un mezzo sorriso. “Non posso fare visita a un vecchio nemico?”, dice, ma Shizuo scuote il capo.

Perché sei qui?”, ripete, accennando al se stesso che annaspa sotto di loro, al cantiere tutt’attorno a loro. “Qui. Stanotte. In questo momento. Che cosa stai facendo, Izaya?”

Izaya guarda giù, verso l’inevitabile futuro, verso ciò che è già passato, e qualcosa nella sua espressione instilla in Shizuo la paura che possa saltare.

Ma non serve.

Ci penserò io stesso a trascinarlo al suolo.

Come se lo avesse sentito, il corvino gli sorride, ma nei suoi occhi pesa l’ombra di mille anni di tristezza.

Sto scrivendo l’atto finale di una tragedia.”

Il corpo sull’asfalto non è più quello di Shizuo – è Izaya, ferito e morente. E accanto a Shizuo, sulla trave, Izaya sanguina, le braccia contorte in modo innaturale, la bocca piena di sangue, le guance striate.

Sta piangendo lacrime di sangue.

Non parla, ma Shizuo capisce.

Capisce che fa male. Capisce che Izaya non vuole morire.

Alla fine, danneggiato e sanguinante, è soltanto umano.

Non avrebbe dovuto giocare con un mostro.

Se Shizuo potesse fermare quel mostro, lo farebbe. Le parole non posso esprimere la disperazione con cui anela a fermare ciò che sta per accadere, e sente il panico artigliargli il petto quando vede se stesso sollevare un distributore automatico.

Interessante”, commenta Izaya, rilassato, come se il suo corpo non fosse ridotto a un ammasso di ossa deformi e lacerazioni sanguinanti. “Nella realtà, quel distributore non mi colpisce mai.”

Non ce n’è bisogno”, mormora Shizuo.

Il pesante oggetto di metallo cala.

Tu muori ugualmente.”

Abbassa lo sguardo, e sotto i suoi piedi trova un tappeto di fiori rossi. Sa che sono germogliati dal sangue che lui ha versato. Dal suo sangue. Tra tutti, proprio lui-

È inutile rimpiangere ciò che è stato, Shizu-chan. Gli eventi passati sono ormai incisi nella condizione necessaria che gli umani chiamano realtà.” La voce di Izaya si interrompe e lui esita, anche se solo per un secondo. Quando riprende, è con una nota di rammarico. “Inoltre, non lo vedi? Tutto questo è già scomparso da tempo.”

Il corpo di Izaya si raggrinzisce e si decompone, esponendo le ossa e il teschio bianco.

A uno a uno, i fiori perdono colore e diventano cenere.


 

. . .


 

Shizuo non riusciva a dormire.

Ogni qualvolta chiudesse gli occhi, lui era lì, il corpo straziato e le labbra incurvate in quel sorriso triste che Shizuo era sicuro che Izaya non gli avesse mai rivolto mentre era in vita, e pure costituiva un’immagine spaventosamente netta e realistica.

Non che avesse bisogno di vederlo per ricordare; poteva ancora avvertire sotto le sue nocche il riverbero di un violento impatto con arti sottili, ancora echeggiava nelle sue orecchie il chiaro schiocco di ossa che cedono. E tuttavia, non aiutavano le notti in cui si svegliava di soprassalto, terrificato da un’eventualità che si era già verificata. Non aiutava come, al suo risveglio, la sua mente in preda al panico si chiedesse per un istante se le ferite non fossero state troppo gravi, se Izaya non ce l’avesse fatta, né il modo in cui il suo stomaco sprofondava non appena realizzava la verità.

Era un assassino.

La perdita di sonno ebbe un diretto impatto sul suo umore – o era piuttosto la consapevolezza? La colpa strisciante repressa con accuratezza fin da quella fatidica notte, e risvegliata ora dall’evidenza di una tomba spoglia? – e di conseguenza, sul suo lavoro. Era cupo, irritabile, irrazionalmente arrabbiato, più di quanto non lo fosse stato da mesi.

Tom gli chiese più di una volta se si sentisse bene.

“Non hai un bell’aspetto, amico”, gli disse.

Il biondo liquidò la preoccupazione dell’altro con una scrollata di spalle. “Mi starà venendo l’influenza”, mormorò. Non gli piaceva mentire al suo senpai, ma realisticamente, non sapeva cos’altro dire.

Tom non sapeva nulla.

Tom ancora pensava che fosse una brava persona.

Gli credette.

Chi non gli credette invece fu Celty.

Lei sapeva.

Una sola occhiata al suo volto, e la dullahan aveva già capito.

[Sei andato a trovarlo, non è così?]

Era sera tarda, e i due si trovavano nelle vicinanze di un parco, Celty seduta sulla sua moto, Shizuo parzialmente appoggiato contro una ringhiera, un gomito sostenuto dal metallo e l’altro braccio piegato come fumava una sigaretta. Era l’ultima del pacchetto; di quei giorni, ne consumava almeno uno al giorno.

Shizuo diresse gli occhi al suolo, vergognoso. Fu una risposta sufficiente per la dullahan.

[Non è stata colpa tua.]

Shizuo sorrise amaramente. Celty sapeva leggerlo così bene… e allo stesso tempo, lo stupiva come la dullahan non sembrasse avere capito niente di lui.

“Sono stato io, Celty.”

La dullahan scosse l’elmetto giallo con decisione.

[Sei stato costretto a farlo! Izaya ti ha attaccato per primo, ricordi?], digitò, infervorata. [È stata autodifesa!]

Era autodifesa, fino al momento in cui l’ho buttato giù da quella trave”, la corresse Shizuo, la voce morbida eppure amara come fiele. “Era già sconfitto, non c’era bisogno di dargli la caccia attraverso mezza città. Non c’era bisogno di-” Si fermò, le parole rubate da una stretta dolorosa a livello del torace.

Scene di quella notte lampeggiarono di fronte ai suoi occhi.

La furia che scuoteva il suo corpo.

Pugni che andavano a segno, spezzando di netto ossa fragili.

Occhi color del sangue socchiusi per il dolore.

La bocca intrisa di sangue tirata in un ultimo sorriso di sfida.

Fallo, mostro.”

Il messaggio seguente della dullahan fu composto con cautela.

[Continuo a essere convinta che alla fine Izaya abbia raccolto quanto ha seminato. Ma indipendentemente da come sia successo… Izaya se n’è andato, Shizuo. Per il tuo stesso bene, devi lasciarlo andare. Una volta per tutte.]

Shizuo sospirò pesantemente. Il fumo sfuggito dalle sue labbra risalì in riccioli pallidi verso il cielo notturno, assottigliandosi e svanendo nel vento. Se non fosse per l’odore che impregnava ancora l’aria attorno al biondo, si sarebbe potuto dire che non era mai stato lì.

“Non ancora.” Prima che Celty potesse protestare, disse: “Non posso lasciarlo andare se sento di avere ancora degli affari in sospeso con la pulce. Ho soltanto… bisogno di tempo per mettere alcune cose in chiaro.”

[Shizuo…] Celty esitò. Dopo un momento, abbassò le spalle in un sospiro silenzioso. [Fai quello che devi. Solo, non scordarti di vivere insieme ai vivi.]

Shizuo abbozzò un sorriso. Diede un colpetto con il pollice al filtro della sigaretta, e i suoi occhi furono catturati dalla caduta della cenere. Come nel suo sogno…

In quel sogno, lui e Izaya erano finalmente riusciti a conversare in maniera civile, non era così?

Anche se si trattava solo di una fantasia…

“Ho ancora delle questioni da chiarire”, ripeté. “E poi, devo per forza tornare a trovare la pulce.”

Gettato il mozzicone a terra, fece per schiacciarlo con la suola della scarpa, soltanto per ripensarci all’ultimo secondo.

Sospirò.

“Dopotutto, ho fatto una promessa.”


 

. . .


 

Quella volta, fu un mazzo di crisantemi bianchi che il biondo depositò sul freddo terreno.

Erano bei fiori, freschi e potati con accuratezza, tenuti insieme da un nastro fine, appropriati per un cimitero. Eppure Shizuo poteva immaginarsi fin troppo bene la reazione del corvino.

Crisantemi bianchi, Shizu-chan? Davvero? No-io-sooo.”

“Sta’ zitto, pulce”, mormorò, e l’insulto cadde con facilità dalle sue labbra. “Ho speso soldi per questa bouquet.”

Com’era prevedibile, Izaya lo schernì, chiamandolo povero e fallito, ma lui non si arrabbiò. In un anfratto della sua mente, Izaya gli offrì quel sorriso astuto che era solito farlo impazzire, ma Shizuo lo lasciò ridere.

Non aveva torto; i crisantemi erano stati una scelta economica, facile, in un certo senso – ovviamente Izaya, la persona meno facile che Shizuo conoscesse, non avrebbe apprezzato.

Meglio di niente, pensò, notando di nuovo come nessun’altro si fosse disturbato a recare omaggio. Si chiese se per caso Mairu e Kururi non sapessero che il loro fratello si trovava lì – d’altro canto, la loro relazione non era mai stata affettuosa.

E non solo loro.

Nessuno provava affetto nei confronti di quell’uomo. L’intera Ikebukuro avrebbero gioito alla notizia.

Il cuore di Shizuo si strinse in una morsa dolorosa.

“Scusa”, disse impulsivamente “La prossima volta porterò di meglio.”

Qualcosa di meglio… ma perché?

Scosse il capo, riflettendo confuso sulle sue stesse parole.

Izaya meritava davvero qualcosa di meglio?

E io, io cosa merito?

Se un Dio esisteva, Shizuo pensò che un giorno lui e Izaya si sarebbero ritrovati all’inferno. Forse allora, paradossalmente, avrebbero potuto smettere di farsi del male.

Le rughe incise attorno alla sua bocca erano profonde quanto il nome scavato nella pietra, e neanche lontanamente altrettanto stabili. In compenso, il fardello sul suo petto era dieci volte più pesante.

Ho delle questioni da chiarire.”

Le sue stesse parole, rivolte a Celty.

Il cielo sapeva quanto fossero vere.

Si concesse un momento per chiudere gli occhi, inspirare a fondo.

“Ehi, Izaya…” Aprì gli occhi, guardando dritto il nome del suo vecchio nemico. Un lampo cremisi rispose da un angolo della sua mente.

Erano solo loro, ora. Il cimitero era vuoto, neanche l’ombra di un essere umano.

Attorno a loro, soltanto il silenzio.

In lontananza, solo il frusciare di un campo di gigli.

“Non volevo che finisse così. Non immaginavo che sarebbe mai finita così. Non per davvero.”

Shizuo trasse un breve respiro incerto. Quando incurvò gli angoli della bocca all’insù nella vaga imitazione di un sorriso, fu soltanto per contrastare la forza che li trascinava verso il basso.

“Mi dispiace, okay? Mi dispiace. Sono andato troppo oltre, lo so, ma anche tu-” Si interruppe. No, non poteva incolpare la pulce, quale cazzo era il suo problema? “Mi dispiace”, ripeté.

“Lo sai… non era sempre male. Questa… cosa tra di noi.” Sbuffò tra sé. “Non fraintendere. Ti ho odiato. Ti ho odiato con il mio intero essere, fino a sentirmene consumato.”

Shizuo distolse lo sguardo, puntandolo in lontananza. Il lieve sorriso sul suo volto era una smorfia di dolorosa amarezza, ma qualche folle avrebbe potuto scambiarla per nostalgia.

“In un certo senso, era la mia unica certezza.”

Oh, era così squisitamente ironico, come colui di cui aveva sempre cercato di liberarsi fosse anche la cosa più stabile della sua vita, almeno finché non era più stato così; ma era soltanto perché non era più così che finalmente se ne era accorto. Shizuo poteva avvertire le proprie mani tremare al pensiero e una risata accumularsi nel suo stomaco, tanto che d’un tratto gli scoppi di risa isterici a cui il corvino era solito lasciarsi andare non gli sembravano più tanto incomprensibili.

Perché non avrebbe dovuto ridere, quando il mondo intero era una cazzo di commedia?

Ah, anche se forse Izaya non l’avrebbe definita così.

Sto scrivendo l’ultimo atto di una tragedia.”

Ma il biondo sapeva, quell’atto lo avevano composto insieme, come una danza maledetta che non poteva avvenire senza la partecipazione di entrambi i ballerini.

“È così strano, lo sai? Sentire qualcuno ridere per la strada e aspettarsi di vederti saltare fuori da un momento all’altro, tu e quella tua giacca di pelliccia da cui sei ossessionato, solo per ricordarsi che è impossibile.”

Sospirò, si passò una mano tra i capelli.

“Dovrei essere felice. Ho sempre giurato che un giorno ti avrei ucciso e… okay, no.” Fece una smorfia. “Non potrei mai essere felice di avere tolto una vita. Ma nemmeno mi dovrebbe fare sentire così, come se… come se ci fosse un macigno sul mio petto, che preme ogni volta che cerco di respirare.”

Scosse il capo, sorrise tremante, e cazzo, perché i suoi occhi stavano bruciando così?

“Fa male, cazzo”, disse, l’ammissione facile sulla sua lingua ora che nessuno poteva sentirlo. “Dio sa perché cazzo fa così male. Ed è peggio, sapendo che è colpa mia se adesso siamo qui.” Si passò una mano sul volto, desiderando che i suoi occhi smettessero di bruciare. Così sarebbe riuscito a pensare molto più facilmente, forse persino parlare senza quel lieve tremore…

Ma niente da fare.

Quasi sorrise quando comprese il perché.

“Ah, è questo che si prova a essere in lutto? Che sensazione di merda.”

Si coprì gli occhi con una mano. Prese un respiro profondo, due, tre, cercando solo di respirare, di respingere l’orribile pressione sul retro della gola. Quando ne ebbe le forze, spostò la mano e indirizzò un’occhiataccia al nome familiare.

“Sei uno stronzo, lo sai, per farmi sentire così. Tch, davvero, mi fai incazzare.”

Mi fai incazzare.

Le prime parole che avesse mai rivolto alla pulce.

Certe cose non cambiavano mai, eh?

Sollevò il volto al cielo annuvolato. “Si sta facendo tardi”, notò tra sé, lasciando vagare lo sguardo agli angoli più scuri della pallida volta. “Sarà meglio incamminarmi”, disse, a nessuno in particolare. Sui suoi tratti indossava l’espressione di qualcuno che non sperava più di vedere uno spicchio di vero cielo.

Aggrottò la fronte, avvertendo una sorta di pizzicore sul retro della nuca. Sentì i suoi sensi scattare quasi automaticamente in allerta e un brivido diffondersi lungo la sua schiena. A rigor di logica, sapeva che il cimitero era vuoto, eppure…

Qualcuno lo stava osservando.

Si voltò d’istinto…

…e incrociò un paio di occhi color ruggine.

Miao.

Shizuo esalò, e la tensione lasciò il suo corpo.

A pochi passi da lui, un gatto nero lo stava osservando, la testa lievemente inclinata di lato.

Miao.

“Miao anche a te”, replicò con un sospiro.

Per un assurdo momento aveva pensato…

Ma no; sebbene il colore delle iridi del gatto fosse abbastanza simile a quello della pulce, in esse non vi era neppure traccia di quello scintillio di acuta intelligenza.

Si congelò.

Aveva appena paragonato la pulce a un gatto?

Sto veramente andando fuori di testa, eh?

Miao”, fece di nuovo il gatto, prima di rivolgere la coda verso di lui e trotterellare via, chiaramente insoddisfatto dal biondo.

“Bravo micio. Scappa dal mostro finché puoi”, mormorò lui.

Fatte scivolare le mani in tasca, si diresse verso il cancello di ferro battuto.

Lasciò il cimitero con le spalle curve e la stanchezza impressa in ogni fibra del suo corpo, trascinandosi a fatica sotto il peso di un fardello di fronte al quale la sua forza mostruosa non valeva più di quella di un bambino.

Assorto nei propri pensieri, rimase inconsapevole del modo in cui, celata tra gli alberi e favorita dalle ombre crescenti della sera, una sagoma scura lo osservava con intensità quasi morbosa.


 

   
 
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