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Autore: Shadow writer    26/11/2020    2 recensioni
In una metropoli urbana dominata da corruzione e giochi di potere, una giovane donna cerca di farsi spazio attraverso strade poco lecite.
Dopo gli ultimi eventi, la duchessa si trova alle strette e la posta in gioco si fa sempre più alta: il potere e le persone che ama.
Quello che non sa, è che qualcuno le sta alle calcagna, impaziente di vederla crollare. Ma come può combattere un nemico invisibile?
Dalla storia:
“Sentì un fermento nel suo stomaco e una sensazione di ebbrezza che le andò alla testa.
«Sei fortunata» replicò e si passò la lingua sulle labbra, come assaporando quel momento. «Si dà il caso che concedere favori sia la mia specialità».”
Genere: Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La duchessa '
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Passaggio di testimone
 


 
Il suono prolungato della campanella segnalò che l’incontro era terminato. Lentamente e non senza qualche lamentela, gli uomini si alzarono in piedi, riordinando le sedie che avevano posto in cerchio al centro della stanza. Alexander li aiutò a sistemare lo spazio e attese che ognuno di loro lasciasse la stanza, non prima di averlo salutato con un semplice cenno del capo o con una battuta ironica.
Generalmente, chi si prendeva più confidenza lo chiamava “Alex”, ma era stato difficile guadagnarsi le simpatie di quei carcerati che avevano acconsentito a seguire i suoi incontri. La maggior parte lo faceva solo perché la partecipazione dimostrava buona condotta e avrebbe potuto portare ad una riduzione della pena, ma avevano imparato in fretta che quello spazio di libertà che avevano poteva anche essere piacevole. Durante il suo periodo in cella, Alexander si era accorto che molti dei suoi compagni non erano delle cattive persone, ma avevano compiuto cattive scelte. Dare loro due ore a settimana in cui potevano esprimersi liberamente su un foglio, con colori e immagini, senza l’intermediazione delle parole, permetteva a questi uomini di guardare dentro se stessi e di conoscersi per chi veramente erano.
Salutò i poliziotti che incrociò nei corridoi e si diresse verso l’uscita. L’aria della sera era fredda, un poco pungente, e gli solleticò il naso mentre prendeva un respiro profondo.
I giorni precedenti erano stati un inferno. Fin da quando era tornato a casa, dopo la notte passata con Emily, si era chiesto con quale coraggio sarebbe riuscito a guardare negli occhi Camille. Doveva parlarle, essere sincero con lei, ma sapeva che prima di tutto doveva essere sincero con se stesso, anche se non aveva ancora capito quale fosse la verità dei suoi sentimenti. Non poteva parlarle prima di averlo chiarito dentro di sé. 
Fortunatamente, la moglie lo aveva sollevato dall’orribile fardello di dover stare con lei mentre era tormentato dai sensi di colpa, dato che aveva passato gran parte delle giornate in chiamata con sua madre o altre persone che potessero aiutarla nell’organizzazione della beneficenza a cui voleva dedicarsi.
Se Camille quindi era, almeno per il momento, un motivo di minore disturbo, Alexander non riusciva a togliersi dalla testa il modo in cui aveva trattato Emily quando si era svegliato nel letto della pensione. A posteriori, aveva capito che la sua reazione rabbiosa era destinata a se stesso, per essersi comportato come un vile traditore, ma la ragazza era stata un capro espiatorio più facile e accettabile rispetto al prendersi le proprie responsabilità.
Una cosa era certa: Alexander si sarebbe dovuto tenere lontano da entrambe fino a che la sua mente non fosse tornata lucida e razionale.
Mentre si dirigeva verso la stazione del bus – aveva deciso di usare quello per raggiungere la prigione – era così immerso nei suoi pensieri, che non si accorse dell’auto scura che lo aveva affiancato.
Solo quando quella cominciò a muoversi a passo d’uomo, lui la notò e vide che si trattava dell’auto di suo padre. Infatti, il finestrino posteriore si abbassò e dall’interno venne la voce di Robert Henderson: «Su, non farti implorare. Sali».
Alex sapeva che aveva ben poche possibilità di sfuggire al pressante genitore, così aprì la portiera e si infilò all’interno. Si era appena seduto sul sedile di pelle quando l’autista, senza bisogno di indicazioni, accelerò e si diresse verso la strada principale.
Suo padre sedeva al suo fianco e gli rivolgeva uno sguardo che sarebbe parso affabile ai più.
«Cosa succede?» domandò subito Alexander e l’uomo sorrise: «Non posso dare un passaggio al mio figlio preferito?»
Alex sbuffò. «Un uomo che ammette di avere un figlio preferito non è una persona degna di fiducia».
L’altro scrollò le spalle. «Cosa ci posso fare? Anche con la fedina penale sporca rimani il mio preferito. Ai tuoi fratelli manca quella fiamma che arde in te, Alexander».
La luce di un lampione entrò nell’auto come un fascio luminoso e colpì gli occhi penetranti di Robert.
«Una fiamma che potrebbe fare grandi cose, se giustamente incanalata, ma che, se lasciata a se stessa, potrebbe portarti a smarrire la giusta strada, come è successo in passato».
«Vorrai dire “giusta per te”» replicò lui e il padre, se lo sentì, lo ignorò.
«Sai che avevo grandi piani per te, ma hai compiuto alcune scelte contestabili. Non posso darti la colpa di tutto, anzi, sarebbe stato compito mio guidarti verso ciò che è giusto.»
Fece una pausa e un leggero sospiro, poi tornò a guardare il figlio, con uno sguardo carico di significato: «C’è una cosa che non posso sopportare ed è che il sangue del mio sangue cresca in modo degenerato.»
Alexander alzò gli occhi al cielo e lo sguardo gli cadde fuori dal finestrino.
«Abbiamo superato l’incrocio che porta al mio appartamento» fece notare.
«Lo so, ti sto portando a casa mia».
Il giovane strinse i denti. Non aveva elementi per supporre quale fosse il motivo di quell’incontro inaspettato.
«È successo qualcosa?»
Suo padre non rispose, ma rimase per qualche istante in silenzio con gli occhi rivolti davanti a sé. Dietro al suo profilo marmoreo, scorrevano le sagome fredde e rigide dei grattacieli.
Alexander pensò a Camille, a casa da sola. Se la immaginava stesa sul divano, mentre leggeva un libro o guardava un vecchio film. Avrebbe dovuto avvisarla che sarebbe tornato più tardi, ma di solito l’autobus impiegava quaranta minuti a riportarlo a casa, quindi lei non aveva ancora motivo di preoccuparsi.
«Quando il video che ti ha incriminato è stato rilasciato, ho capito che qualcuno ti voleva fuori dai giochi».
Suo padre aveva ripreso a parlare, questa volta senza veli o battutine. 
«Il mio primo sospetto è stato Richard Leroy, dato che era l’unico che ci avrebbe guadagnato dal farti fuori politicamente, ma non è il suo modo di fare. Leroy è un giocatore di scacchi, gli piace vincere con l’astuzia, non con l’inganno.»
Avevano ormai raggiunto l’alta cancellata che circondava la villa di Robert Henderson e l’auto rallentò leggermente per dare tempo ai battenti di aprirsi. Mentre il profilo della casa illuminata dal basso si faceva sempre più vicino, l’uomo riprese a parlare: «Paul Jefferson mi ha parlato di come avete cercato l’aiuto di quella che molti chiamano “la duchessa” e non la smetteva di blaterare accuse su di lei».
A sentire quelle parole, Alexander rabbrividì e si irrigidì involontariamente. In automatico il suo corpo si era messo sulla difensiva. Stava cominciando a preoccuparsi di dove volesse arrivare il padre.
«La tua dolce Camille ha confermato l’esistenza di questa “alleanza” e una serie di ricerche mi ha portato a capire che dietro alle accuse di Jefferson c’era un fondamento».
L’auto si infilò nell’ampio garage che ospitava le diverse vetture di Robert Henderson. Il padrone di casa non parlò, fino a che non furono scesi dall’auto e si furono avviati verso le scale che conducevano ai piani superiori.
«Una volta confermati questi sospetti, ho pensato che dovevo fare qualcosa» la voce di Robert risuonò nella tromba delle scale. Superarono il primo piano e continuarono a salire fino al secondo.
«Ho sempre ignorato quella ragazzina patetica con la tendenza all’esibizionismo e non mi sono mai avvicinato a lei, ma se credeva di poter incastrare mio figlio e uscirne impunita, le avrei fatto capire come funzionava il mondo».
Alexander si bloccò e puntò gli occhi sgranati verso l’alto, dove la sagoma di suo padre, che lo precedeva, bloccava la luce della lampadina.
«Che cosa hai fatto?» chiese con un filo di voce.
Robert parve fiutare la sua paura e la cosa gli provocò una risata. «La donna si è rivelata fin dall’inizio impenetrabile, così ho cercato l’aiuto di qualcuno vicino a lei che fosse disposto a consegnarmi i suoi segreti».
Alex rimase immobile per qualche istante, di fronte alla porta che suo padre aveva aperto per condurlo nel corridoio del secondo piano. Non riusciva a capire chi mai avrebbe potuto tradire Emily. Un brivido gelido gli fece accapponare ogni centimetro della sua pelle.
L’altro gli fece cenno di continuare a seguirlo e ripresero a camminare sul parquet scuro del corridoio.
«Quello che non mi sarei aspettato era un tuffo nel passato» commentò Robert e si voltò verso il figlio per squadrarlo con occhi arcigni, impedendo con il proprio corpo di proseguire.
«La ragazzina fastidiosa che ti ha fatto finire il carcere aveva già cercato di rovinarti la vita, anni fa. Devo dire che mi ha stupito non poco constatare che sia riuscita ad uscire dalla topaia in cui viveva».
Alexander rimase in silenzio e si sforzò di non lasciare trasparire alcuna emozione dal volto. Se suo padre avesse voluto cercare una qualche conferma dalle sue espressioni, non gliel’avrebbe data. Dentro di sé, però, sentiva agitarsi un turbinio di pensieri a cui doveva dare ordine prima che fosse troppo tardi. Suo padre aveva la tendenza ad esercitare un controllo maniacale e oppressivo su tutto ciò che gli interessava, ma forse c’era ancora qualcosa che non sapeva, forse c’era ancora qualcosa che Alex poteva proteggere sottraendolo allo sguardo del genitore.
Ogni speranza cadde nel momento in cui Robert aprì una delle porte che si affacciavano sul lungo corridoio. Alexander riconobbe che si trattava della sua vecchia camera. Anche se le pareti erano state riverniciate di un bianco asettico, c’era ancora il suo letto, affiancato da un’ampia scrivania su cui aveva passato lunghi pomeriggi a disegnare bozzetti.
Tra il piumone voluminoso, era avvolto un corpicino esile immerso nel sonno. Alex fece un passo avanti, sperando con tutto il proprio cuore di essere ingannato dalla propria vista. Forse stava vedendo qualcosa che non era vero. Forse quello che dormiva nel suo vecchio letto non era davvero Noah. 
Avanzò ancora verso il bambino, con il cuore in gola e il respiro trattenuto, come irrimediabilmente attratto da lui, ma qualcosa lo trattenne. Suo padre gli aveva afferrato un braccio impedendogli di proseguire. Lo strattonò indietro, abbastanza perché mettesse piede fuori dalla soglia, e la porta della camera si richiuse davanti al suo naso.
Afferrò la maniglia con entrambe le mani, ma Robert aveva già fatto scattare la serratura e aveva repentinamente sottratto la chiave.
Alexander si voltò per fronteggiarlo, consapevole che gli sarebbe bastata una spallata ben assestata per far crollare la porta, ma notò che altre due figure erano comparse nel corridoio, alle spalle di suo padre. Si trattava di due uomini alti e corpulenti, probabilmente pronti a lanciarsi avanti e tenerlo fermo.
«Noah sta dormendo. Non mi sembra carino disturbarlo.»
Robert parlò con una freddezza glaciale, nonostante il sorriso fievole che increspava le sue labbra.
Alex strinse i pugni. Se anche fosse riuscito a sfondare la porta al primo colpo e afferrare il bambino, non avrebbe avuto alcuna possibilità di uscire dalla camera senza farsi prendere. Conosceva suo padre fin troppo bene, non era uno a cui piacesse correre rischi.
«Tu non hai idea di quello che hai fatto» mormorò, trafiggendolo con lo sguardo.
Il sorriso dell’altro si allargò. «Come ho detto, Alexander, sei il mio figlio preferito e voglio solo il meglio per te, sia in ambito lavorativo che familiare. Vieni.»
Gli posò una mano sulla schiena e con malcelata pressione tra le scapole lo costrinse a seguirlo per tornare da dove erano venuti. Il rumore di passi alle loro spalle rivelava che i due uomini li stavano seguendo.
«Perché non porti Camille a pranzo domani? È da una vita che non la vediamo e a tua madre farebbe davvero piacere».
Lui non rispose e continuò a stringere i pugni. Si muoveva spinto dal padre, mentre tutto il suo corpo tendeva verso la cameretta.
«Sono certo che con una buona dose di retorica, a tua moglie non dispiacerà accogliere in casa un povero orfanello di genitori ignoti. Dopotutto, la sua famiglia è sempre stata un’amante delle azioni benefiche».
Alexander si bloccò e guardò negli occhi suo padre. Nonostante fosse più alto di lui, la posa e il fisico vigoroso di Robert lo facevano ancora sentire come un ragazzino.
«Tu non hai idea di quello che hai provocato» gli ripeté sondando con lo sguardo quei pozzi vacui sul volto dell’altro. «Le hai sottratto la sua cosa più preziosa e ora cercherà in ogni modo di distruggerti.»
Suo padre proruppe in una risata grassa che riecheggio nel corridoio. «Che ci provi! Mi divertirò ancora di più a schiacciarla come un insetto.»
L’uomo si ricompose e si mise davanti al figlio, assumendo un tono, se possibile, ancora più autoritario. «Ora vai a casa e fatti una bella dormita. Con il nuovo giorno magari recupererai più razionalità e capirai che questa è la scelta migliore per entrambi. Come ho già detto, non posso sopportare che il sangue del mio sangue cresca in modo degenerato.»
Si fece ancora più vicino, piegandosi verso l’orecchio del figlio. «Per quanto corrotto, il sangue di Noah discende dal mio, ergo quel bambino mi appartiene non meno di quanto appartenga a quella cagna».
Gli diede una pacca sulle spalle, con fare che voleva essere incoraggiante, e ordinò ai due uomini di accompagnarlo di sotto chiedendo ad un autista di riaccompagnarlo a casa.
Alexander si lasciò guidare come un automa verso il parcheggio. Il suo corpo seguiva quegli uomini, mentre la sua mente lavorava, più rapida e fugace di quanto la sua carne poteva essere.
Salì in auto e come in trance raggiunse il proprio palazzo. Scese dal veicolo, ma quello non partì subito. Entrò nell’atrio e dalle vetrate notò che la sagoma nera era ancora ferma davanti all’ingresso. Intuì che suo padre aveva dato ordine di assicurarsi che entrasse in casa.
Salutò il portinaio e si avviò verso le scale. Una volta raggiunto il primo piano, attraversò l’ampio corridoio illuminato dai lampadari dorati su cui si affacciavano le porte degli appartamenti e, camminando con passo felpato sui tappeti che coprivano il marmo chiaro, raggiunse l’uscita secondaria. Si guardò alle spalle, ma tutto era deserto e avvolto nel silenzio, così spinse la porta e si lanciò giù per le scalette strette e buie. Quell’uscita secondaria era stata concepita per le personalità importanti che avrebbero abitato quel palazzo signorile nel pieno centro di Tridell e sbucava in una via poco frequentata e malamente illuminata sul retro dell’edificio.
Da lì, Alexander si diresse con passo rapido verso il quartiere adiacente e, una volta assicuratosi di essere abbastanza lontano da casa, si permise di cercare un taxi. La via era vuota, così non gli fu difficile riuscire a fermarne uno.
«Le raddoppio la tariffa se ci arriva in meno di mezz’ora» disse all’autista dopo avergli dato l’indirizzo. Quello recepì al volo e non si risparmiò con l’acceleratore. Zigzagando nel traffico raggiunse in fretta la periferia.
Alexander guardava fuori dal finestrino nervosamente, cercando di tenere a freno il tremore della gamba. 
Vide il palazzo della duchessa da lontano. Illuminato dai faretti, brillava simile ad un diamante in mezzo all’accozzaglia di edifici scuri.
Come promesso, lasciò un’abbondante mancia al taxista e si lanciò fuori dall’auto non appena questa si fermò davanti al palazzo. Suonò il campanello e la telecamera si accese sparandogli sul volto una luce biancastra.
«Devo parlare con lei. È urgente!»
Il cancello si aprì con un sibilo e lui si infilò all’interno. Con passi lunghi, quasi correndo, percorse il sentiero circondato da alberi che conduceva al grande portone d’ingresso. Lo trovò aperto, con un maggiordomo ad aspettarlo.
«Mi segua» gli disse quello e con un passo che ad Alexander parve fin troppo lento lo condusse al piano superiore. Lo lasciò davanti ad una porta socchiusa e, con un piccolo inchino, si congedò.
Non si premurò di bussare e si lanciò nella stanza. Si trattava di una piccola biblioteca, con le pareti ricoperte di scaffali, e l’ambiente era rischiarato dal fuoco che bruciava nel caminetto. Sopra al caminetto era sistemata una bicicletta, mentre di fronte ad esso c’era un divano su cui si distingueva, contro le fiamme luminose, la sagoma scura di qualcuno comodamente seduto.
«Emily, dobbiamo parlare. Si tratta di Noah» esordì in modo prorompente.
La figura si voltò a guardarlo e Alexander, abituandosi in quel momento all’oscurità della stanza, si accorse che non si trattava della duchessa.
«Spero di non averti deluso troppo» commentò Roman raddrizzandosi. «Emily non è in casa».
Alexander esitò un istante, poi avanzò verso di lui. «Dove si trova? È importante. Se lei mi sta evitando per… per quello che è successo, lo capisco, ma questo riguarda Noah.»
Roman corrugò la fronte e non parlò per qualche secondo.
«Tratterrò la curiosità di chiederti cosa sia successo tra voi. Credo che Noah sia con Emily, non lo avrebbe mai lasciato da solo.»
«Mio padre ha preso Noah. Ti prego, ho bisogno di parlare con lei» insistette Alex e l’espressione di sorpresa che si dipinse sul volto di Roman gli rivelò che l’altro non stava fingendo, era veramente all’oscuro di tutto. 
«Da quanto non la vedi?» gli chiese e questa volta Roman indugiò. Gli lanciò un lungo sguardo, come se stesse ponderando la propria risposta.
«Qualche giorno» disse in tono titubante, poi il suo volto si fece pensieroso. «È tornata la mattina dopo che era stata a fare visita alla tomba di sua nonna e da allora non l’ho più vista.»
Alexander realizzò che era lo stesso periodo di tempo da cui non la vedeva lui. Un senso di colpa gli attanagliò il petto. Tutto era precipitato da quando si era svegliato nel letto di quella pensione. Se non l’avesse aggredita verbalmente come aveva fatto, forse Emily sarebbe stata lì con loro in quel momento.
«Comunque negli scorsi giorni era casa, aveva degli appuntamenti e se li avesse saltati lo avrei saputo» proseguì Roman.
«Allora perché non l’hai vista?»
L’altro gli lanciò uno sguardo bieco. «Sono stato impegnato.»
Consapevole che non sapeva nulla in più di prima, Alexander si lanciò sfuggire un verso di frustrazione. 
«Se tuo padre ha Noah, dobbiamo presuppore che Emily abbia tutte le intenzioni di vendicarsi» continuò Roman alzandosi in piedi. Dietro di lui, il caminetto continuava a crepitare avvolgendo la legna nelle fiamme ardenti e tingendo la stanza di una luce rossastra.
«L’unica cosa che le ha sempre impedito di superare il limite è stata la sua razionalità» proseguì e Alexander pensò che i loro concetti di “limite” dovevano essere differenti.
«Ma senza Noah, non ragiona lucidamente» concluse al posto di Roman e l’altro annuì, aggiungendo: «So di cosa è capace e, sinceramente, ho paura. Se l’avversario è tuo padre, avrà bisogno di aiuto e chi potrebbe darglielo di certo non si muove nella legalità.»
«Ormai le riesce piuttosto bene stare nel mondo criminale».
Roman scosse il capo e gli rivolse uno sguardo grave. «No, questa volta potrebbe superare ogni limite. Dobbiamo trovarla e fermarla prima che sia troppo tardi. Tu puoi gestire tuo padre?»
Alexander annuì: «Il suo piano è quello di farmi avere l’affidamento di Noah, in modo che io possa crescerlo insieme a Camille. Ci ha invitati a pranzo domani.»
L’altro assimilò la notizia in silenzio, con un’espressione concentrata e lucida.
«Per il momento assecondalo. Io mi occupo di Emily».
Alexander si sentì fremere dentro dall’impazienza. Avrebbe voluto rimanere, mettersi all’opera subito e aiutare Roman, ma quello non era il suo mondo. Quello era il mondo della duchessa e solo il suo braccio destro avrebbe potuto muovervisi con la sua stessa disinvoltura.
Roman lo condusse in un’altra stanza – uno studio arredato da mobili in legno scuro ben sigillati – e gli tese un cellulare usa e getta.
«Rimaniamo in contatto con questo» 
Alexander lo prese e lo fece sparire nella giacca con una naturalezza che aveva smesso di impressionarlo. Mentre ritornava verso l’atrio, mandò un messaggio a Camille per dirle che suo padre l’aveva trattenuto, ma che stava tornando a casa.
Raggiunse il portone d’ingresso e si voltò per salutare Roman. Il giovane lo guardava dall’alto della scalinata di marmo, con quell’aria impassibile e lucida da degno erede della duchessa.
 
 

 






 







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