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Autore: Luinloth    05/12/2020    7 recensioni
Gli angeli sono scesi sulla terra e hanno soverchiato l’umanità, regredendola ad uno stato quasi medievale. Gli umani lavorano come schiavi alla costruzione di una torre, di diverse torri sparse intorno al globo, ma nessuno sa cosa succederà una volta che il loro lavoro sarà concluso. John Winchester è a capo di una delle cellule della Resistenza e Dean nei confronti degli angeli non ha mai provato altro che odio, per ciò che hanno fatto alla sua famiglia, per ciò che hanno fatto a Sam. Finché, un giorno, Castiel non viene assegnato al suo cantiere e tutte le certezze che aveva iniziano a sgretolarsi. Ma come gli ripete spesso suo padre, un umano non dovrebbe mai fidarsi di un angelo.
80% AU, 20% what if (vi assicuro che non è così complicato come sembra)
Dal testo:
«Perché?» […]
«Perché ho sempre creduto che non mi importasse» […] «Ma mi sbagliavo»
Genere: Angst, Drammatico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester, Sam Winchester
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Nessuna stagione
Capitoli:
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Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene



 

29. Acciaio

 

16 giugno 2009

Affatto pentito un emerito cazzo.

«Lo prenderò a pugni»

Alla sua sinistra, Sam gli avrebbe certamente dato ragione. 

Senonché aprire la bocca in quel momento avrebbe significato incamerare un quantitativo ancora maggiore di quell’aria nauseabonda, e il colorito di suo fratello era appena riuscito a recuperare una sfumatura vagamente salubre, dopo venti minuti trascorsi a trattenere i conati.

«Parola mia, questa è la volta buona che gli cambio i connotati»

Dal canto suo, Dean era troppo teso persino per vomitare, o per prestare attenzione all’odore pestilenziale che impregnava le pareti del cunicolo scuro che lui e suo fratello stavano attraversando.

Le fogne.

Le fottute, sgocciolanti, schifosissime fogne.

Non erano bastate quattordici ore appiattiti sul fondo di una barchetta che doveva avere pressappoco la stessa età di Missouri, no. 

All’altezza del Lincoln Tunnel, a circa due chilometri in linea d’aria dall’Empire State Building, lui e Sam si erano separati dal resto degli umani e avevano imboccato il ‘canale di scarico delle acque reflue’, come Crowley l’aveva definito un secondo prima di spiegargli che avrebbero dovuto infilarcisi dentro e percorrerlo fino ad arrivare al basamento interrato del grattacielo.

Quando Dean gli aveva chiesto come avesse fatto a procurarsi, non solo le piantine dettagliate di quasi ogni piano dell’edificio, ma persino lo schema planimetrico dell’impianto idrico sotterraneo di Manhattan, l’uomo aveva alzato le spalle e aveva mugugnato qualcosa che assomigliava a un fosco ‘ognuno ha i propri hobby’. 

Più probabilmente — aveva riflettuto il ragazzo — erano anni che l’ex Collaborazionista era alla ricerca di un modo per svignarsela dalla Corte — e l’aveva anche trovato, a giudicare dalla scioltezza con la quale le sue dita indicavano tale o talaltro passaggio sulla cartina — ma non aveva mai avuto il coraggio di metterlo in pratica.

Che poi, se anche fosse riuscito a fuggire, non avrebbe di certo saputo dove andare; non con quella giacca azzurrognola e la reputazione che si portava appresso.

«Sam, dammi una mano»

Il maggiore controllò per l’ennesima volta che fossero arrivati nel punto giusto, sul percorso che Crowley aveva loro tracciato, gettò a terra la sacca che aveva finora tenuto in spalla e ne estrasse quattro piccoli cilindretti gialli.

«Queste vanno piantate qui e qui» gli ricordò, allungandogliene due, assieme a un vecchio scalpello arrugginito. Sam rispose con un silenzioso cenno d’assenso e conficcò lo scalpello nella parete di calcestruzzo davanti a lui. 

Lo sciabordare dell’acqua putrida che correva verso il mare — lungo il canale muffoso che si trovava ad appena venti centimetri dal marciapiede su cui loro si fermati — coprì buona parte del rumore.

Dean tirò un sospiro di sollievo. 

Si accovacciò sui talloni, impugnò saldamente il suo scalpello e si mise anche lui all’opera.

Le quattro micro cariche d’esplosivo andavano posizionate ad almeno dieci centimetri di profondità all’interno del muro. Non era un lavoro particolarmente difficile e la roccia era vecchia e impregnata d’umido, in poco meno di mezz’ora avevano già finito.

Più che un esplosione, si trattò di un tonfo sordo. Di quattro piccoli colpi soffocati, anzi, il cui brontolio venne anch’esso portato via dallo scarico della fogna.

Sam punzecchiò un’altro po’ la parete così indebolita finché il reticolo di crepe provocato da quelle — per quanto piccole — ben calibrate deflagrazioni non si sfaldò in un varco abbastanza grande da potercisi passare attraverso.

Oltre il calcestruzzo sfondato — nel cono di luce giallognola che la torcia di Dean proiettava attraverso il buco — s’intravedeva un locale dai muri intonacati, una porta rugginosa e una strana specie di tombino, proprio al centro del pavimento.

Il vano di servizio al cui interno si trovava il pozzetto d’ispezione fognaria dell’Empire State Building.

L’impianto idraulico del grattacielo convogliava tutti gli scarichi in quattro collettori principali, ma il pozzetto d’ispezione soltanto di uno di questi era stato interrato dentro la struttura — e ad appena un muro di distanza dai tunnel delle fognature — anziché all’esterno, sotto la strada.

Mentre analizzavano i dettagli del percorso — una manciata di giorni prima, ancora nel vecchio deposito di Poughkeepsie — Crowley si era lanciato in una spiegazione incredibilmente tecnica riguardo al cosa fosse e al cosa servisse suddetto elemento ingegneristico, ma va da sé, nessuno l’aveva minimamente ascoltato.

La sua esauriente descrizione si era interrotta a metà tra ‘un indispensabile requisito per la manutenzione’ e ‘un collegamento con le tubature’, ma in ogni caso a che cosa servisse il benedetto pozzetto a Dean non sarebbe potuto fregare di meno. 

L’unica cosa importante era che, adesso, lui e Sam si trovavano dentro l’Empire State Building. 

Dean puntò la torcia verso il soffitto.

«Beccata!»

Le indicazioni di Crowley erano state precise quasi al centimetro: la grata del condotto d’areazione luccicava nell’angolo in alto della parete, a poco più d’un paio di metri d’altezza, e non si trattava di un condotto qualsiasi. Molto più ampio del resto delle condutture sotterranee, era direttamente collegato al canale centrale di circolazione dell’aria che risaliva senza sbarramenti fino al centesimo piano.

D’altronde già negli anni Cinquanta si sapeva — aveva chiosato l’ex-Collaborazionista, picchiettando con la matita sulla cartina — che i pozzetti d’ispezione fognaria necessitavano di continua ed adeguata ventilazione. (Dean aveva roteato gli occhi con tale veemenza che persino Missouri si era messa a ridere).

Sam riuscì ad allentare le viti che saldavano la grata al muro, la sfilò via, si aggrappò con le dita alla cornice metallica che delimitava il bordo del condotto e si issò, sbuffando, al suo interno. Dean lo raggiunse subito dopo.

Anna avrebbe aspettato che loro fossero sufficientemente in alto — come anche Dean ricordava, era impossibile teletrasportarsi dentro la Corte — e poi avrebbe utilizzato il loro stesso passaggio per introdursi nell’edificio.

Era praticamente impossibile che gli angeli si accorgessero del varco che si erano aperti nel sottosuolo, semmai li avessero scoperti sarebbe stato nel condotto d’areazione, oppure li avrebbero sorpresi lungo le scale, o a metà di uno dei loro corridoi tutti uguali.

Semmai. Beh.

L’unica cosa su cui erano stati tutti d’accordo — dentro l’angusto locale di stoccaggio delle apparecchiature elettroniche — era che, presto o tardi, gli angeli li avrebbero individuati.

L’intera attenzione della Corte sarebbe stata puntata su di loro e Anna avrebbe avuto il tempo di raggiungere Michael — come potesse la presenza di un Arcangelo essere percepita dal resto della truppa celeste a decine di metri di distanza per lui sarebbe sempre rimasto un mistero, ma tant’era — e forse persino la tempestività di piantargli un pugnale nel petto, o una pallottola in fronte — quello era un altro particolare che non gli era del tutto chiaro — prima che lui la polverizzasse con uno schiocco di dita.

Ma per quando gli angeli li avessero trovati, Dean voleva avere Castiel dietro di sé.

Vivo, intero e senziente.

Al resto avrebbe pensato dopo.

Sam procedeva davanti a lui: vista migliore e memoria più acuta, e con suo fratello a indicargli la strada il senso di claustrofobia che gli trasmetteva il metallo lucido di cui era rivestito il condotto pareva persino attenuarsi.

Dal canale d’areazione principale si diramava una complicata serie di collegamenti secondari, per la maggior parte troppo stretti per potercisi intrufolare. Soltanto ogni cinque piani, in corrispondenza di quelli che dovevano essere i punti di manutenzione dell’impianto, le biforcazioni del tunnel erano sufficientemente larghe da permettere loro di passare. 

Dean si asciugò il sudore dalla fronte.

Non era una salita in verticale, il canale si snodava spezzato nelle viscere del grattacielo, alternava tratti piani — in cui si limitavano a gattonare silenziosamente sulle lastre metalliche — ad altri completamente perpendicolari al suolo, e se in quei punti il condotto non fosse stato fornito di corte ma funzionali maniglie — un po’ come i pioli di una scala — avrebbero avuto non pochi problemi a risalirlo.

Sam si fermò in corrispondenza dello snodo dell’ottantesimo piano.

«Credo… credo che ci convenga uscire qui» sussurrò.

Dean sollevò un sopracciglio.

Teoricamente avrebbero avuto la possibilità di arrivare direttamente all’ottantacinquesimo, appena un livello sotto l’appartamento in cui avrebbe dovuto ancora —  almeno, stando a quanto gli aveva detto Claire — trovarsi Castiel, ma Crowley gli aveva caldamente sconsigliato di utilizzare quel passaggio. 

Alcuni anni prima il soffitto di quel piano aveva subito una serie di cedimenti che non era sicuro fossero stati sistemati del tutto, e piombare nel bel mezzo del corridoio in una nube di intonaco e calcinacci non corrispondeva esattamente ai concetti di discrezione e prudenza con i quali Charlie aveva riempito i tre quarti delle loro ultime giornate trascorse a Poughkeepsie, quindi — sempre teoricamente — rimanevano due possibilità.

Uscire subito allo scoperto e raggiungere l’ottantaseiesimo piano a piedi, utilizzando le scale, oppure salire ancora attraverso il canale d’areazione e arrivare fino al novantesimo, per poi scendere.

Entrambe le opzioni si prospettavano ugualmente orrende, ma la prima avrebbe implicato posare di nuovo i piedi — per quanto per pochi passi — sulla moquette nera dell’ottantaquattresimo piano.

Perciò, di fatto, per Dean, l’opzione era sempre stata una sola.

«Sam, non dire cazzate» sibilò, accennando alla cartina stropicciata che suo fratello teneva aperta sulle ginocchia, ormai a stento decifrabile alla luce della sua pila elettrica quasi scarica «E poi così dovremo percorrere solo quattro piani anziché sei» aggiunse.

Le labbra di Sam si arricciarono in una smorfia tormentata: in quel modo avrebbero evitato Lucifer, ma raggiungere il novantesimo piano avrebbe significato sbucare dritti dritti nel regno insanguinato di Naomi.  

La torcia di Dean emise un debole ronzio e cominciò a sfarfallare pericolosamente.

L’autonomia di quell’aggeggio non era poi così corta, valutò il ragazzo, perciò erano di certo trascorse già diverse ore da quando lui e Sam si erano incamminati nelle fognature.

Anna doveva essere già nel grattacielo — forse solo qualche decina di metri sotto di loro — e gli uomini della Resistenza dovevano essere già arrivati al tunnel tra la quinta e la trentaquattresima strada. 

«Muoviamoci» 

La pila elettrica di Dean si spense pochi secondi dopo. 

Quella di Sam resistette fin quasi alla fine del tunnel, abbandonandoli giusto all’imbocco dello snodo del novantesimo piano, e loro furono costretti a percorrere l’ultima ventina di metri completamente al buio.

Per questo, in un primo momento, lui quasi non ci fece caso.

Quando suo fratello — dopo averle cercate a tentoni per almeno una buona decina di lunghissimi e frustranti minuti — riuscì finalmente ad allentare le viti della griglia metallica e a mettere il naso fuori dal condotto, Dean lo seguì attraverso quell’oscurità ovattata alla quale i suoi occhi si stavano pian piano abituando e ci mise qualche istante ad accorgersi che quel buio non era normale. 

Non erano più nell’impianto di ventilazione. Fuori era pieno giorno e i livelli superiori dell’Empire State Building abbondavano di finestre: le ricordava chiaramente, sulle planimetrie che Crowley aveva loro mostrato e che lui e Sam avevano imparato pressoché a memoria prima di lasciare il deposito di Poughkeepsie.

Eppure intorno a loro ogni cosa era tenebra e acciaio.

Per quanto strizzasse gli occhi Dean non riusciva a scorgere nemmeno una lampadina attaccata al soffitto, o da qualsiasi altra parte.

La sola, fievole, sorgente luminosa, che provasse a scalfire la densa notte nella quale cominciava quasi a sentirsi galleggiare, era una traballante lama di luce bianca in fondo al corridoio in mezzo al quale lui e suo fratello erano sbucati. 

Corridoio che era molto più stretto di quanto Dean si sarebbe immaginato, e stranamente calmo: non si udivano pianti, né lamenti, né grida in lontananza. Incassate nel muro, a intervalli regolari, s’intravedevano solo delle alte lastre metalliche, alcune con una strana specie di finestrella sporgente, come una sorta di sportello o di scuro.

La sua mano destra corse istintivamente a cercare il profilo rassicurante della pistola che teneva assicurata alla cintura.

Al suo fianco, Sam sembrava turbato almeno quanto lui. I suoi occhi si muovevano frenetici da una parte all’altra, come alla ricerca di un punto di riferimento mancante, e quando Dean chiuse le dita intorno al suo gomito, in una muta richiesta di conferma sulla direzione da prendere, il più piccolo per poco non sobbalzò. 

Proseguirono lentamente, per un paio di minuti, nel senso opposto rispetto alla lama di luce bianca.

Il silenzio che li avvolgeva era talmente irreale, e il buio così fitto, che Dean si ritrovò a chiedersi se non avessero sbagliato strada e fossero per caso finiti in una qualche zona inutilizzata del grattacielo, in qualche andito dimenticato, non segnato neanche sulla mappa.

Persino i loro passi sembravano non produrre suono.

Era sul punto di chiedere a Sam di ricontrollare la cartina — anziché allontanarsene, avrebbero potuto avvicinarsi allo spiraglio luminoso in fondo al corridoio e assicurarsi di essere nel posto giusto, invece di rischiare stupidamente di perdersi in quell’oscurità inattesa — quando si rese conto che suo fratello si era fermato una manciata di metri dietro di lui, davanti ad una delle lastre d’acciaio montate sulla parete.

Fissava qualcosa in corrispondenza della finestrella, anzi, del vero e proprio sportello — l’unico aperto, evidentemente, altrimenti Sam non l’avrebbe mai notato — incastonato sul pannello metallico.

Dean lo raggiunse, guardingo, ma ormai era talmente convinto di trovarsi nel posto sbagliato — nessun rumore, niente urla, niente sangue che colava dai muri — da sentirsi sufficientemente sicuro di poter evitare il linguaggio dei segni. 

«Sam…» sussurrò, avvicinandosi «Che cosa stai…»

Ma si sbagliava.

Oh, se si sbagliava.

Perché la lastra d’acciaio su cui suo fratello aveva appena posato le dita altro non era che una porta, fredda, senza serratura, che si apriva su una stanza dalle dimensioni decisamente inusuali ma che Dean avrebbe saputo riconoscere fin troppo bene — perché era stato in una cella molto simile che lui aveva trascorso la notte più disperata della sua vita, finché Castiel non gli aveva tolto quella benda dagli occhi — e perché, in quella cella, c’era Gabriel.

La scarica di adrenalina che risalì fulminea la sua colonna vertebrale gli montò un fischio acuto nell’orecchio destro che lo assordò completamente per una decina di secondi.

Erano davvero al novantesimo piano. 

Ad osservare l’interno di una delle famigerate ‘celle senza luce’ di cui Claire gli aveva fatto menzione mentre si asciugava le lacrime sulla sua maglietta, solo che non erano semplicemente le celle, ad essere senza luce. 

Era l’intero corridoio.

Naomi doveva aver fatto murare tutte le finestre.

Quando il suo udito ritornò normale Sam si stava già adoperando per aprire la porta: aveva poggiato entrambi i palmi sulla superficie levigata e borbottava parole incomprensibili a bassa voce — il frutto delle sue interminabili lezioni di enochiano con Jack — fermandosi di tanto in tanto con la fronte aggrottata, nel tentativo di richiamare alla memoria fino all’ultimo fonema angelico utile.

Il maggiore ritornò con lo sguardo alla finestrella. 

La grandezza della cella non superava i due metri per due, ma Gabriel se ne stava seduto — inginocchiato sui propri talloni — giusto in mezzo, e lo fissava dritto in viso esattamente come era accaduto durante la notte in cui era nato Jack, e lui l’aveva sorpreso senza scarpe, fuori dalla sua stanza, alla ricerca semi-convulsa di Castiel. 

In quel buio, però, il ragazzo riusciva a stento a distinguere la sagoma dell’Arcangelo, nonché appena una parte dei suoi lineamenti. Il candore immacolato dei suoi vestiti certamente aiutava, ma di fatto lo scintillio degli occhi di Gabriel era in quel momento l’unica debole fonte di luce a sua disposizione.

La lastra d’acciaio si sganciò dal muro con uno scricchiolio sinistro. 

Dean tirò fuori la pistola ed ebbe giusto il tempo di rialzare gli occhi su Sam prima che questi, nello spazio di tre soprannaturali falcate, si precipitasse nella minuscola stanzetta, si inginocchiasse davanti ad un decisamente troppo taciturno Gabriel, si piegasse in due e…

Dean si tappò la bocca con la mano libera, perché altrimenti la sua bestemmia l’avrebbero sentita fino in Colorado.

Per carità, a proposito del tipo di relazione consenziente che durante i quattro anni precedenti suo fratello avesse deciso di intrattenere con nientemeno che — santa merda — un altro Arcangelo, lui aveva ancora un discreto quantitativo di dubbi che prima o poi qualcuno avrebbe dovuto sciogliergli, ma era piuttosto sicuro che non si trattasse del genere di rapporto che induce il vomito.

Sam finì di rimettere e sputacchiò l’ultimo rimasuglio di bile in un angolo.

Gabriel non si era mosso d’un millimetro né aveva detto una sola parola — mentre Sam rigurgitava l’anima pressappoco sulle sue ginocchia — si era limitato a spalancare gli occhi e a girare la testa verso di lui, e quella situazione stava cominciando a farsi decisamente surreale. 

Al diavolo le reticenze.

Dean recuperò l’accendino dalla sacca.

«Figli di…»

Gabriel alzò un sopracciglio in un’elegante smorfia di disapprovazione che non sortì alcun effetto: il ragazzo continuò a sibilare insulti sempre più coloriti mentre rituffava le mani nella sacca alla ricerca del suo coltello.

Ma l’Arcangelo, d’altronde, di più non poteva fare.

Non con le labbra cucite.

«Ci penso io…» mormorò Sam, rimettendosi diritto «Tu fammi solo un po’ di luce…» 

Lui gli passò di buon grado il coltello e indietreggiò, spostandosi leggermente di lato per lasciare a suo fratello il più ampio spazio di manovra possibile. E perché avvertiva anche lui, adesso, una sgradevole e quantomai nauseante pressione sullo stomaco.

Il suo status di Arcangelo era riuscito a risparmiargli la vita e forse anche la tortura, ma in compenso Michael, dopo avergli probabilmente anche curato le ferite riportate durante lo scontro con Raphael — tralasciando l’aspetto pietoso della sua bocca, infatti, Gabriel sembrava godere di perfetta e invidiabile salute — doveva essersi premurato di mettere suo fratello in condizioni di non nuocere ulteriormente alla causa. 

Dean rabbrividì.

In condizioni di non poter fare praticamente niente.

L’Arcangelo aveva i polsi legati dietro la schiena — così come le  caviglie — e l’unico movimento non doloroso che quella posizione costretta doveva permettergli era la rotazione più o meno libera del collo.

In sostanza, Gabriel era stato degradato allo stato di vecchio soprammobile, e conseguentemente relegato in una scatola d’acciaio dalla quale non sarebbe mai più uscito.

«Dean, avvicinati non… non riesco a vedere niente…»

Il filo del coltello era troppo rozzo e i punti — incrostati e tirati fino all’ultimo con precisione raccapricciante — troppo piccoli. E per quanto si sforzasse la presa di Sam intorno all’impugnatura non era poi così salda: di tanto in tanto la punta scivolava oltre la traccia nera della sutura, il torace di Gabriel si alzava e si abbassava di scatto e lui strizzava le palpebre, mentre una nuova scia di sangue lasciava le sue labbra. 

Dean aveva perso il conto delle volte in cui suo fratello aveva bisbigliato ‘Mi dispiace’ e l’Arcangelo aveva riaperto immediatamente gli occhi soltanto per poterli alzare al cielo, con un’espressione che sarebbe potuta risultare persino comica, se solo fosse comparsa sulla sua faccia in un altro frangente.

Sam sfilò via l’ultima cucitura e abbandonò il coltello sul pavimento.

«Immagino che tu non possa ancora curarti da solo…» sussurrò rialzandosi e portandosi rapidamente alla spalle di Gabriel per esaminare le costrizioni che lo immobilizzavano «Devono essere simili alle manette anti-angelo di Charlie, non sono molti i sigilli in grado di bloccare i poteri di…»

Gabriel si tese in avanti e sputò un coagulo di sangue scuro.

«Sam…» biascicò, ad un volume a malapena udibile. 

«…i poteri di un angelo, figuriamoci quelli di un Arcangelo, ma Jack mi ha spiegato che…»

«Sam…»

«…potrebbe volerci qualche minuto, ora non sono certo di ricordare bene ma…»

«Samuel…»

Apparentemente sordo persino alla vibrazione del proprio nome completo, suo fratello continuava ad armeggiare in uno stato di logorroica trance intorno ai polsi ammanettati dell’Arcangelo.

«Mi perdonerai mai, Samuel?»

Sam si fermò.

«Per… per cosa?»

Dean si tirò di nuovo in piedi e tornò, discretamente, a scrutare il buio attraverso la finestrella.

«Avrei dovuto portarti via da lì lo stesso giorno in cui ti ho trovato semi-svenuto su quella moquette»

La voce di Gabriel era molto diversa da come lui la ricordava; non era limpida, né tantomeno stentorea; assomigliava di più a un sommesso gorgoglio.

«Gabriel, non…»

«Mi sono comportato da codardo»

«Lo sai che lui non te l’avrebbe mai lasciato fare»

Nonostante fosse girato di spalle, a Dean parve quasi di vedere la schiena di Sam che si drizzava.

«Avrebbe fatto a pezzi Jo, ed Ellen, e dopo anche… anche te» continuò suo fratello, risoluto, nonostante l’Arcangelo stesse già provando a interromperlo «Perciò non hai un bel niente da farti perdonare, Gabe»

Il silenzio d’acciaio del novantesimo piano si ruppe con schianto secco.

Con l’eco aspra di schiaffo che rimbombò nel corridoio, rimbalzando sulle pareti grigie della cella, seguita da un lamento e da un basso tonfo, e da qualcosa che assomigliava a… un tintinnio?

Sam fece un balzo in avanti — estraendo la sua pistola e parandosi davanti a Gabriel, ancora legato e pressoché inerme, accroccato su stesso — pronto a fronteggiare qualsiasi minaccia stesse per sfondare la porta e aggredirli, ma una volta puntata l’arma contro la finestrella l’oscurità aveva già inghiottito ogni rumore.

Il minore abbassò il braccio e lasciò andare un sospiro angosciato.

«Dobbiamo muoverci» soffiò, rimettendo la sicura alla pistola «Dean…»

Ma Dean aveva smesso di ascoltarlo.

Il gemito che aveva appena attraversato il corridoio gli si era infranto addosso in una moltitudine di schegge di vetro.

Che un fulmine lo incenerisse se lui non fosse stato in grado di riconoscere quella voce. 

La sua voce.

Che annaspava sotto l’onda nera di uno schiaffo.

Si girò verso Gabriel ma le sue corde vocali non riuscirono ad articolare alcun suono, una delle schegge doveva essergli rimasta incastrata in gola.

«Ultima porta in fondo» 

La scheggia sprofondo giù e si conficcò poco sopra il suo sterno. 

«Segui la luce»

L’ultima sillaba finì per contorcersi in un sibilo che schizzò una nuova riga rossa all’angolo della bocca dell’Arcangelo. La riga si spezzò sul suo mento e colò sulla sua giacca bianca, macchiandola di grosse gocce nere.

«Io non credevo Dean, io… mi dis…»

Prima che Dean sgattaiolasse fuori, Sam gli aveva sfiorato la spalla e aveva bisbigliato qualcosa che lui aveva già dimenticato.

La scheggia continuava a scendere. Gli stava squarciando i polmoni.

La fiammella dell’accendino che suo fratello doveva aver appena acceso, nella cella, si rifletteva sull’anta metallica e proiettava buffe ombre arancioni oltre la finestrella. 

Dean camminò a ritroso, fino ad arrivare al punto in cui lui e Sam erano usciti dall’impianto di ventilazione e dopo proseguì ancora, verso la lama di luce alla fine del corridoio, che sembrava tagliare il buio in due. 

Grondare sangue luminescente.

La quiete irreale che fino a qualche secondo prima aveva accompagnato i suoi passi iniziò lentamente a incrinarsi.

«Sono stanca…»

Qualcuno parlava, oltre la lama di luce. 

«Sono veramente, veramente stanca…»

La porta davanti alla quale Dean si era fermato non aveva nessuno sportellino al centro; era un unico blocco d’acciaio, apparentemente lasciato socchiuso, da cui filtrava un chiarore intollerabile.

«Da quanti giorni siamo qui? Dieci?»

Il ragazzo accostò il viso allo spiraglio luminoso. 

L’angolo di visuale che quella stretta apertura gli concedeva non raggiungeva i dieci gradi e tutto ciò su cui i suoi occhi riuscivano a posarsi sfolgorava di bianco accecante.

«Ma anziché andare avanti sembri essere regredito allo stato delirante di un mese e mezzo fa»

Anche la figura che si muoveva avanti e indietro — entrando e uscendo dal suo ridotto campo visivo a intervalli orribilmente regolari — era candida, soltanto un po’ meno abbagliante del resto della stanza.

«Ne vale davvero la pena?»

Naomi si fermò oltre la portata del suo sguardo. 

«Voglio che tu mi risponda. Ne vale davvero la pena, Castiel?»

Dean non lo vedeva.

«Sorella…» 

Per quanto si contorcesse, si avvicinasse alla porta o storcesse il collo, le sue pupille non incrociavano altro che bianco elettrico. 

«Sorella, ti prego, ti…»

Lo schiaffo che zittì Castiel stavolta bruciò anche sulla sua faccia. 

«Ti avevamo concesso un’altra possibilità…»

Il ticchettio delle scarpe di Naomi sul pavimento riprese, ma molto meno controllato e molto più frenetico di prima.

«L’attacco a Bay Ridge poteva essere la tua occasione per dimostrare di essere davvero ritornato…» sibilò l’angelo «E io ero sicura che tu fossi ritornato, che gli avresti tagliato la gola senza battere ciglio e invece…»  

Il suono smorzato di uno sbuffo.

«Invece ti è bastato rivederlo una volta sola…»

«Me ne andrò via!» 

Il timbro di Castiel cominciò a salire disperatamente in altezza.

«Non intralcerò nessuno dei progetti di Michael, non cercherò la Resistenza, non… non cercherò lui, mi chiuderò nel ventre di una montagna e sarà come se non fossi mai esistito, mi…»

«Per essere un traditore, fratello, ti facevo più intelligente di così»

Naomi fece schioccare la lingua contro il palato, e Castiel s’interruppe di colpo. 

Di nuovo quel bizzarro tintinnio.

«Nessun altro angelo abbandonerà la Corte, quella piccola irriconoscente di Aniel è stata la prima e l’ultima»

In pieno contrasto con quell’impietosa sentenza, le parole di Naomi si tinsero d’una sfumatura quasi morbida «Quando gli hai detto di non averla trovata…» chiese, dolcemente «E’ stata quella la prima volta che gli hai mentito?»

«Sorella, ti prego…»

«Michael avrebbe dovuto capirlo già allora… » sospirò lei «E allora sarebbe stato molto più facile farti rientrare nei ranghi ma così…»

«…n-non servirà a niente, non…»

«Sono stata evidentemente troppo ottimista nei tuoi confronti»

«NO!»

Le urla di Castiel erano uguali alle urla di un qualunque essere umano.

«Per favore… per favore non di nuovo…» 

Stridule.

«Naomi ti prego…»

Senza forma. 

«Ti prego, ti prego, ti-»

La prima cosa che Dean riuscì a mettere a fuoco fu la chiazza di sangue sulla parete.

La seconda, la sagoma ributtante di Naomi che si accartocciava da un lato: il proiettile le aveva trapassato il braccio destro, proprio nell’incavo del gomito, fermandosi nel muro dietro di lei.

Castiel fu solo la terza cosa che vide, dopo aver spalancato la porta d’acciaio con un calcio e aver esploso un colpo il cui frastuono doveva essersi sentito ad almeno trenta piani di distanza, ma che lui aveva a stento percepito.

L’angelo lo fissava a occhi sbarrati.

Le labbra spaccate, un livido violetto che gli si allargava sullo zigomo — lì dove era stato schiaffeggiato — la giacca e i pantaloni laceri e macchiati, come se li avesse tenuti addosso per mesi.

Un anello di ferro chiuso intorno al suo collo.

Incatenato al pavimento nemmeno fosse un cane.

Quando Castiel muoveva la testa, la catena tintinnava.












Ciao a tutti!
Un gigantesco benvenuto ai nuovi lettori che sono approdati in questi, ehm, placidi lidi nelle ultime settimane e un altrettanto sentitissimo — ma è una parola decisamente riduttiva — grazie a chi continua a seguire e a recensire questa storia .
Ok, il lavaggio del cervello che era stato fatto a Castiel non era poi così irreversibile, questa è una buona notizia, no?
*Castiel: taci, per l’amor del cielo Loth, taci!*
Ci rivediamo tra due settimane, probabilmente di domenica poiché sabato sarà una giornata molto incasinata in cui non so se avrò un’adeguata connessione internet (argh!)
Un abbraccio grande.
Take care *

P.S. Chiedo perdono a tutti i possibili ingegneri, architetti, idraulici et similia in ascolto. Tutte le conoscenze d'ingegneria civile che ho millantato in questo capitolo sono solo l'opinabile frutto di un'intensa serie di nottate trascorse su Wikipedia (e per cui Google continuerà a suggerirmi siti dove acquistare tubi e guarnizioni fino alla prossima primavera).

   
 
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