The day before...
Kakashi Hatake sedette sul bordo del
letto esalando un lento sospiro che gli si riversò fuori dalle
labbra come una benedizione dopo quella lunga giornata. Il materasso
accolse docile il suo peso, cigolando impercettibilmente.
La luce calda del tramonto che stava
calando come un velo dorato sui tetti di Konoha imporporava il cielo
e filtrava dalla finestra, rivelando le impalpabili particelle di
pulviscolo che fluttuavano senza schema davanti a lui, ora agitate
dal flusso d'aria provocato dai suoi movimenti nella stanza.
La schiena curva, le braccia
abbandonate inermi sulle gambe con le mani penzoloni, lo sguardo
rivolto al labirinto di piccole crepe che si rincorrevano
intersecandosi nel pavimento... tutto nel suo modo di sedere su quel
letto raccontava di un uomo stanco, scoraggiato.
Non era certo quella l'immagine che il
mondo degli shinobi aveva di lui: Kakashi dello Sharingan, il
formidabile Ninja-Copia di Konoha, il prodigio che, appena dodicenne,
si era guadagnato il titolo di Jonin e che di lì a poco era
diventato un eccezionale capitano delle Forze Speciali ANBU, veterano
della Terza Grande Guerra.
Il suo nome era rispettato e temuto;
sinonimo di talento, valore, e genialità in tutte le cinque Grandi
Terre. Ma sulle sue spalle gravava il fardello di un vissuto
travagliato segnato da una sequela di eventi tragici che, uno ad uno,
avevano concorso a scavare un solco sempre più profondo nella sua
anima, inaridendola fino a trasformarla in uno sterile deserto dove
l'unica cosa che cresceva era il rovo infestante e velenoso del
lutto. Durante il suo ultimo periodo al comando degli ANBU, chi
avesse provato a guardare oltre quella corazza di gelida
indifferenza, avrebbe scorto solo la triste visione di un giovane
uomo che aveva fretta di morire. Una persona intossicata dal
rimpianto, che si trascinava giorno dopo giorno alla stregua di un
fantasma lungo un infinito sentiero di espiazione privo di una meta,
sordo al richiamo di qualunque piacere potesse offrirgli la vita
ancora nel pieno della sua primavera.
Il suicidio di suo padre Sakumo aveva
messo precocemente fine alla spensieratezza dell'infanzia, sostituita
da una maturità non comune per la sua età nonché da una ferrea e
quasi ossessiva dedizione verso le regole, tutto ciò affiancato da
una ricerca spasmodica della perfezione nelle arti ninja, nelle quali
peraltro eccelleva senza alcuna fatica. I suoi superiori e gli
abitanti del villaggio si profondevano in lodi ed elogi ammirati
rivolti a quel bambino straordinario e così serio che stava
rapidamente scalando le vette della rigida gerarchia degli shinobi,
sorpassando non solo i suoi coetanei ma perfino guerrieri adulti,
forti di molti anni di esperienza. Nel giro di un lustro, Kakashi
aveva collezionato una folta serie di successi, bruciando traguardi
su traguardi fino alla promozione a Jonin a soli dodici anni.
L'uomo stirò la bocca in un sorriso
amaro ripensando al ragazzino borioso che era stato a quel tempo. Fin
troppo consapevole delle sue doti, non aveva mai tenuto in gran
considerazione i sentimenti di amicizia, solidarietà e fiducia
reciproca che univano i compagni di una stessa squadra; la missione
aveva la priorità su tutto, sempre. Se in un frangente si fosse reso
necessario sacrificare la vita di un membro del suo team per evitare
di compromettere il successo della missione, non avrebbe esitato un
secondo. Avrebbe fatto ciò che doveva; nientemeno di ciò che ci si
aspettava da un vero shinobi.
Per quanto gli avesse voluto bene,
aveva giurato a se stesso che non sarebbe finito come suo padre
Sakumo, il quale aveva scelto di mettere al primo posto la sorte dei
propri compagni decretando così il fallimento della missione della
quale era stato messo a capo: un gesto altruistico in apparenza
nobile ma che si scontrava con le dure leggi sulle quali si reggevano
le fondamenta dell'intero sistema ninja e che gli era valso il
biasimo di tutto il villaggio finché, disonorato e caduto in
disgrazia, aveva scelto di farla finita piuttosto che continuare a
vivere nella vergogna.
Kakashi aveva eletto il rigoroso
rispetto delle leggi a vera e propria filosofia di vita. Ma la sua
visione delle cose era mutata radicalmente grazie a Obito.
Nel nostro mondo chi infrange le
regole viene considerato feccia di bassa lega. Ma chi abbandona i
propri compagni al loro destino è anche peggio della feccia.
Non aveva mai dimenticato quelle parole
che l'avevano colpito con la violenza di uno schiaffo in pieno volto.
Dal giorno in cui l'amico aveva dato la sua vita per proteggere lui e
Rin le aveva fatte sue, ripetendosele come un mantra, custodendole
nel tempio del proprio cuore come una formula ammantata di sacralità.
Prima di morire, Obito gli aveva fatto
dono del suo occhio sinistro e del potere che vi era contenuto, ma
c'era di più: era come se insieme all'abilità oculare dello
Sharingan fosse stato trapiantato in Kakashi anche il modo in cui
l'amico guardava la realtà intorno a sé. E allora il paradigma
secondo il quale aveva impostato la sua esistenza fino a quel momento
si era capovolto al punto che il comportamento di Sakumo aveva
lentamente iniziato ad acquistare un senso e la disapprovazione del
figlio nei confronti del padre era mutata in orgoglio.
Quel triste giorno, mentre le lacrime
di Kakashi cadevano sul suo viso per metà sepolto dalle rocce, Obito
gli aveva rivolto una sola richiesta. Prenditi cura di Rin.
Ci
aveva provato. Kakashi si era davvero impegnato con tutte le
sue forze per mantenere la promessa fatta all'amico morente... eppure
non era bastato. Non solo Rin Nohara era morta ma, per una crudele
ironia della sorte, era stata proprio la sua mano a squarciare il
petto della ragazza con il Chidori.
Per mesi ogni notte aveva rivissuto in
sogno lo strazio di quegli istanti. Gli occhi sbarrati e colmi di
orrore della sua compagna lo perseguitavano ogni volta che, sfinito
dalla stanchezza e dal tormento, osava abbandonarsi al sonno; il
flebile rantolo della sua voce spezzata mentre, ormai senza fiato,
articolava stentatamente le tre sillabe del suo nome prima di spirare
gli rimbombava nelle orecchie come amplificato di cento volte insieme
allo sfrigolio del fascio di fulmini prodotto dal suo stesso attacco.
Riusciva ancora a sentire il calore del suo sangue vischioso che gli
colava lungo il braccio e gocciolava ai suoi piedi formando una pozza
densa e scura che si allargava sempre di più sotto di lui, come a
volerlo inghiottire. L'odore acre di carne bruciata e l'effluvio
dolciastro e ferroso che emanava dal terreno intriso di sangue e dal
corpo straziato della ragazza pervadevano l'aria e gli saturavano le
narici, lasciandolo nauseato anche per diverse ore dopo il risveglio.
Non importava quanto a lungo
strofinasse le sue mani sotto il getto d'acqua del lavandino: il
rosso cremisi del sangue di Rin non se ne andava mai. Era sempre lì
a ricordargli la sua colpa, la sua promessa infranta, l'ennesima
persona che non era stato in grado di salvare. Aveva oltrepassato
l'epidermide, insediandosi sottopelle come un marchio d'infamia che
era divenuto parte di lui e gli aveva fatto guadagnare un nuovo
epiteto: Kakashi l'Ammazza-Compagni.
Era occorso molto tempo perché
riuscisse a superare il trauma e trovasse il coraggio di tornare ad
adoperare il Chidori. Se non fosse stato per
Minato, che una volta nominato Hokage aveva avuto l'acume e la
lungimiranza di proporre al suo allievo di unirsi alle Forze
Speciali, forse non sarebbe mai riuscito a riprendersi.
Ma alla fine, dodici anni prima, quella
maledetta notte del 10 ottobre in cui la Volpe a Nove Code si era
liberata e aveva attaccato il villaggio, il fato inclemente si era
portato via anche il suo maestro.
Da allora Kakashi non aveva mai smesso
di servire Konoha al meglio delle sue capacità come capitano della
Squadra Speciale, ma si era allontanato dagli affetti, estraniandosi
dalla vita collettiva, fermamente deciso a negarsi qualsiasi
possibilità di tornare a sperare nel futuro e di redimersi. Si era
chiuso in se stesso, divenendo facile preda dell'oscurità vampirica
che albergava in lui, dalla quale veniva divorato pezzo a pezzo,
consumato. La volontà di opporre resistenza a quel processo
inesorabile era ormai svanita e il Jonin si lasciava docilmente
sprofondare nel suo inferno privato quasi fosse sotto l'effetto di un
anestetico. Avanzava alla cieca come un automa: senza scopo, senza
direzione, limitandosi a portare a termine una missione dopo l'altra.
La feroce tirannia dei ricordi non si
era placata ma la presenza costante degli spettri del passato gli era
ormai diventata famigliare, come se l'abitudine al dolore l'avesse
reso meno acuto. Sofferenza e rimpianto erano divenuti suoi
inseparabili compagni, senza i quali Kakashi si sarebbe sentito
mancare della sua stessa essenza. E quasi senza accorgersene, aveva
finito per affezionarsi a quel tormento onnipresente, a ritrovarsi
incapace di lasciarlo andare, alimentandolo sempre di più. Perché
era giusto così. Era la condanna che doveva scontare per essersi
dimostrato incapace di proteggere coloro a cui teneva di più. Per
essere ancora vivo, mentre loro erano morti.
Tuttavia, dopo dieci anni di militanza
negli ANBU, il Terzo Hokage lo aveva infine dispensato dal suo
incarico, ritenendo che quell'ambiente non fosse più compatibile con
le sue condizioni psicologiche e delegandogli la supervisione dei
giovani diplomati all'accademia, sebbene Kakashi stentasse a
riconoscersi pienamente in quel ruolo.
Non che avesse mai avuto davvero
l'opportunità di mettersi alla prova come Sensei: il suo esame
preliminare si era sempre concluso a sfavore dei suoi aspiranti
allievi, che erano stati prontamente rispediti in accademia senza
tanti complimenti. Mai nessuno era stato promosso al grado di Genin.
E ora ci risiamo. Pensò
Kakashi, lasciandosi sfuggire un altro sospiro. Il Terzo Hokage
l'aveva informato che tre neodiplomati erano stati selezionati per
far parte della nuova Squadra 7.
Doveva ammettere con se stesso che
questa volta le circostanze rendevano la faccenda più intrigante del
solito: si sarebbe ritrovato a fare da guida al figlio orfano del
Maestro Minato, il Jinchuuriki della Volpe, e all'unico sopravvissuto
allo sterminio degli Uchiha... sempre che, naturalmente, quei ragazzi
si fossero dimostrati all'altezza della sua “esercitazione di
sopravvivenza”, eventualità tutt'altro che scontata.
Non si faceva troppe illusioni a
riguardo. Aveva già assistito a quello scenario desolante negli anni
precedenti: un trio di teppistelli arroganti che pensavano di potersi
considerare ninja in virtù del fatto che era stato concesso loro di
indossare il coprifronte della Foglia. Ormai conosceva il tipo: a
quei bambocci spocchiosi interessava unicamente prevalere gli uni
sugli altri, dimostrare di essere migliori dei propri compagni,
talvolta arrivando perfino a scontrarsi tra loro per decretare chi
fosse meritevole di divenire suo allievo. E quand'anche la prima
parte della prova non si fosse risolta in un esito così disastroso,
nessuna squadra era poi stata in grado di superare il trabocchetto
del secondo test, notevolmente più insidioso.
Non era affatto sicuro che le cose si
sarebbero concluse diversamente. Aveva trascorso la mattinata a
spiare di nascosto i tre che gli erano stati affidati, cercando di
farsi una prima idea delle loro personalità e del modo in cui
interagivano per capire rispettivi punti di forza e di debolezza. Al
momento di presentarsi a loro era stato accolto da quello scherzo
idiota del cancellino sulla porta e gli era bastata un'occhiata per
ottenere la conferma di ciò che già aveva dedotto dalla sua
indagine in incognito: quei tre ragazzini erano tutto fuorché una
squadra. Ciascuno era concentrato solo su se stesso e sulle proprie
mire egoistiche, del tutto disinteressato a fare fronte comune.
Durante il giro di presentazioni aveva
notato l'esuberanza dello scapestrato Naruto, maldestro, impulsivo,
immaturo e alla costante ricerca di attenzioni; l'atteggiamento
civettuolo e puerile di Sakura, tutta presa dalle sue fantasie
romantiche nei confronti di Sasuke; e poi c'era la fredda supponenza
del giovane Uchiha, interessato unicamente a vendicare il suo clan e
a diventare abbastanza forte da uccidere il fratello maggiore.
Si trattava indubbiamente di tre
soggetti che avevano ben poco da spartire, per non parlare della
differenza abissale che poneva Naruto e Sasuke letteralmente agli
antipodi. Riuscire a farne un vero team sarebbe stata un'impresa
alquanto ardua.
Kakashi sollevò lo sguardo sulla
fotografia un po' scolorita che ritraeva la sua vecchia squadra e si
permise un sorriso nostalgico. Ma del resto, anche noi eravamo
così, all'inizio.
Forse,
dopotutto, quella poteva essere la volta buona. Chi poteva dirlo!
L'indomani li avrebbe messi alla prova
e solo a quel punto avrebbe capito se quei tre si sarebbero rivelati
l'ennesimo fallimento o piuttosto una preziosa opportunità di
tramandare l'eredità del Quarto Hokage e di Obito a una nuova
generazione di shinobi.
Il Terzo Hokage gli aveva assegnato
quel compito e Kakashi avrebbe fatto il suo dovere, come sempre... ma
alle sue condizioni. Non gli importava che gli altri lo
considerassero troppo duro con le nuove reclute fresche di diploma,
né che i maestri dell'accademia scuotessero la testa ogni volta che
gli aspiranti Genin sottoposti al suo giudizio facevano ritorno in
aula delusi e imbronciati: non avrebbe mai permesso che qualcuno
incapace di collaborare con i propri compagni e di comprendere
l'importanza dello spirito di squadra diventasse shinobi. Mai.
In quell'istante, un refolo di vento
tiepido soffiò attraverso la finestra, sfiorando in una carezza
gentile i capelli argentati dell'uomo e lambendo la coppia di
campanellini appesi al muro. Un dolce tintinnio si levò alle spalle
di Kakashi, come in risposta al pensiero appena formulato dal Jonin.
Spazio Autrice
Kon'nichiwa! :)
Vi rubo giusto altri due secondi.
Innanzitutto voglio ringraziare chiunque abbia aperto questa storia e
speso un po' del suo tempo per leggere. Non scrivevo da un bel po' e
questo è solo il mio secondo lavoro nel fandom. Sinceramente non
sono convintissima del risultato, ma è il meglio che sono riuscita a
fare. Sono apertissima a suggerimenti e critiche costruttive.
Al prossimo e ultimo capitolo di questa
mini-storia introspettiva (che, vi prometto, sarà un pochino meno
angst).
Domo arigato!
P.S. Un ringraziamento speciale a
Menade Danzante, senza la quale probabilmente questa storia non
avrebbe mai visto la luce.
Grazie Menade del mio cuore!