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Autore: AnnabethJackson    09/12/2020    0 recensioni
[VMIN - molti accenni SOPE]
Seoul, estate.
Taehyung, rampollo di buona famiglia, deve consegnare un progetto di fotografia per uno stupido corso a cui lo ha iscritto la madre. Si trova sulla banchina della metropolitana, la macchina fotografica in mano. Basta uno scatto e si trova a guardare gli occhi vivi di un ragazzo, impressi nella fotografia.
Occhi che parlano e che significano tutto per lui.
Ma quando alza lo sguardo per cercarlo, quel ragazzo è sparito.
Sei anni dopo la vita di Jimin si trova in una fossa. Un turbine di eventi l'hanno scosso nel giro di pochi anni, gettandolo in un vortice nero senza fine fatto di sensi di colpa e odio verso sé stesso. Malgrado fuori paia spensierato, forze non ne ha più.
Quando un ragazzo lo ferma, il suo unico pensiero è che è in ritardo per il lavoro. Il ragazzo gli restituisce il libro che ha dimenticato sulla metropolitana e poi si ferma a fissarlo.
Guarda Jimin come se possedesse la chiave dei suoi pensieri più intimi, come se lo conoscesse. Eppure, Jimin è sicuro di non averlo mai visto prima.
E poi, nello stesso modo in cui è comparso, quel ragazzo se ne va, senza dire una parola.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jeon Jeongguk/ Jungkook, Kim Taehyung/ V, Min Yoongi/ Suga, Park Jimin
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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2.METROPOLITANA

 


6 ANNI DOPO


 

Jimin chiuse il libro con un gesto secco, lo sguardo puntato sull’orologio da parete con la facciona di Hello Kitty che segnava le quattro e mezza.
C’era un motivo per cui odiava quell’oggetto e nulla centrava con il brand.
Per quella che doveva essere la decima volta solo quel mese, si ripromise di buttarlo. Non ricordava nemmeno se fosse stato un vecchio regalo ricevuto per scherzo, e poi finito a essere davvero utile, o se, in una delle tante fasi che avevano caratterizzato la sua infanzia e adolescenza, un oggetto ardentemente desiderato.
Una parte di lui tendeva a puntare sulla seconda ipotesi visto che, nemmeno la settimana prima, aveva riesumato un discutibile crop-top della stessa tonalità di rosa, con la stessa facciona del gatto bianco – che era chiaramente sotto effetto di allucinogeni – dall’angolo più remoto del cassettone della biancheria, tra delle mutande fluo e dei vecchi calzini bucati.
Che ci facesse lì quella canotta, sarebbe rimasto per sempre un mistero, anche se qualche sospetto lo aveva.
Concentrato sul capire come funzionasse quel rebus del ciclo di Krebs – dubitava che agli esseri umani fosse dato saperlo – non si era accorto di essere in ritardo sulla sua tabella di marcia ben collaudata.
Lasciando tutta la sua amata cancelleria sparsa sul tavolo, si alzò dalla sedia per recuperare il paio di jeans chiari che aveva lasciato asciugare sul davanzale della finestra.
Nel farlo però qualcosa cadde dalle sue ginocchia e un movimento fulmineo catturò il suo sguardo verso il basso, dove un gatto gli stava soffiando contro, la mezza coda mozzata ritta verso il soffitto.
«Scusami Erri, giuro che non l’ho fatto apposta» si scusò, perfettamente consapevole di star spendendo parole vane.
L’animale non poteva di certo capirlo. Eppure quello lo guardò per un istante sospettoso prima di rivolgergli senza tante cerimonie il sedere e andare a rintanarsi nel suo posto preferito in assoluto dopo le gambe di Jimin: lo stesso davanzale sopra cui stava asciugando il suo paio di jeans preferito.
Sospirò, consapevole che ormai il danno era fatto.
Infatti, sottraendo con gentilezza l’indumento da sotto le zampe dell’animale e grattandogli affettuosamente lo spazio tra le orecchie – gesto che Erri ignorò ostinatamente – il ragazzo guardò sconsolato la mole di peli neri attaccati per effetto elettrostatico sul tessuto.
Li indossò con rassegnazione e, solo nel sentire la chiappa destra più fredda del resto del corpo, si accorse che quelli erano ancora in parte bagnati.
Non poteva incolpare nessun altro se non sé stesso.
L’arte della stesura dei panni l’aveva sempre annoiato a morte, così come quella del ferro da stiro e del bucato, giusto per completare la triade. Per quelle mansioni c’era sempre stata sua madre.
Il tempo per pensare di cambiarsi non c’era, come era sicuro che non ci fossero nemmeno altri pantaloni puliti nell’armadio. Aveva già detto che odiava fare il bucato?
Lanciò un’occhiata all’ambiente e l’ennesimo sospiro gli uscì dalle labbra.
La sua stanza era sì più caotica del caos stesso – e no, il buon proposito che si fissava ogni primo gennaio di diventare ordinato non era mai arrivato a durare oltre il Seollal – ma era sicuro che quel dannato cellulare si nascondesse di proposito alla sua vista proprio quando più gli serviva.
Buttò a repentaglio i fogli con i suoi appunti, sicuro che fosse sotto quella tonnellata di carta colorata, ma dopo aver sprecato un buon minuto per nulla, si arrese.
Tra il cellulare perduto e un sempre più concreto ritardo, decise che il minore dei mali era il primo.
Per cui recuperò il suo immancabile zainetto vintage dall’angolo vicino al letto e uscì dalla stanza come una furia, percorrendo il piccolo corridoio angusto diretto alla porta.
Passò accanto alla cucina, posta sulla destra e solo quando ebbe superato lo stipite, la scena colta con la coda dell’occhio raggiunse il suo cervello.
Si bloccò.
Tornò indietro.
«Nonna, che stai facendo?»
Si considerava tutto sommato un ragazzo vissuto, parlando con modestia oggettiva. Aveva un background non insignificante, talmente tante storie da raccontare a ipotetici nipotini, o a chiunque fosse disposto in un lontano futuro ad ascoltarlo, da avere l’imbarazzo della scelta. Per cui era sinceramente convinto che poche cose a quel mondo potevano ancora lasciarlo a bocca aperta.
Trovare sua nonna a testa in giù con le sottili gambe coperte da lunghi pantacollant color viola acceso puntate verso il soffitto in perfetto equilibrio, beh, rientrava tra quelle.
«Nonna?»
«Hai bisogno di qualcosa, koibito? Sono nel mezzo della mia ora di meditazione, te l’ho detto ieri.»
Il volto di sua nonna, girato di centottanta gradi, non era rosso come sarebbe successo a un qualsiasi altro essere umano a testa in giù per un lungo tempo. L’espressione assolutamente rilassata e concentrata non subì mutazioni, né diede segno di volergli concedere un colloquio tornando in posizione eretta.
«Devo essermi perso questa informazione,» mormorò il ragazzo tra sé e sé, grattandosi la guancia.
Nonna Mae sotto quell’aspetto assomigliava a lui: scandiva la propria vita con il susseguirsi di periodi – ma sarebbe stato meglio chiamarle fisse – di durata indeterminabile con precisione.
L’ultimo, di questi periodi, durato la bellezza di quattro lunghi mesi, aveva visto la loro modesta casetta di città diventare l’equivalente di una foresta amazzonica in piena regola.
Nonna Mae aveva letto da qualche parte che circondarsi di quel genere di piante giovasse in qualche modo al benessere della pelle, una specie di rimedio naturale antirughe e antiage alternativo.
Purtroppo per lei, e per fortuna del nipote che non aveva potuto frequentare il salotto a causa del sovraffollamento fitologico, invece di trarne un giovamento aveva solo portato alla scoperta di essere completamente negata per la botanica.
Jimin ancora si chiedeva come quelle piante avessero potuto sopravvivere per quattro mesi prima di tirare le cuoia.
Finito il periodo foresta amazzonica – come lo aveva soprannominato il ragazzo – vi erano state un paio di settimane di stallo, in cui nonna Mae non aveva fatto altro che girare per casa senza meta.
Ora sembrava che un nuovo periodo – a giudicare dall’abbigliamento, dal tappetino floreale e dalla candela sul tavolo che emanava un terribile odore di rosa – fosse giunto, alla fine.
Jimin aveva accettato da tempo la singolarità di sua nonna.
Stava per chiedere delucidazioni, perfettamente consapevole di starsi per inoltrare in un terreno pericoloso, quando il suo sguardo cadde sul display del forno, di fronte ai suoi occhi, che gli fornì l’entità esatta di un ritardo che stava peggiorando sempre più.
Le spiegazioni avrebbero dovuto attendere.
«Nonna, io scappo a lavoro. Ti ho lasciato del maiale bollito da scaldare per cena nel frigorifero.»
Senza attendere oltre fece per tornare sui suoi passi verso l’uscita, ma venne bloccato per l’ennesima volta.
«Koibito, penso tu abbia dimenticato il cellulare sul tavolo,» lo richiamò nonna Mae con voce perfettamente udibile. Alla frase seguì poi un suono di gola che somigliava terribilmente a un ohm.
Il nipote spostò a intermittenza lo sguardo dalla figura stoica di nonna Mae al proprio cellulare, sul tavolo della sala, impossibile da notare dalla cucina.
«Come facevi a sapere…?»
Non finì la domanda, consapevole che fosse tutto inutile.
Nonna Mae ne sapeva una più del diavolo.
Recuperò il cellulare e finalmente uscì di casa, con la testa già proiettata sulla corsa che avrebbe dovuto fare per arrivare nel minore tempo possibile alla fermata della metropolitana.
«Ah, e Jimin-ya? Io non mangio carne animale, dovresti saperlo.»
Il nipote si bloccò sulla porta, giusto il tempo di scuotere la testa sconsolato. Era abbastanza certo che solo la sera prima il menù di sua nonna avesse previsto del Bibimbap.

 

[...]

 
Il rumore sferragliante della metropolitana avrebbe potuto dare fastidio ai suoi timpani se non lo avesse associato alla colonna sonora di tanti momenti importanti, sia felici che tristi, della sua vita.
Quello stridio aveva accompagnato ogni suo viaggio da casa a scuola, e ritorno, ogni tragitto verso i vari Gu di Seoul, ogni punto di ritrovo con amici, ogni momento in cui sulla banchina aveva ripassato a mente le sue coreografie.
Ricordava ancora con estrema precisione tutte le domeniche in cui i suoi genitori lo svegliavano di buon’ora, la mamma preparava un cestino ricco del prelibato cibo preparato con amore, e poi lo trascinavano in giro per Seoul, divertendosi a fargli scoprire ogni angolo di ogni Dong, ogni segreto che quella città aveva da offrire a chiunque fosse stato abbastanza curioso da di scoprirle.
Seoul era stata lo sfondo della storia d’amore dei suoi genitori, come erano soliti raccontargli. Dipingevano la città come una costante, quasi un terzo incomodo – sempre che esistesse un’annotazione positiva di tale parola.
E per quanto Jimin, i primi tempi, si lamentasse di voler restare a dormire almeno la domenica, pian piano era stato rapito da quell’atmosfera che, attraverso i racconti dei suoi genitori, gli facevano vivere quasi una sorta di favola, un racconto della buonanotte che aveva potuto toccare con mano centinaia di volte, molto meglio delle favole popolari.
La metropolitana era sempre stata una costante nel collegare tutte quelle ambientazioni suggestive.
Per Jimin, però, aveva anche un altro significato: era il posto dove negli anni aveva fatto gli incontri più bizzarri, dove aveva appreso consigli e ascoltato avventure attraverso le parole di completi sconosciuti; dove aveva colto ciò che più di bello c’era a quel mondo, dove aveva preso piccoli pezzetti di vita da ciascuno di quegli sconosciuti per costruire un puzzle unico e bizzarro che potesse essere usato come linea guida per affrontare i problemi della vita.
A Jimin era sempre piaciuto ascoltare le persone, assorbire e imparare da esse.
Il tradizionale proverbio “Chiedi la strada anche se la sai”, per quanto banale, era la sua filosofia di vita. Era seriamente convinto che anche l’individuo più sporco, brutto, cattivo e arcigno vivente a quel mondo avesse a suo modo qualcosa da offrire al prossimo.
Il suo sguardo andò a posarsi su una figura dalla schiena ricurva che avanzava arrancando verso di lui.
L’uomo di età indefinita, ma inevitabilmente condizionata dalla lunga barba bianca incolta e dalle righe d’espressione che gli solcavano il volto tutt’altro che lindo, procedeva sostenendosi a un vecchio bastone, gli occhi scuri e piccoli per metà celati da palpebre pesanti e un bicchiere di carta nella mano libera.
Protendeva l’arto in modo poco convinto in direzione degli altri passeggeri, senza dire una parola. Non era molto comune trovare vagabondi sulla metropolitana, ma in orari diversi da quelli di punta, soprattutto in periferia, poteva capitare.
Vedendo l’ennesima persona voltare la faccia in direzione opposta, il cuore di Jimin si strinse in una morsa.
Era più forte di lui: davanti alla diffidenza, aveva sempre reagito con sfrenata confidenza, forse anche con chi in fin dei conti non lo meritava.
Eppure, quando l’uomo gli giunse vicino, si limitò a lasciar cadere i pochi won che aveva con sé nel bicchiere, accompagnando il gesto con un sorriso gentile. Il signore lo ringraziò abbassando il capo, ma subito dopo proseguì per la sua strada e Jimin si ritrovò a fissare il vuoto.
Solo qualche anno prima non si sarebbe mai comportato in quel modo, non avrebbe sprecato quell’occasione per chiacchierare.
Ma quel blocco che si sentiva dentro era più forte dell’istinto, e ormai aveva un ascendente determinante su tutta la sua vita.
Per distrarsi da quei pensieri, che già occupavano buona parte delle sue giornate senza mai lasciarlo davvero, sollevò l’aletta di pelle scura del suo zaino e tirò gli stringhini per allargarne l’apertura.
Dal fondo recuperò il libro che stava leggendo ormai da settimane, uno dei tanti acquisti fatti tra le bancarelle del mercatino dell’usato che frequentava abitualmente vicino a casa la domenica mattina.
La copertina, di un neutro color beige su cui spiccava il titolo, aveva i bordi leggermente più scuri e le pagine, di carta spessa e ondulata come se in passato avessero visto la pioggia e poi i raggi del sole, risultava molto ruvida al tatto.
Jimin aveva amato dal primo istante quella consistenza sotto i polpastrelli, così come il profumo indescrivibile che poteva percepire tuffando il naso tra le pagine.
Lo aveva comprato incuriosito anche dalla breve sinossi stampata in prima pagina, ma per qualche motivo ora la lettura gli appariva pesante e lenta. Non per questo era determinato a giungere alla fine della storia.
Odiava lasciare le cose incompiute.
Dando uno sguardo all’esterno del vagone, apprese di essere ancora distante dalla sua meta, per cui si immerse nella lettura senza l’apprensione di avere poco tempo a disposizione. I suoi sensi, solitamente recettivi, divennero ora più attenuati mentre cercava di concentrarsi e immedesimarsi nel protagonista, un contadino ottocentesco.
Non passò però molto tempo prima di dover tornare alla realtà, richiamato da un suono attenuato a lui molto famigliare proveniente dal suo zaino. Il trillo di un campanello da bici era sinonimo di un messaggio in arrivo sul suo cellulare.
Jimin non si stupì nel leggere il nome comparso sul display.
Kookie: “Sei occupato?
Non ebbe nemmeno il tempo di elaborare quella domanda che il telefono prese a squillare tra le sue mani. Le note della melodia de “Il lago dei cigni” in versione chitarra elettrica saturarono l’ambiente, attirando non pochi sguardi curiosi – e anche un po’ infastiditi su di sé.
Si affrettò a rispondere, un po’ per rispetto per la quiete, ma soprattutto perché sapeva che quella chiamata non si sarebbe interrotta nemmeno se l’avesse ignorata per sempre.
«Mi spieghi per quale motivo mi chiedi se sono occupato, se un momento dopo chiami senza neanche aspettare la risposta?» domandò ironico Jimin che si trovava a rivivere quella scena per la centesima volta.
Dall’altro capo, Jungkook scoppiò in una risata divertita.
«Dalle mie parti io questa la chiamo buona educazione» gli rispose, e Jimin se lo immaginò con un’espressione di scherno stampata sul viso.
«Non so che strane regole civili vi insegnino dalle tue parti, ma per noi gente comune la buona educazione prevede di aspettare almeno un certo lasso di tempo tra la domanda e la risposta.»
«Beh, la gente comune è davvero strana» decretò Jungkook senza mezzi termini.
Jimin alzò gli occhi al cielo e scosse la testa, ma un vago sorriso gli solcava le labbra. Per quanto a volte fossero privi di senso ed irritanti, erano proprio i modi non comuni di Jungkook a renderlo speciale, tra le altre cose.
«Ti ricordo che le tue parti sono anche le mie parti. Per cui anche tu sei strano.»
«Punti di vista, immagino» minimizzò Jungkook. «Comunque, stiamo deviando dal discorso.»
«Quale discorso? Non mi pare che ne avessimo iniziato uno.»
«Ci vieni o no?» domandò Jungkook, ignorando completamente il suo ultimo intervento e dando per scontato – come era sua abitudine – che Jimin sapesse perfettamente di cosa stesse parlando.
Jungkook era fatto così: non gli era possibile contemplare l’idea che le persone non fossero sempre sulla sua stessa lunghezza d’onda, non certo per presunzione o supposizione.
«Mi sembra stupido chiederlo, ma come sempre non mi lasci altra scelta: venire dove, esattamente?»
«Alla mostra d’arte ovviamente! Ricordi che l’altro giorno ti ho parlato di quel mio vecchio compagno di studi, di cui ad essere onesti scordo sempre il nome, che pare aver allestito un’esposizione di non so che genere d’arte, in non so quale famosa galleria?»
«C’è almeno qualcosa che sai o ricordi?» domandò ironicamente Jimin, il quale cominciava a chiedersi se il problema fosse lui, che dimenticava tutto ciò che le altre persone parevano dirgli, o se fossero gli altri a dar per scontato che lui fosse sempre sul pezzo, anche quando la sua mente viaggiava per altri lidi.
Non che il mondo delle persone a cui voleva bene non lo interessassero, tutt’altro! Ma sia nonna Mae che Jungkook erano persone esuberanti – per usare un eufemismo – che ne pensavano una e ne facevano mille. Una volta anche Jimin era così, ma negli ultimi tempi pareva arrancare parecchio nello stare dietro a tutto.
«Ah. Ah. Spiritoso. Come insegna la buona educazione dalle mie parti, farò finta di non aver sentito» rispose Jungkook con finto tono offeso. «Si tratta di un ricchissimo, viziatissimo e probabilmente senza speranza figlio di papà che probabilmente si è stancato di spendere montagne di soldi che non ha guadagnato e che si è improvvisato nuovo geniale artista emergente. Se ricordo male non ha nemmeno finito l’università. A quanto ho capito, il padre gli ha organizzato una presentazione in piena regola a cui parteciperanno tutti. Anche lui
L’ultima parola venne pronunciata con una reverenza tale da essere percepibile anche dall’altra parte del telefono.
«Anche a costo di risultare ripetitivo,» disse Jimin dopo una piccola pausa. «Chi sarebbe lui
«SUGA ovviamente!» rispose Jungkook con voce vagamente offesa. «A quanto pare l’altro giorno non hai proprio sentito nulla di quello che ti ho detto, per cui ora farò lo sforzo di ripetermi. SUGA è uno scrittore emergente. Ha scritto quello che reputo la miglior raccolta di poesia degli ultimi anni. Te le ho anche fatte leggere qualche mese fa!»
Jimin alzò gli occhi al cielo inconsapevolmente. Sapeva benissimo della passione di Jungkook per la poesia moderna. Anche se il termine passione era riduttivo. Sarebbe stato meglio dire ossessione: mandare a memoria versi sconosciuti ai più era la cosa che preferiva fare in assoluto se si escludeva il girare video – passione di cui aveva fatto anche la sua professione.
«Ho saputo da fonti certe che SUGA è amico di questo tizio e che sarà presente alla mostra! Devo riuscire assolutamente a incontrarlo e a ottenere un autografo!»
«Beh, sono contento per te, sul serio. Ma io in tutto ciò che centro?» domandò Jimin perplesso, grattandosi la guancia.
«Chiaramente mi dovrai accompagnare! Vedrai, ci divertiremo insieme.»
Quella che doveva essere una notizia lieta, in realtà suonava più come una minaccia alle orecchie di Jimin.
«Ma in genere a questo tipo di mostre non invitano solo gente… importante?» chiese, più come tentativo di deviare il tema del discorso che non per vero interessamento. Quel mondo di lusso, ricchezza e ostentazione non le era mai interessato. Per di più che temeva di sentirsi completamente fuori luogo.
«Oh, non preoccuparti. Penso a tutto io. Noi andremo a quella mostra,» rispose Jungkook in tono fermo e per nulla scoraggiato. Quando si impuntava su qualcosa non c’era verso di fargli cambiare idea.
Jungkook era una delle poche persone con cui Jimin aveva sempre potuto mostrarsi per quello che era, nel bene e soprattutto nel male. Era stato uno dei pochi punti fermi della sua vita, soprattutto ultimi cinque anni in cui, di punti fermi, ne aveva avuto ben pochi.
Si conoscevano praticamente da una vita, seppure avessero un paio di anni di differenza, e agli occhi di chiunque il loro legame non passava affatto inosservato. Per quanto diversi caratterialmente, avevano un affiatamento, una spensieratezza e una familiarità l’uno con l’altro che solo anime affini potevano possedere.
Nessuno dei due ricordava il loro primo incontro. Essendo la finestra della stanza di Jungkook esattamente frontale a quella di Jimin, probabilmente si erano osservati per qualche tempo da lontano prima di finire a giocare a sasso, carta e forbice da dietro la rispettiva finestra.
Malgrado ormai fossero entrambi adulti, capitavano volte in cui, prima di dormire, di mettevano a fare quei tre gesti con le mani.
«Dobbiamo proprio?»
Dall’altra parte del telefono le giunse uno sbuffo appena trattenuto.
«Jiminnie non fare il solito guastafeste» gli rispose con voce lamentosa l’amico.
«Ma-»
«E prima che tu riprenda a protestare» aggiunse Jungkook con rinnovato vigore. «Tu verrai con me perché sono settimane che ti rifiuti di uscire adducendo a insostituibili turni di lavoro.»
Jimin alzò gli occhi al cielo per quella che gli sembrava essere l’ennesima volta. Non era da lui lamentarsi così tanto. Ma tante cose in quel periodo non erano da lui.
«Io non mi rifiuto affatto di uscire» chiarì esasperato. «Mi pare di averti già spiegato che la mia collega ha preso un permesso per farsi operare al ginocchio e che devo coprire anche i suoi turni dato che la clinica è a corto di personale!»
«Si, si. Dettagli.»
«Jungk-»
«Niente scuse» lo bloccò prima che potesse protestare. «Venerdì prossimo. Ore venti. E mettiti qualcosa di adatto, per favore.»
«Ehi, aspetta un secondo, vener-»
Stava per ricordargli la serata a tema kimchi che sua nonna organizzava ogni venerdì – scusa che suonava fiacca anche a lui – quando al suo orecchio giunse il segnale inconfondibile che poneva termine a quella chiamata.
Fissò il cellulare.
In altre circostanze avrebbe provato a imporsi, richiamando Jungkook e dicendogli chiaramente che non sarebbe andato, che non aveva voglia, ma sapeva che sarebbe stato tutto inutile.
Jungkook era un maledetto panzer quando ci si metteva – cioè sempre – ma soprattutto quando riceveva un rifiuto. Anzi, di fronte a un muro, la sua ostinazione aumentava esponenzialmente finché non otteneva tutto ciò che voleva, e anche più.
Non si faceva scalfire da niente e nessuno, soprattutto davanti ai frequenti rifiuti che Jimin gli rifilava.
Jimin era arrivato ad invidiare quel lato del suo carattere perché anche lui era così una volta.
C’erano momenti in cui quei giorni della sua vita vissuti pienamente gli mancavano tanto da fare male. Altri momenti non poteva far altro che lasciarsi trasportare alla deriva da una marea invisibile. Quella forza che dava vigore a Jungkook, e che era allo stesso tempo così familiare e così estranea, gli mancava molto.
Si sentiva impotente davanti a sé stesso e a ciò che capitava attorno a lui.
Era più semplice starsene in silenzio e accontentare il suo amico, sperando così di lasciarlo soddisfatta per un po’. Una mostra d’arte a quanto poteva equivalere? Due o tre serate di cinema, karaoke e giochi da tavolo?
Distratto dai suoi pensieri, spostò lo sguardo al di fuori del finestrino e per puro caso si rese conto che quella era la sua fermata.
«Merda.»
Lo slancio che si diede per alzarsi dal sedile e superare quelle poche persone che gli ostruivano la strada, lo fece quasi inciampare nei suoi passi.
Si scusò distrattamente con il povero malcapitato a cui era sicuro di aver pestato un piede e uscì dal vagone, chiedendosi se fosse destinato a correre come un disperato per tutto il resto della giornata. Sembrava che il ritardo fosse diventato una costante, per quanto solitamente Jimin si considerasse una persona puntuale – puntuale se messo a paragone con nonna Mae che aveva dichiarato guerra agli orologi già prima della sua nascita.
Perlomeno i dieci chilometri che si sforzava di correre ogni sabato mattina parevano finalmente servire a qualcosa, oltre che a fargli rimpiangere ogni singola volta di aver abbandonato il suo amato letto.
Davanti a sé però, trovò il solito ingorgo di persone in uscita, stipato davanti alle scale e ben allineato, per cui dovette rallentare. Constatò da una breve occhiata al suo telefono che, con l’ausilio di qualche Dio caritatevole, forse sarebbe riuscito ad arrivare in tempo per il suo turno.
Stava frugando nelle tasche dei jeans per recuperare la tessera dell’abbonamento da strisciare in uscita, quando qualcosa toccò la sua spalla.
Beh, non qualcosa, ma qualcuno.
Per la precisione un ragazzo, a meno di mezzo metro da lui, che ora lo stava fissando.
La prima cosa che registrò di lui furono due labbra abbastanza carnose leggermente dischiuse, poste su un volto glabro e squadrato, e sormontate da un naso dritto di tutto rispetto, che nell’insieme dava un carattere armonioso.
Arrivò poi a scrutare quegli occhi scuri alla luce soffusa della metropolitana che lo stavano fissando con insistenza, quasi volessero trapassarlo ai raggi X. Il fatto che Jimin stesse ricambiando lo sguardo non sortì reazione apparente.
Prima ancora di chiedersi chi diavolo fosse, cosa diavolo volesse da lui e perché diavolaccio lo stesse squadrando come se fosse un marziano, Jimin provò un moto di delusione insensato quando tornò con gli occhi su quelle labbra.
Chiariamoci, il problema non erano lo spessore o la forma, abbastanza armoniose in realtà, ma il fatto che fossero a riposo su un’espressione completamente imperscrutabile.
La bocca era la prima cosa che Jimin registrava di una persona. Era più forte di lui.
C’era gente i cui occhi andavano a fissarsi sul naso, su evidenti imperfezioni – se queste erano presenti – o su altrettanti occhi. Per non parlare di quelli che guardavano il sedere o una generosa scollatura, nel caso di donne. Piccoli riflessi quasi inconsapevoli dettati dal puro istinto e basati su ciò che più di una persona poteva attrarre.
Beh, per Jimin quel riflesso si rispecchiava nelle labbra, e meglio ancora in un sorriso: era seriamente convinto di poter capire cosa stesse provando o pensando l’interlocutore, o un qualsiasi altro estraneo, guardando solo quella parte del viso.
Inoltre, era segretamente ossessionato da una dentatura perfetta, caratteristica molto più rara da trovare in una persona di quanto si potesse pensare – i dentisti, quei maledetti, non solo si divertivano a sottoporre i clienti e tremende torture, ma per di più avevano anche il coraggio di farsi pagare a suon di verdoni.
La sua delusione nasceva dal fatto che davanti a lui ci fosse una specie di statua che non dava segno di volersi muore o parlare.
Jimin si chiese seriamente se quel ragazzo fosse un maniaco, o semplicemente uno completamente fuori di testa.
Quel silenzio cominciava ad essere ridicolmente lungo.
Aprì la bocca, indeciso se chiedergli se avesse bisogno di aiuto – dalla corporatura piuttosto alta e dai capelli scuri sbarazzini, avrebbe potuto essere uno proveniente dalla campagna e persosi nei meandri della metropolitana per quanto ne sapeva.
Era indeciso se abbozzare un tentennante accento di provincia, quando quella sottospecie di statua di sale si mosse.
Beh, in realtà a muoversi fu solo il suo braccio destro, proteso in avanti, mentre tutto il resto del corpo rimase nella stessa posizione, palpebre comprese.
Jimin era sempre più turbato, ma abbassò lo sguardo e vide che lui gli stava porgendo un libro.
Il suo libro.
Libro che aveva stupidamente dimenticato sulla metro.
Lo prese titubante, mentre tornava a guardarlo, ora più rilassato.
«Ehm, grazie» mormorò, anche se il suono della sua voce si perse tra i rumori della metropolitana.
Quando incrociò nuovamente i suoi occhi, però, rimase spiazzato.
Ora quel ragazzo lo stava guardando in modo diverso. Da fuori, con tutta probabilità, un estraneo non avrebbe potuto apprezzarne la differenza, ma Jimin lo percepì all’istante dentro di sé.
Sembrava che lui lo conoscesse: era quel genere di sguardo che solo due persone familiari – molto familiari – potevano scambiarsi.
Quegli occhi stavano leggendo capitoli e paragrafi di sé stesso che nessuno aveva il diritto di estrapolargli, non senza il suo permesso.
Per descriverlo con le parole più banali e romanzate che esistevano al mondo, sembrava leggergli fin dentro l’anima, il suo vero essere, e Jimin era completamente inerme davanti a quell’intrusione.
Si trovò senza armi con cui difendersi, incapace di ricambiargli il favore, perché quel ragazzo era imperscrutabile. Era una solida fortezza fornita di sole due feritoie, in corrispondenza degli occhi, dietro cui poteva vederlo senza temere un’invasione.
Nessuno l’aveva mai guardato in quel modo.
Nessuno avrebbe dovuto avere quel potere.
Nessuno poteva arrivare a conoscerlo così bene.
Eppure, lui era .
Rimase così scoperto e vulnerabile che a stento si accorse del momento in cui quel ragazzo gli voltò le spalle con tutta la calma del mondo, allontanandosi verso le scale, nella direzione opposta all’uscita.
Jimin restò a fissare quella figura altera e austera, suo malgrado impossibilitato a distogliere gli occhi, ora che poteva.
Che diavolo era appena successo?
Chi diavolo era quel ragazzo?
Strinse le dita sulla copertina ruvida del libro.
Al mondo c’erano più persone pazze di quante credesse.

 





Note del testo:

1 – Seollal (o Sŏllal) è il termine che indica il Capodanno coreano, che cade per tradizione il primo giorno del calendario lunare.
2 – Koibito significa “tesoro”, “amore” in giapponese. In questo caso sarebbe un appellativo amorevole per chiamare il nipote. Il motivo per cui ho utilizzato questa lingua è da attribuirsi esclusivamente alle origini giapponesi della nonna di Jimin (personaggio chiaramente partorito dalla sottoscritta).
3 – Il suffisso -ya viene usato nella lingua coreana per rivolgersi a persone con cui l’interlocutore ha un rapporto “intimo”, come quello appunto tra nonna e nipote.
4 – Il Bibimbap è un piatto tipico coreano a base di riso con verdure a carne bovina.
5 – Gu e Dong sono i termini con i quali si dividono le città. I Gu equivalgono ai “quartieri” occidentali, il quale a sua volta è diviso in Dong.
6 – “Chiedi la strada anche se la sai” che sarebbe la traduzione di 아는 길도 물어 가라 è un proverbio coreano molto usato per suggerire a un giovane di chiedere consiglio agli anziani più esperti per evitare errori. In questo caso l’ho adattata riferendomi anche a persone meno anziane.
7 – Per la suoneria del cellulare di Jimin ho preso ispirazione da questo video: qui
8 – Penso tutti sappiano cosa sia il kimchi, ma se così non fosse si tratta del piatto tipico della cucina coreana a base di verdure fermentate con spezie e frutti di mare salati. Ne esistono di diverse varietà a seconda della verdura protagonista del piatto.

 

 UN COMMENTO ARZIGOGOLATO PER LO SCRITTORE E' UN DONO GRATO  
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