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Autore: Soe Mame    02/12/2020    2 recensioni
Il momento arriverà.
Continua ad aspettare, continua ad aspettare che arrivi.
Continua a sperare, continua a sperare che arrivi.
[1649-1738: È bastato meno di un secolo per cambiare tante cose tra il Sud Italia e la Spagna.]
Genere: Generale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Belgio, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1659

«Guarda il lato positivo: è pur sempre un nemico in meno.»
Lovino annuì, piano. «Sarà un'occasione in meno per farsi gonfiare come una zampogna.» Non era riuscito a non specificarlo.
Fuori c'era un tempo meraviglioso, ma Manon aveva preferito rimanere nella sua camera a dipingere e Lovino aveva scelto di rimanere a guardarla. I fiamminghi avevano un modo tutto loro di dipingere e osservarne una all'opera aveva un che di affascinante. Anche se la mole di colori ad olio gli dava uno sgradevole senso di unto, i risultati finali erano tutt'altro che poco piacevoli. Chissà se un giorno avrebbe assistito ad una gara di pittura tra Manon e Feliciano.
«Anche, sì.» Belgio fallì nel soffocare una risata. «So che dovrei dispiacermi per España, ma...» Romano riuscì ad intravedere il suo sguardo brillare. «Abi è stato bravissimo!»
«Era logico ne avrebbe approfittato...» borbottò Lovino. Di certo non lo biasimava.
«Ah, ovviamente...» Manon si voltò verso di lui, con un sorriso imbarazzato. «Non dire ad Antonio che sto lodando Abi.»
«Figurati.» Romano alzò le spalle. Al di là del tradire la fiducia della ragazza, persino lui riusciva a capire che sarebbe stato di pessimo gusto, oltre che da genuini stronzi.
«È solo che...» Belgio tornò al suo dipinto. Stava semplicemente riproducendo uno scorcio della sua stanza, ma la drammaticità delle ombre rendeva l'opera degna di essere ammirata. «Sono così... così stupita, e orgogliosa, di quanto sia arrivato lontano mio fratello!»
Non c'era neanche bisogno di dirlo: il sorriso le andava da un orecchio all'altro, lo sguardo era prossimo al sognante, poco ci mancava iniziasse a volare. Nonostante fosse felice di vedere Manon così serena, Romano faticava ad ignorare quella morsa allo stomaco che gli prendeva ogni qualvolta lei parlasse di suo fratello in quel modo.
«Ha combattuto da solo contro Inglaterra. Inglaterra, capisci?»
Sperò che Belgio non avesse notato il brivido che lo aveva scosso - e che non avesse un'espressione troppo spaventata, o un colorito troppo pallido. Non aveva mai avuto il dispiacere di incontrare Inglaterra, ma Antonio gliene aveva parlato tante - troppe - volte. In fondo, si trattava del principale suonatore di zampogne d'Europa, un innocuo isolotto dalla flotta mortale - Tra l'altro, era colpa sua se l'Armada Invencible era colata a picco -, il suo nome risuonava per tutto il Continente. Per qualche strano motivo, il fatto che Olanda fosse stato sconfitto lo rassicurava. Qualcosa gli diceva non avrebbe retto all'idea che una nazione indipendente da così poco tempo avesse sconfitto quel "demonio gobernado por una bruja" di Inghilterra - Anche se, per quanto ne sapeva lui, la bruja non c'era più da una cinquantina d'anni.
«E ha sconfitto Suecia!» Se Manon stava ritraendo qualcosa, lei era il ritratto dell'orgoglio. «Avevo così paura per lui, ma Abi è riuscito ad inserirsi così bene tra gli imperi!» Portò una mano libera al petto - e Lovino evitò di seguirla con lo sguardo.
Non capiva il perché, ma non riusciva ad essere del tutto felice per lei. Riusciva a non rispondere male solo perché si trattava di Belgio. Qualcosa lo irritava. Di certo non aveva a che fare con le ripetute batoste prese dall'idiota - L'anno precedente, Francia, insieme ad Inghilterra e Olanda, aveva devastato il suo esercito, soltanto sei mesi prima Portogallo lo aveva estirpato dal suo territorio ed era tutt'ora in corso una guerra aperta con il malefico suonatore di zampogne -, ormai stava cominciando quasi ad abituarsi a vederlo tornare a casa ricoperto di lividi e ferite. Sapeva non fosse una bella cosa da dire, e non era piacevole, ma se il cretino era cretino e i sovrani gli davano pure retta lui non ci poteva fare niente.
Non era riuscito ad essere del tutto felice neppure quando gli era giunta notizia che il suo fratellino avesse combattuto di nuovo contro Impero Ottomano, nei Dardanelli. Non che la spedizione fosse stata chissà quale successo ma, per qualche motivo, il nome di Venezia risuonava quasi come quello di un impero.
«Firmeranno l'accordo il Sette Novembre, all'Isla de los Faisanes!» Belgio aveva continuato a parlare e lui non aveva ascoltato neppure una parola. Si sentì un po' in colpa ma, al pensiero di essersi perso una lunga serie di incensamenti su Olanda, il senso di colpa scomparve. La cosa che più lo turbò, però, fu una sensazione del tutto negativa nell'udire quella data. Si appallottolò sulla poltona, le ginocchia al petto.
«... Lovi?» Manon si era fermata e si era voltata verso di lui. La sua espressione tradiva una preoccupazione già di per sé malcelata.
«... Quella data mi inquieta.» confessò. La voce era uscita troppo bassa, ma lei doveva averlo sentito, perché posò i pennelli e gli si avvicinò.
«Spero non sia niente di grave.» Sentì una mano di Belgio sulla testa, una carezza amorevole - come se ne sarebbero date ad un bambino. «Stai...» Un attimo di esitazione. «Va tutto bene?»
Non ci volle più di un secondo per capire a cosa si stesse riferendo. «È stato tre anni fa.» Ma rimase immobile, a farsi abbracciare da lei. «Ormai stanno sparendo anche i segni.»
Olanda vinceva guerre, stringeva alleanze con gli imperi più potenti e si avviava sulla strada dell'imperialismo a sua volta; il suo fratellino si lanciava contro Impero Ottomano e dava gloria alla sua flotta; lui rimaneva a Madrid, ad ammirare una donna che non avrebbe mai avuto, ad aiutare un idiota che tornava ogni volta più a pezzi di prima e a giacere nel letto febbricitante per la peste.
Vi odio.
«Devi andare anche tu all'Isla de los Faisanes, vero?» Si sciolse dall'abbraccio di Belgio. Non aveva più voglia di ripensare a tutto quello che era successo, non aveva voglia di pensare a cosa sarebbe potuto succedere il settimo giorno di Novembre. Ventotto anni prima si era persino risvegliato il Vesuvio, era pronto a sentirsi di nuovo dilaniare dall'interno. Di certo un suo ennesimo malore non avrebbe rischiato di mandare a monte qualche gloriosa campagna militare.
«Sì.» Manon era meno stupida della gente che li circondava, quindi capì il suo voler cambiare argomento. «Andremo io, Antonio e Doña Jordina.»
Ah. Dunque c'era di mezzo anche Catalogna.
«Il señor Francisco ha richiesto la Cataluña del Nord e le Vlaanderen.»
Quella frase gli diede troppe cose da pensare tutte insieme: che cazzo significava "Cataluña del Nord"? Che minchia erano le Vlaanderen? - Poteva supporre fossero le Fiandre, ma a volte Manon era abbastanza incomprensibile. E soprattutto...
«Lo chiami per nome?» Saltò su, costringendo Belgio a fare un passo indietro per non venire travolta.
«Oh.» Manon si portò una mano alla bocca, ma non sembrava affatto dispiaciuta. «Abitudine.»
«Abitudine?»
«Il señor Francisco mi ha chiesto di chiamarlo per nome, quindi mi è rimasto.»
«Rimasto?»
«Anche se lui, in realtà, mi ha chiesto di chiamarlo monsieur Francis
«Messiè
«Al di là di tutto...» Con un gran sorriso, Belgio tornò a dipingere. «È una persona davvero piacevole! E il francese suona davvero bene, credo che Luci ed io prenderemo un po' d'ispirazione!»
«...» Non aveva più parole.
«Non fare quella faccia, Lovi.» Manon gonfiò appena le guance. «È stato molto gentile e comprensivo, non ha fatto scoppiare nessun incidente diplomatico per il vaso!»
«... Vaso?» Per fortuna, Belgio gli offriva altre parole da ripetere con totale confusione. Lo scenario che si stava dipanando davanti ai suoi occhi era così apocalittico che il Novecentonovantanove poteva solo accompagnare.
«Beh, sai, al primo incontro siamo andati sia io che Luci...»
Lovino annuì. Ricordava la loro partenza, così come le sue proteste per essere stato escluso. E ricordava anche di come Antonio gli avesse messo le mani sulle spalle e gli avesse detto, con un tono un po' troppo allegro: «Non c'è bisogno che tu venga, nessuno ha fatto la minima menzione di te!». Forse voleva rassicurarlo sul fatto che Francia non volesse di nuovo allungare le mani sul suo territorio, ma la scelta delle parole era stata piuttosto infelice.
«Ed è stato Luci ad incontrare il señor Francisco per primo. Peccato che, quando li ho trovati, il señor Francisco aveva le mani dove non avrebbe dovuto.» Belgio scosse la testa, con disappunto. «Quindi gli ho fracassato un vaso sulla testa.»
Romano applaudì. Chiunque pestasse Francia aveva la sua eterna ammirazione - tranne Inghilterra, che era inquietante, e il bastardo, che era stupido.
«Per fortuna il señor Francisco non ha voluto dichiararmi guerra.»
«Avresti comunque avuto ragione tu.»
«La cosa non gli avrebbe impedito di dichiararmi guerra.» Manon alzò le spalle. «Invece, ha ammesso la sua colpa e mi ha promesso che non avrebbe mai più fatto niente di strano al mio fratellino.» Sorrise. Non era bello sorridere al pensiero di Francia, se non era implicata sofferenza ai suoi danni. «Dopo, è stato così cortese e gentile con me e Luci!»
Lovino si trattenne dall'azzannare la poltrona per la frustrazione. Se prima Manon era in estasi per il suo bravissimo, prodigiosissimo e coraggiosissimo fratellone, ora stava parlando un po' troppo bene del vinofilo cretino. Doveva essere colpa dei capelli biondi. Fottuti imperi biondi. Se poi avevano anche gli occhi azzurri, era la fine. Avevano fatto capitolare persino un imbecille come Feliciano.
Affondò nella poltrona, le braccia conserte e i denti serrati. Cominciava ad avere mal di testa, sentiva le tempie pulsare.
«Sarebbe bello...» Belgio sussurrò, ma non distolse lo sguardo dalla tela. «Se potessimo parlare così tutto il tempo.»
Lovino la guardò, confuso.
«Se la cosa più grave fosse un vaso in testa.» Manon sorrise. Non era un sorriso allegro.
Erano trascorsi più di dieci anni, Olanda era ormai forte e senza timori, ma quell'ombra non era scomparsa. Era in momenti come quelli che invidiava l'empatia di suo fratello.
«Manon...» azzardò. Non aveva idea di cosa dire. Tanto valeva essere espliciti: «Cos'è che ti turba?»
Belgio continuò a guardare il dipinto, i movimenti del pennello più lenti. Non era la prima volta che glielo chiedeva. Di solito, Manon si limitava ad una risata forzatissima, o dava risposte poco credibili. In quel momento, però, forse, il suo desiderio di parlarne era più forte della sua strana scelta di non farlo.
«Non...» Manon si fermò. Lo sguardo era fisso sulla candela di polveri e trementina, identica a quella di cera dall'altro lato della tela, ma era difficile la stesse davvero guardando. «Quando ho incontrato il señor Francisco... Quando eravamo solo io, lui e Luci...» Abbassò la mano con il pennello. «Per un attimo, ho dimenticato perché fossimo lì. Era...» Posò il pennello. «Mi sarebbe piaciuto essere lì, semplicemente. Come België che parla con Frankrijk. Come Manon Hene che ha rotto un vaso in testa a Francis Bonnefoy, che si stava comportando in modo a dir poco indecente!» Trasse un respiro profondo. «Poi mi sono ricordata che il señor Francisco era lì perché voleva una parte del mio territorio. E che non era venuto a chiederlo a me. Che io sono Bélgica, che mi chiamo Marita Haine.»
«... Se non vuoi essere chiamata così...» Lovino parlò piano. Non era proprio sicurissimissimo che Manon intendesse quello, era abbastanza certo ci fosse qualcosa che non riusciva a cogliere, ma doveva provare: «Perché tieni segreto il tuo nome?»
Belgio ridacchiò, nascondendo la bocca con la mano. Poi, finalmente, si voltò a guardarlo. Non era triste, ed era una buona cosa. Ma non si poteva dire fosse felice. «Lovi, tu... A te piace il tuo nome?»
«Lovino Vargas?»
«Sì.»
«... Non mi dispiace.» ammise: «"Lavinius" è troppo da vecchi. E "Vargas" suona meglio di "Valles".»
«Allora è stato scelto proprio bene, eh?»
Lovino annuì. Manon aveva risposto alla prima domanda, ma aveva platealmente evitato la seconda. Meglio di niente, almeno.
«Lovi...» Belgio aveva giunto le mani. O meglio, si stava torturando le dita, quasi non sapesse dove metterle e avesse avuto l'idea di triturarle. «Hai mai pensato a come sarebbe, se potessi decidere da solo?»
«Decidere da solo...» Non avrebbe voluto che la sua voce uscisse così fredda, ma tant'era. «Nessuna mia decisione ha mai avuto valore.» Il valore delle sue scelte svaniva di fronte alla volontà dello zio Petrus, di Francia, di Sacro Romano Impero, di Impero Ottomano, di qualche oscura nazione barbara, persino di Spagna, e sicuramente stava dimenticando qualcuno.
«Non dire così.» Ora sì che Manon era dispiaciuta. Ma era colpa sua. Sapeva benissimo che dargli la caccia era uno degli sport internazionali più praticati. «Se anche fosse...» Si era ripresa, la voce decisa: «Si tratta del passato! Adesso, Lovi, non hai mai pensato al fatto che potresti-»
Toc toc.
Come una sola persona, Lovino e Manon guardarono la porta. Porta che si spalancò, senza che nessuno dei due avesse risposto. In quella casa, c'era solo una nazione tanto incivile.
«Oh, Lovi, sei qui!» Il bastardo entrò, assolutamente non invitato. «Non ti trovavo e stavo venendo a chiedere a Marita. Ma meglio così!»
«Tu entri così nella camera di una donna?» Gli centrò il mento con una testata. Purtroppo non lo ribaltò, ma doveva avergli fatto abbastanza male. «Sei un maniaco! Un pervertito! Un maleducato incivile!»
«Tranquillo, Lovi.» Dietro di lui, Manon rise. «Ci sono abituata!»
«... Ci sei abituata?»
«Eh, non è che durante una guerra stai troppo a pensare al pudore o cose del genere...»
"... Ora gli cavo gli occhi." Era già con i pugni al bavero del cretino, quando quest'ultimo alzò le mani: «Non ho mai visto nulla di sconveniente, lo juro
«Tu sei sconveniente!» Lo lasciò andare con una spinta. «Cazzo vuoi?»
«L'allenamento, Lovi.» Antonio si accertò di essere ancora intero - e ringraziasse lo fosse! -, prima di fargli notare: «Sei in ritardo di più di mezz'ora.»
«... Oh.» Stavolta non aveva scuse per insultarlo. Stava succedendo un po' troppo spesso. Lo spinse di lato per uscire dalla camera. «Allora muoviamoci.» Salutò Belgio con un cenno, lei ricambiò sventolando una mano.

«Non hai mai pensato al fatto che potresti...»
Cosa? Decidere da solo?
Sì che ci ho pensato. Ci ho pensato spesso, in realtà.
E pensiero è rimasto. Sarebbe ridicolo provarci.



«Di che parlavate?»
«Cazzi nostri.»
«Potresti rispondermi in modo carino almeno una volta?»
«Fanculo.»
«Ehi, è colpa tua se sono venuto a cercarti!»
«Fottiti.»
L'armeria non era troppo lontana dalla camera di Manon, quindi il tragitto non comprese alcuna rispostaccia più brutta del solito. Quando però Lovino si vide consegnare una spada, non potè trattenersi: «Oggi non dovevamo allenarci con l'arcibugio?» Lo disse con più veleno del previsto.
«Per l'umore che hai ora, Lovi...» disse Antonio, serafico: «Non ti metterei in mano niente che possa sparare.»
«... Tsk.» Accettò la spada e si diresse nel cortile senza aspettare il cretino.
Un mese dopo aver smesso di essere alto due piante di pomodori e due pomodorini, Romano aveva iniziato ad allenarsi con armi bianche e da fuoco. Ovviamente era Antonio ad allenarlo, e si premurava di non fargli saltare neppure un giorno.
«La tua capacità di apprendimento ha lo straordinario potere di andare al contrario, se smetti di allenarti.» gli aveva detto Spagna, con un'ombra di delusione difficile da sopportare: «Tu non ti alleni quando io non ci sono, vero? Ecco perché non dobbiamo sprecare neanche un giorno...»
Non è che non volesse allenarsi. È che se lo scordava. E, soprattutto, i metodi di insegnamento dell'idiota erano stupidi.
«Sono dieci anni che mi alleno.» sibilò, serrando la presa sull'elsa: «A quest'ora dovrei essere uno spadaccino esperto.»
«Perché, non lo sei?» Una frase tanto stupida non poteva che essere accompagnata da un'espressione altrettanto stupida.
«Se lo fossi...» Caricò uno sgualembro, ma la lama avversaria fu pronta a deviarlo. «Non ti tratterresti e mi affronteresti sul serio!» Un tondo roverso, ma Spagna si limitò ad indietreggiare.
«Mi sembrava di avertelo già detto.» Antonio riportò la lama dritta. «Io combatto da più di tre secoli. Tu hai iniziato a stento un decennio fa. Non sarebbe leale.»
«E secondo te...» Tentò un affondo, ma l'altra spada catturò la sua e la costrinse a ruotare fino a quasi lanciarla di lato. Romano si affrettò ad indietreggiare e a tornare in difesa. Era rimasto scoperto e, se Antonio avesse avuto un'altra arma e lui fosse stato umano, avrebbe potuto ucciderlo in almeno quindici modi diversi. «Se dovessi fronteggiare un nemico, lui mi verrebbe addosso con tutta questa calma?»
«Se tu dovessi fronteggiare un nemico, Lovi» rispose Spagna, quasi con noncuranza: «Avremmo problemi ben più grossi delle tue capacità di difesa.»
Se avesse avuto abbastanza forza, l'elsa si sarebbe rotta in mille pezzi. «Continui a non volermi portare in battaglia.»
Non era una domanda, ma Spagna era troppo stupido per notarlo. «No. Tu non sei fatto per la battaglia.»
"Ti alleno solo per autodifesa." completò Lovino, nella sua mente. Ne avevano già discusso, e Antonio era irremovibile.
La verità era che a Romano stava benissimo così. Lontano dalla guerra, lontano dalle battaglie, lontano dalla gente intenzionata a fare di lui uno spiedino.
Eppure, allo stesso tempo, l'idea di non andare in battaglia lo irritava. Lo irritava talmente tanto da costringersi a fermarsi per riprendere contatto con la realtà. Non era in guerra. Non c'era nessuno intenzionato a mettere le mani su di lui. Non c'era nessun nemico da affrontare.

Nessun nemico che potesse affrontare.


«Dovete aver parlato di qualcosa di molto triste.»
Riportò l'attenzione su Antonio. Odiava quando si metteva a guardarlo, quasi stesse aspettando che il flusso dei suoi pensieri si ricomponesse. Ma sapeva anche che si sarebbe incazzato, se non l'avesse trovato nei paraggi.
«Sei uno straccio, oggi.»
Romano non commentò. Forse le parole che gli aveva quasi detto Manon l'avevano colpito più del previsto. Non che avrebbe potuto farci niente - Non che avrebbe potuto riprendersi ciò che gli apparteneva. Gli allenamenti di Spagna gli erano serviti giusto ad imparare le basi, non avrebbe mai potuto pensare di presentarsi davanti a...
«Manon ha combattuto con te.» sussurrò: «Perché lei sì e io no?»
«Manon?»
Il cuore schizzò fin nella testa, svegliandolo di colpo. Sbattè le palpebre e balbettò: «Manon... Ma non ha combattuto con te - sottinteso, lei, Marita?» Gli puntò la spada contro. «Sei pure sordo, ora?»
«Non sono sordo!» protestò Spagna. Qualsiasi motivo avesse Manon per nascondere il suo nome, per il momento sembrava ancora al sicuro.
«E comunque...» riprese la parola Antonio: «È stata Marita a chiedermi di venire in guerra. E lei sapeva già combattere.» Distolse lo sguardo. «Holanda si è dovuto allenare con qualcun altro, oltre me.»
Lovino ne approfittò. Due passi verso di lui, caricò un montante- La spada volò a qualche metro, e ricadde a terra con un tonfo sordo. Le dita si richiusero nell'aria, l'assenza dell'elsa era tanto sentita da sembrare essa stessa solida.
«... Finalmente hai fatto sul serio, eh?» sbuffò Romano, andando a recuperare la sua arma. «Sapevo che attaccarti mentre non eri concentr-» La voce gli morì in gola: l'espressione di Spagna era di palese panico, di quel panico che coglie quando non si sa che scusa inventare.
... Non aveva fatto sul serio. Aveva parato il colpo e l'aveva disarmato in modo meccanico. Forse non se n'era neppure accorto.
«Non dire niente.»
«Lovi...»
«Non. Dire. Niente.» Raccolse la spada e si lasciò cadere seduto sulla panca più vicina. La testa aveva ripreso a fargli male. Se il legno della panca fosse marcito, avrebbe gioito.
«Perché insisti così tanto nel voler combattere?» Antonio, che non capiva mai quando fosse il momento di stare lontani, tenne fede alla sua idiozia e gli si sedette accanto. «Se fossi un guerriero, non approfitteresti della mia assenza per non allenarti.» Se voleva consolarlo, aveva scelto l'approccio peggiore. «E cercheresti allenamenti alternativi, ti informeresti, ti-»
«Ho letto qualcosa.» borbottò Romano, piccato: «Tipo di incanalare la propria rabbia nel combattimento.» spiegò: «Più sei incazzato, più sei forte.»
Spagna annuì, l'espressione comprensiva. «Sì, Lovi. Le stoccate di una persona arrabbiata sono molto forti. Se riesce a darle, ovviamente. La rabbia è lo strumento migliore per perdere nel modo più doloroso possibile.»
«Eh?»
«La rabbia indurisce i muscoli, annebbia la mente e impedisce agli arti di muoversi come si suppone si muovano.» Agitò un dito, la voce un po' troppo soddisfatta. «Quindi, in cambio di maggiore potenza di attacco, si decurta la velocità e si può arrivare persino ad annullare la difesa. Rabbia come alimento della battaglia? Pessima idea.»
Avrebbe dovuto bruciare quel libro. Aveva il sospetto dicesse cazzate, ma essere sbugiardati da Spagna era cadere davvero in basso.
«Come mai tutta questa allegria?» Non riuscì a non chiedere.
«Inglaterra soffre di attacchi d'ira.» L'allegria svanì in un istante. «Peccato che in battaglia sia così preso da dimenticarsene.»
Romano provò pietà e decise di non infierire. Disse, invece: «In un altro libro, consigliavano di chiudere gli occhi.»
«Si solo se enojara en el momento adecuado- Eh?» Antonio tornò a prestargli attenzione. «Chiudere gli occhi?»
«Per sentire da dove arriva il nemico.»
«Utile, se il tuo sogno è diventare un ingrediente per la paella.»
«Lo sapevo che questa era una cazzata.» Si lasciò andare contro il muro e lasciò cadere la spada a terra. Per probabile suggerimento divino, Antonio capì che voleva silenzio. Chiuse gli occhi. Aveva davvero un gran mal di testa.

«Mio nonno ha conquistato il mondo.»
Non sapeva quanto tempo fosse passato, prima di spezzare il silenzio. Sicuramente per intervento divino, Spagna era rimasto zitto e fermo.
«Feliciano è una bella Repubblica.» continuò Romano: «A me non piacciono i campi di battaglia.» Con gli occhi chiusi, con Antonio come unico interlocutore, poteva concedersi di dirlo a bassa voce. «Lo so che non sono mio nonno. Lo so benissimo.» si affrettò a dire, prima che l'altro sentisse l'irrefrenabile bisogno di ciarlare l'ovvio: «Lo so che non sarò mai un impero. Per fortuna.» sottolineò: «Questo non cambia che sono l'erede dell'Impero Romano che si è fatto fottere Roma e fratello» Fratello (minore) molto migliore di lui sotto qualsiasi punto di vista, tanto da essere certo ci fosse qualcuno che lo pensava il vero erede di Roma. «e al momento risiede a mezzo Mediterraneo di distanza da quella che dovrebbe essere casa sua.»
«E se...» La voce di Spagna era bizzarramente bassa. Forse si era solo adeguato al suo volume. «Potessi riavere Felì e Roma?»
Lovino spalancò gli occhi e li puntò su di lui. Per colpa sua, aveva quasi sputato il cuore - e lo sentiva, ancora incastrato nella gola, che non riusciva a tornare al suo posto.
«Che cazzo...?»
«Saresti felice?»
«Che cazzo di domande fai?»
«Non capivo perché ti ostinassi a volere una cosa che non vuoi.» Non era strano che Spagna avesse un'espressione confusa, ma quella parvenza di serietà stonava. «Lo so che hai il terrore della guerra.»
«Io non-» Protesta inutilissima, ma non poteva non farla.
Tanto, come previsto, Antonio fece finta di nulla: «Questo tuo interesse per il combattimento è del tutto fuori luogo. Lo è sempre stato. Non puoi pretendere di essere riconosciuto come un guerriero, se l'idea di scendere in battaglia ti terrorizza, eppure continui ad importelo.» Sorrise, ed era la cosa più sbagliata che potesse fare. «Almeno ora ho capito perché!»
Ogni sillaba era piacevole come una pugnalata.
«E la cosa ti diverte?» chiese, accennando alla sua faccia da idiota.
L'idiota scosse la testa. «Assolutamente no. Sono solo felice di aver scoperto la fonte dei tuoi pensieri cupi.»
Pensieri cupi. Gli stessi di Manon, ma non uguali. Non è che lei non potesse mettere piede a Bruxelles senza rischiare di venire rapita da un consanguineo pronto ad usarla come pedina in una ridicola scacchiera politica. O che le fosse vietato di vedere Lussemburgo. D'accordo, forse quanto alla mancanza di un fratello potevano quasi esserci, ma lei ne aveva due, e uno se n'era andato per sua scelta.
«Dici di sapere di non essere tuo nonno, ma a me sembra tu sia perseguitato dalla sua ombra.»
Romano non si era accorto di aver iniziato a fissare la spada a terra. Tornò a guardare Spagna - e si premurò di fulminarlo con lo sguardo. Lui, ovviamente, non ci fece caso.
«Lovi... Tu sei una nazione giovane.»
«Ho quasi mille anni, lo sai.» Trattenne un ghigno: «E sono anche più grande di te.»
«Lo sai cosa intendo.» Antonio sbuffò, ma proseguì: «Non hai avuto modo di crearti un tuo impero. E sei rimasto in balìa di nazioni che, al contrario, erano riuscite a crearselo. È naturale che tu sia-»
«Un premio? Una seccatura? Una preziosa merce di scambio?»
«Sì.»
Lovino trasalì. Si aspettava qualche cascata di aggettivi teneri e confortanti, qualche frase fatta e un tragico dar voce ai suoi pensieri nel modo più privo di tatto possibile. L'ultima parte era uscita un po' troppo estrema.
«Non hai un esercito ai tuoi comandi, sei indifeso e chiunque ti prenda avrà anche quella che fu la capitale del mondo.» Non stava migliorando, stava iniziando a scavare nel pozzo del Checcazzo.
«Tipo te.»
«Tipo me.» Spagna distolse lo sguardo. «Anche se tuo zio mi adora.» Non aveva cambiato espressione neppure un istante. «Me e i miei sovrani.» Da quanto stava giocherellando con la croce che portava al collo? «Avere te qui è solo una conferma delle simpatie di Roma.»
Romano se ne sarebbe volentieri andato, lasciando il bastardo a perdersi in chissà quali pensieri, ma le gambe non rispondevano. Quindi, sibilò: «Fai schifo a consolare la gente.»
«Non ti sto consolando, Lovi.» Tornò a guardarlo, quasi stupito. «Ti sto dando ragione.»
La mano rispose al suo comando e Lovino potè affondarci la faccia. «Fai ancora più schifo a darmi ragione.»
«Tu non mi hai risposto, invece.»
«Eh?» A cosa? Quale domanda gli aveva fatto, che non fosse troppo stupida da meritarsi una risposta?
«Se potessi riavere Roma e Felì.» Ah. Era una domanda stupida. Ecco perché non aveva risposto.
«... Mi stai a piglià p' 'o culo.» Gli avrebbe sputato in faccia un pijà p'er culo, e sarebbe stato perfettamente in tema con le idiozie che stava dicendo, ma aveva ancora troppa inquietudine ad usare quel dialetto.
«Lo digo en serio!» Il problema era che, a giudicare dallo sguardo, era vero. Non lo avrebbe lasciato in pace finché non avesse ottenuto una risposta - e Spagna sapeva essere terribilmente insistente, tanto che neppure sfondargli la cassa toracica a testate sarebbe stato in grado di farlo desistere.
«Secondo te?» Perché doveva avere un Capo imbecille fino a quel punto?
«Saresti felice?»
«Ricominciamo con le domande cretine?»
«D'accordo, mettiamola così.» Forse, dal punto di vista dell'idiota, era lui quello che gli stava venendo incontro. Antonio era la dimostrazione che non servisse un cervello per essere un impero. «Se riavessi Roma, e se Felì fosse con te... La smetteresti di importi di volere andare in battaglia?»
Era un'ipotesi assurda. Talmente assurda da sfociare nel ridicolo. Ma non fu per quello che Romano scoppiò a ridere. «E tu...» Gli lanciò l'occhiata più derisoria che potè. «Tu volevi solo che io la smettessi di chiederti di andare in battaglia?»
«Io voglio che tu smetta di pensare di andare in battaglia.»
«Non ti chiederò più di andare in battaglia, avrai Roma e avrai Feliciano insieme a me.» Abbattè le mani sulla panca e si sporse verso di lui. «Come se non lo sapessi cosa vuoi. Non sarebbe adorabile un Feliciano che ti trotterella intorno squittendo "Fratellone Spagna~ Fratellone Spaaagnaaa~"? E poi ci sarei io, identico a lui, che non squittisco ma sono comunque esteticamente appagante.» Non lo trovava comico, ma continuava a venirgli da ridere. «Prima di venire a convincermi che sarei felice io, parlane con il tuo maritino. A lui non farebbe piacere sapere che pensi di prenderti la sua parte di banchetto pubblico. E mio zio? Mio zio che ti adora tanto? Cosa direbbe se sapesse che vuoi-»
«Non ti piacerebbe?» Spagna non aveva fatto una piega. Non lo guardava con esasperazione, con sufficienza - o anche con disgusto. Lo guardava e basta. Non aveva neppure avuto la decenza di indietreggiare, quando si era sporto verso di lui.
«Vederti portare a termine il tuo stupido piano?»
«Non posso dichiarare guerra ad Austria o a Estados Pontificios.»
Quel nome lo fece rabbrividire. "Zio Petrus"... "Zio Petrus" era più sostenibile.
«Non posso portarti né Felì né Roma.» Una mano andò ad accarezzargli la testa. Era irritante quando faceva così. Anche se meno del solito. «Vorrei poter placare la tua frustrazione. Non mi piace vederti così.»
«E immagino non ti piaccia vedere il tuo impero rimpicciolirsi.» Assottigliò lo sguardo, ma non troppo. Quelle carezze erano piacevoli. «Francia te ne porterà via un bel pezzo, a Novembre.»
«No, non mi piace.» ammise Spagna: «Anzi, lo detesto. Se non dovessi sottostare agli ordini dei miei Sovrani, avrei già cercato di prendermi il territorio di Francis. E avrei già provato ad affogare Inglaterra.»
«Ti avrebbe pestato di nuovo.»
«Non i nostri eserciti. Noi.»
Lovino esitò un istante. C'era qualcosa di strano in quel suo modo plateale di ammettere cose che una brava nazione di spicco, fedele ai suoi sovrani e subdola nelle trame politiche d'Europa, avrebbe fatto di tutto per tenere nascoste.
«Dover dipendere dai propri sovrani non è troppo entusiasmante.» proseguì Spagna: «Rischi di dover combattere all'ultimo sangue con un tuo amico, o di doverti unire a qualcuno che vorresti infilzare con una ropera. Tutte le tue iniziative devono essere approvate. E ti vedi voltare le spalle da persone di cui pensavi di poterti fidare.»
«Ti fidavi così tanto di Olanda?» Non gli era parso, ad essere sincero. Non che si odiassero, ma non aveva mai visto eccessiva complicità, tra loro due.
«Mi fidavo di Holanda come mi fido di Marita e Luciano.» Accennò ad un sorriso. Era palese che la sconfitta gli bruciasse ancora - probabilmente rinvigorita mesi prima dalla presenza di Paesi Bassi a Dunkerque.
Prima che Romano potesse far notare un dettaglio fin troppo evidente, Antonio lo bloccò: «Per questo voglio che almeno tu possa vivere senza queste seccature.»
«Tu sei una seccatura.» Gli era uscito spontaneo. Ma non poteva dire altro, tra quelle carezze che erano state in grado di ridargli lucidità e un improvviso e fastidioso calore alle guance. Colpa sua, come sempre.
Una risata leggera. «Allora permettimi di redimermi.»
«Hai troppo da doverti far perdonare.»
Gliel'aveva servita su un piatto d'argento, ma Spagna parve comunque colpito da quella frase. No, non colpito. Turbato. Tanto da turbare anche lui. Gli stava sfuggendo qualcosa di ovvio e la cosa iniziava ad irritarlo. Poi, però, la mano scese sulla guancia che stava andando a fuoco. Non era strano, sia Antonio che Manon l'avevano fatto spesso. Quando era un bambino. E ora non lo era più. Pensava che almeno il cretino se ne fosse reso conto, visto che gli aveva messo delle armi in mano.
«Ecco perché voglio far sì che tu abbia quasi tutto ciò che desideri.»
Sì, c'era decisamente qualcosa che non stava capendo. Pensava che la sua mente fosse più lucida, ma la sentiva più piena di nebbia di prima.
«"Quasi"?» ripetè Romano. Una stonatura in quella frase poco sensata, che risaltava come una macchia nera su un muro bianco. O meglio, come una macchia nera su un muro bianco che cadeva a pezzi.
«Quasi.» confermò Antonio. Smise di accarezzargli la guancia e Lovino si sentì stranamente più calmo. E più freddo. Forse era vero, s'imponeva di volere cose che non voleva - non si sarebbe spiegato perché avrebbe voluto continuasse. Un attimo dopo, però, Spagna posò la fronte sulla sua. Anche quello era un gesto che avevano fatto spesso lui e Manon, quando era un bambino. E ora non lo era più. Ora quei gesti sembravano avere tutt'altro significato. Difatti Manon, nonostante la sua totale mancanza di conoscenza dello spazio personale, aveva smesso di farli.
«C'è un'unica cosa che non posso darti.»
Lovino incontrò il suo sguardo. Sarebbe bastato un istante per tirare indietro la testa e ributtarla in avanti, con violenza. «Che cosa?» chiese, solo.
Un'altra risata appena accennata. «Ah, no, Lovi. Se te lo dico, me la chiederai solo per farmi un dispetto!»
«Sai che ora comincerò a pensarci, sì?» Per puro desiderio di fargli un dispetto, ovvio.
«Pensaci quanto vuoi, se lo desideri.» Stavolta sorrise davvero. Di sicuro stava pensando a qualcosa di stupido che probabilmente lo riguardava. Imbecille.
«Non posso dire di non apprezzare il pensiero.» Riuscì a dirlo solo perché suonava sarcastico. «Ma tu non puoi darmi né mio fratello né Roma.»
«Ho detto che non posso dichiarare guerra ad Austria o a Estados Pontificios. Ora.»
Romano si scostò. Quel discorso stava prendendo una piega strana. «... Eh?»
«Lo sai che non va bene tra me e Rodrigo.» Spagna continuava a sorridere, ma c'era qualcosa di freddo del tutto inappropriato. «Non mi stupirebbe se il futuro ci riservasse un cambiamento repentino degli equilibri politici.»
Lovino dovette distogliere lo sguardo. Un'idea, minuscola e fioca, si era fatta strada in quella via nebbiosa che era la sua mente. Strinse i pugni. Sentì il respiro rallentare. «Ti sta andando tutto male.» buttò lì: «Smettila di pensare a cose assurde.»
«È proprio perché sta andando tutto male che penso a quanto sarebbe bello se fosse tutto perfetto.»
Tornò a guardare Antonio. Non aveva niente di diverso dal solito. Stessa faccia da scemo, stesse frasi da idiota. Anche il sorriso da imbecille sembrava lo stesso di sempre. Forse erano gli occhi il problema.
«Stammi a sentire.» Lovino riaprì le mani, distese le dita sulla panca. «Io non voglio che Feliciano o Roma mi vengano regalati. Se proprio non posso riprendermeli con le mie mani» Il cuore sussultò, ma lo ignorò. «allora voglio che mi vengano restituiti.» Trasse un respiro profondo. Doveva calmarsi.
«Prima o poi succederà.»
Non era sicuro che Spagna avesse capito. O, peggio, se avesse capito e lo stesse deliberatamente ignorando.
«Prima o poi succederà.» L'aveva ripetuto, senza in realtà parlare con lui. Forse anche Antonio stava facendo quei pensieri cupi che avevano turbato Manon. Non era poi così immune agli effetti delle guerre.
«Ohi.»
«Sì, Lovi?» A vederlo bene, il suo sguardo sembrava normalissimo. Stupido come sempre. Anche se Romano era fin troppo certo che non fosse così, pochi istanti prima.
«Hai detto di fidarti di Marita e Luciano.» gli ricordò: «Vuol dire che di me non ti fidi?»
«Fidarmi di te?» Antonio assunse un'espressione da totale idiota, quasi avesse realizzato solo in quel momento la possibilità. Lovino prese la mira. «Non è questione che non mi fido di te...» Più lui parlava, più Romano caricava la testata. «È che so di poterti affidare la mia vita.»
Lovino si bloccò. Per fortuna era seduto, o sarebbe inciampato nel nulla - caratteristica tipica dell'altro idiota con la faccia da scemo - e sarebbe rovinato a terra.
«... Eh?»
«Ti conosco da un secolo esatto!» trillò Spagna: «E sei sempre stato con me, quando ce n'era bisogno. A parte la tua incontenibile pigrizia e la tua quasi fantastica nullafacenza-»
Riprese la mira.
«Hai dimostrato di poter superare persino la tua paura pur di aiutarmi.» Gli accarezzò di nuovo la guancia e Lovino prese fuoco. «Con te non si tratta di fiducia. Con te è solo certezza!»
«Sì, sì, va bene, va bene.» Si liberò con un movimento degno della più scivolosa delle anguille e scattò in piedi. «Ora piantala, ché sembra che mi stai corteggiando.»
«Perché no?»
Ora, Romano l'aveva detto per smorzare la tensione, perché Spagna era un po' inquietante quando parlava di politica, perché un imbecille non dovrebbe parlare di politica, guerre o anche solo filosofeggiare sull'animo umano o nazionale- Insomma, Romano l'aveva detto perché Spagna era strano e doveva ricordargli che erano Lovino e Antonio e che erano reduci da un fallimentare allenamento di spada. Si supponeva che il bastardo ridesse e gli dicesse: «Qué estas diciendo, Lovi? Ma come ti viene in mente?», o anche solo una delle due, eh, non è che dovesse per forza fare tutte e due. Allora lui gli avrebbe fatto notare che l'avrebbe capito, perché il fascino latino non si poteva battere - e il bastardo avrebbe di nuovo tirato fuori quella storia che il fascino latino ce l'aveva anche lui, che era forse ciò che gli permetteva di essere il meno peggio d'Europa, quanto ad aspetto. Insomma, doveva andare così, più o meno.
Si voltò verso Spagna. Spagna lo guardava con la sua solita espressione da idiota. Però era quella troppo stupida per stare scherzando.
«... Vaffanculo.» Romano si girò e se ne andò. E gli aveva pure lasciato la spada a terra, così avrebbe dovuto ripulirla e rimetterla a posto lui.
Contatti fisici che assumevano tutt'altro significato, frasi deliranti che non sarebbero stonate in un (brutto) racconto con (pessime) dame e (ancor più pessimi) cavalieri... Se n'era accorto, il bastardo, che non era più un bambino.
Lovino non potè trattenersi dallo sfogare la testata sul primo muro che vide.



Quando, un secolo prima, Antonio gli aveva detto di essere sposato con Rodrigo - Austria -, Lovino era rimasto un po' perplesso. Allora Antonio gli aveva spiegato che alle nazioni era concesso sposarsi anche se dello stesso sesso, perché le nazioni donne erano davvero pochissime e le necessità politiche sarebbero state una giustificazione più che sufficiente per espiare un simile peccato.
Romano aveva taciuto: era nato con la mentalità dell'antico Impero Romano, cresciuto con le idee dell'impero longobardo, istruito nel credo di Stato della Chiesa, aveva visto l'avvicendarsi di fin troppe ideologie diverse e sapeva benissimo che, alla fin fine, ognuno faceva il gran cazzo che voleva - bastava non urlarlo ai quattro venti, e sarebbe stato come se non fosse mai successo. Quel che l'aveva perplesso era stata proprio la candida ammissione fatta da Spagna: Spagna e Austria erano due uomini ed erano sposati, tutta Europa lo sapeva e allo zio Petrus non erano partite le coronarie come sarebbe poi successo con quella faccenda del re inglese passato da Defensor Fidei a fautore di uno scisma nella Chiesa. La facciata politica scavalcava qualsiasi finto moralismo, a quanto pareva.
Quanto ad Antonio, non ci voleva certo un genio per capire che fosse un uomo a cui piacevano (perlopiù) gli uomini: le uniche donne con cui Romano l'aveva visto erano le sue sorelle e Manon. E con Manon non c'era mai stato nulla - Qualora fosse venuto a conoscenza del contrario, avrebbe provveduto personalmente ad evirarlo con un trinciapollo. Per il resto, si accompagnava a Francia - uno che avrebbe giaciuto con chiunque fosse stato in grado di respirare - e Prussia - In realtà, Romano non aveva niente contro Prussia, anche se sembrava una specie di demone vomitato dall'Inferno, ma era più o meno germanico e pure fratello di Sacro Romano Impero, difetti che rasentavano il peccato capitale -, non mancava di sospirare quanto fosse tenero, carino e adorabile Felicianito e a volte sembrava ossessionato da Inghilterra. Paradossalmente, non l'aveva mai visto con Austria. Non che fosse strano: era risaputo che Austria avesse da tempo una relazione con Ungheria. Così, quello che in molti avrebbero etichettato come un effemminato sodomita era in realtà legato ad una bellissima donna, nobildama e guerriera, mentre quello che si professava più vicino al pensiero dello zio Petrus si concedeva ad altri uomini. Ironico, forse persino divertente.
Quel che Romano non aveva mai pensato era che Spagna potesse pensare a lui in quel modo. Aveva sempre a che fare con imperi mitomani, no? Cos'era quell'improvviso interesse per una nazione piccola e frammentata? Oppure si era ormai rassegnato a rivolgersi alla copia violenta e sboccata di quel delicato fiore d'idiozia che era il Nord Italia? Quell'ipotesi era la più probabile, ma persino un idiota come lui sarebbe arrivato a pensare che, invece di corteggiare una nazione tanto aggressiva e ingestibile, avrebbe avuto più senso presentarsi a Vienna e corteggiare il tenero, dolce, gentile Veneziano.
Un dubbio improvviso: Feliciano era cresciuto? O era ancora un bambino? Da una parte, avrebbe avuto, piccola piccola, la soddisfazione di essere ancora il maggiore, di essere cresciuto per primo; dall'altra, gigantesca e schiacciante, ci sarebbe stata la consapevolezza di non aver fatto nulla nella vita, mentre il suo fratellino bambino legnava due volte Impero Ottomano.
Quelle riflessioni erano irritanti. E le stava facendo per colpa di Antonio quindi, come al solito, era colpa sua. Non che gli avrebbe dato retta, ovviamente. Perché avrebbe dovuto? Era un idiota. Era sempre colpa sua. E tutte quelle riflessioni le stava facendo solo perché erano naturali, chiunque si sarebbe fermato a rimuginare se, di botto, qualcuno che si conosce da cento anni avesse candidamente ammesso di stargli facendo la corte. Male, tra l'altro. E per fortuna che era il país de la pasión! Fosse stato il país de la depresión, la popolazione si sarebbe già estinta di sua sponte!
Doveva calmarsi. Non poteva continuare ad andare in giro a capo chino e sguardo in guerra con il mondo, o sarebbe finito con il lanciarsi contro la prima cosa rossa che avesse visto - e sorbirsi poi Antonio o Manon che gli dicevano che era un torito lindo, no, ma proprio no. Quindi, si recò nel luogo dove trovare la pace: le cucine. Quando era piccolo, alle volte, riusciva a farsi dare qualcosa approfittando dell'intrinseca tenerezza del suo aspetto - ma, il più delle volte, veniva letteralmente spazzato via con tanto di: «Ve a trabajar, holgazán!»; i poveri stolti non sapevano che lui si era già impossessato di qualcosa e l'aveva già fatto scivolare in una tasca, troppo presi dal ciarlare idiozie. Da adulto... La cosa non era granchè cambiata. Sperava di riuscire ad affascinare qualche servetta giovane, ma le servette giovani di quel periodo erano un po' troppo giovani e le altre lo avevano visto quando era un pomodoro con il grembiulino bianco. Durante i turni di Manon, invece, riusciva persino a rimanere in cucina - e a volte, pochissime volte, aveva addirittura aiutato.
Lovino si bloccò. Forse aveva pensato troppo e i suoi pensieri si erano concretizzati.
L'entrata della cucina era ad una decina di metri, vedeva il viavai dei servitori, sentiva un chiacchiericcio intenso, quasi già sentiva la massa mescolata dei profumi. Antonio era lì davanti, in piedi, in attesa. In quell'istante, Manon uscì dalla cucina e andò da lui. Si dissero qualcosa, un cenno da parte di Spagna, e i due s'incamminarono verso sinistra.
"... Cosa cazzo sta succedendo." In punta di piedi, Lovino si appiattì contro il muro e li seguì, a debita distanza. Le rientranze nel muro, le colonne gigantesche e le ombre che incorniciavano la luce dai finestroni erano tutti ottimi alleati. Lontani dalle cucine, l'unico rumore divenne il rimbombare dei tacchi delle scarpette di Belgio e degli stivali di Spagna e Lovino si premurò di camminare al loro ritmo, per coprire qualsiasi possibile suono. Né Manon né Antonio dissero una parola - né in spagnolo né nella lingua delle nazioni. Essendo entrambi diversamente taciturni, era palese ci fosse qualcosa di strano. Come se non fosse già sospetto il fatto che stessero andando chissà dove.
Finalmente, parvero giungere alla loro meta: una balconata. Le porte erano già aperte e Antonio uscì. Manon, al contrario, si fermò al centro della soglia. Lovino riuscì a raggiungere la seconda colonna più vicina, ma non potè avanzare oltre: Belgio l'avrebbe senz'altro visto - e sentito, dato che avevano smesso di camminare. Sarebbe stato un problema sentire tutte le loro parole ma, oltre ad essere diversamente taciturni, erano entrambi provvisti di un volume vocale naturale piuttosto alto, quindi era difficile si sarebbe perso la totalità delle loro chiacchiere.
Voleva sapere. Magari non era niente di grave, magari c'era un motivo innocentissimo per cui Antonio aveva trascinato Manon lontano dalle cucine durante il suo turno, proprio in quel momento, e fossero andati su una balconata in un corridoio deserto. Manon si tolse il fazzoletto che le copriva i capelli e lo ripose nella tasca del grembiule. Lovino si fece attento.
«Sono un po' preoccupato, Marita.»
Parlavano in spagnolo. Da dove era nascosto, Lovino riusciva a vedere solo il profilo di Manon ma, come si era aspettato, la voce di Antonio gli arrivava senza problemi.
«Mi sembra che tu...» Una breve pausa. «Non sia felice di stare qui.»
Manon sgranò gli occhi. «Prego?»
«A volte...» Un'altra pausa. L'idiota non si era neppure preparato un discorso, a quanto sembrava. «Mi sembra che preferiresti essere altrove.»
«Ma cosa ti viene da pensare?» Belgio nascose la risata dietro una mano. «Sto benissimo qui! Perché-»
«Ti ha fatto piacere che Holanda abbia vinto a Dunkerque?»
Lovino si sentì paralizzato. Il volto di Manon aveva perso colore in un istante. Ma, con voce ferma, disse: «Ammetto di essere felice della vittoria di mio fratello. Sì. Sono orgogliosa di lui.» Giunse le mani sul grembiule. «O vuoi forse dirmi che ad una sorella non è concesso gioire dei successi del proprio fratello?»
Una risata leggera. C'era qualcosa di sbagliato, in quella risata. «Oh, no. Assolutamente. Fai bene ad essere orgogliosa di lui. Diventerà un grande impero.»
Lovino rallentò il respiro. Non era del tutto voluto.
«È solo che... Sono un po' preoccupato che tu non voglia più stare qui, Manon.»
Belgio scosse la testa. Nonostante il volto pallido, il suo sguardo e la sua voce rimanevano fermi: «Ciò che mi lega a mio fratello non intacca ciò che provo nell'essere qui.»
«Lieto di sentirtelo dire.»
Dei passi, e l'ombra di Spagna coprì Belgio.
«Spero solo che ciò che provi nell'essere qui non siano emozioni negative.»
«Affatto.» Manon aveva alzato un po' lo sguardo. Era più bassa di lui.
Un'altra risata strana. «Perfetto, allora. Le mie erano solo preoccupazioni senza fondamento. Anche se...»
Riuscì ad intravedere Antonio. Si era chinato su Manon.
«Non hai fatto una piega nel sentirti chiamare con un altro nome.»
Non c'era stato neppure un frusciare di foglie, eppure a Romano sembrò di sentire il cuore di Manon spaccarsi come un bicchiere di vetro caduto a terra. Fuori splendeva il sole estivo, eppure la temperatura si era inspiegabilmente abbassata, tanto da sembrare di respirare gelo.
«N-Non ci ho fatto caso.» Per la prima volta, la voce di Belgio ebbe un'incertezza.
«Cosa succede, Marita?» Il tono di Spagna era conciliante. «Hai dimenticato il tuo nome precedente? Oppure l'hai sentito così spesso da non notare più la differenza?»
Lovino non sentì più le gambe. Allora l'aveva sentito, prima. Era stato lui a farsi scappare il nome di Manon. Serrò i pugni, sentì i polpastrelli ghiacciati. Che gliene importava del nome di Belgio? Cosa gli cambiava se lui la chiamava "Manon" piuttosto che "Marita"? Perché Belgio sembrava doverlo tenere segreto? Sarebbe voluto scattare, mettersi in mezzo e urlarlo al bastardo, ma le gambe non rispondevano - e la voce, lo sapeva, era bloccata da qualche parte all'altezza della gola.
«Non ci ho fatto caso.» ripetè Belgio. Stavolta, la voce non s'incrinò: «Forse avrei dovuto. Farò più attenzione alle tue parole, in futuro.»
«Spero lo farai, Marita.» Poi, sussurrò qualcosa. Lovino non riuscì a sentire neppure una parola, e il tamburo impazzito nelle sue orecchie non aiutava. Un istante dopo, Belgio si irrigidì, il colore abbandonò di nuovo il suo volto. Con inquietudine, Romano notò che i suoi occhi si erano fatti lucidi.
«Io non vado da nessuna parte.» disse Manon, piano, quasi scandendo le parole: «Così come Luciano. Questo è un discorso che riguarda solo me.»
«Sì. Riguarda solo te.» Spagna si rialzò. «Quindi evitiamo di coinvolgere altre persone. D'accordo?»
Belgio annuì. Gli occhi erano ormai arrossati, le mani stavano tormentando le dita.
«Grazie per avermi rassicurato, Marita.» Antonio tornò sul balcone. «Non farmi più preoccupare, va bene?»
Belgio annuì di nuovo. Forse Spagna doveva essere di spalle, perché poi lei aggiunse: «Non succederà più.» La voce era sul punto di frantumarsi. «Con permesso.»
«Marita.»
Lei si fermò e guardò verso di lui. La frase arrivò dopo una pausa che sembrò infinita: «Mi fa piacere che tu risponda al tuo nome.»
Belgio gli voltò le spalle e si allontanò a passo veloce, il rimbombo dei tacchi che risuonava come tuoni in una tempesta.
Le gambe di Lovino cedettero e lui si ritrovò a terra, contro la colonna. Cosa cazzo era appena successo.
Era certo che Manon fosse scoppiata a piangere, un istante dopo essersi voltata. La sua espressione era sul punto di spaccarsi e quel che le aveva detto il bastardo sembrava essere stato il colpo fatale. Era ormai un decennio che Belgio aveva momenti più malinconici, a volte si ritirava in pensieri più cupi, ma poi tornava la nazione allegra e gentile di sempre. Insomma... era Belgio. Lei non piangeva, lei era quella che gli asciugava le lacrime e gli diceva che andava tutto bene. Non era normale che Belgio piangesse. Era quasi contro natura.
Forse erano state le parole che non aveva udito a ridurla così, ma il loro discorso era stato strano fin dall'inizio e si basava su qualcosa privo di senso. Non era stupido, l'aveva capito che ad Antonio non piaceva che Manon venisse chiamata con il suo nome. Ma era davvero così importante? Tanto da portarla alle lacrime?
Battè un pugno per terra. Si rialzò, le gambe lo ressero. Aggirò la colonna, camminò a falcate larghe e uscì sul balcone. Spagna era ancora lì, come se nulla fosse.
«Ohi.»
Antonio si voltò. Quando lo vide, sorrise. «Allora eri tu.»
Lovino inspirò con una certa violenza, ed espirò quasi con un ringhio. «Te n'eri accorto?»
«Solo che ci fosse qualcun altro. Non avevo capito fossi tu.» Appoggiò la schiena al parapetto. La sua espressione da idiota sembrava la stessa di sempre. «Sei stato piuttosto bravo. Marita non se n'è accorta.»
«Che cazzo di problemi ti dà che la si chiami Manon?» Lo raggiunse quasi conficcando i talloni nel marmo. «Se lei vuole essere chiamata così, allora la chiami così. Che minchia di problemi ti dà?»
«Problemi?» Spagna scosse la testa. «Non capisco, Lovi. Quando è venuta ad abitare qui, Marita ha accettato di cambiare nome. Come te.»
Romano aprì la bocca, ma si accorse di non poter ribattere. Non è che Antonio le avesse esplicitamente detto di non farsi più chiamare "Manon". «È...» Non si arrese: «È ovvio. C'è rimasta malissimo, l'hai visto!»
«Lovi.» L'espressione di Spagna si fece seria. «Non è questione di nomi. È questione che Marita stava ammirando troppo quello che ormai è un mio nemico. Non è un comportamento che posso accettare, da una mia sottoposta.»
Aveva senso, ma non aveva senso. Sentiva che c'era qualcos'altro, qualcos'altro di ovvio, ma non riusciva a dargli una forma. Chiuse gli occhi, espirò. Sarebbe voluto andare su quel balcone e fare una strigliata epocale a Spagna, prenderlo per un orecchio e trascinarlo da Manon, intimandogli di chiederle scusa. Ma non sapeva neanche di cosa sgridarlo: non era stato esplicito, lui non aveva capito cosa quei due stessero sottintendendo, e la spiegazione che gli aveva dato era anche troppo plausibile - La spiegazione che gli aveva dato, si rese conto con inquietudine, era qualcosa che aveva notato anche lui.
Riaprì gli occhi, e decise di aggredirlo con l'unica accusa che potesse davvero fargli: «Sei comunque stato crudele! L'hai distrutta!»
«Crudele? Io?» Antonio s'indicò. Sembrava disorientato. «Le ho parlato nel modo più delicato che conoscessi!»
«Se questo è il tuo concetto di delicatezza, ho paura del tuo concetto di crudeltà.»
«Lovi.»
Romano inchiodò lo sguardo nel suo. Nonostante tutto, era serio. Anche se nei suoi occhi c'era una strana luce che prima mancava - Lovino avrebbe azzardato a dire tristezza, ma avrebbe implicato che il bastardo fosse pentito di ciò che aveva fatto a Manon, cosa che non sembrava affatto.
«Se non le avessi detto queste cose, sarebbe stato peggio.» Era stato Romano a puntargli lo sguardo contro, ma ora sembrava lui a non volerlo lasciare andare. «Doveva giungere il momento di questo discorso, Lovi. Marita deve accettare che il tempo passa. Che Holanda non è più accanto a lei, che lei non è a Bruselas, che questa è Madrid, lei è Marita e risponde alla Corona di España.»
Lovino incassò ogni parola, sperò senza darlo troppo a vedere. Odiava quando il cretino era serio e aveva ragione.
«L'avrei fatto anche se fosse successo con te, Lovi.» aggiunse Antonio: «Se avessi insistito nel farti chiamare "Lavinius", se avessi pensato troppo a Felì o a Roma, o a Palermo, Nápoles e Cagliari.»
«Io penso a loro.» sibilò Lovino. Quando quelle parole raggiunsero le sue orecchie, sentì il cuore stringersi in una morsa: era quello che Antonio voleva evitare? Che fossero perseguitati da ciò che non era più loro?
«Sì, ovvio. Sarebbe innaturale il contrario.» concesse Spagna: «Ma il modo in cui ci pensi tu è diverso dal modo in cui Marita pensa al suo passato.»
«Perché?»
«Perché tu rivuoi qualcosa che ti è stato sottratto.» Qualsiasi traccia di tristezza era scomparsa. Qualsiasi traccia di qualsiasi cosa era scomparsa, in realtà. «Marita rivuole qualcosa che ha smesso di esistere tanti anni fa.»
Romano dovette distogliere lo sguardo. Si sentì quasi sollevato, nel farlo. Non era stupido. Non era stupido, aveva capito. Aveva capito, finalmente, e avrebbe preferito non capirlo. Deglutì, a fatica. Se non l'avesse detto, avrebbe continuato ad aver paura di quel pensiero. E ne sarebbe stato perseguitato come Manon.
«... Manon vuole raggiungere Olanda.»
«Marita.»
Bastò quell'unico nome come risposta. Lovino chiuse gli occhi. Li sentiva umidi. Belgio voleva raggiungere Olanda, forse portando via anche Lussemburgo. Ecco perché aveva nominato Luciano, Lucilin.
Abel aveva combattuto per ottant'anni per ottenere la sua indipendenza. Sapeva che Svizzera si era distaccato dal Sacro Romano Impero, o che Svezia si fosse allontanato dal quel baccanale che comprendeva quasi tutta la Scandinavia, ma che una nazione sottoposta si ribellasse per ottenere una sua indipendenza era qualcosa di inaudito; che ci riuscisse, che divenisse un impero a sua volta, era quasi un miracolo. O una maledizione, dal punto di vista opposto.
Erano quelli i pensieri cupi di Manon. Era il pensiero di aver cercato di proteggere suo fratello, per poi iniziare a pensare che, forse, aveva ragione lui. Che, se si fosse ribellata alla Corona di Spagna, Olanda sarebbe venuto in suo aiuto, che avrebbe di nuovo chiamato quei dimenticati da Dio di Inghilterra, Francia, Danimarca, Norvegia e chissà chi altro, e l'avrebbe riportata a Bruxelles, dove non sarebbe stata serva di nessuno, se non di se stessa. Era quella la sua idea di decidere da sola.
Si passò una manica sugli occhi, con rabbia.
«Marita ha detto che non andrà da nessuna parte.» gli ricordò Spagna, la voce pacata: «L'hai sentita anche tu.»
«Sì che l'ho sentita!» La voce spezzata lo tradì. Romano imprecò a bassa voce, si avvicinò al bastardo e gli piantò la testa nel petto. Così rimase, immobile. O almeno, sarebbe voluto rimanere immobile, ma le spalle tremavano.
«Lovi...» Ovviamente il cretino aveva pensato male, quindi l'aveva abbracciato. Ma Lovino glielo lasciò fare, così che le spalle si fermassero un attimo. «Non puoi farci nulla. Marita deve superare da sola questi pensieri. Se insisterà, non si arriverà a nulla di buono. L'hai capito anche tu.»
Ottant'anni di guerra. E, nonostante tutto, la possibilità di perdere, e tornare a Madrid non come sottoposta ma come prigioniera, traditrice. Se si fosse saputo in giro, se Spagna fosse di nuovo entrato in guerra con i Paesi Bassi e fosse finito con il perdere - ipotesi in realtà piuttosto probabile -, qualcuno avrebbe potuto accusare Belgio di essere una spia di Olanda.
Non ricambiò l'abbraccio. Si limitò a stringergli la camicia sulla schiena, i pugni così stretti da tremare.
«Se Manon-»
«Chiamala Marita. Fallo anche per lei.»
Romano sospirò. Odiava gli imperi. Li odiava. «Se Marita dovesse andare da Olanda... Non farle del male.»
Una mano andò ai suoi capelli, delle carezze gentili.
«La tratterò come ho trattato Holanda. Niente di più, niente di meno.»
Odiava gli imperi. Era sempre colpa loro. I Franchi gli avevano strappato sua madre. I germanici gli avevano portato via suo fratello. Ora Olanda avrebbe potuto portargli via Belgio, e forse rovinarle la vita.
Spagna era il peggiore di tutti. Anche più della cricca del Sacro Romano Impero. Aveva fatto piangere Belgio, era riuscito a farsi detestare da suo fratello e dalle sue sorelle, era riuscito a farsi odiare dalle colonie al di là dell'oceano - L'aveva capito, l'aveva capito quando aveva scoperto che gli altri imperi allevavano le loro piccole colonie come tanti figli e figlie, fratellini e sorelline, mentre in quel grande palazzo di Madrid c'erano solo lui, Belgio e Lussemburgo.
Lo odiava, perché sapeva che lui, Romano, non se ne sarebbe andato. Che gli sarebbero bastate solo due cose per essere felice, che non gli era mai importato niente di tutte quelle faccende di guerre, potere, espansioni e colonie. O meglio, gli erano importate, quando ancora pensava che la sua opinione valesse qualcosa. Ovvio che il bastardo gli dicesse di non combattere. Ovvio che gli chiedesse la sua opinione, come se avesse un qualche peso. Lo sapeva benissimo che quella scusa gli avrebbe fruttato l'intera Italia, due servitori fedeli e il cuore della cristianità. Era la fottuta mentalità da impero, quella che occupava tutto lo spazio che in una persona normale avrebbe occupato il cervello. La cosa che più gli faceva odiare Spagna, però, era quella dannata impressione che gli importasse di quel che lui dicesse.
Tirò indietro la testa e colpì Antonio. Gli fece molto meno male del previsto. Quindi, gli pestò un piede. «Questo era per averla fatta piangere.» Si scostò e si voltò, così che l'imbecille non lo vedesse in viso. Come se contasse qualcosa, a quel punto. Senza aspettare oltre, rientrò nel palazzo e andò nella direzione in cui si era allontanata Manon. Le cucine non gli piacevano più.



«L-Lovi?»
Manon scostò del tutto la tenda e aprì la finestra. Lovino quasi volò di sotto, quando la notò in sola camicia da notte gialla, i capelli sciolti e mezzi spettinati.
«Cosa ci fai qui? E come...» Belgio guardò di sotto. «Come ci sei arrivato, quassù?»
«L'albero qui davanti è alto.» Romano si concentrò sul viso di Manon, cercando disperatamente di ignorare il suo scarso abbigliamento. «Lanci un lazo alla statua» La indicò, alla loro sinistra, il solito angelo in estasi che decorava qualsiasi superficie verticale. «e ti arrampichi. Il davanzale è abbastanza largo.»
«Lovi...» Manon sospirò, una mano andò alla fronte. Stava ridendo. «Se poi cadi, non voglio sentire pianti!»
«Non sono mai caduto!»
«Vuol dire che l'hai già fatto?»
«... Potrebbe essere capitato.»
«Per spiare me?»
«Cos-» Strinse la corda, le guance divennero lava. «No, assolutamente no!»
Aveva cercato Manon per tutto il resto della giornata, ma non l'aveva trovata da nessuna parte - non era nelle cucine, non era in camera sua, non era nei campi, non era nel giardino, non era nel cortile, era come se si fosse volatilizzata. Ad un certo punto, Romano aveva incontrato Lucilin e aveva sperato che, almeno lui, sapesse che fine avesse fatto sua sorella.
«Non so dove sia.» gli aveva risposto, invece: «Perché la cerchi?»
Lovino aveva messo le braccia conserte, aveva distolto lo sguardo e aveva borbottato solo: «Credo sia triste.»
Dopo qualche secondo, forse il tempo di realizzare appieno, Lucilin aveva scosso la testa. «Ti do un consiglio. Non la cercare.»
Romano l'aveva fulminato con lo sguardo. Non lo voleva fare, gli era venuto naturale. Lussemburgo, difatti, non aveva fatto una piega: «Non vuole farsi vedere, quand'è così. E se non vuole farsi vedere, per favore, rispetta la sua volontà.»
Quelle ultime parole avevano distrutto sul nascere qualsiasi risposta. Non ci aveva pensato. Era lui quello che voleva Manon - o Antonio - a consolarlo, non era detto che anche gli altri volessero un conforto esterno.
Così, aveva aspettato, ripromettendosi di parlare con Belgio appena fosse stato possibile. Dato che poi Belgio si era presentata a cena, allegra e sorridente, per poi dileguarsi nella sua camera una volta finite le portate, Lovino aveva messo in atto il suo piano.
Ripensandoci, forse arrampicarsi fino alla finestra della sua camera era un po' da pervertiti. Ed era stato molto fortunato del fatto che Manon non l'avesse preventivamente accolto con un paio di colpi di moschetto - forse solo perché non era sua abitudine tenere un moschetto in camera.
«Non rimanere lì.» Belgio si fece da parte. «Accomodati.»
Lovino era prossimo allo starnutire lapilli. «Non entrerò nella camera di una donna in piena notte!»
Manon dovette premersi una mano sulla bocca per non scoppiare in una risata troppo sguaiata. Si ricompose con un paio di colpi di tosse e tornò ad occupare il rettangolo della finestra. «Non è così tardi.»
«Il sole è tramontato, quindi è notte.»
Un sorriso intenerito. «Non ti facevi questi problemi, qualche anno fa.»
Romano distolse lo sguardo. Forse era stata una pessima idea. Forse avrebbe dovuto aspettare il giorno dopo.
«Sono già dieci anni...» Belgio era persa nei ricordi, la voce sognante. «Mi sembra ieri, che eri tanto piccolo da poterti nascondere in mezzo alle piante di pomodori...»
Lovino gettò uno sguardo alla sua camera. Il dipinto non sembrava progredito di una pennellata, la candela era spenta e il letto era rifatto. Non si era messa a dormire, né si era messa a dipingere o a fare qualsiasi altra cosa per passare il tempo. Doveva essersi rinchiusa in camera, e basta.
«Mi dispiace.»
Fu spontaneo. Si era chiesto come avrebbe potuto consolare Manon, si era preparato la più grande valanga di insulti per Antonio che avesse mai pensato ma, alla fine, sapeva che c'era un'unica cosa che sentiva di volerle dire davvero.
«Ti... dispiace?» La voce era confusa. «Di cosa?»
Lovino tornò a guardarla. Avrebbe dovuto dirglielo guardandola negli occhi.
«Mi dispiace.» ripetè. Sentiva ancora troppo caldo, e il cuore impazzito, ma era per un motivo diverso da prima. «Sono stato io a farmi scappare il tuo nome col bastardo. Ho cercato di far finta di nulla, pensavo non se ne fosse accorto, e invece mi aveva sentito benissimo.»
Non era facilissimo cogliere ogni dettaglio della sua espressione. La luna non era piena, c'era qualche nuvola, e lui le faceva ombra su gran parte del viso. Ma una cosa che gli scaldò il cuore, in modo più piacevole, era il non intravedere neppure una traccia di accusa o delusione.
«Sì, l'avevo capito.» La sua voce era gentile. «Non avrebbe potuto saperlo altrimenti. Ma l'avevo messo in conto.» Fece un gran sorriso. «Com'è che mi avevi detto una volta? Segreto di due, segreto di Dio. Segreto di tre, segreto d'ognuno.»
Romano dubitava che Lucilin potesse essere compreso nel conteggio, dato il suo parlarne nullo con Manon. Ma inspirò, ed espirò, il tutto per bloccare qualsiasi possibilità che gli occhi si inumidissero troppo. «Te lo dicevo perché volevo avere segreti solo con te, e non volevo tu li condividessi con i tuoi fratelli o Antonio.»
«Non ho mai detto nulla a Luci e Abi!» Manon gonfiò le guance. Poi le sgonfiò, e distolse lo sguardo. «Forse, però, potrebbe essere capitato che io abbia detto un paio di cose ad España.»
«Sì, lo sospettavo.» O quello, o Spagna era onniscente - e Dio ne scampasse!
«Ecco.» Belgio unì le punte degli indici. «Stessa cosa con me. Tu, anzi, te lo sei solo lasciato scappare, io temo di averglielo proprio detto!»
Lovino mise entrambe le ginocchia sul davanzale. Aveva bisogno di più stabilità. «Non credo che segreti tipo "Sono stato io a far cadere i pomodori appena colti e non lavati nella sangria" e "La tua sottoposta sta pensando all'indipendenza" siano esattamente sullo stesso piano.»
Belgio trasalì. A quanto sembrava, non aveva capito quanto lui sapesse.
«Hai parlato con España?» La sua voce, seppur dolce, aveva una nota stonata, fredda.
«Vi ho sentito.» Era lì per essere sincero. «Volevo intervenire, ma-»
«Hai fatto bene a non farlo.» Un sorriso, ma era troppo malinconico. Sapeva che avrebbe visto quell'espressione, se fosse salito fin lassù. «E poi hai parlato con España?»
Romano annuì.
«È stato lui a dirti questo?»
Romano scosse la testa. «È un bastardo, ed è il peggior oratore che l'Europa abbia mai conosciuto. Però non ti ha accusata.»
Belgio chiuse gli occhi e il suo sorriso si fece più sereno. Rimase in silenzio.
Lovino guardò altrove. Sarebbe stato disturbante continuare a fissarla. Solo in quel momento gli venne alla mente che, forse, magari, se una guardia l'avesse visto lassù l'avrebbe riempito di proiettili. Forse, magari, era meglio sbrigarsi - Entrare in camera di Manon era fuori discussione.
«Quindi, Lovi...»
Tornò ad incontrare il suo sguardo. Lei aveva riaperto gli occhi e si era appoggiata al davanzale. Era più bassa di lui, così. Dunque Olanda la vedeva così. Era come Lovino avrebbe voluto vederla sempre, illudendosi di essere una nazione alta e possente e lei la sua compagna. Ma aveva smesso di illudersi da anni, per quanto ancora l'idea gli bruciasse il cuore.
«Cosa farai, ora?»
Avrebbe potuto dire di temere quella domanda, ma la verità era che lo inquietava la semplicità della sua risposta.
«Per me non è cambiato nulla. Non ho mai potuto fare niente per aiutarti.»
Un'esclamazione sommessa sfuggì dalle labbra di Manon. Doveva starla sorprendendo parecchio, quella sera. Avrebbe preferito sorprenderla in cose positive.
Fu Belgio a distogliere lo sguardo. Quando, qualche istante dopo, tornò a guardarlo, Romano sapeva benissimo cosa gli avrebbe detto.
«Ci pensiamo un po', va bene?» Un sorriso incoraggiante. «Non deve essere stato un bello spettacolo, per te. Facciamo che tu ti tranquillizzi, io rimetto la testa a posto, e poi torniamo ad essere Lovino e Marita come se nulla fosse successo. Va bene?»
No. «Sì.»
«Perfetto.» Manon giunse le mani. «Allora andiamo a dormire, Lovi. Se passasse qualcuno-»
«Posso darti un bacio?»
Belgio spalancò gli occhi. Con una strana soddisfazione, Romano notò le sue guance farsi più scure. Ma lei tornò a sorridere, come sempre. «Non fare il mascalzone, eh!» Si sistemò i capelli, si lisciò la gonna della camicia da notte (L'aveva guardata.), lasciò le braccia lungo i fianchi e chiuse gli occhi.
Era molto più facile, da dove si trovava lui. Serrò la presa sulla corda e si chinò su di lei. Con la mano libera, scostò la frangetta dalla fronte, e lì vi posò le labbra. Il suo cuore non esplose. Non si sentì andare a fuoco. Pensava che sarebbe successo. L'avrebbe preferito a quel peso.
Si scostò, lasciò andare i capelli di Belgio. Manon aveva riaperto gli occhi. La preferiva così, quando faceva quel suo sorriso gentile, senza tracce di pensieri cupi.
«Sei davvero un bravo ragazzo, Lovi!» Manon fece un passo indietro, andò alle ante. «Buonanotte. E non farti male, mi raccomando!»
«Buonanotte.» Le fece un cenno con la mano libera. Sperò che il suo sorriso non sembrasse troppo da disperato - o che, almeno, la notte lo coprisse abbastanza. Si alzò, si assicurò che la corda fosse ben ancorata e iniziò la sua discesa.
Odiava gli imperi. Odiava tutte quelle parole non dette tra le nazioni.
Manon si era chiamata Marita. Forse non avrebbe mai "messo la testa a posto". Forse non si sarebbe ribellata, ma quel pensiero si era piantato nella sua mente e, anche se avesse fatto seccare l'albero che ne era nato, ne avrebbe sempre conservato il ricordo - forte, martellante.
"Evitiamo di coinvolgere altre persone", aveva detto il bastardo. Non stavano parlando solo di Lucilin.
"Ci pensiamo un po'", aveva detto lei. Non stava parlando di un tempo breve.
Arrivato a terra, appoggiò la schiena al muro.
Ovvio che non fosse un addio. Cazzo, la vedeva tutti i giorni! A meno che quella notte non si fosse aperta una voragine che li avesse inghiottiti tutti, l'avrebbe rivista il mattino successivo!
Ma non poteva stare ancora con Manon. Non mentre lei oscillava tra la fedeltà e il tradimento, senza sapere da quale parte pendere. Non quando era stata colpa sua se ora Spagna aveva gli occhi puntati su di lei.
Non aveva la minima intenzione di dirle di rinunciare, di rimanere lì a Madrid, di continuare a farsi chiamare Marita, di continuare a parlare in spagnolo. Lui non era un cazzo per dirle una cosa del genere.
E poi, non avrebbe più avuto il coraggio di parlare con Manon. Non avrebbe più sopportato altri discorsi su quanto fosse bravo Olanda, non avrebbe più sopportato vederla conoscendo i suoi pensieri.
Alzò lo sguardo. Il bastardo era sotto l'albero, a pochi metri. Braccia conserte, sguardo su di lui.
Si stupì di non essersi spaventato. Forse se lo aspettava.
«Ci stavi spiando?»
«Non si sente niente da quaggiù.» gli fece notare Antonio. La sua allegria era la cosa più sbagliata del mondo, in quel momento.
«Mi stavi seguendo?»
«Ero passato per darti la buonanotte, ma non ti ho trovato. Non potevi che essere qui.»
«Potevo essere in camera.»
«Stasera non hai bevuto sangria.»
Romano lo incenerì con lo sguardo. «Non avrei mai osato. Neppure da ubriaco.»
«Intendo che avresti sbagliato stanza.» Il tono di Spagna era divertito, accondiscendente. Lovino avrebbe voluto tirargli un calcio e fratturargli qualche osso, ma era troppo lontano e non aveva voglia di coprire quel paio di metri.
«Non sono qui da molto, comunque.» Lo rassicurò Antonio: «Non ho visto niente e non ho sentito niente, lo juro en mi cruz
«Non giurare, coglione.» Tirò la corda, ma quella era fissata anche troppo bene. Con un gesto di stizza, la lasciò sbattere contro il muro. «Questa la fai levare tu.»
«Direi che la cosa migliore sarà chiedere a Marita di sfilarla.»
«Fa' il cazzo che ti pare, io me ne vado a dormire. 'Notte.»
«Buenas noches, Lovi!»
Trovò la forza di muoversi e si affrettò a farlo.
Sembrava un normalissimo scambio di frasi. Era come se non fosse successo nulla. Belgio sorrideva, Spagna diceva cazzate, lui rispondeva male.
Era come se non fosse successo nulla, era tutto come prima. Quindi perché avrebbe dovuto continuare ad imporre a Manon la presenza di un ragazzino incapace e rancoroso che non faceva altro se non vivere consumandosi d'invidia?

.

Note:
[ Personaggi ]

* La "bruja" (strega) nominata è, come intuibile, la regina Elisabetta I (1533-1603). Fu sotto il suo regno che l'Invincibile Armata venne meno al suo nome.
* Il "re inglese passato da Defensor Fidei a fautore di uno scisma nella Chiesa" è Enrico VIII d'Inghilterra, fondatore della Chiesa anglicana.
* Il nome di OC!Catalogna, "Jordina", viene da San Giorgio, patrono della Catalogna, "Sant Jordi" in catalano.
* Il cognome che ho scelto per Belgio, "Hene", viene dal fiume Haine (Hene in olandese), da cui prese il nome la Contea di Hainaut.
[ Storiche ]
* Nel 1659, la Spagna era in guerra con svariata gente:
- vs la Francia, la Guerra franco-spagnola, dal 1653 al 1659;
- vs l'Inghilterra (feat. Francia dal 1657), la Guerra anglo-spagnola, dal 1655 al 1660;
- vs il Portogallo, la Guerra di restaurazione portoghese, dal 1640 al 1668
E nessuna di questa serie di guerre volgeva a suo favore.
La Guerra franco-spagnola si chiuse nel 1659, con la Pace dei Pirenei, a seguito della sconfitta della Spagna ad opera di Francia, Inghilterra e Paesi Bassi nella Battaglia delle Dune, o Battaglia di Dunkerque (1658), al confine con il Belgio. La Pace dei Pirenei confermò la Francia (Il cui re, all'epoca, era Luigi XIV, il celebre Re Sole) come potenza in ascesa, mentre decretò l'inizio della decadenza della Spagna.
Nella guerra contro il Portogallo, il 14 Gennaio 1659 la Spagna venne sconfitta nella Battaglia de las Líneas de Elvas.
Quanto alla guerra contro l'Inghilterra, di undici battaglie la Spagna ne vinse solo una (l'Assedio di Santo Domingo), e credo quest'informazione basti. [ 1, 2, 3, 4, 5, 6 ]
* Tra il 1650 e il 1660, i Paesi Bassi furono coinvolti in svariate guerre: oltre a partecipare alla sopracitata Battaglia delle Dune, s'impelagarono in una guerra contro l'Inghilterra (la Prima Guerra Anglo-Olandese, perché sì, ce ne furono ben quattro), dal 1652 al 1654, che si risolse con la vittoria inglese, e vinsero la Battaglia del Sound (1658), parte della Seconda Guerra del Nord, come alleati della Danimarca-Norvegia contro la Svezia. [ 1, 2 ]
* Tra il 1654 e il 1657, la Repubblica di Venezia organizzò una serie di spedizioni nello Stretto dei Dardanelli, non tanto per sconfiggere l'Impero Ottomano quanto per ridurre la sua pressione sull'isola di Creta e per contenere la sua espansione.
Nonostante le vittorie veneziane, non ci fu nessun vero progresso, se non quello di far desistere l'Impero Ottomano da attacchi contro la Dalmazia e nell'Adriatico. Le spedizioni veneziane nei Dardanelli furono comunque benviste in Europa, contribuendo ad innalzare il nome di Venezia. [ 1 ]
* Nel 1656, il Regno di Napoli fu piagato dalla peste, giunta dalla Sardegna, e prima ancora dalla Spagna. A causa di un viaggio di un infetto, la peste finì con il colpire anche Roma. Ancor prima, il Regno di Napoli aveva temuto per il Vesuvio, tornato ad eruttare tra il Dicembre 1631 e il Gennaio 1632. [ 1, 2 ]
* Il 6 e il 7 Novembre 1659 avvennero due cose: il 7 fu firmata, in un isolotto a metà tra la Spagna e la Francia, la Pace dei Pirenei; il 6 e il 7, un terremoto di intensità 8-10 Mercalli (6.5-7.3 Richter) colpì la Calabria. [ 1 ]
* I Paesi Bassi furono la prima nazione "sottoposta" europea ad ottenere l'indipendenza così come è comunemente intesa. I casi precedenti furono San Marino (Repubblica indipendente già dal 301 d.C.), Svizzera (1291; I tre cantoni originali segnarono un'alleanza contro il Sacro Romano Impero, distaccandosene in seguito alla morte del sovrano) e Svezia (1523; Lasciò l'Unione di Kalmar - comprendente Danimarca, Norvergia e isole sottoposte a quest'ultimo, come l'Islanda o le Fær Øer - a seguito dell'elezione di re Gustavo I Vasa). [ 1 ]

Un finale in allegria per il capitolo più lungo~ (In realtà, a me sembrava "solo" malinconico ma, quando l'ho letto alla mia beta, lei mi ha messo in mano un biglietto per Fanculo, quindi non so-) I prossimi finali di capitolo saranno meno emo, ve l'assicuro.
Un paio di cose random. Gilbert è definito "fratello" di Sacro Romano Impero. Ovviamente è voluto, ovviamente il motivo è ovvio. (!) Poi, la croce di Antonio. Non so se abbia una base canon o se sia germogliata spontaneamente nel magico mondo delle fanart, ma ci sta troppo per non appoggiare la sua esistenza. (ri-!)
(Nota a parte: Se vi sembra che Antonio faccia cose inquietanti, avete ragione.)
Quanto a Jordina, Catalogna, c'è da dire qualcosa di più. Era previsto che apparisse, così come Portogallo - Nessun ruolo importantissimissimo, avrebbe avuto tipo lo screentime di Lussemburgo. Tuttavia, ho poi scoperto che la scena in cui sarebbe dovuta esserci era collegata ad un mio fraintendimento storico (A mia discolpa c'è da dire che non pensavo che esistessero I TRATTATI DI PACE A RATE), e che quindi non ci sarebbe stato modo di farla apparire in concreto (né lei né Portogallo), dato che il punto di vista è fisso su Romano (Non nel senso che Lovino non la veda mai, nel senso di apparire fisicamente nella storia-) (Quante parentesi ho aperto in questa frase?) (Va', apriamone un'altra). Niente, questo per dire che il fatto che Manon la chiami per nome è anche una sorta di piccolo cammeo della povera Jordina, privata del suo screentime-
Spero che questo capitolo sia stato di gradimento!
  
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