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Autore: AnnabethJackson    09/12/2020    0 recensioni
[VMIN - molti accenni SOPE]
Seoul, estate.
Taehyung, rampollo di buona famiglia, deve consegnare un progetto di fotografia per uno stupido corso a cui lo ha iscritto la madre. Si trova sulla banchina della metropolitana, la macchina fotografica in mano. Basta uno scatto e si trova a guardare gli occhi vivi di un ragazzo, impressi nella fotografia.
Occhi che parlano e che significano tutto per lui.
Ma quando alza lo sguardo per cercarlo, quel ragazzo è sparito.
Sei anni dopo la vita di Jimin si trova in una fossa. Un turbine di eventi l'hanno scosso nel giro di pochi anni, gettandolo in un vortice nero senza fine fatto di sensi di colpa e odio verso sé stesso. Malgrado fuori paia spensierato, forze non ne ha più.
Quando un ragazzo lo ferma, il suo unico pensiero è che è in ritardo per il lavoro. Il ragazzo gli restituisce il libro che ha dimenticato sulla metropolitana e poi si ferma a fissarlo.
Guarda Jimin come se possedesse la chiave dei suoi pensieri più intimi, come se lo conoscesse. Eppure, Jimin è sicuro di non averlo mai visto prima.
E poi, nello stesso modo in cui è comparso, quel ragazzo se ne va, senza dire una parola.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jeon Jeongguk/ Jungkook, Kim Taehyung/ V, Min Yoongi/ Suga, Park Jimin
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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1.VITA

 


6 ANNI PRIMA


 

La vita è un’enorme tela: rovescia su di essa tutti i colori che puoi. – Il candidato si lasci ispirare e presenti un lavoro che rappresenti la vita.
Facile.
Quel compito era troppo facile.
Nulla a confronto con i temi preposti nei mesi precedenti che lo avevano messo a dura prova.
Se avesse fermato una qualsiasi persona per strada e gli avesse chiesto cosa volesse dire “vita”, chiunque gli avrebbe potuto fare un elenco praticamente infinito.
Persone, animali, piante, fiori… e solo per citare alcune grandi categorie senza entrare nei dettagli.
Cacciando il naso fuori dalla finestra si potevano trovare centinaia, se non migliaia forme di vita.
Chi voleva prendere in giro, gli bastava alzare gli occhi da quel pezzo di carta e puntarli sulla figura stravaccata davanti al suo letto per trovarne un degno esemplare. Anche se al momento quell’esemplare stava in uno stato catatonico, a giudicare dallo sguardo perso nel vuoto da più di cinque minuti.
«Sei ancora vivo o devo farmi carico di una nefasta notizia da portare ai nostri genitori?»
L’unica risposta che ricevette fu uno spostamento quasi impercettibile del sopracciglio destro e un mezzo suono strozzato che, con un po’ di immaginazione, poteva passare per un assenso.
Eloquente come solo suo fratello poteva essere.
«Che c’è, ti ha mangiato la lingua il gatto? Oppure te l’ha rubata la tua ultima fiamma?» infierì Tae con un sorrisino per prenderlo in giro.
Yoongi non era mai stato una persona loquace, ma Taehyung lo era abbastanza per compensare entrambi e non perdeva occasione di stuzzicarlo. Sebbene avesse usato quella battuta un numero di volte da rasentare il ridicolo, non si stancava mai di lanciargli frecciatine: se non fosse stato così sicuro di quanto lontani gli interessi del fratello fossero dalla sua insinuazione, la cosa non lo avrebbe mai divertito così tanto.
Si divertiva con poco.
«Cambia registro, sei noioso,» rispose Yoongi, sempre con lo sguardo fisso nel vuoto.
«Io sono simpaticissimo, lo sai tu e lo sanno anche mamma e papà. Per questo sono il loro preferito» aggiunse poi Tae, esibendosi in un sorriso sornione.
Yoongi si degnò finalmente di lanciargli uno sguardo annoiato di sottecchi.
«Che c’è su quel biglietto?» domandò dopo qualche attimo, ignorando l’ultima affermazione, mentre estraeva il cellulare dalla tasca dei suoi calzoni e cominciava a digitare con tutta calma sullo schermo.
Tae riportò gli occhi sul foglietto, buttandolo poi sul suo comodino sgombro.
«È il progetto finale del corso di fotografia, e dovresti saperlo visto che la mamma ha iscritto anche te,» rispose. «Ma il fatto che tu ne sia all’oscuro non è poi questa gran sorpresa. Rinfrescami la memoria: quale è stata l’ultima scusa che le hai rifilato per balzare la lezione?»
Quella domanda era assolutamente superflua in quanto Tae conosceva perfettamente la risposta essendo stato presente a tutte le scenette minuziosamente studiate e interpretate dal fratello per disertare.
La madre non era una cattiva persona, né una stolta, ma aveva i suoi difetti – numerosi, avrebbero aggiunto a bassa voce i suoi figli. Uno fra tutti era la sua assoluta, per non dire cieca, pretesa che i suoi figli dovessero eccellere in ogni diletto.
Ciò le dava la sacrosanta possibilità di vantarsi con le sue amiche all’esclusivo circolo del ricamo ogni sabato. E, non per ultimo, andava ad aggiungersi alla lunga serie di requisiti che due giovanotti di buona famiglia doveva possedere.
La signora Kim, infatti, era figlia di un vecchio esponente politico e, come tale, era stata cresciuta in un ambiente di tutto rispetto. Circondata da signorotti, rispettive mogli e pargoli, non aveva potuto che fagocitare certe usanze e renderle parte integrante della sua persona.
Aveva inoltre sposato uno dei sopracitati pargoli, il signor Kim per l’appunto, figlio di un altrettanto importante magnante dell’industria tessile. Malgrado ai loro tempi ci fosse ancora l’uso dei matrimoni combinati – o, per meglio dire, incontri caldamente consigliati dalle rispettive famiglie – la loro storia era nata da un sentimento molto simile all’amore che, negli anni, era sbocciato e s’era consolidato alla nascita dei due gemelli.
Gemelli che, non una sola volta, si erano domandati come il carattere battagliero della madre avesse potuto trovare una corrispondenza con quello più bonario del padre. Una risposta a quella domanda ancora non l’avevano trovata.
L’educazione dei figli era stata la mansione principale della signora Kim – se si escludeva il circolo del ricamo di cui era “presidentessa” – anche dopo che i due pargoletti erano stati spediti in una delle migliori scuole internazionali della capitale.
Oltre alle usuali materie tenute da professori pagati fior di quattrini, negli anni la signora Kim si era assicurata che i suoi figlioletti apprendessero quelle arti da lei considerate essenziali per il rango a cui apparteneva la famiglia.
All’inizio sia Taehyung che Yoongi si erano prodigati in capricci e pianti disperati, ma ben presto avevano imparato che la signora madre non veniva minimamente mossa da sentimenti simili alla pietà quanto si impuntava ostinatamente su qualcosa. Per cui avevano imparato a soddisfarla e allo stesso tempo a studiare modi alternativi per evitare una lezione qui e una là.
Con il passare degli anni, però, i due fratelli avevano imparato presto che una madre felice equivaleva a una vita più facile, e si erano rassegnati entrambi all’impegno, seppur minimo.
Era stato così che Yoongi aveva appreso l’arte del pianoforte e dell’ippica, e Tae quella del violino e della scherma.
Non proprio le tipiche attività che frequentavano la maggior parte dei loro coetanei, insomma.
L’ultima trovata della signora Kim, però, aveva lasciato molto perplessi i due fratelli, che, ormai sulla soglia della maggiore età, si consideravano da tempo in salvo da certe malsane idee.
Era nato così quel corso di fotografia, accolto con diffidenza iniziale da entrambi e finale solo di Yoongi, i cui interessi non potevano che essere più distanti.
Tra la decima e la tredicesima lezione, Taehyoung invece aveva cominciato ad apprezzare sul serio quell’attività così diversa da quelle su cui si era orientata sua madre fino a quel momento.
L’idea, alla signora Kim, era nata durante uno degli incontri del ricamo.
Tale signora Min, moglie di un rispettabile primario di chirurgia e membro del circolo, aveva mostrato alle amiche il suo ultimo quadro in formato gigante che aveva appeso nella camera padronale, scatto a detta della signora «sensazionale» rubato da suo figlio.
C’era voluto poco perché il tarlo cominciasse a mettere radici nella testa della signora Kim, facendosi di giorno in giorno più saldo.
In men che non si dica Tae e Yoongi si erano trovati davanti a una macchina fotografica di ultima generazione e a una giovane donna, che al suo attivo poteva vantare un certo premio Eugene Smith, qualunque cosa volesse dire.
Le prime lezioni si erano trascinate tra basi di fotografia, informazioni tecniche e infiniti altri dettagli che Yoongi, quando non trovava scuse plausibili per disertare, ascoltava con scarsissimo interesse e che Tae invece assimilava senza troppi sforzi senza neanche rendersene conto.
Non avrebbe saputo dire esattamente quando, ma a un certo punto si era trovato in mano quella macchina fotografica troppo spesso per poter continuare a negare di non provare un sincero interesse.
E così aveva partecipato alle lezioni rimanenti con rinnovata curiosità, scoprendo di esservi discretamente portato, a detta della sua insegnante.
Yoongi, dal canto suo, aveva ribadito più volte l’impossibilità di comprendere il nuovo diletto del fratello, salvo poi rallegrarsi al pensiero che almeno così la madre sarebbe stata abbastanza soddisfatta da accogliere con maggior magnanimità le sue sceneggiate da attore melodrammatico.
«Cosa bisogna fotografare questa volta? Fiorellini? Cagnolini? Fontane?» domandò Yoongi con un sorrisetto di scherno.
«Peggio,» borbottò Tae lasciandosi cadere a peso morto sul cuscino e incrociando le braccia dietro la testa. «La vita.»
Sì, quel corso lo aggradava, ma ciò non gli impediva di ritenere la maggior parte dei compiti assegnati stupidi e banali.
Anche dalla sua posizione riusciva a vedere le spalle del fratello scosse da risatine discretamente controllate, più per vecchie abitudini di etichetta – altra fissazione di loro madre – che per rispetto dei suoi riguardi.
«Questa è davvero troppo facile. Potrei farcela anche io.»
«Ne sei sicuro? Ho notato alcune difficoltà nel montare un banale cavalletto l’ultima volta che ci hai degnato della tua presenza» lo prese in giro Tae con un sorriso sornione.
«Partendo dal presupposto che nulla può mettere in difficoltà il sottoscritto, persino io posso presentare un lavoro sublime questa volta. Ringrazio il cielo che questa perdita di tempo sia quasi conclusa. Cominciavo ad essere a corto di scuse da rifilare a mamma.» Yoongi si alzò dalla poltrona che occupava e si diresse con tutta calma verso la porta, per tornarsene nella sua camera dopo aver alzato una mano in segno di saluto.
Rimasto solo, Taehyung pensò che suo fratello avesse ragione. Eppure erano giorni che si trastullava su cosa volesse dire vita per l’insegnante, ma soprattutto per se stesso. Una parte di lui era convinta che quel compito non fosse banale come appariva.
Non era mai stato tipo da porsi problemi filosofici sull’esistenza e sui massimi sistemi. Cercava di ricavare il massimo da ciò che gli si presentava d’innanzi, forse con metodi non proprio ortodossi a volte, ma nel suo piccolo era soddisfatto.
Che senso aveva farsi domande a cui comunque nessuno poteva dare una risposta concreta?
A scuola aveva sempre odiato la filosofia, complice il fatto che la professoressa fosse una vecchia rincitrullita di età paragonabile a quella di Aristotele stesso e che le sue lezioni fossero decisamente più efficaci di un sonnifero.
Frustrato da quel senso di non so che, quella specie di prurito inedito che agitava le sue membra, si diede una spinta per alzarsi dal letto. Afferrò la macchina fotografica dalla scrivania, indossò le scarpe e poi uscì.
Aveva bisogno di camminare.

 

[...]

 
Non erano molte le occasioni che aveva per usare i mezzi pubblici.
Complice il fatto che era stato abituato ad altre comodità – leggasi auto di ultima generazione – e che per qualsiasi necessità aveva sempre potuto contare sui tassisti – malgrado il traffico di Seoul fosse imbarazzante come quello di qualsiasi altra città metropolitana, la curiosità di Teo era sempre stata stuzzicata dallo scenario caotico e allo stesso tempo ordinato della metro.
Non lo avrebbe mai confessato a sua madre, ma provava un intimo divertimento nel salire su quel mezzo e nel contemplare il via vai che si creava a qualsiasi ora della giornata in quel mondo sotterraneo.
Non che fosse solito vagare alla pari di un mendicante, ma erano capitate volte in cui era sceso dalla metro a random per la pura curiosità di vedere quali fossero le differenze tra una fermata e l’altra. Perché ognuna era come un mondo a sé.
La seconda cosa che lo aveva sempre affascinato era la strana danza con cui migliaia di corpi estranei si mischiavano ogni istante di ogni giorno, creando figure e assembramenti in cui ognuno ricopriva un ruolo importante e insostituibile.
Per quanto l’estraneità fosse il tema cardine, le persone reagivano inconsapevolmente a ciò che le circondava, subendone le conseguenze. Corpi che si avvicinavano, si respingevano, sguardi sfuggevoli, suoni e odori che si mischiavano creando un’atmosfera ai suoi occhi suggestiva.
Tutto quel caos, per assurdo, aveva il potere di schiarirgli la mente.
E quello era ciò di cui aveva bisogno di quel momento, trovare un disegno nella massa ingarbugliata di pensieri e sensazioni che lo governavano da molto più tempo di quanto ne fosse consapevole.
Il progetto di fotografia era solo la punta dell’iceberg.
Erano mesi che non si sentiva più padrone di sé stesso, ma nemmeno lui avrebbe saputo indicare con precisione un momento o una causa scatenante di quel turbamento.
Quando ci pensava, nella sua mente veniva evocata l’immagine nitida di una persona con lo sguardo duro e il mento alzato, fiero.
Yong-ho.
Erano settimane che non lo vedeva. Erano mesi che non si parlavano.
La loro storia era durata troppo per essere nata solo come un passatempo all’insegna dell’appagamento reciproco. C’erano volute numerose domande e allusioni poco velate da parte dei loro compagni perché decidessero svogliatamente di dare un nome a quella frequentazione.
Non c’era stato momento in cui la consapevolezza che quella storia sarebbe finita non fosse stata ben presente in entrambi.
L’unica incognita era stata il quando o il come la fine sarebbe arrivata.
Erano stati la prima volta uno per l’altro, quasi come uno scambio di favore. Parole dolci, tra loro, venivano dette molto poco, sia perché Yong-ho non era tipo da smancerie, sia perché una base su cui far crescere un sentimento era sempre mancata.
L’unica cosa di cui avessero realmente parlato, e su cui si era trovati subito d’accordo, era stata l’assenza di aspettativa, seppur, per propria natura, Tae si considerasse una persona monogama.
Eppure, quando alla fine e per una strana coincidenza, si era trovato davanti a quel letto con le lenzuola malamente spiegazzate alla base e due corpi intrecciati in una posizione che avrebbe fatto crepare all’istante la sua insegnante di Galateo e Buone Maniere, Taehyung aveva dovuto ammettere di essersi ingenuamente sbagliato su una cosa – e non era qualcosa che capitasse spesso.
Tae era sì una persona di natura monogama, ma allo stesso modo voleva avere anche l’esclusiva sul compagno.
Le prove di quella gelosia – anche se non avrebbe ammesso ad anima viva di provare tale sentimento, le aveva sempre avute sotto il naso: persino da bambino odiava condividere giochi e giocattoli, perché sarebbe dovuto cambiare crescendo, considerando inoltre che la posta in gioco si faceva decisamente più seria?
Diamine, se avesse avuto una volontà e una consapevolezza di sé stesso al tempo, probabilmente sarebbe stato geloso di condividere il grembo materno persino con il suo stesso gemello.
Così era finita.
Una fine banale e volgare, pensandoci a posteriori.
Non che avesse fatto scenate o ingaggiato un’inutile quanto prevedibile rissa da osteria. A parte non essere da lui, abbassarsi a tanto avrebbe significato dare soddisfazione a Yong-ho, perché, guardandolo in viso, Tae aveva compreso che quella era stata una vendetta. Per cosa, non gli era ancora chiaro.
Dicevano molto delle donne: subdole come serpenti, cattive come megere. Ma in realtà quegli aggettivi potevano adattarsi a qualsiasi speciazione umana, come aveva potuto constatare personalmente.
Il disprezzo, dopo il fatto, era stato reciproco, ma non tale da giustificare in Taehyung quel turbamento che persisteva in lui da mesi ormai: la loro rottura risaliva ormai a più di un anno prima.
Per quanto si convincesse che Yong-ho non avesse mai significato niente per lui, sapeva che in minima parte quella vicenda lo aveva segnato, ma non aveva mai dato dimostrazione o prova del contrario. Sapeva comunque di non dover niente a nessuno, semmai erano le altre persone a dover qualcosa a lui.
«Mi scusi, giovanotto.»
Quel turbinio di pensieri fu interrotto, ridestandolo all’improvviso.
Sbattendo le palpebre un paio di volte e guardandosi attorno, si rese conto di essere ancora sulla metro.
Un leggero tocco sul braccio destro attirò la sua attenzione.
Seduto accanto a lui c’era un uomo di almeno ottant’anni, a giudicare dal volto segnato largamente dalle rughe e dai radi capelli bianchi che spuntavano da sotto un tradizionale kat – non che fosse molto comune trovare qualcuno con un cappello simile in città.
Il signore stava cercando di attirare la sua attenzione, guardandolo con aspettativa, ed era chiaro che gli avesse posto una domanda.
«Mi scusi, potrebbe ripetere?»
«Sarebbe così gentile da lasciarmi passare, giovanotto? Devo scendere alla prossima fermata,» disse l’uomo alzando un capo del bastone appoggiato accanto a sé e riservandogli un sorriso gentile.
Taehyung si alzò subito in piedi per esaudire quella richiesta mentre l’anziano signore si dava una spinta con il bastone per riuscire ad alzarsi.
Un movimento brusco del vagone diede uno strattone generale a tutte le persone che lo abitavano e chi era in piedi e non già ancorato a qualche sostegno, si affrettò ad aggrapparsi al primo punto fermo nei paraggi.
Ciò non accadde però all’uomo davanti a Tae che, con riflessi chiaramente rallentati dall’età, venne sbilanciato inesorabilmente contro di lui.
Probabilmente grazie ai numerosi allenamenti di scherma che gli avevano permesso di sviluppare reazioni repentine a movimenti improvvisi e inaspettati, il ragazzo riuscì a sostenere quel corpo che di fragile e leggero aveva solo l’apparenza, e allo stesso tempo a non rovinare lui stesso a terra.
«Oh, mi dispiace molto! Si sente bene, giovanotto?»
L’unica cosa che sentiva, al momento, era di essere un po’ seccato.
Nel blando tentativo di reggersi a qualcosa, il signore si era aggrappato alla tracolla della macchina fotografica che penzolava dal suo collo, strattonandolo e facendola picchiare contro il sedile. Il problema non era il leggero dolore alla base della nuca, ma la possibilità, seppur remota, che la sua macchina fotografica avesse subito dei danni.
«Non si preoccupi,» rispose però, stirando rigidamente le labbra in un qualcosa molto lontano da un sorriso rassicurante.
L’unica cosa che voleva fare al momento era liberarsi di quell’uomo, per cui mosse qualche passo in direzione del centro della carrozza per allontanarsi, quando venne nuovamente bloccato.
«Ah, scende anche lei?» domandò il vecchio, interpretando il suo movimento come l’intenzione di raggiungere le porte d’uscita. «Le dispiacerebbe aiutarmi ancora, giovanotto?»
Qualcuno su là lo stava punendo, altro che seccatura. Era in genere una persona gentile ed educata, ma quelle – rare – volte in cui era di cattivo umore bastava un nonnulla per indisporlo.
Teo non sapeva nemmeno a che fermata fossero arrivati. Non ebbe il tempo di sincerarsene perché proprio in quell’istante il treno fermò la sua corsa e la voce metallica dell’altoparlante venne coperta dal brusio delle persone attorno a lui.
Maledisse sé stesso per quell’idea malsana che aveva avuto uscendo di casa.
Trattenendo sulla lingua una risposta poco cordiale, porse un avambraccio al vecchio e lo guidò verso l’uscita.
Se fosse caduto un’altra volta, Tae non avrebbe potuto assicurare di non abbandonato definitivamente.
Ma nulla di tutto ciò accadde e il ragazzo si ritrovò sulla banchina affollata della metro, la figura del vecchio che si allontanava lentamente dopo averlo ringraziato un paio di volte ed essersi inchinato molte di più.
Guardandosi attorno, apprese di trovarsi alla fermata di Seoul Station. Quello trovava senso in tutto quel via vai di cui era circondato.
In realtà non aveva una meta precisa: quando era sceso in metropolitana, alla fermata più vicina a casa sua, si era diretto verso la linea che portava in centro, seppur non intenzionalmente.
Metà del divertimento di quelle gite vaganti in metropolitana stava proprio nello scegliere una direzione a caso e scendere solo quando ne aveva voglia, incurante di dove fosse arrivato o quanto si fosse allontanato da casa.
Ma, seppur l’assenza di vere e proprie regole, a Seoul Station non era mai arrivato e in quel momento si chiese se fosse un caso o se l’avesse sempre evitata inconsapevolmente.
Seoul Station era costantemente assiepata di viaggiatori e pendolari, turisti e studenti diretti chissà dove.
Taehyung non amava troppo le folle, e quella probabilmente era la ragione per cui non aveva mai messo piedi lì prima.
Eppure, guardandosi attorno, il turbamento dentro di lui si quietò un poco. Forse era proprio quello che stava cercando in maniera errante: un assembramento disorganizzato di caos che facesse concorrenza a quello che c’era nella sua testa.
Se Yong-ho non poteva essere etichettato come il suo reale problema, di certo le scelte che doveva compiere di lì a qualche mese lo erano ed erano tutte strettamente legate a ciò che i suoi genitori si aspettavano da lui.
Non c’era stato momento della sua vita in cui Tae non fosse stato consapevole di avere un futuro già imbastito. Agli occhi di suo padre – e quindi anche di sua madre, non erano contemplate deviazioni.
Certo, vivevano in un secolo in cui il tramandare di padre in figlio mestiere, eredità e titolo era passato di moda già da qualche tempo, ma in quella piccola e ristretta cerchia di società esclusiva di cui facevano orgogliosamente parte vigevano ancora tradizioni non scritte a cui nessuno osava o si sognava trasgredire.
Il signor Kim poteva anche avere un animo buono – se messo a confronto della moglie – ma era pur sempre a capo di un’importante azienda tessile e, come tale, si aspettava di tramandare il tesoro di famiglia ai figli.
Esistevano tradizioni e regole non scritte impossibili da ignorare.
La famiglia Kim poteva vantare una lunga sfilza di importanti imprenditori e l’azienda tessile del nonno era solo l’ultimo dei tanti. I capitali e le azioni in loro possesso, tramandati e arricchiti di generazione in generazione, si erano mantenuti tali malgrado le varie crisi – sociali, economiche e politiche, che la società si era trovata a contrastare nel corso di secoli.
Il mestiere si era sempre succeduto di padre in figlio, rigorosamente primogenito maschio.
Era stata una vera sorpresa, quanto un mero problema, quel freddo giorno di dicembre, poco prima del terminare del vecchio anno, in cui erano venuti al mondo i due gemellini nella città natale di famiglia Daegu, dove la famiglia andava per festeggiare le feste.
Infatti, per un errore del loro non più fidato ginecologo, i signori Kim si erano trovati tra le mani due tutine, una azzurra e una rosa, e due maschietti nati a pochi minuti di distanza l’uno dall’altro.
Un lasso di tempo insignificante per molti, ma non per i due gemelli.
Per Taehyung quei minuti erano l’origine di molti problemi, per Yoongi la giustificazione del nome con cui suo fratello lo prendeva per i preziosi fondelli quando era in vena di irritarlo – “fratellino”.
Indicare chi fosse il primogenito era come esprimere una preferenza su due neonati all’apparenza quasi identici. Troppo piccoli per decidere chi avesse migliori qualità da mettere al servizio della famiglia.
Come se quella sorpresa non fosse bastata, il pensiero che il bambino prescelto dovesse anche farsi carico di enormi responsabilità e conseguenti problemi si era aggiunto alle preoccupazioni del signor Kim nei suoi primi giorni da neo papà.
Così, alla fine, aveva fatto appello solo su una realtà inconfutabile: la scelta aveva trovato base in una mera tempistica, i sopracitati minuti che avevano separato la venuta al mondo dei due gemelli.
Ovviamente entrambi i pargoletti avevano ricevuto una eguale educazione – escludendo le strampalate, quando condivisibili idee della signora Kim.
Niente scuola materna, ma una tata-barra-educatrice-barra-governante – a cui Tae e Yoongi avevano fatto vedere di cotte e di crude – finché avevano raggiunto la minima età per essere ammessi all’esclusiva scuola internazionale della capitale.
L’anno seguente, però, Tae e Yoongi avrebbero terminato le superiori.
I piani del padre per Taehyung prevedevano una brillante laurea in una delle migliori università del Paese, in cui lui potesse apprendere le basi del mestiere di famiglia.
L’ipotesi che Teo avesse voluto fare altro della propria vita non aveva mai sfiorato la mente dei coniugi Kim, un po’ perché lo davano per scontato, un po’ perché Taehyung stesso non aveva mai realmente pensato a un’alternativa.
A Tae, in realtà, quella vita non dispiaceva poi molto. Abituato a certi agi, educato a pensare in certo modo, influenzato nell’avere determinate opinioni e pensieri, i taciti piani di cui era soggetto non lo disturbavano molto. Non c’era mai stato lo spazio per pensare di cambiare qualcosa, di diventare qualcuno di estraneo al suo mondo.
A turbarlo, nel presente, era solo una stupidissima e genuina curiosità che fin da piccolo aveva cercato di celare alla sua famiglia, certo che quest’ultima l’avrebbe catalogata solo come il rimasuglio di un capriccio infantile e un’idiozia adolescenziale.
Perché non esistevano scelte o dubbi.
C’erano solo fatti e obiettivi da raggiungere.
Questo era quello che gli avevano sempre insegnato.
Tancredi, quel bastardo fortunato, poteva vantare appena un’oncia dei suoi problemi in veste di secondogenito.
Certo, era auspicabile che seguisse il medesimo cammino, ma se avesse deciso, per esempio, di diventare uno scritto di opere moderne – ipotesi molto remota dalla realtà visto il suo odio profondo per lo studio in generale – nessuno avrebbe osato disdegnarlo.
Tanto c’era sempre Tae, no?
Il ragazzo scosse il capo quasi inconsapevolmente, dandosi dello stupido.
Doveva smettere di rimuginare e cercare – o meglio ancora riuscire – di soddisfare ciò che tutti si aspettavano da lui.
 
Si riscosse, prendendo coscienza del fatto che fosse rimasto in piedi fino a quel momento, immobile come uno scemo, nella stessa posizione per più tempo di quanto fosse socialmente normale. Talmente a lungo che la corsa seguente stava arrivando sferragliando proprio in quel momento alle sue spalle.
Dopo aver rallentato con uno stridio di freni fastidioso, le porte scorrevoli si aprirono, riversando sulla banchina l’ennesima ondata immane di persone.
Per evitare di essere travolto, si accostò alla panca di plastica posta ai piedi della parete alla sua sinistra. Il movimento riportò la sua attenzione sulla macchina fotografica pendente dal collo, che era rimbalzata un paio di volte sul suo petto, coperto da una larga maglietta beige.
Doveva seriamente concentrarsi sul compito del corso di fotografia, portarlo a termine e consegnarlo il prima possibile.
Attorno a lui, nel mentre, il turbinio di massa stava via via scemando, per cui si disse di aspettare qualche altro minuto prima di muoversi. Ma, mentre guardava quel via vai, pensò che potesse rappresentare appieno il tema assegnatogli.
Forse suo fratello avrebbe presentato un’idea più originale – visto che con il minimo sforzo riusciva anche nei compiti più difficili. Probabilmente non sarebbe stato il lavoro migliore presentato fino a quel momento. Sicuramente, però, avrebbe posto fine al pensiero su cui si trastullava da fin troppo tempo per i suoi standard.
Occupò l’attesa azionando e regolando la macchina fotografica come aveva appreso nei mesi precedenti. Fece qualche scatto di prova per verificare che luce e ombre giocassero una partita uniforme e, proprio mentre ispezionava con occhio critico l’ultima foto di prova, sentì l’inconfondibile rumore dell’ennesima metropolitana in avvicinamento.
Attese finché la fiumana di gente non si riversò all’esterno, poi portò il mirino davanti all’occhio destro e scattò.
Taehyung apparteneva alla filosofia del singolo: per lui era meglio uno scatto studiato, atteso e riuscito in un colpo solo piuttosto che un numero infinito di tentativi di cui la maggior parte dovevano poi essere scartati.
Inoltre, essendo una persona sicura di sé stessa, il dubbio che la foto non fosse venuta come voleva non lo sfiorò nemmeno per un istante.
Spinto però dalla curiosità, decise di dare un’occhiata allo scatto anche per scongiurare un secondo giro in quel mondo sotterraneo: il suo occhio non era stato abbastanza rapido da cogliere l’anteprima dell’immagine sullo schermo digitale della macchina fotografica.
Ai suoi occhi apparve un lavoro discreto: un numero ingente di persone popolava la foto, perlopiù raccolte in piccoli sottogruppi. Persone anonime, di razza, sesso ed età tra le più varie, si dirigevano verso le proprie destinazioni senza badare troppo al loro intorno. C’era chi guardava lo schermo del proprio cellulare, chi un punto fisso davanti a sé e chi il volto di un’altra persona, probabilmente conosciuta.
Ciò che attirava immediatamente lo sguardo dello spettatore, però, era il centro dell’immagine dove si era creato un vuoto fittizio, durato probabilmente il tempo di un battito di ciglia nella realtà, troppo veloce per essere colto da occhio umano, ma non dalla macchina fotografica.
E proprio lì, a segnare il baricentro della spartitura, stava lui.
Indossava una maglietta a maniche corte con un motivo maculato, bianco, nero e marrone, la cui estremità era stata infilata all’interno di un paio di jeans chiari. A sostenere quest’ultimi una cintura nera con piccole borchie e una catenina.
Malgrado la taglia più abbondante, le forme sotto il tessuto non erano completamente celate: la curva delle scapole, segnata anche da due lunghi ciondoli argentei, scompariva nello scollo per ricomparire poi in braccia delicatamente delineate, ma per questo non meno definite. Il resto però era lasciato all’immaginazione.
Sulle spalle portava un vecchio zaino logoro vintage, color caramello, chiaramente carico di oggetti, i cui stringhini penzolavano liberamente all’aria.
Quei dettagli, però, Tae li avrebbe notati e imparati a memoria solo nei mesi successivi.
Ciò che attirò la sua immediata attenzione fu il viso.
E gli occhi.
Anche se non occupava il primo piano, i dettagli di quel volto si riflettevano limpidi nelle iridi chiare di Taehyung.
Voltato verso la persona al suo fianco sinistro, la cui immagine era celata da un altro viaggiatore, il viso si delineava in una forma prevalentemente tondeggiante grazie agli zigomi alti, a mezzaluna e sollevati. La linea poi scendeva verso una bocca piena e incredibilmente rosea, in netto contrasto all’insieme delicato, ma allo stesso tempo perfetta. Le labbra erano stirate in un ampio sorriso, coinvolgente, calorosamente destinato chiaramente al suo interlocutore. Erano uno di quei sorrisi che chiunque avrebbe voluto esserne il destinatario, un regalo di cui essere grati e da custodire gelosamente.
Il naso, dritto e piccolo, donava un carattere armonioso all’insieme.
Erano però gli occhi a parlare.
Taehyung non avrebbe saputo esprimere a parole i suoi pensieri in quel momento, né in futuro avrebbe saputo dire con esattezza il motivo per cui rimase a fissare quella foto, quel viso e quegli occhi, per secoli.
Non era tanto il colore, impossibile da distinguere in quella luce soffusa della metropolitana, non era nemmeno il taglio, chiaramente a mandorla, né le palpebre rimarcate da un leggero trucco scuro, destinato a richiamare l’attenzione.
Era tutto l’insieme.
Si sentiva attirato come un serpente a sonagli al suono di un flauto, come un toro alla vista di un drappo rosso, come un assetato al miraggio d’acqua.
Erano soprattutto le sensazioni che istantaneamente scaldarono il suo corpo, in quel momento e tutte le volte che avrebbe cercato il suo volto nell’immagine nel futuro. Un volto che, per molti altri forse sarebbe caduto nel completo anonimato tra tanti, come tra la folla stessa della foto.
Taehyung aveva trovato cosa volesse dire per lui vita.
Non era niente di concreto, non era niente a cui riuscisse dare un senso compiuto, una descrizione o anche solo un pensiero coerente.
La vita erano gli occhi di quel ragazzo, era il modo in cui guardava la persona accanto a sé, erano le parole misteriose che stavano uscendo dalla sua bocca in quell’istante – e che Tae non poteva udire. Erano le vibrazioni che il suo corpo emanava, era l’assoluta spensieratezza e luminosità con cui appariva anche da lontano.
Era semplicemente lui.
Stupidamente alzò lo sguardo per cercarlo tra la folla.
Ovviamente non lo trovò.
La banchina era quasi vuota.
Lui se n’era andato, portandosi via qualunque cosa Tae avesse trovato.

 





Note del testo:

1 – “La vita è un’enorme tela: rovescia su di essa tutti i colori che puoi”: questa è una libera citazione, ovviamente non appartenente a me, ma a Danny Kaye.
2 – Il premio Eugene Smith è premio di fotogiornalismo assegnato annualmente dalla W. Eugene Smith Memorial Fund (grazie wikipedia).
3 – Il kat è un cappello tradizionale coreano fatti di capelli di crine di cavallo.
4 – Yong-ho è un personaggio originale di mia invenzione.
3 – Passando ai personaggi veri e propri devo fare alcune premesse: metto le mani avanti dicendo che potrei sfociare nell’OOC involontario. Nel caso, perdonatemi.
4 – Tae e Yoongi non sono fratelli. Lo so. Non sono nati lo stesso anno. Lo so. Non hanno nemmeno lo stesso cognome. Lo so. Necessità di trama. Potrebbe (sicuramente capiterà) anche in futuro per altri personaggi.
5 – Ultima premessa, più generale e che sicuramente si applicherà anche ai capitoli successivi: ho rappresentato la società coreana un po’ a modo mio, ne sono consapevole. Cercherò di attenermi il più possibile alla realtà dei fatti, ma nel caso doveste trovare errori vari imperdonabili non esitate a farmelo presente!

 

 UN COMMENTO ARZIGOGOLATO PER LO SCRITTORE E' UN DONO GRATO  
"HIDEAWAY" ON WATTPAD  

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