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Autore: Black_in_Pain    27/11/2020    0 recensioni
Erin non si lascia mai trasportare, soprattutto dai sentimenti, che reprime costantemente dietro la maschera di meticolosa studentessa e figlia perfetta. Ma un giorno, quella che le pare una condanna, potrebbe diventare il suo lascia passare ad un mondo in bilico tra passione e ossessione.
Genere: Erotico, Romantico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Scolastico, Universitario
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Scendo le scale, un passo per volta, lentamente.
Vorrei durassero all'infinito.
Mi sento come Alice che cade nella tana del Bianconiglio, la differenza è che davanti a me non si prospetta nessun paese delle meraviglie.
Guardo il cellulare. Ci sono cinque chiamate perse da parte di Camille e un messaggio che dice "chiamami" a caratteri cubitali. Sospiro e blocco lo schermo, ignorando la sua richiesta, almeno per ora.
Quando arrivo all'uscita, la porta si apre magicamente, ma presto mi accorgo che questa non è l'opera di un incantesimo.
«Ehi...» mormora Simon.
Lo osservo con aria stupita e, prima che possa ribattere in qualche modo, lui si affretta ad aggiungere «Ho aspettato così tanto che credevo mi avrebbero fatto l'elemosina.»
Mi sciolgo in un sorriso, cogliendo la mia stessa battuta di questa mattina.
«Ti avevo detto di andare a casa» ribadisco, fingendo che il suo gesto non sia gradito.
Alza le spalle «Dovevo farmi perdonare e adesso siamo pari.»
«Eri già stato assolto» sospiro, alzando gli occhi al cielo, per poi ammiccare.
Mi guarda con aria furba «Lo so. Mi piace abusare della mia posizione privilegiata.»
Scuoto il capo e gli do una spinta «Forza, andiamo. Si è già fatto troppo tardi.»
Ci incamminiamo verso la strada di casa, il tramonto colora il cielo di variegate sfumature arancioni. Il vento mi solletica il naso. 
Restiamo in silenzio per alcuni minuti poi Simon mi prende il braccio facendo pressione, costringendomi a fermarci.
«Hai l'aria di chi sta per piangere» dice, scrutandomi il volto con i suoi occhi a raggi x color ghiaccio.
Sposto lo sguardo sulle mie scarpe da ginnastica, ricacciando indietro le lacrime.
Mi solleva il mento con le dita «Rin... Non devi nasconderti. Non da me.»
«Sono solo frustrata» singhiozzo, le gambe che tremano e il cuore a mille.
Mi abbraccia e la sua giacca profuma di bucato, pulito e puro come la sua anima. Questo non fa altro che alimentare il pianto che cercavo di trattenere.
«Erin, raccontami tutto» mi sprona, stringendomi con più forza.
Ci sediamo su una panchina scarabocchiata, poco lontano dal parco in cui giocavamo da piccoli. Simon mi lascia i miei spazi e aspetta paziente che io mi ricomponga.
«Il professor Delgado mi ha chiesto di dare lezioni di recupero ad uno studente» inizio, giocherellando nervosamente con le pieghe della mia gonna blu scuro. «E' un emarginato, uno scansafatiche di prima categoria. Ha ripetuto l'anno due volte ed è stato sospeso all'inizio di questo semestre per aver marinato la scuola e fatto rissa con dei ragazzi più grandi di lui.»
Simon annuisce lentamente, facendomi cenno di continuare.
«Lo hanno fatto rientrare a metà corso e questa è l'ultima possibilità che ha per rigare dritto e finire gli studi. Ma sembra che non abbia proprio nessuna intenzione di collaborare. Lascia i test in bianco, salta le lezioni, non svolge i compiti e rifiuta qualsiasi dialogo con il corpo insegnanti.»
«Ed è qui che entri in gioco tu?» domanda Simon, l'espressione confusa.
Mi chiudo nelle spalle «Già... Pensano che io possa farlo ragionare, rappresentando una figura scolastica non autoritaria.»
Poi aggiungo «Dicono che potrei avere una buona influenza su di lui, essendo una ragazza promettente, con la testa sulle spalle.»
«E tu cosa ne pensi?» dice lui, avvicinandosi.
Mi alzo in piedi, furiosa «Cosa ne penso? Penso che sia assurdo! Come possono credere che io riuscirò dove loro hanno fallito per due anni di fila? A quello non frega nulla, di niente e di nessuno. Perché con me dovrebbe essere diverso?»
Simon mi tira la gonna, spingendomi a risedermi accanto a lui.
Poi mi sposta una ciocca ribelle dietro l'orecchio «Perché sei intelligente e persuasiva» il suo sguardo, lentamente, si incupisce. «E poi perché sei carina. E ai reietti piacciono le studentesse carine.»
Scaccio la sua mano, arrossendo violentemente. «Non credo proprio che la loro sia una manovra sessista. «E poi... Io non sono affatto carina.»
Simon sospira, portando la testa all'indietro, ora la luce del sole fa riflettere i sui capelli ramati.
«Non hai intenzione di accettare, vero?» chiede lui, chiudendo gli occhi.
Deglutisco.
«Erin?» ribatte, spalancando le palpebre all'improvviso.
Non riesco a guardarlo in faccia.
Ora è lui ad alzarsi e sbraitare «Non posso credere che tu lo stia davvero prendendo in considerazione!»
«Simon, mi hanno offerto una borsa di studio» sussurro, senza quasi più un filo di voce. «I miei genitori mi stanno col fiato sul collo per questo da quando ho iniziato gli studi. E' quello che volevamo.»
«Parli al plurale, adesso?» è visibilmente irritato. «Questo è quello che loro vogliono. Tu non hai fatto altro che assecondarli per tutta la vita, mettendo da parte ciò che sei.»
«E' questo quello che sono» dico.
Simon mi arriva ad un palmo di naso. «E quindi ti arrendi così ? Ti vendi per una borsa di studio che neanche vuoi. E' da pazzi, cazzo.»
Lo spingo, alzandomi a mia volta. «Non mi sto vendendo! Mi sto assicurando un futuro, una vita tranquilla.»
«Una vita da burattino» incalza lui, riallacciando la vicinanza tra noi. «Tu vali più di questo. Più di quello che i tuoi vogliono per te.»
Mi viene di nuovo da piangere e Simon se ne accorge, addolcendosi di conseguenza.
«Voglio solo che tu sia felice» dice, grattandosi la guancia.
Annuisco, abbandonandomi sulla panchina, sfinita.
«Non giudicarmi» lo supplico.
Prende posto accanto a me «Sai che non lo farò.»
Appoggio la testa sulla sua spalla e sento i suoi muscoli rilassarsi. «Ci devo provare, credo» mormoro, non del tutto sicura delle mie parole.
«Non costringerti a fare qualcosa fuori dalla tua portata» aggiunge lui.
Alzo il mignolo e prendo il suo, per farli intrecciare, come facevamo da piccoli.
«Prometto che stavolta lo farò solo per me. Se sento di non reggere, mollo. E fanculo quello che penseranno i miei genitori.»
Simon sugella la promessa dicendo «E io prometto di impedirti di infrangere questo patto.»
«Andata» confermo.
«Andata» ripete lui.
Sappiamo entrambi che sto mentendo in parte, ma Simon conosce la mia situazione famigliare meglio di chiunque altro. La rigidità, le regole e i doveri che mi vengono imposti fin da quando ne ho memoria.
Non lo accetta, ma lo rispetta, per quanto gli è possibile.
Lo invidio.
Lui è un ragazzo normale. La sua famiglia è umile, comprensiva. Lo amano così com'è e desiderano per lui unicamente ciò che lo fa sentire veramente appagato. Non danno importanza al denaro, allo stato sociale e alle convenzioni. Vivono la vita, accontentandosi di tutto ciò che di buono può offrire. E anche se le cose non vanno nel verso giusto, trovano sempre il modo di scavare un altro tunnel verso la luce, sacrificandosi se necessario.
Facciamo ritorno a casa, condividendo un paio di cuffiette collegate al suo telefono. Non me ne intendo molto di musica, ma tutto quello che Simon ascolta mi risulta bello e interessante. Canticchiamo le canzoni che sappiamo a memoria e inventiamo il testo di quelle che non ricordiamo.
L'abitazione di Simon è piccola e graziosa, il suo giardino è pieno di fiori meravigliosi che la signora Balin, sua madre, accudisce con cura e dedizione. La cassetta della posta rossa è un po' arrugginita e la piccola staccionata in legno, bisognosa di essere ridipinta, ci arriva alle ginocchia.
«Ti accompagno fino al tuo isolato» esclama Simon, già proiettato verso la direzione che porta a casa mia.
Scuoto il capo «Vado da sola per oggi. In più Camille sarà preoccupata. La chiamerò mentre cammino.»
«Allora ci vediamo qui domani mattina, come al solito» ricorda lui.
«Puntuale» specifico e lui ride.
Ci salutiamo con un cenno della mano e sento il suo sguardo sulla mia schiena, anche se non posso vederlo.
Prendo il cellulare e digito il contatto di Camille, salvato con un sacco di stelline luccicanti, proprio come lei.
Risponde al secondo squillo e mi subisco l'immancabile ramanzina che deve essersi preparata durante tutto il pomeriggio.
Quando le racconto quello che è successo, lei, al contrario di Simon, non sembra affatto contrariata.
Anzi, il fermento nella sua voce mi fa capire quanto sia incuriosita da questa faccenda.
Le dico che non deve essere così elettrizzata e, in tutta riposta, comincia a ricamare trame inverosimili, come solo lei sa fare.
«La ragazza più intelligente e austera della scuola, che farà da maestrina al bel ribelle incasinato... Che bomba!»
Le ricordo che non siamo in una delle sue serie tv preferite e che non c'è proprio niente di eccitante nel dover aiutare un ragazzo emarginato e con problemi comportamentali.
«Sei davvero noiosa» sbuffa Camille. «Ti farò cambiare idea, vedrai.»
«Ne dubito» rispondo, esausta della sua fervida immaginazione da fanatica di Hollywood.
Dice di volerne parlare di persona, perché ora è troppo presa dal suo copione e non vuole perdere l'occasione di affrontare il discorso a quattrocchi.
«A domani, allora» conclude svelta. «Ti voglio bene, Rin.»
«Ti voglio bene anch'io, Cam. Buonanotte» e la comunicazione si chiude.
Sono un po' delusa.
Forse, nel profondo del cuore, speravo in una sua reazione preoccupata o in un disperato tentativo di persuadermi. E invece, mi ritrovo divisa tra due fuochi contrastanti, che bruciano e mi consumano dall'interno.
Vorrei essere positiva come la mia migliore amica. Oppure, completamente in disaccordo come Simon.
Ma alla fine, sto bloccata nel mezzo, incapace di capire cosa sento veramente.
Una volta arrivata a casa, apro il cancello in ferro battuto, rimasto socchiuso e cerco le chiavi nella borsa. Quando entrato, non c'è nessuno a darmi il benvenuto. Le luci sono spente e il silenzio regna sovrano.
Sfilo le Converse e le ripongo nella scarpiera, mi dirigo in cucina dove un post-it verde, posato sul tavolo in mogano, richiama la mia attenzione.

"Siamo in ufficio. La cena è nel frigorifero.
Mamma."

Lo straccio, gettandolo nella spazzatura.
Come al solito, il loro lavoro viene prima di ogni cosa
Gestiscono una società in pieno centro, occupandosi di marketing e comunicazione. Interagiscono con numerose aziende internazionali, stipulano contratti che valgono somme di denaro inimmaginabili ed investono in imprese emergenti, trasformandole in colossi del mercato.
Ovvio pensare che chiunque nel settore vorrebbe lavorare con loro o per loro.
Chiunque, tranne me, ovviamente.
Ma questo è un tasto dolente, che non deve essere premuto, anzi, nemmeno sfiorato o preso in considerazione.
Perché io sono la prossima nella linea di successione e diventerò il prolungamento della loro carriera. L'anello della catena che porterà la società al livello più alto e prestigioso mai raggiunto.
In poche parole, sulle mie spalle erge il compito di espandere l'impero e tenere alto il nome di famiglia.
Un peso che non ho chiesto, ne accettato. Semplicemente, viene dato per scontato che io lo sorregga, con il sorriso sulle labbra e l'orgoglio nel petto.
Eppure, nel mio petto, ora non c'è altro che ansia e sgomento.
Salgo nella mia camera, entro lentamente, sentendo le morbide setole del tappeto blu accarezzarmi le piante dei piedi. Tocco la superficie liscia della mia scrivania, dominata da imponenti libri di testo, penne multicolore, evidenziatori e quaderni.
Mi scappa un sorriso.
Alla fine questo è il posto che più considero parte di me.
Ci passo intere ore, seduta qui. A studiare, a leggere. Per fino a dormire e addirittura sognare...
Non riesco ad odiarla, seppur sia così terribilmente collegata al futuro stritolante che mi spetta.
Perché, dopo tutto, immergermi nell'apprendimento è forse l'unica cosa che mi riesce davvero bene.
La sola a darmi uno scopo, un'identità.
Mi sdraio sul letto, affondo il viso nel cuscino. Ripenso alla promessa fatta a Simon. Al suo sguardo preoccupato, alla sua reazione funesta.
E a quel commento: "Perché sei intelligente e persuasiva... E poi perché sei carina." 
Carina, ha detto.
Non si era mai sbilanciato in questo genere di apprezzamenti prima d'ora, e la cosa mi fa uno strano effetto. Tanto da sentire le guance ribollire e le mani inumidirsi .
Mi alzo di scatto, correndo in bagno e, indignata, osservo la mia immagine allo specchio.
I miei occhi, color nocciola-dorato, hanno le pupille dilatate. Ho le gote arrossate e la fronte leggermente sudata. Questo rende la mia frangetta spettinata, ancora più ingestibile.
Afferro la spazzola, per tentare di sistemare i capelli corvini, che arrivano a malapena sotto le orecchie.
Poi sciacquo il viso accaldato con un getto di acqua fredda.
La figura che vedo riflessa davanti a me, è quella di un'estranea, una vera e propria sconosciuta.
E' come se mi vedessi per la prima volta in balia dalle emozioni che solitamente disdegno e respingo.
Faticherei a riconoscermi, se non fosse per il piccolo neo che mi caratterizza, posto al lato del occhio destro, appena sopra lo zigomo.
Mi arrendo all'evidenza dei fatti, alla stupida emotività che mi invade e finalmente decido di spogliare la divisa scolastica, lasciando cadere i vestiti sul pavimento freddo. Sgancio il reggiseno rosa cipria, sfilo le mutandine. Scruto la mia femminilità.
Ho la pelle pallida, costellata da piccoli nei, i seni minuti, le gambe sottili, lunghe e magre.
Passo le dita sul torace, poi passo alla pancia, al basso ventre, all'inguine...
"Sei carina..."
Mi sveglio come da un sogno ad occhi aperti. Ritraggono subito la mano, indignata da me stessa.
Apro l'acqua calda della doccia, mi ci inondo completamente. Sperando di lavare via questi immondi pensieri che mi attanagliano la mente. Sfrego la spugna così forte da farmi male. Eppure, è come se mi stessi depurando dalle tossine accumulate durante la giornata.
Penso a quel ragazzo, Charles. Al modo in cui ha preso in giro il professore, rifiutandosi di collaborare, nonostante trasparisse che lo spagnolo non gli fosse poi così sconosciuto.
Mi si accende una lampadina.
Indisciplinato ma reattivo, eh ?
Se proprio devo buttarmi in questa pazzia, dovrò pur aver un appiglio da cui cominciare.
E sarà questo, il mio appiglio.
Forse sto sottovalutando l'intelligenza di quel ragazzo. Forse ce qualcosa che loro non sanno e che lui non dice.
Forse posso davvero fare qualcosa...
L'acqua scorre sulle mie spalle, e così i pensieri nella mia testa.
Lo stomaco torna a riaprirsi e la cena lasciata nel frigorifero acquista un improvviso interesse.
Devo essere in forze, ricompormi e stringere i denti. La Erin che devo essere adesso è forte, sicura di se e impassibile. Non posso permettermi di perdermi in quel groviglio di sensazioni che il mio corpo sta cercando di far riemergere.
Sono brava a sopprimere, nascondere, fingere. E' come il compito di questa mattina: insignificante.
Basterà tradurre e dare la descrizione che ci si aspetta, annullando ciò che realmente penso.
Devo solo compiacerli e otterrò quello che mi spetta.
Sì, non è importante ciò che voglio io ora. A quello darò attenzioni in seguito, come ho promesso a Simon.
Così saranno tutti felici.
Mamma, papà, il mio migliore amico, i professori.
E io? Sono felice ?
Anche a questo penserò più avanti. 
Credo. 
 


*ANGOLO AUTRICE *
Eccoci alla fine del secondo capitolo... Le cose iniziano a prendere corpo e man mano la situazione inizierà a costruirsi in maniera ben precisa. Per ora, mi auguro che anche questo capitolo vi sia piaciuto. Come sempre, vi chiedo, se volete, di lasciare un commento o una recensione, così che io possa capire se la storia è scritta decentemente e risulta interessante e scorrevole. 
Non vedo l'ora di sapere cosa ne pensate!
Vi ringrazio per la lettura e spero ci rivedremo nella terza parte <3 

 

  
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