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Autore: Melitot Proud Eye    22/08/2009    1 recensioni
«Allora, perché mi hai chiamato così? “Kenji” è “la via della spada”, hai dimenticato? Perché?»
Non è mai facile trovare il giusto mezzo. E bisogna fare attenzione a non perdere qualcosa d'importante nel tentativo.
[8-11-2011: inizio edit della storia - primo capitolo]
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nota: ritardo vergognoso dovuto a studio/pigrizia/musa diversamente impegnata/ecc. ^^; E poi il capitolo voleva creare problemi. Ho perso il conto di quante volte l'ho riletto e riveduto; se qualche typo mi è sfuggito, vi prego di segnalarmelo. E' possibile che vi siano ulteriori modifiche in futuro.
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Capitolo XIII
Un cuore sicuro





Domandare non costa che un istante di imbarazzo,
non domandare è essere imbarazzati per tutta la vita.”

Proverbio giapponese




Vi voglio bene, papà…
Non piangere.

Ota di corsa giunse dal centro postale, tirato in viso, disinteressato del lavoro.
Spalancò la porta dello studio clinico, accennò le sue scuse alla ragazza che si stava facendo visitare e cacciò in mano alla “sorella” un telegramma.
«Megumi, chiudi tutto. Hanno bisogno di te.»
Il biglietto le cadde di mano.

Vi prego, dèi e antenati, vi supplico, se esiste una giustizia al mondo non lasciate che ci abbandoni.

In nome di tutto ciò che è buono e onesto…

Perché ne sarebbe distrutto…

Perché ne sarebbe distrutta.

Vi supplico…

Fuggita dal caos che pervadeva il cuore dell’Aoiya, Inoi si trovò un angolo appartato (un armadio a muro) e sedette con le ginocchia piegate.
Non si era mai sentita così stanca, sola e sperduta in tutta la sua vita.
Sua madre non lasciava Shinta un attimo, impegnata a cavarsi gli occhi a furia di vegliare Kenji. Suo padre era crollato dopo l’ultima notte in bianco; ora dormiva nella stessa stanza. Zia Misao, zio Aoshi e la zia Omasu facevano a turno per vegliare il nonno Okina e gli zii Shiro e Kuro.
Zia Okon e suo marito invece se ne stavano chissà dove, anche loro a dare una mano.
Quella mattina poi erano venuti dei poliziotti: dopo qualche chiacchiera con zio Aoshi, avevan portato via della gente legata, che lei aveva visto solo da lontano.
E per fortuna, perché sapeva chi erano.
Si stropicciò le palpebre, sperando di non vederli mai più. In quei pochi minuti passati a nascondersi nel casotto del giardino, cercando di consolare Shinta (e se stessa) mentre suo fratello maggiore combatteva all’ultimo sangue per salvarli, il suo mondo aveva rischiato di crollare.
E di tutti, lei era quella che aveva visto meno. Non ce l’aveva con sua madre per tener sempre Shinta sott’occhio, se pensava a questo.
Il suo fratellino era molto più silenzioso del solito.
Poi c’era Kenji. Strinse le labbra, cercando di non piangere.
Non avrebbe versato una lacrima per quell’egoista, imbecille di un fratello, sparito di casa senza dire niente. Uno che aveva ripreso Shinta e l’aveva spinta dentro il ripostiglio e le aveva carezzato la testa pur sapendo che andava a mori―
«Sob
«Inoi-chan. Eccoti.»
Era sua madre, accucciata presso l’anta dell’armadio, il volto stanco.
«Che ci fai qui da sola?»
Shinta non era con lei. Doveva averlo lasciato nella stanza del papà per venire a cercarla.
Inoi sentì la propria bocca fare un movimento strano.
«M-mamma…»
«Non vuoi venire a mangiare? Zia Okon ha preparato tante cose buone.»
«Come sta Kenji?»
«Zia Megumi dice che bisogna aspettare. Vedere.»
Si lasciò abbracciare e scoppiò a piangere.

Dèi, perdonate le mie colpe; datemi i mezzi per espiarle…

la serenità per accettare le cose che non posso cambiare; la forza per quelle che posso cambiare…

Caldo.
Voci.
Qualcuno si muoveva intorno a lui, mormorando.
Si sentì toccare e fece per alzarsi, credendo di essere ancora ai piedi del ciliegio, ma delle mani lo fermarono, trattenendolo contro il morbido. Mani familiari, dolci.
Qualcuno gli sollevò il capo per dargli da bere.
Gemette per il disgusto e per il dolore.
Poi tornò il buio, ovattato, vellutato.

e la saggezza per riconoscere la differenza.

Kaoru tolse delicatamente i cuscini dietro la schiena di Kenji e li posò accanto al futon, asciugandosi gli occhi.
Megumi riponeva i propri strumenti nella borsa medica. Kaoru non aveva il coraggio di guardarla: dopo la prima visita, sei giorni prima, eseguita alla fine di una lunga, faticosa giornata di treno insieme a Sozou, le labbra dell’amica erano state così strette che aveva temuto il peggio. E anche adesso, era possibile che…
Avvertì la sua mano sul braccio.
Rimboccò in modo assente le coperte del figlio, pregando, poi alzò lo sguardo.
Megumi sorrideva.
«Possiamo stare tranquilli ora. Il momento critico è passato.»
Kaoru si sentì liberata. «Davvero?»
«Sì. Però deve avere tranquillità e riposo assoluti, proprio come il signor Ken dopo Kyoto. E ci vorrà del tempo.»
Le strinse le mani.
«Megumi, grazie.»
«Devi ringraziare chi lo ha soccorso per primo. Ha fatto un ottimo lavoro.»
«E’ stato Kenshin» mormorò, spostando lo sguardo sul marito, che dormiva nel futon a sinistra.
Aveva voluto spostarsi nella stanza per esser pronto a ogni evenienza, e quella notte aveva vegliato; ma avrebbe dovuto lasciar fare tutto a lei, pensò, passandosi una mano sulla faccia, perché le ricerche e la corsa e il combattimento di quell’ultimo giorno l’avevano svuotato.
Non avrebbe dovuto riprendere a praticare l’Hiten. Con la forza della volontà (e della disperazione) c’era riuscito, ma sforzarsi era come ingerire ogni giorno un po’ di veleno.
Però aveva salvato il loro bambino e doveva solo ringraziare che l’avesse fatto; sperava solo che tornasse quello di prima. Perché Kenshin si muoveva poco, in modo rigido, ed era difficile non accorgersene le poche volte che lo si vedeva in piedi.
La voce di Megumi la strappò ai pensieri più cupi.
«Non preoccuparti. Staranno bene entrambi: Kenji è giovane e forte e Ken ha passato di peggio. Presto salteranno di nuovo in giro.»
Sorrise.
«Megumi.»
«Sì?» fece lei, già sulla soglia.
«Grazie. Per essere venuta e averlo salvato.»
Il sorriso fu ricambiato. Era bello accorgersi che, negli anni, erano diventate davvero amiche. «Prego.»
«E scusa per il viaggio―»
«Senti, procione, se dici ancora una parola uso la mia borsa sulla tua testa. Ti ho già detto che ho fatto solo un quarto del lavoro, quindi basta coi ringraziamenti!»
«Ma il piccolo Sozo―»
«S’è fatto un viaggetto, era da un po’ che lo chiedeva.»
«Dubito sia il genere di viaggio che voleva. E l’assenza da casa…»
Megumi sospirò, richiuse lo shoji e venne ad inginocchiarsi davanti a Kaoru, aggirando il futon di Shinta.
«Non è un problema, Kaoru, credimi. Credo non sia un segreto che vi vogliamo bene: Sano ed io non sopporteremmo di perdere anche uno solo di voi.» La abbracciò. «Quindi basta sentirsi in debito, d’accordo? Questa parola è inesistente. Altrimenti, saremmo tutti indebitatissimi tra di noi.»
Kaoru annuì.
Dopo che la donna fu uscita si stese accanto a Shinta, cingendolo con un braccio e respirando il profumo dei suoi capelli.
Il suo bambino… finalmente di nuovo al sicuro. Non l’avrebbe lasciato mai più solo, mai più. Non avrebbe permesso che si ripetesse l’esperienza.
Lo strinse più forte e lo sentì uggiolare, chiuso a palla.
Gli uomini che l’avevano rapito dovevano solo sperare di non incrociare mai la sua strada. Li avrebbe resi irriconoscibili, orrendi fuori quanto dentro. Ma… spostò gli occhi sull’altro figlio, quello che riposava un futon più in là, non più tra la vita e la morte.
L’aveva già fatto Kenji.
Il suo primo, caro, carissimo figlio, che le aveva strappato il cuore una volta lasciando casa, un’altra rifiutandosi di tornare, e un’altra ancora facendosi quasi uccidere… per salvare il fratellino che aveva sempre mostrato d’ignorare.
Ricominciò a piangere, silenziosa.
E non c’era più ragione di piangere, no? Stava bene. Sarebbe tornato a sorriderle, con quel viso due volte caro.
Gli sarebbe stata vicina fino a quel momento; lei e Kenshin e Shinta e Inoi. Tutti. E poi―
Poi risolveremo il resto.
In quel momento colse un mormorio e smise di respirare. Si sollevò su un gomito, attenta a non urtare Shinta.
E incontrò gli occhi di Kenji.
«Mam…ma?»
«S-sì» esclamò «sono qui.»
Alzatasi, gattonò con difficoltà fino al suo letto. Voltava la testa leggermente verso di lei, confuso, e non sembrava del tutto in sé; gli toccò la fronte.
«Cosa c’è, tesoro? Ti ascolto.»
«Ho sete» sussurrò lui, rauco.
La febbre. Dovette trattenersi per non coprirlo di baci.
«Ti prendo subito l’acqua.»
Quando l’ebbe fatto (c’era un piccolo tavolino con brocca, bicchieri e medicine pronti all’uso, proprio alle spalle dei futon) lo vide fissare verso destra, dove dormiva Kenshin.
«Kenji?»
I grandi occhi azzurri erano preoccupati. «Perché papà…?»
«Recupera qui; è la stanza più tranquilla.»
«Sta male
Kaoru rimase con la bocca socchiusa, incerta sulla risposta da offrire.
Prima il riposo.
«No. No, tesoro. Papà sta bene, vuole solo starti vicino.» Gli passò una mano nei capelli, poi prese il bicchiere. «Ecco l’acqua. Ti aiuto.»
Ma suo figlio s’era già riaddormentato, inghiottito dalla spossatezza che sempre accompagna la vittoria sulla morte.
Non le avrebbe parlato per altri sei giorni.

«Papà?»
In una delle stanze al piano superiore, caldo e accogliente, Sanosuke Sagara stava contando minuziosamente delle monete rovesciate sul pavimento, tenendo il portafogli in mano. Alla voce del figlio, che sedeva poco lontano con un libro sulle ginocchia, alzò la testa.
«Che c’è?»
«Quand’è che Kenji si sveglia?»
Sanosuke masticò piano il sigaro incastrato fra i denti (passione recente), studiando il tatami.
«Presto.»
«Ma presto quanto
«Bella domanda. Tua madre dice a breve. Da giorni.»
«Voglio parlargli.»
«Non sei l’unico, credo.»
Soppesò i soldi nel palmo della mano. Hm.
«Non abbiamo portato abbastanza?» chiese Sozou.
«Sono quasi due settimane che siamo qui; gli alberghi costano anche con lo sconto.»
Il marmocchio accennò un sorrisino familiare. Già, era lo stesso di Megumi ― brutto segno.
«Davvero pensavi di pagare, papà?»
«Hey tappo, per chi mi hai preso?» No, pessima domanda. Gli lanciò il portafogli. «Ovviamente no. Ma tua madre vorrà farlo anche se Buddha Shinomori dice che è tutto gratis, quindi mi preoccupo. Ho visto delle bettole fantastiche in città.»
Sozou scosse la testa.Buddha Shinomori, eh? Non era la prima volta che lo sentiva.
«Forse non dovresti sputare nel piatto dove mangi, papà.»
In quel momento lo shoji scorse sulle guide, aprendo uno spiraglio dal quale entrarono alcuni bambini: Inoi, Shinta, Toga di Omasu con la sorellina e Kazuma Hiko ― o forse avrebbe dovuto dire Niitsu ― che le frignava in braccio.
«Che succede?»
«Possiamo restare un po’ qui?» disse Inoi, scontrosa. «Ci hanno sgridato perché facevamo baccano. Ma io non ne posso più di questo silenzio!»
«Su su, calabroncina» sghignazzò Sano, facendo loro segno di entrare e chiudere. «Non fare così. Lo sai che tuo fratello deve ancora riposare.»
«Papà s’è alzato. Sarebbe ora che lo facesse anche Kenji.»
L’uomo si fece pensieroso.
«Facile a dirsi. Kenshin è più vecchio, ma ha molta più esperienza; un po’ di affaticamento non è niente, per lui. Tuo fratello invece ha rischiato di morire.»
Quando s’accorse delle facce che esibivano s’affrettò a cambiare discorso, ficcando i soldi in tasca e recuperando una scatolina tintinnante dal tavolo, posto sotto la finestra.
«D’accordo, d’accordo, tutti qui adesso. In cerchio, forza. Seduti. Anche tu, Sozou» aggiunse, cogliendo lo sguardo sospettoso del figlio. «Quest’Aoiya è un mortorio, non c’è una cosa interessante da fare neanche mi venisse un colpo. Del resto non mi stupisce, visto che la gestisce quel Buddha.»
«Aoiya è un albergo» osservò placidamente Toga, assidendosi a gambe incrociate. «Le persone vengono per mangiare e dormire.»
«Bah, appunto per questo è una noia. Se Buddha e la donnola fossero un po’ più calati nel mondo, vivacizzerebbero il posto. Oggi ‘ste cose fanno i soldi a palate. Su, ora vi insegno un gioco divertente.»
«E’ un gioco che mostreresti anche a zio Kenshin?» indagò Sozou, diffidente.
Sano sogghignò.
«Oh, lo zio Kenshin l’ha visto molte volte. Ha persino giocato con me! E con una fortuna sfacciata…»
Aprì la scatola e mostrò i dadi, pronto a passare la propria conoscenza alle nuove generazioni.

C’erano sempre quelle voci; sebbene non avesse mai risposto, sentiva che questa era la volta buona. La superficie era vicina. Riusciva a percepirla, solida e sicura, con la certezza di chi abbandona un sogno.
Si concentrò.
Pian piano, la luce del sole iniziò a trapelare dalle palpebre, colorando la sua mente di rosso e giallo. Sentì le mani; il viso; i piedi (se fosse riuscito a tirarli fuori dalle coperte, il freddo l’avrebbe sicuramente svegliato).
Caldo.
Ma fu il suono di uno shoji che si chiudeva, secco, a liberarlo.
All’improvviso era sveglio.
Aprì gli occhi, affrettandosi a muover le braccia per non rischiare di addormentarsi ancora. Qualcosa sul fianco pizzicò.
E lui ricordò. Shinta. L’uomo nero. La nagamaki!
Si tirò su a sedere, forse con troppo entusiasmo perché la testa gli girò, accompagnata una fitta. Lo accolsero una stanza sobria e dorata come un pagliericcio, pochi mobili, una finestra parzialmente schermata sulla destra. Distratto dall’insistente pizzicore del fianco, abbassò lo sguardo e cacciò via le coperte per passarsi in rassegna.
Qualcuno lo aveva infilato in uno yukata azzurrino, da notte, quasi aperto tant’era morbido il nodo; sotto, una fasciatura fresca e pulita gli proteggeva la vita. Stava per slegarla e guardare, poi ci ripensò, accontentandosi di tastare attraverso il tessuto.
Sembrava che ci fosse un lungo bozzo in rilievo ― la ferita chiusa con altri punti, senza dubbio: un taglio diagonale sul fianco dal basso verso la spalla, in tutta la sua gloria.
Richiuse lo yukata, sospirando. Non si sentiva proprio fresco, quello era sicuro. Ma da quanto tempo stava a letto?
Cercò un segno nella stanza, qualsiasi cosa, ma trovò solo un paio di futon arrotolati nei pressi della finestra. Ed ebbe una reminiscenza.
Doveva già essersi svegliato, qualche volta.
Sì, ora che ci pensava ricordava brevi sprazzi, fugaci visioni di volti che si chinavano su di lui e di sua madre che gli parlava, mentre lui guardava di lato… dove dormiva suo padre.
Era rimasto lì, nella stessa stanza; e c’era anche Shinta. Ma per quanto? Da quanto se n’era andato? Forse era stato lui a chiudere lo shoji e svegliarlo.
In quel momento ricordò un’altra cosa. La sua forza con la spada, nel cortile dell’Aoiya; la velocità con cui era s'era precipitato a salvarlo.
Quel vento… era lui, vero?
Era stato magnifico. Kenji non aveva mai visto nulla del genere; neanche Hiko possedeva un'intensità così straordinaria. E pensare che l’aveva tenuta nascosta tutti quegli anni…
Ah, ma questo sollevava un altro problema. Erano all’Aoiya, vero? Non c’erano paramenti a lutto, vero? Quindi erano tutti salvi, tutto risolto. Tranne una cosa: la sua fuga e l’Hiten.
Iniziò a sentirsi ansioso. Si coprì metà faccia con una mano, appesantito dalla massa di pensieri che gli si affollavano in testa. Forse dormire non era così male. Prima o poi avrebbe dovuto riflettere ― e “prima” era sicuramente meglio che “poi” –– ma saperlo non facilitava le cose.
In quella faccenda aveva torto marcio. Non per aver voluto imparare l’Hiten Mitsurugi Ryu, ma per esser scappato di casa; per aver rischiato la vita.
Un pungente senso di colpa nei confronti dei suoi genitori.
Aveva blaterato tanto di maturità e indipendenza e, alla fine, s'era dimostrato quello che era: un ragazzino incapace di gestire le situazioni. Un aspirante eroe abbattuto alla prima difficoltà.
Guardò il futon di suo padre.
Aveva ragione lui, Kenji... non eri pronto, e gliene volevi per questo.
S'era incaponito nel cercare una dimostrazione, una prova che lo smentisse; e quelli erano i risultati.
Le parole vorticarono e vorticarono, avviluppandosi nell'oscurità. La diga si ruppe.
Ricordò.
I corpi inanimati nella foresta. Un sottobosco insanguinato.
Il marchio dell'assassinio.
Si coprì convulsamente la bocca, gli occhi sgranati, piegandosi in due. Non vomitò solo perché non aveva nulla da rendere. Neanche l'anima.
Che aveva fatto? L'aveva fatto... vero? Fu preso dalla disperazione.
Sapeva cosa l'aspettava: conosceva bene la storia. Pensò che non avrebbe avuto il coraggio di guardare la sua famiglia; il rimorso per avergli dato un terribile dolore – ma non per aver punito altri, no – lo schiacciò dall'alto come un macigno.
L'Hiten? La fuga? Problemi?
Diritti perduti. L'arroganza non aveva più appigli.
Con quale coraggio avrebbe potuto cercare di difendersi? Avrebbe accettato qualsiasi punizione, qualsiasi cosa... pur di restare.
Pur di cancellare tutto.
Aveva mancato alla parola data. Il suo polso aveva porto il filo tagliente; un imperdonabile fallo in mancanza di coscienza.
Incredulo, vegetò, riposando la fronte sulle ginocchia. Un silenzio eterno e vuoto, privo di colore.
Ma...
Levò impercettibilmente il capo, ascoltando qualcosa che non si poteva udire. Un guizzo ocra nel grigiore del mondo.
Sì, forse c'era qualcos'altro; Shinta e l'averlo difeso... Raccolse l'impulso dolcemente, cercando di attirarlo fuori, di indovinarne la forma. Al primo scorcio se ne ritrasse, spaventato.
Un pensiero pericoloso, troppo vero sui diritti che certa gente aveva alla vita.
Bisognoso di una distrazione, cedette e s'avventurò fuori prima che qualcuno potesse costringerlo a convivere coi suoi incubi.

L'avrebbero trovato comunque, pensò, arrancando nel corridoio con le mani incollate al muro. Le sue gambe sembravano argilla, rapide come i bradipi dei libri di Sozou.
Il pensiero del migliore amico gli strappò un sorriso.
Anche quei tempi erano perduti, ghiacciati nel freddo che avvolgeva Kyoto. Pentendosi di non aver preso un haori dalla camera, guadagnò il pianerottolo e fissò la stretta scala con occhio terrorizzato. Non ce l'avrebbe mai fatta. Si sentiva già precipitare.
Mentre cercava di decidere se tornare indietro, alcuni schiamazzi catturarono la sua attenzione. Venivano da una stanza vicina; incuriosito, col cuore che batteva a mille, lasciò le scale e s’addentrò nel corridoio a nord, tendendo le orecchie.
Giunto davanti a uno shoji un po’ malmesso, si puntellò contro lo stipite e aprì uno spiraglio.
Quel che vide lo fece spaventare, indignare, emozionare. Prese un respiro forte per non affogare nella marea di sensazioni contraddittorie.
Dentro c’era zio Sanosuke con tutti i bambini seduti in cerchio, compresi Sozou, Inoi, Shinta e il figlio di Hiko; al centro dell’allegra brigata c’era di tutto, dai calzini ai soldi veri, e in quel mentre Shinta levava il pugnetto per lanciare i dadi. Kenji spalancò lo shoji prima di potersi fermare, sbigottito.
Cosa ci facevano lì i Sagara?
Quando lo videro, i giocatori ammutolirono.
«Che diavolo stai insegnando ai miei fratelli?!»
«Kenji!» gridarono tutti in coro.
Shinta balzò in piedi, gli corse incontro e s’aggrappò a una delle sue gambe con la forza di una scimmietta.
«Kenji-chaan!»
Era la prima volta che lo incontrava da quel giorno orrendo e la sua vivacità lo sollevò.
«Hey, Shinta» disse, inginocchiandosi. «Ahi, piano, o mi farai cadere.»
«Shinta, vieni qua» intervenne Inoi, raccattando il fratellino.
Quando si fu raddrizzata Kenji esitò, temendo di incontrare i suoi occhi e trovarvi disprezzo, magari paura.
Lei, invece, gli parlò con gentilezza.
«Come stai?»
«Uh» replicò, espressivo. Inoi che non cercava di staccargli la testa? «Bene.»
«Non si direbbe» interloquì zio Sano, osservandolo con perspicacia. «Non sapevo che fossi stato dimesso.»
Parlare a lui fu difficile a tutto un altro livello, perché – certo – se ai piccoli non era stato detto niente, era impossibile che Sanosuke ignorasse quello che aveva fatto. Deglutì. Quando trovò il coraggio per smettere di fissare i codini di Inoi, nell'espressione dell'uomo trovò solo divertita indignazione, come se stesse trattando con un monello testardo.
Si toccò la nuca, sfiorando un vecchio bernoccolo.
«Infatti» rispose, banale.
«Hnf. Ci avrei scommesso. Mi ricordo di un altro che a Kyoto ha tagliato i tempi di convalescenza...»
«Chi, zio?» chiese Toga.
«Chi, chi?» inquisirono altri bambini.
«Ma Kenshin, ovviamente. Tale padre, tale figlio, che Buddha ci salvi.»
«Perché zio Aoshi dovrebbe salvarci?» domandò candidamente Shinta, strappando a Sozou una risata.
Mentre l'ilarità si espandeva, Kenji sentì una mano di ghiaccio stringergli la gola; tale padre...
«U–h, zio–» mormorò, strozzato.
Del tutto ignara, Inoi posò Shinta a terra e lo interruppe, dandogli un altro motivo per ammutolire. La sua voce era bassa e non disturbò l'atmosfera della stanza. «Sai, Kenji? Qualche giorno fa sono venuti i poliziotti.»
La sua espressione dovette essere interpretata come un invito a specificare.
«Hanno ufficializzato la denuncia e altre cose complicate... si sono mossi subito.»
Ah, allora Ino sapeva. Sapeva – e sapeva anche la polizia; stupidamente, aveva sperato che gli Oniwabanshu coprissero le sue tracce e che il segreto non uscisse mai dalla famiglia.
«Meno male, voglio dire, non ne potevo più di dover vivere sotto lo stesso tetto.»
Kenji si sentì stringere la gola.
«Dovevi vedere che manette.»
Oh.
«E... quando tornano?»
Non avevano potuto prenderlo perché era incosciente.
«Come, quando tornano?» Finalmente sua sorella staccò gli occhi dalla mischia di infanti scalmanati e lo degnò di uno sguardo. «Li hanno già presi. Hey, ma ti senti bene?»
Incerto, Kenji annuì. Poi il significato della risposta decantò, insieme a un orribile sospetto.
«Hanno preso chi
Inoi corrugò la fronte. «I criminali che hai catturato, no?»
I criminali–rapitori–catturato?
Un sorrisetto maligno piegò le labbra della sorella.
«Non ce n'era uno che non piagnucolasse nel camminare giù per il sentiero, alla carrozza blindata. Credo che zio Aoshi abbia aggiunto qualcosa al tuo lavoretto, Ken. E ho sentito dire da papà che saranno mandati nel distretto di quel poliziotto, Saito, che indagava sul caso.»
E Kenji scivolò in terra, sdrucciolando contro la parete come un ubriaco.
Erano vivi.

Il suo stomaco brontolò, facendo voltare qualcuno.
«Fame?» commentò Sozou quando Kenji non spiccicò parola.
Si accorse che lo guardavano.
Doveva reagire, probabilmente.
«Uh…»
Intuitivo, zio Sano allungò un braccio verso un tavolino e gli lanciò qualcosa. «Al volo!»
In mano a Kenji atterrò un onigiri.
«Tutto qui?» fece, ritrovando la voce.
«Hey, le cucine sono di sotto. Qui si consuma.»
Lo lasciarono mangiare con calma, tornando ai dadi per non creare pressione. Neanche Sozou venne a sederglisi accanto, cosa che gli fece intuire, fra un boccone ruvido e l'altro, che presto avrebbe dovuto porgergli delle scuse.
Poteva solo immaginare che terzo grado gli avessero fatto.
Sono vivi...
«Come stai? Tutto intero?» arrivò dallo zio, una volta finito l'onigiri.
«Abbastanza.»
«Sicuro di non dover tornare a letto?»
«Devo correre in bagno, piuttosto.»
Il lapsus gli guadagnò l'innocente scherno dei bambini.
«Avete visto mio… mia madre?» aggiunse.
«Dev’essere giù con Meg, alla stanza del tè. L’Aoiya è stato chiuso fino a pochi giorni fa, c’è ancora poca gente. Se vuoi te le chiamo.»
«No, vado io. Grazie.»
«Non vorrai fare le scale in quello stato.»
Lo squadrò, sostenuto.
«Sì, parlo con te. E sì, credo di parlare con un moccolo che barcolla per i corridoi.»
Kenji si trovò issato in spalla in un batter d’occhio, sapientemente poggiato sul fianco destro.
«Mettimi giù!» ruggì.
Nella stanza, i bambini ridacchiavano. Gli venisse un colpo, non si sarebbe fatto trovare in spalla allo zietto. Non dopo aver combattuto contro una nagamaki.
Per fortuna la sorte ebbe pietà.
Appena fuori della stanza, due voci femminili annunciarono l’arrivo di sua madre e della zia Megumi.

Durante la visita continuò a guardare sua madre, il ritrovarsi più dolce dopo la verità.
Zia Okon era gentile e simpatica, ma troppo raffinata per sostituirla (e non lo diceva con malizia: come figura materna preferiva di gran lunga quella spigliata, calorosa e anche un po’ violenta di Kaoru Himura).
Nel momento stesso in cui zio Sano l’aveva posato a terra, gli era corsa incontro e l’aveva abbracciato fino a soffocarlo. Quindi l’aveva sollevato di peso e riportato in camera, ordinando a zia Megumi di seguirli.
Il gelido stetoscopio si staccò dal suo petto, sparendo nella borsa di pelle.
«Cuore e polmoni sono sani. Ora controlliamo la ferita. Stenditi qui, per favore.»
Sentire la zia così professionale lo faceva ridere, ma obbedì. E lo spettacolo non fu dei migliori.
Cos’avevano da sorridere quelle vecchie megere? Il suo fianco aveva un aspetto orribile; una cima di carne cucita e infarcita.
«Va molto meglio» fu l’olimpica sentenza. «Fra un mesetto sarai come nuovo. Rimarrà la cicatrice però, ti avverto.»
«Meglio una cicatrice che non aver niente da cicatrizzare» commentò sua madre, cupa. Lì per lì Kenji non ci fece caso, troppo costernato.
«Come nuovo? Uno schifo, vorrai dire!»
Zia Megumi strinse le labbra, accademica. «Signorino, avresti dovuto ammirarti il primo giorno. Puoi considerarti fortunato.»
Kenji deglutì.
«Bah.»
Fu quando la fasciatura fu rimessa a posto, la zia uscita e tutto silenzioso che si accorse della postura rigida di sua madre, inginocchiata accanto al futon.
La guardò, colto da un cattivo presagio.
«Mamma?»
«Dunque» disse lei, guardando fuori della finestra «ti senti bene.»
«Sì. Solo… un po’ debole, ma passerà.»
«Strascichi di avventure mozzafiato, vero?» Volse il capo, fissandolo dritto negli occhi, e il suo cipiglio confermò che la conversazione era seria. «E’ questo che volevi dire?»
«N-no, io―»
Lo schiaffo arrivò senza preavviso, aperto e accurato. Gli schizzò la testa all’indietro, facendo riverberare tutti i suoni.
Stordito, si piegò sul fianco, boccheggiando.
Non era la prima volta che lo colpiva, no ― era sempre stato irrequieto oltre misura. Negli anni aveva affinato la tecnica per prendere tutta la guancia e far quasi schizzare gli occhi fuori dalle orbite.
Stavolta faceva ancora più male, perché sapeva di meritarlo.
La cercò di sottecchi. Trovò lacrime e un tremito.
«Giura che non lo farai mai più.»
«Io―»
«Né io né tuo padre ti abbiamo insegnato a comportarti così! E’ questo il modo di emularlo? Scappando di casa dopo un litigio, come lui col suo maestro, per non farti vedere e sentire mai più?! Rispondimi, Kenji!»
Abbassò gli occhi, sentendosi ribollire di vergogna.
«Avevi intenzione di tornare dopo quindici anni, come lui?»
«Aoshi...»
«Non è una buona ragione» tagliò corto sua madre, alzando la voce. «Non importa se pensavi che ti avremmo trovato presto! Tu non sai cos’abbiamo provato tuo padre ed io non trovandoti più, senza sapere dov’eri, come stavi… Tuo padre s’è sforzato a tal punto che fino a tre giorni fa zoppicava!»
La perdita delle coordinate.
«Papà
«Sì.»
«Zoppicare, ma―»
«Sì! E tu pensavi―tu volevi davvero―»
«No!» esclamò, interrompendola. «No. Non volevo stare via per sempre.»
«E quanto allora, maestà
«Neanche... un anno.»
«Ah
Nascose gli occhi sotto la frangia. Fino a questo punto arrivava la sua immaturità...
«Mi dispiace.»
«Meno male.»
«Ma non ripeto mai lo stesso errore» mormorò.
Sua madre ingoiò ciò che stava per dire e si ricompose, ripiegando le braccia sulle gambe.
«Farai altre stupidaggini del genere, in futuro?»
«No.»
«Lo giuri?»
Lasciò che i suoi occhi dicessero il resto.
E finalmente lei lo abbracciò, stringendolo forte, passandogli le mani fra i capelli, baciandolo sulla fronte.
«Grazie per Shinta» gli sussurrò all’orecchio. Ora piangeva. «Grazie. Ma non rischiare mai più così. Ti voglio troppo bene per perderti, Kenji.»
Pensò che non poteva prometterglielo. Troppi pericoli aspettavano, affilando gli artigli... tacque e affondò il naso nella stoffa profumata della sua spalla, lasciandosi cullare.
Riaffiorò un pensiero del risveglio. Sì, i pericoli aspettavano... e lui...
«Mamma?»
«Mh?»
«Dov’è papà?»
Non era proprio come suo padre, nonostante tutto.

Kenshin aspirò l’aria di Kyoto, frizzante anche nel primo pomeriggio.
Faceva piacere essere di nuovo all'aperto. Posò il secchio coi fiori davanti alla tomba, notando che qualcun altro aveva lasciato dei segni d’affetto: crisantemi freschi, gialli e rossi; a detta di Misao comparivano varie volte l’anno.
Sorrise, giunse le mani e pregò in silenzio, circondato dal cinguettio dei passeri.
Tomoe… grazie per aver protetto mio figlio. Sono certo c’entri anche tu, vero?
Gli sembrò che le piante stormissero in risposta, portando un riverbero della sua bella voce. Ma forse era soltanto il vento.
Chissà perché, alla fine, tutto riporta a Kyoto.
Ma Tomoe non rispose. Kenshin lasciò i fiori insieme agli altri e se ne andò.
«Tornerò presto» disse. «Spero che tu sia felice.»
E poté sentirla ricambiare il sorriso, vicina e lontana.
Sulla via del ritorno comprò i dolci preferiti di Inoi e Shinta, attardandosi per osservare il mondo multicolore e irriconoscibile del mercato.
Per tutti gli dèi, durante la sua gioventù andare al mercato era la cosa più divertente del mondo ― adesso era paragonabile a una battaglia. Evitò per un pelo i gomiti di una signora imbestialita e si defilò, contento di raggiungere la strada un po’ più tranquilla dell’Aoiya.
Una volta entrato notò la presenza di alcuni estranei. Onesti clienti, naturalmente; salutò la signora Omasu e proseguì.
Nel corridoio principale trovò Shiro, munito di stampella, e si fermò a parlare. Sia lui sia Kuro si stavano riprendendo bene, disse l'uomo; chi preoccupava di più era Okina, perché il vecchio testardo aveva i suoi anni e s’era preso una bella batosta.
«Ma se conosco la sua pellaccia, presto tornerà a comandarci tutti.»
Kenshin s’allontanò, scuotendo la testa e lasciandolo alla sua ghiotta sghignazzata.
«Oro…»
Se non altro, dagli ultimi giorni si andava diffondendo il buonumore. Le cose tornavano alla normalità e presto anche lui e la sua famiglia sarebbero tornati a Tokyo. Ne avrebbe parlato con Kaoru, sì. Era ora, ormai.
Ma gli altri sembravano tutti spariti e davanti alle scale gli passò la voglia di cercarli. Avrebbe preso ancora una boccata d’aria in giardino.
Non fu un’idea grandiosa, in realtà, perché appena messovi piede rivide il ciliegio dove suo figlio era stato quasi decapitato; e trovò Hiko.
«Kenshin» salutò lui, inclinando sobriamente il capo.
Lo raggiunse, incuriosito.
Il suo vecchio maestro se ne stava nei pressi della ricostruita fontana, le braccia incrociate. Il suo mantello svolazzava piano nella brezza.
E, sorpresa delle sorprese, sotto indossava non il classico abbigliamento a gi e pantaloni, bensì un kimono nero decorato da un dragone a filo d’argento.
«Che ci fate ancora qui? E quel vestito?»
Facile notare la sua irritazione.
«Come al solito sei un esempio di educazione. Vorresti che me ne andassi da casa mia?»
«Casa vostra? L’Aoiya
Aoshi doveva essere impazzito.
«Ho sposato Okon degli Oniwabanshu, hai già dimenticato?»
Ah già. Sì, aveva dimenticato.
Del resto, la cosa era abbastanza incredibile da giustificare il sospetto di uno scherzo.
«D’estate torniamo su, ma per Kazuma l’inverno qui è migliore.»
«Il volere divino è davvero imperscrutabile» commentò Kenshin, divertito.
Hiko non lo sapeva, ma nei pochi anni passati insieme il suo metodico sarcasmo aveva sviluppato in lui una vena d’ironia sotterranea. Ogni tanto riaffiorava. Quel che si dice una lama a doppio taglio, heh.
«Cosa vorresti dire?» ringhiò Hiko.
«Non avrei mai detto che la signora Okon avesse tanto da espiare in questa vita.»
Alla vista della grossa vena violacea sulla sua tempia, fu lì per ridere. Ma forse non era il caso. Il vecchio maestro gli aveva piazzato una mano sulla spalla, quasi polverizzandogliela.
«Ne riparleremo più tardi, Kenshin» lo informò, a denti stretti. «Intanto rinforza il tuo cuore di cinquantenne…»
«Quarantunenne, prego!»
«…perché arriva il tuo pargoletto prodigio. Il maestro lascia il posto al padre. Ci vediamo.»
Kenshin non rispose neppure. Alle sue parole s’era voltato, setacciando il giardino con gli occhi.
Ed eccolo, il suo Kenji.
Lo fissava da uno shoji, alla fine della veranda, un po’ pallido ma dritto e con un haori nero troppo grosso sullo yukata azzurro, sui capelli sciolti.
S’era svegliato, finalmente.
L’haori lo faceva sembrare più piccolo. Provò un moto di tenerezza.
Ma, resistendo alla tentazione di precipitarsi, Kenshin prese un profondo respiro, gli sorrise e si avviò verso di lui.
Suo figlio, irrigidita la mascella, incontrò il suo sguardo con decisione e fece altrettanto.

Avrebbe dovuto rimanere in camera a riposare. Dopo la breve camminata e la visita e la discussione con sua madre era stanco, ma non abbastanza da mettersi l’anima in pace. Dalla finestra aveva visto suo padre far ritorno all’albergo.
Era uscito subito.
Quando lo vide parlare con Hiko si fermò, osservandolo in cerca dei segni di un corpo stanco.
No, non sprizzava vitalità, ma sembrava sano. Il riposo doveva essere stato un ottimo balsamo (come diceva sempre lui stesso).
Era lui piuttosto a far pena, adesso. Kenji Himura che barcollava.
Meno male che i suoi seguaci non potevano vederlo.
In quel momento Hiko s’accorse di lui e posò una mano sulla spalla di suo padre. Kenji s’irrigidì. Il grande momento. Suo padre lo individuò poco dopo e fissò con insistenza.
No, non distogliere lo sguardo.
Strinse forte lo stipite della porta. Calmati. Andrà bene, come con la mamma.
Ma sapeva che stavolta c’era molto di più in gioco, perché sua madre non aveva parlato dell’Hiten Mitsurugi e a lei non aveva mai detto “fai pena”, “ti odio” o altre frasi da perfetto stronzo.
Ah, e poi c’era la faccenda del ceffone… suo padre non l’aveva mai colpito, neanche una volta (e forse era per questo che era venuto su così arrogante, a detta della mamma). Sospettava però che, quando l’avesse visto e gli avesse riferito che voleva continuare con Hiko, il brav’uomo avrebbe cambiato idea.
La prospettiva sinceramente lo terrorizzava. Quanto avrebbe fatto male?
Tanto, si rispose, avviandosi nella sua direzione. E non intendeva fisicamente.
Suo padre sorrideva.
Si fermò a un paio di passi da lui, accennando un sorriso e distogliendo gli occhi.
«Papà.»
«Ben svegliato, Kenji.»

Sembrava sano. Debole ma sano, come lui dopo tante prove di spada.
Il cuore gli si strinse. Non avrebbe voluto questo, per suo figlio. Non la spada, non il sangue… ma, evidentemente, il destino aveva altri progetti.
Trattenne un sospiro.
Sarebbe andata bene, si disse. Era pronto a guidarlo; i tempi stavano cambiando. Sarebbe andata bene…
In quel momento notò che il viso di Kenji assumeva una colorazione scarlatta, con una sola macchia più scura sulla guancia sinistra ― un momento, la forma era familiare. Ah. Ma certo. Piegò le labbra, impietosito. Kaoru doveva esserci andata pesante.
E l’aria bastonata di Kenji, appena pepata di cocciutaggine, confermava i suoi sospetti.
«Sei sveglio da molto?» chiese, dispiaciuto di non poterlo consolare subito.
«Un po’.»
«Zia Megumi ti ha già visitato? Come ti senti?»
Quella domanda gli strappò un’occhiata fugace. «Sì, mi ha già visitato. Sto bene.»
«Bene.»
«…»
«Eh.»
«E… tu?»
Oh.
«Bene» sorrise. «Molto meglio, grazie.»
Poi scese il silenzio. Carico di tensione crescente. Kenji seguitava ad evitare i suoi occhi, muovendo senza soluzione di continuità le braccia nelle maniche troppo larghe dell’haori, che gli nascondeva le dita.
Kenshin infilò a sua volta le braccia nel gi e trattenne un sospiro. Dritti al sodo, allora.
«Papà―»
«Passeggia un po’ con me» lo interruppe, scendendo dalla veranda. Da lì poté vederlo in pieno viso. «Vuoi?»
Suo figlio si morse un labbro, atteggiamento tipico di quand’era molto nervoso.
«Hm.»

Il tono di suo padre era cambiato. Primo, lui non interrompeva mai nessuno, secondo l’aveva guardato con un cipiglio che poco lasciava all’immaginazione.
Scese al livello del giardino, sedendosi prima di buttar giù le gambe (che pena, che pena, Kenji!) e lo raggiunse. La vista dei ciliegi gli provocò un brivido, così si concentrò sulla schiena dell’uomo che lo precedeva.
Presto lo avrebbe raggiunto in altezza. Faceva uno strano effetto.
La domanda vera però era… lo avrebbe raggiunto in bravura? Gli sarebbe stato permesso? E cosa avrebbe fatto in caso contrario?
A quel punto suo padre aggirò la fontanella ed entrò nella parte più graziosa del giardino, fermandosi presso il laghetto delle carpe, dove alcuni arbusti e un piccolo tempio creavano un ambiente più chiuso. Lo attese lì.
Kenji strinse i denti.
Coraggio. Via il dente, via il dolore.
«D’accordo. Visto che sembri impaziente di discutere, discutiamo.»
Lo vide muovere le maniche col gesto di chi si libera di un impedimento, coprire la breve distanza che li separava ― Kenji aspirò con asprezza ― e levare un braccio.
Chiuse forte gli occhi, aspettando il colpo.
Che non arrivò.
Socchiuse le palpebre, sbirciando. Suo padre lo guardava con un’espressione tra il funereo e l’arrabbiato, la mano ancora per aria. La abbassò lentamente, lasciandola cadere contro il fianco.
Sembrava irritato per non esser riuscito a schiaffeggiarlo.
«Ti sei quasi fatto ammazzare.»
Kenji abbassò di nuovo lo sguardo, mordendosi le labbra.
«E lo sai perché?»
La sua bocca era secca. «Per testardaggine» rispose, «per impreparazione… e per salvare Shinta.»
Suo padre annuì. «E che cos’hai da dire?»
«Che mi dispiace… per la prima. Mi vergogno per la seconda. Ma non mi pentirò mai della terza.»
Suo padre tentennò, poi annuì ancora.
«Scapperai ancora?»
Scosse la testa. «No. Lo giuro.»
La risposta fu pungente: «Come l’ultima volta?»
Fece una smorfia.
«L’altra volta ho voluto fare il furbo, giocando sulle parole… perché l’Hiten non era e non è un gioco, per me» ecco, aveva introdotto l’argomento. «Ma è stata l’unica. Ho imparato la lezione. Non―» merda, e adesso perché gli mancava la voce?
«Tornerai a casa?»
Ah, no. Quella era una domanda a doppio fondo.
«Vorrei» si limitò a dire, guardandolo finalmente dritto in faccia. Non voleva rinunciare. Non voleva…
«Tu non tornerai più dal mio vecchio maestro.»
La replica giunse come un fulmine a ciel sereno, secca e perentoria. Raramente suo padre dava degli ordini: ma quando lo faceva non c’era via di scampo.
E lui, che cosa doveva fare? Voleva tornare a casa e desiderava continuare con l’Hiten. Avrebbe dovuto aspettare fino ai quindici anni prima di conciliare le due cose?
Deglutì, cercando di decidere in fretta.
Ma suo padre non gli lasciò tempo di riflettere, ponendogli un’ultima, umiliante domanda.
«Kenji, dimmi un’ultima cosa.»
Vagamente incuriosito, sebbene deluso (e la stanchezza lo rendeva debole), Kenji tornò a guardarlo.
«Prima non ti ho schiaffeggiato. Dimostra di essere una persona matura e dimmi se ho fatto bene.»
Si sentì avvampare daccapo, tra l’irato e lo spaventato.
Oh, non era giusto… lo metteva con le spalle al muro. Non c'era che una risposta.
«Tu non sai cos’abbiamo provato tuo padre ed io non trovandoti più!»
«Kenji?»
«No» accennò un diniego. «Hai fatto male. Me lo merito.»
Si strozzò sull’ultima parte, perché la mano di suo padre era già alzata e in movimento.
Strinse i denti.
Poi giunse il contatto, ma lento, morbido, e si ritrovò a guardarlo negli occhi mentre gli copriva con delicatezza i segni lasciati dalla madre. Subito dopo le dita calde e ruvide gli scivolavano sulla nuca, attirandolo a un petto che conosceva bene.
«Ti chiedo scusa anch’io» gli fu sussurrato, «per come ti ho trattato in quegli ultimi giorni…»
Kenji si rilassò, allentando stretta convulsa sui bordi dell’haori.
«Ti voglio bene. Per favore, non dire mai più che preferisco tuo fratello o tua sorella a te. Io tengo a voi in modo eguale.»
Dannazione. Stava cominciando a piangere.
Smettila, Kenji Himura. Smettila, smettila!
Suo padre gli accarezzò i capelli. «Per me non esiste niente di più prezioso di voi e vostra madre. Quindi non sprecare la tua vita… non buttare via gli affetti sinceri. Sono le uniche cose importanti.»
«Non ho intenzione di farlo» mormorò.
E ricambiò timidamente l’abbraccio.
«Bene.» Una pausa. «Ma per Hiko non cambio idea. Se vorrai sapere qualcosa, chiederai a me.»
Uh?
Aveva sentito bene? Aveva―
«Mi insegnerai?» chiese, scioccato, sentendosi stupido mentre formulava la domanda (perché non era semplicemente possibile che suo padre intendesse in quel senso). E invece lui annuì, un mezzo sorriso sulle labbra. «Tu? Dimostrerai per me? Ti allenerai con me?»
Non poteva essere vero. Non ci credeva.
E invece suo padre annuiva ancora, dandogli un paio di buffetti in testa.
«Forse non sarò in grado di dimostrare proprio tutto, lo sai, ma credo che basterà spiegare. O no?»
E, tra l’incredulità e lo stupore, Kenji sentì un sorriso farsi strada sulla sua faccia. Lo nascose. Un segreto ancora li divideva, un segreto che avrebbe potuto attendere molti anni... e non voleva che lo intuisse. Forse non sarebbe mai uscito dall'ombra in cui era nato.
Era disposto a compiere persino quel passo, per lui...
«E così» una voce commossa nei suoi capelli «io sarei il tuo modello?»
Arrossì.
«Mollami―»
«Perché?»
«Ci stanno guardando tutti.»
«E allora?»
E difatti non lo mollò, mentre facce note sbucavano da ogni dove ― le finestre, la veranda, persino i cespugli del giardino, ululando e applaudendo.
Seguitò ad opporsi, implorando ossigeno quando sua madre arrivò in rinforzo con baci e minacce. Ma le sue parole non rispecchiavano la felicità che gli si leggeva in volto, lo sapeva.
Sì, il mostro non sarebbe uscito dall'ombra.
Il suo cuore era sicuro in mezzo a loro.
«Bentornato, Kenji.»


   
 
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