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Autore: Espen    10/12/2020    1 recensioni
[Questa storia partecipa al contest “Wr-Ink-Tober” indetto da fantaysytrash sul forum di EFP]
La vita del giovane elfo Eiri attraverso lo scorrere del tempo e dei suoi autunni. Delle responsabilità che la sua famiglia gli ha caricato sulle spalle fin da bambino, della sua passione per i libri e per il tiro con l'arco e della sua relazione con un orco di nome Kizngart.
Dei suoi sogni infranti e di quelli riconquistati.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Note dell'autrice: Sono davvero felice di tornare a pubblicare sul mio profilo di Efp, dopo più di cinque anni, ormai. Questa storia è ispirata al background di un mio pg di D&D e ho pensato che potesse essere una storia interessante da raccontare e che si sposava bene con le tematiche proposte nel contest di fantasytrash, che tra l'altro ringrazio per averlo indetto e avermi, quindi, dato l'ispirazione per tornare sul sito. A proposito della storia, sono soddisfatta di come mi è venuta fuori, anche se il mio essere prolissa si sposa poco con i limiti di parole, per cui ho dovuto tagliare alcune scene, ma, chi lo sa, magari scriverò qualcos'altro in futuro su questi miei personaggi!
 


Quando Cadono le Foglie
 
 






 
Decimo autunno
 

A Eiri piaceva fare due cose: leggere libri e guardare suo fratello Valyk tirare con l’arco. Nell’ultimo anno era riuscito ad unirle, sgattaiolando fuori da Villa Smeraldo per andare ad assistere agli allenamenti di suo fratello. Lo trovava sempre al solito posto, in una piccola radura nel bosco che circondava le mura di Emeras, con l’arco teso verso dei bersagli di legno rudimentali. Da quando era stato ammesso all’Accademia Ranger, trascorreva pochissimo tempo a casa.
Eiri passava il tempo seduto in un angolo, sul manto erboso, a guardarlo di sottecchi, mentre leggeva uno dei libri che prendeva dalla biblioteca di famiglia. Ai suoi genitori non piaceva che leggesse così tanto, probabilmente perché preferiva i libri agli addestramenti con la spada, nobile arte che veniva tramandata da generazione in generazione per mantenere alta la reputazione della famiglia, una delle poche di nobile lignaggio ad essere ancora composte da elfi puri. O almeno così gli ripeteva sua nonna, quando lo sentiva lamentarsi per gli allenamenti; non poteva farci nulla se li trovava noiosi: erano faticosi e difficili, nonché rozzi e brutali. Decisamente poco adatti ad un elfo mingherlino come lui, che non aveva ereditato né la forza dei suoi fratelli più grandi, né i riflessi pronti di sua sorella Lynn.
I libri erano decisamente più interessanti, in sua opinione: non doveva fare sforzi fisici e racchiudevano un sacco di segreti, storie, persone e vite che andavano aldilà di Emeras e dei barbosi discorsi dei suoi genitori sulla virtù e sulla purezza della loro stirpe.
Era anche per quello che preferiva stare in compagnia di Valyk rispetto a quella in casa: tra le fredde mura di pietra della villa, tutto era avvolto da una patina di noia, di quotidiana banalità; sempre le solite facce, sempre i soliti discorsi, sempre i rimproveri di suo padre e i sospiri di sua madre, sempre i dispetti dei gemelli. Era sempre tutto uguale, tutto noioso e prevedibile.
Andare a trovare Valyk, invece, era una piacevole rottura da quel mondo che cominciava a stargli stretto (e poi a suo fratello non importava che passasse il pomeriggio a leggere). Era uno scorcio su un altro mondo, una vita diversa dalla sua, più libera.
Era un po’ come leggere un libro e Valyk, quando tirava con l’arco, sembrava il protagonista di uno dei suoi racconti preferiti.
Soprattutto in momenti come quello, dove il prato erboso, coperto da foglie secche, e gli alberi avvolti da chiome gialle e arancioni donavano all’ambiente un aspetto quasi fiabesco, così simile ai paesaggi descritti nelle storie che amava tanto. E Valyk era il suo eroe: la postura dritta, le braccia tese a sostenere l’arco e lo sguardo fisso sul suo bersaglio, quello di un cacciatore che sa di avere la preda in pugno. Incoccò la freccia, l’espressione tesa e concentrata. Non un movimento di troppo, non un respiro superfluo veniva rilasciato dalle sue labbra.
Tutto, in quell’attimo, parve immobilizzarsi: il vento fresco, il canto degli uccelli, le gocce di rugiada che gocciolavano ritmicamente sui rami secchi; tutto si fermava per quel secondo, come a inchinarsi alla forza dell’arciere.
Trussk.
La freccia fu scoccata e, fendendo l’aria, andò dritta al suo bersaglio. Un centro perfetto. La preda era stata abbattuta e il cacciatore rilassò le braccia, mentre il vento gli carezzava i capelli, gli uccelli riprendevano a cinguettare e le gocce di rugiada continuavano con la loro cadenzata e lieve musica.
“È stato un bellissimo tiro!” esclamò Eiri con entusiasmo, facendo girare verso di lui il fratello, il quale gli rivolse un’espressione sorpresa, come se si fosse momentaneamente dimenticato di non essere solo. 
“Era buono” si limitò a dire, scrollando le spalle, confuso dall’esaltazione dell’altro.
“Era fantastico, sembravi Korr!” ribatté Eiri, agitando le braccia per enfatizzare le sue parole. Il libro che stava leggendo giaceva ora aperto sulle sue gambe incrociate e un soffio di vento fece girare alcune pagine, ma lui nemmeno se ne accorse, la sua attenzione era totalmente catalizzata sul fratello.
“E chi è Korr?” domandò incuriosito Valyk, mentre si dirigeva verso di lui e si inginocchiava alla sua altezza. Un lieve sorriso gli dipingeva le labbra. Sua nonna diceva spesso, non senza che una nota di disprezzo e disgusto le sporcasse la voce, che loro due erano troppo simili.
In effetti Eiri condivideva molti dei tratti somatici di Valyk: i loro occhi erano della medesima sfumatura di blu, avevano gli stessi capelli scuri come la pece, così come la stessa forma affilata del viso e la stessa corporatura esile ma longilinea, anche se Valyk negli ultimi anni si era irrobustito grazie agli allenamenti con l’arco, perdendo quell’aspetto fragile che tanto lo aveva caratterizzato da più giovane.
Eiri sollevò il libro che si era portato appresso, mostrando la copertina al fratello con un grande sorriso. Era sempre piacevole ricevere domande sulle sue letture, anche se a porgliele era sempre e solo Valyk “Il protagonista del libro. Era un eroe che ha viaggiato in un sacco di posti e aiutato centinaia di persone, affrontando mostri schifosissimi. Anche lui era un arciere! Tu sembri proprio come lui, Valyk, e il tuo arco è bello ed elegante come il suo!”
Valyk ridacchiò davanti all’eccitata parlantina del fratello. Eiri era un bambino introverso, era raro sentirlo parlare così tanto e con un tale entusiasmo. Doveva piacergli davvero molto quel libro.
Gli passò una mano tra i capelli scuri, spettinandoglieli affettuosamente.
“E ti piacerebbe provare a tirare un paio di frecce, come il tuo eroe?”
A quella domanda, gli occhi di Eiri si spalancarono sorpresi e la bocca si schiuse appena, non trovando le parole giuste. Il suo sguardo pareva brillare, sotto la pallida luce del sole autunnale, mentre rispondeva affermativamente.
 
 
Eiri sapeva di appartenere ad una delle famiglie più potenti di Emeras. Il clan Dumein era al centro di numerose leggende della zona, al suo interno erano vissuti guerrieri di incredibile fama, che avevano reso l’ultima città elfica una delle più ricche e prosperose dell’intero continente.
O almeno così gli era stato insegnato da sua nonna e ribadito di continuo dai suoi genitori. Eiri aveva letto nei tomi della biblioteca di famiglia alcune di quelle storie, ma non gli erano piaciute. C’era troppo sangue, troppe guerre e distruzione. Gli eroi della sua famiglia non erano generosi e di buon animo come Korr, anzi gli apparivano noiosi, quasi prevedibili, sempre alla ricerca della gloria e del potere. Korr agiva per aiutare gli altri, non per conquistare terre o eliminare i suoi rivali. Ma quando aveva provato a spiegarlo a suo padre, quest’ultimo gli aveva tirato uno schiaffo e gli aveva detto di “non disonorare la tua famiglia in questo modo”.
Così Eiri, da quel momento, aveva preferito stare in silenzio dinanzi ai suoi famigliari, non voleva ricevere altri schiaffi. Facevano male.
Per questo durante i pasti stava zitto e mangiava in fretta, così da potersene andare il prima possibile. Non poteva nemmeno contare sul silenzioso appoggio di Valyk, il quale preferiva la mensa dell’Accademia Ranger alla loro famiglia. Eiri un po’ lo invidiava per questa sua opportunità di scelta. Trovava particolarmente noiosi i discorsi dei suoi genitori e dei suoi fratelli sul denaro, la guerra, la politica o i lunghi rimproveri nei suoi confronti perché passava troppo tempo a leggere e troppo poco ad allenarsi con la spada.
Quella sera era anche più noiosa delle altre, perché suo padre aveva invitato a cena Marcus Coldshore, uno dei pochi umani a cui i suoi genitori portavano rispetto, essendo il capo dei Falchi Rossi, il corpo militare del clan Dumein.
Suo padre Kalir sedeva a capo della lunga tavola in legno pregiato, su cui erano soliti consumare i pasti. Per l’occasione aveva tirato i capelli scuri all’indietro, in modo da evidenziare le lunghe orecchie a punta. Il suo viso affilato e lo sguardo imperscrutabile non lasciavano trasparire alcuna emozione, nemmeno mentre discuteva con l’ospite dell’imminente promozione a comandante di Afryl, il maggiore dei suoi fratelli.
Eiri ancora faticava a comprendere come un essere arrogante, borioso e infimo come Afryl fosse arrivato così in alto nella gerarchia militare. Forse tutti i Falchi Rossi erano arroganti, boriosi e infimi; a Eiri non erano mai piaciuti molto, la maggior parte di loro lo prendeva in giro perché non era bravo con la spada, le poche volte che andava al campo di addestramento. Erano anche una delle ragioni per cui continuava a saltare gli allenamenti, non gli piaceva essere chiamato stupido o imbecille tutt’ossa. Eiri sapeva di non essere stupido, semplicemente non gli piacevano le armi da mischia, non erano per lui.
“Spero che il traguardo di tuo fratello ti sia di ispirazione, Eiri.” La voce di sua nonna interruppe il corso dei suoi pensieri. Sedeva alla destra di suo padre, i lunghi capelli bianchi, normalmente sciolti, erano raccolti in un elaborato chignon, facendole risaltare il mento appuntito e le guance scavate “I tuoi fratelli stanno tenendo alto il buon nome della nostra famiglia, è tuo dovere fare lo stesso e continuare a proseguire la nobile arte della spada. La lettura è importante, ma non è con i libri che porti a casa la gloria.”
Nonostante l’aspetto rachitico, Nyual Dumein era ancora la matriarca della famiglia e la sua sola presenza emanava un’aura di nobiltà e rispetto, che pretendeva tanto dagli estranei quanto dai figli e dai nipoti.
Eiri avrebbe dovuto limitarsi ad annuire accondiscendente a quell’affermazione, subendo in silenzio l’ennesimo rimprovero.
Avrebbe dovuto, ma non lo fece.
La sua voce era lieve, timida, ma rimbombò sicura e limpida tra le mura riccamente decorate della villa “In realtà non credo di essere molto adatto ad armi come la spada, mi trovo meglio con le armi a distanza.”
Una risata di scherno che Eiri conosceva bene si levò dalla sua sinistra. Dunderiol non perdeva mai occasione per deriderlo, tra i suoi fratelli era quello che sopportava di meno. “Tanto saresti incapace uguale, non è tutto semplice come nei tuoi libri, cretinetto.”
 “Ho provato, invece! Valyk dice che sono bravo!” ribatté, alzando la voce, ma pentendosene subito dopo. L’iscrizione di suo fratello all’Accademia Ranger e il progressivo distanziamento dalla famiglia erano stati percepiti come un tradimento. Nessuno parlava più di Valyk, in casa, suo padre e sua nonna non sarebbero stati felici di apprendere che lui, invece, lo vedeva regolarmente.
Sentì le loro occhiate su di sé, erano come macigni dagli spigoli affilati che si posavano sul suo capo, costringendolo ad abbassare lo sguardo.
Dopo attimi di agghiacciante silenzio, Nyual fu la prima a proferir parola, il tono apparentemente calmo nascondeva rabbia e delusione “È questo che fai, invece di allenarti, trascorri il tempo a bighellonare con quell’insolente? E tu” con la coda dell’occhio notò sua madre stringersi nelle spalle quando sua nonna la chiamò, assumendo la stessa sua posa sottomessa e facendola apparire ancora più piccola e mingherlina di quanto non fosse “dovresti tenere sotto controllo i tuoi figli. Non possiamo permettere che Eiri venga traviato dalle idee malsane di quell’impertinente dell’altro tuo figlio. Una disgrazia in famiglia è già sufficiente”.
Nueth all’apparenza era la donna perfetta, che ogni altra famiglia invidiava: nobile, cortese e di bell’aspetto, con un’innata eleganza nei movimenti e nei comportamenti e, soprattutto, così fertile da aver potuto dare alla luce cinque figli di puro sangue elfico, sani e forti. Ma ad Eiri, in realtà, era sempre apparsa più come una prigioniera nella sua stessa casa: obbligata ad un matrimonio combinato da giovane, il suo sorriso era sempre triste, la sua gentilezza nel tempo si era trasformata in una totale passività. Era come una prigioniera, costretta nel suo ruolo predeterminato tanto quanto i suoi figli. Per questo, mentre tutte le sue parole sfumarono in un lieve balbettio accondiscendente, Eiri si sentì in colpa nel metterla in quella situazione, non se lo meritava.
Le scuse singhiozzate di sua madre vennero interrotte dalla voce perentoria di suo padre, che ad Eiri suonò come una condanna a morte.
“Tutto ciò è inammissibile, un elfo deve sempre essere ligio ai suoi doveri e portare onore alla sua famiglia. Da domani mi assicurerò personalmente che tu segua i tuoi allenamenti, Eiri. E chiuderò la biblioteca della villa, ci potrai andare solamente se riceverò responsi positivi dal tuo istruttore circa il tuo comportamento. Mi sono spiegato bene, Eiri?”
Lui si limitò ad annuire, la testa che si infossava ancora di più nelle spalle. A stento si trattenne dal piangere, tanta era l’umiliazione che provava. I momenti con Valyk e nella biblioteca erano i pochi che lo facevano sentire libero. Senza quelli, sarebbe stato sempre imprigionato in quella noiosa e terribile quotidianità che tanto detestava.
“A parole, Eiri”.
Eiri deglutì, ricacciando le lacrime. Si sentiva inerme, impotente di fronte ad una vita che altri stavano programmando per lui “Sì, signore”.
 
Suo padre mantenne fede alla parola data: ogni mattina lo faceva svegliare all’alba e lo accompagnava al campo di addestramento, dove restava fino al calare del sole. In ogni momento della giornata c’era qualcuno che lo sorvegliava; aveva anche provato a scappare in un paio di occasioni, ma suo padre lo aveva scoperto e frustato con la cinghia di cuoio. Eiri odiava quel genere di punizioni, gli lasciavano per giorni segni scuri e dolorosi sulla schiena.
Veniva punito anche quando l’istruttore si lamentava del suo atteggiamento o delle sue performance.
Ed accadeva spesso. 
Nei giorni in cui non vi erano le lezioni di spada, era segregato in casa, costantemente sorvegliato dai servitori e costretto a seguire le lunghe lezioni di sua nonna su politica, economia, etichetta e tante altre noiose nozioni che a lui apparivano completamente inutili.
I libri che leggeva gli insegnavano ugualmente cose sulla geografia e sulla politica del mondo, ma erano decisamente più divertenti e appassionati della voce monotona di sua nonna. Ma non gli era più permesso andare in biblioteca, suo padre diceva che i libri che amava tanto gli stavano traviando la mente, dandogli una visione distorta della realtà.
Tale schematica quotidianità durò per settimane. Fuori, nell’enorme giardino che adornava la villa, gli alberi avevano ormai perso quasi tutte le foglie, tingendo il manto erboso con chiazze di fogliame gialle e arancioni, e i giorni si facevano sempre più freddi, procedendo verso il pieno dell’autunno.
Le temperature non erano ancora così basse da impedire gli allenamenti con la spada, quindi anche Valyk doveva star ancora facendo i suoi esercizi quotidiani nel bosco. Eiri desiderava così tanto andare da lui, provare di nuovo l’ebbrezza di tirare una freccia e centrare il bersaglio, ma a causa della sua nuova routine non riusciva più a sgattaiolare fuori dalla villa come prima.
Strappato dai suoi unici spiragli di libertà, le giornate di Eiri erano come coperte da un velo di noia e apatia. Si era ritrovato a rifare tutti i giorni sempre le stesse cose, in una routine che stava uccidendo lentamente il suo animo e la sua volontà. Non c’era più nessuno stimolo che lo portasse a provare emozioni positive come la felicità, la curiosità o il semplice entusiasmo.    
Ma poi Valyk riapparve.
Successe una sera, mentre Eiri riposava nella sua camera da letto, i vestiti sporchi e sudati ancora addosso. Aveva lievemente aperto la finestra, in modo che il vento di ottobre desse sollievo al suo corpo esausto. L’addestramento di quel giorno era stato particolarmente estenuante, lo sforzo mentale di fingersi interessato, per non dover subire le punizioni di suo padre, era stato probabilmente superiore a quello fisico impiegato nell’uso della spada.
Si sentiva esausto nella mente e nel corpo.  
Chiuse gli occhi, forse sarebbe riuscito a riposare un po’ prima dell’arrivo dei servi che lo avrebbero preparato per la cena. Almeno nei suoi sogni poteva sentire il fruscio di una freccia scagliata, l’odore umido della terra nel bosco e il profumo soave dell’inchiostro seccato su vecchie pagine.
Si stava crogiolando in quei pensieri, quando sentì qualcuno bussare alla porta. Con un sospiro seccato strinse ancora di più gli occhi, cercando di ignorare il rumore. Forse, nel crederlo addormentato, la servitù o i suoi genitori lo avrebbero lasciato riposare.
“Eiri, sei lì dentro? Sono io, Valyk. Posso entrare?”
Fu solo un lieve sussurro, ma tanto bastò ad Eiri per trovarvi un po’ di sollievo. Sollevandosi appena col busto, rispose affermativamente alla richiesta del fratello.
Avrebbe voluto buttarsi fra le sue braccia, piangere e urlare di come l’allenamento con la spada fosse spossante, di come gli avesse riaperto le ferite sulla schiena, che ora bruciavano tantissimo, ma invece si limitò a osservare il fratello entrare nella stanza. Non poteva cedere ai suoi istinti: suo padre gli diceva sempre che i veri guerrieri controllavano le proprie emozioni e non piangevano per il dolore. E lui ascoltava suo padre, non voleva essere punito di nuovo. Le punizioni facevano male.
“Ho sentito che nostro padre ti ha costretto a unirti ai Falchi Rossi. Volevo assicurarmi che stessi bene”.
Le mani di Valyk erano gentili mentre gli accarezzava i capelli e la sua voce bassa gli dava sollievo. Eiri sapeva che avrebbe dovuto mandarlo via, ma sentiva troppo la mancanza della sua gentilezza. Nessuno era stato gentile con lui nelle ultime settimane.
“Non dovresti essere qui”, gli mormorò comunque, avrebbe voluto sembrare più fermo e autorevole, ma le parole uscirono stanche dalla sua bocca “Papà dice che le tue idee mi corrompono e mi rendono debole. Non posso più stare con te, Valyk”.
“E tu pensi che io ti renda debole?” Non c’era rabbia o delusione nella sua voce, come invece si sarebbe aspettato, anzi era straordinariamente gentile. Valyk era sempre gentile con lui, era l’unico ad esserlo nella sua famiglia, dacché ne avesse ricordi.
“Quello che penso io non conta nulla. Importa solo quello che vuole la nostra famiglia,” ribatté con un filo di voce. Si sentiva così stanco e le carezze di suo fratello erano così piacevoli “però mi sono divertito a tirare l’arco con te nel boscahi-
Un’esclamazione di dolore gli uscì dalle labbra, quando Valyk spostò la mano sulla sua spalla, andando involontariamente a premere su una delle sue ferite.
“Ti fa male da qualche parte?” Suo fratello non aspettò una risposta da parte sua per sollevargli la maglia e controllare con i propri occhi la sua schiena. Eiri non poteva saperlo, ma lo sguardo di Valyk si era rabbuiato mentre la luce del sole morente gli permetteva di avere una chiara visione dei graffi rossi e sanguinanti, che occupavano la piccola schiena del fratello.
 “È stato nostro padre a farteli, vero? Mi dispiace che anche tu debba subire tutto questo, Eiri.”
Aveva solo dieci anni, ma già doveva sopportare un simile dolore, un peso che non avrebbe dovuto reggere. Nessuno di loro avrebbe dovuto: la verità era che ai figli del clan Dumein era stata rubata l’infanzia in nome di uno stupido onore e di un’altrettanta stupida reputazione da mantenere. Nessuno avrebbe dovuto avere il diritto di privarli di una cosa simile, nemmeno loro padre.
Con un sospiro affranto, Valyk si mise a cercare qualcosa nella sacca che aveva portato con sé, per poi tirare fuori quelli che a Eiri sembravano degli impacchi. Sentì suo fratello posarli delicatamente sulle parti lese del suo corpo: erano freschi contro la sua pelle martoriata e gli donarono un po’ di sollievo.
Passarono dei minuti in silenzio, mentre Valyk si prendeva cura delle sue ferite. Fu proprio lui ad interromperlo, una volta finito di trattare la schiena del fratello.
“Oh, quasi dimenticavo, ti ho portato un regalo!” esclamò con un tono più giulivo, forse nel tentativo di alzargli il morale. Dalla sacca estrasse due oggetti rettangolari; anche se ormai le ombre si stavano impossessando della sua camera, Eiri riconobbe la forma inequivocabile di due libri.
“Un amico me li ha dati per te. Sono due volumi delle Cronache di Korr, l’arciere che ti piace tanto.” aggiunse, sorridendogli in modo affettuoso, mentre glieli porgeva.
“G-grazie, Valyk. Papà mi ha requisito tutti i libri, dice che mi distraggono dalle cose importanti, ma per me sono importantissimi.”
Era da tanto che Eiri non sentiva la ruvidezza della carta sotto le sue mani, era una sensazione bellissima; si sarebbe messo a piangere, se la stanchezza non gli avesse tolto la forza pure per fare quello.
Portò lo sguardo su suo fratello, il crepuscolo aveva generato un gioco di luci e ombre sul suo viso, facendogli brillare gli occhi blu. Sembravano delle stelle luminose.
Valyk era forte, al contrario di lui: era riuscito a scappare dalla monotonia, a diventare un arciere e a vivere la vita che voleva.
“Come hai fatto a scappare da lui, da nostro padre?”
“Ho dato importanza a quello che volevo io.” Nonostante l’espressione dolce dello sguardo, la sua voce era ferma, celando appena il rancore e la rabbia verso la loro famiglia “Papà dice un sacco di stronzate, a lui importa solo del potere, di comandare gli altri, anche quando si tratta dei suoi stessi figli. Non dimenticare mai cosa vuoi dalla vita, Eiri. Avrai anche tu la tua occasione, devi solo resistere fino ad allora.”
E quelle parole si insidiarono nell’animo di Eiri, si incisero nel suo cuore come pietra, come un saldo monolite che lo avrebbe aiutato ad andare avanti nei periodi più bui della sua vita.
 
 
Dodicesimo autunno
 
 
Eiri in futuro non avrebbe saputo dire cosa gli fosse preso in quel momento, quale forza si fosse impossessata del suo corpo.
Ricordava solo che era autunno e l’odore mattutino di rugiada si mescolava a quello del sudore, nel deposito delle armi del centro di addestramento.
Erano passati due anni da quando era stato costretto ad unirsi ai Falchi Rossi, da quando la sua infanzia era finita, troncata dalle fredde parole di suo padre; del bambino allegro e sognatore che era stato un tempo non era rimasto nulla.
Ormai la noia faceva parte della sua vita, niente attirava più il suo interesse o lo faceva sorridere, nemmeno i libri che gli aveva regalato Valyk, lasciti di una vita passata, di una persona che non era più lui. Persino le botte che prendeva dal padre erano diventate noiose, il dolore era divenuto non solo prevedibile, ma Eiri lo accoglieva come un vecchio amico, ormai.
L’unica cosa che lo faceva alzare dal letto ogni mattina, costringendosi ad affrontare quella vita che sembrava più simile ad una tortura, erano le parole pronunciate da Valyk tempo prima.
Devi solo resistere.
Davanti alla sua immobilità e apatia, Kalir Dumein aveva deciso di mandarlo “a farsi le ossa” sul campo di battaglia, nella speranza di smuovere il suo animo e fargli capire l’utilità dell’arte del combattimento. Alcune delle tribù nomadi degli Orchi si era unite sotto un unico vessillo ed erano diventate una reale minaccia per Emeras, bruciando i suoi raccolti e occupando le sue miniere.
Sarebbe partito per le campagne tra due giorni ed Eiri sapeva che non avrebbe fatto ritorno a casa. Non gli piaceva combattere e non era un bravo soldato. Sarebbe caduto, come le foglie dagli alberi. Si chiese se suo padre si fosse reso conto di star mandando suo figlio a morire.
Dubitava che gli sarebbe davvero importato, anzi probabilmente al suo funerale lo avrebbe elogiato per essere morto come un vero guerriero, poiché con il suo sangue nobile, versato sul campo di battaglia come sacrificio, avrebbe mantenuto alta la reputazione della famiglia.
Era davvero così che voleva vivere? Era davvero così che voleva morire?
Avrai anche tu la tua occasione.
Le parole di Valyk gli rimbombarono nella testa, mentre osservava con gli occhi spalancati il martello da guerra appeso in malo modo ad una delle rastrelliere dell’armeria.
L’istruttore lo aveva mandato a prendere alcune spade da allenamento. Di norma non tenevano armi di alta qualità lì dentro, visto che servivano solo per gli addestramenti; quel martello, però, era grosso e di un acciaio pregiato, con il manico riccamente decorato. Doveva essere stato dimenticato lì da qualche istruttore o da uno degli allievi più grandi.
Avrai anche tu la tua occasione.
Sarebbe bastato poco per sollevarlo, davvero un minimo sforzo.
E sarebbe tutto finito.
Non ci sarebbero stati più gli allenamenti, la guerra, le punizioni di suo padre, la noia.
Avrai anche tu la tua occasione.
Era ciò che aspettava.
Prese il martello con entrambe le mani, era davvero pesante, e lo sollevò con tutta la forza che possedeva, s’impegnò più di quanto avesse mai fatto in quei due anni di allenamento. Il cuore gli batteva forte nel petto e l’anima urlava, anelando la libertà.
Poi, finalmente, mollò la presa.
Il martello cadde dritto sul suo piede.
 
Tredicesimo autunno
 
 
Eiri si era riscoperto ad amare l’autunno. Adorava la sensazione del vento fresco che gli scompigliava i capelli, l’odore della rugiada mattutina e l’aria pregna di umidità che rinfrescava l’ambiente, dopo mesi di caldo soffocante.
In quel periodo dell’anno il bosco pareva appartenere ad uno di quei mondi fantastici di cui tanto leggeva nei libri da bambino: gli alberi tingevano il loro manto di colori caldi e confortanti, lasciando cadere le proprie foglie sul prato, quasi a crearne uno nuovo, scricchiolante e variopinto.
Sospirò, inalando quel profumo di terra bagnata che associava alla libertà, per poi sedersi ai piedi di un albero al limitare di una piccola radura. Poggiò accanto a sé l’arco e un cesto di vimini stracolmo di castagne ˗ stando alle parole di Valyk, ottobre era il mese ideale per la loro raccolta. Si tolse dalle spalle lo zaino che si portava appresso in quelle sue piccole avventure, per poi poggiare anche quello sul manto erboso ed estrarvi un libro. Era dell’amico di suo fratello, Eiri non lo aveva ancora conosciuto, sapeva solo che segnava i suoi volumi con la sigla EV. e che aveva ottimi gusti in fatto di letture.   
Il sole pomeridiano era pallido e coperto da qualche nuvola, ma filtrava a sufficienza da permettergli di leggere. Eiri adorava passare i pomeriggi in quel modo: lontano da tutti, con solo i rumori del bosco e i suoi libri a fargli da compagnia. Certo, senza Valyk le giornate erano più noiose, ma non poteva di certo biasimarlo per non essere con lui: d’altronde era impegnato in una guerra a chilometri di distanza da lui, difendendo la loro città insieme agli altri ranger.
Probabilmente stava combattendo sullo stesso campo che lui era riuscito ad evitare.
A quel pensiero, una stilettata di dolore gli attraversò la caviglia. Con una smorfia sofferente a deformargli il bel viso, Eiri piegò lentamente la gamba per tirarsi via lo scarpone e controllare il piede: una lunga cicatrice rosa lo attraversava interamente, espandendosi maggiormente sulla caviglia, dove si avvolgeva in un bracciale di carne cicatrizzata. Il dottore gli aveva detto che era stato fortunato, aveva rischiato l’amputazione del piede, ma, benché suo padre ne dicesse, il suo corpo era stato abbastanza forte da guarire in modo soddisfacente. Certo, zoppicava e non riusciva a stare in piedi per molte ore di seguito, ma almeno era in grado di tenere in mano un arco e di usarlo senza risultati disastrosi.
Era vero che era stato fortunato, quel martello gli aveva salvato la vita. Il suo piede zoppo, non più in grado di sostenere le aspettative di suo padre nel renderlo un grande guerriero, era stato solo il prezzo della sua libertà. Eiri non aveva rimpianti.
Un rumore improvviso gli fece alzare lo sguardo di fronte a sé. Quella zona del bosco era particolarmente sicura: non c’erano tane di animali selvatici pericolosi ed era relativamente vicina alla città, quindi lontano da possibili banditi e malintenzionati.
Eppure Eiri era sicuro di aver visto un’ombra muoversi tra gli alberi. D’impulso, prese l’arco e incoccò una freccia. A causa della sua ferita, non aveva potuto iscriversi all’Accademia dei Ranger come suo fratello, ma Valyk si era comunque offerto di allenarlo nel tempo libero e di insegnargli le basi del tiro con l’arco, ora che Eiri era diventato per suo padre inutile e storpio.
Eiri non era di certo bravo a tirare frecce come suo fratello, ma aveva una buona mira ed era in grado di difendersi da qualunque possibile minaccia del bosco.
“T-ti ho visto! Esci se ne hai il coraggio!” esclamò, la voce che gli uscì più insicura e tremolante di quanto non avesse voluto. Tese le orecchie e aguzzò la vista, puntando l’arco verso quel nemico invisibile.
“Tira giù quell’arco, non cerco guai.” una figura umanoide emerse da dietro degli alberi alla sua destra. Era poco più alto di lui, dalla corporatura robusta e paffuta ed era vestito di pelli. Aveva la pelle verde e gli occhi rosso sangue, con due piccole zanne bianche che emergevano ai lati della bocca. I capelli erano neri come l’inchiostro, rasati ai lati della testa, in una capigliatura che Eiri trovava davvero strana.
Un orco.
La mano di Eiri tremò appena, ma mantenne l’arco teso. Le ultime notizie che aveva ricevuto sulla guerra rassicuravano che il fronte si fosse bloccato nelle campagne, ancora lontano da Emeras. Che alcuni di loro stessero provando ad infiltrarsi in città? Quel ragazzo sembrava troppo giovane per essere una spia e non era nemmeno vestito da soldato. Anzi, solo in quel momento notò che in una mano teneva due conigli morti e sulle spalle portava quello che a prima vista gli pareva un arco molto rudimentale.
“Chi sei?” domandò sospettoso.
L’altro sembrava a disagio almeno quanto lui, mentre prendeva parlare “Mi chiamo Kizngart della tribù Duroacciaio, mi sono allontanato dal mio accampamento per cacciare, ma mi sono distratto e mi sono avvicinato troppo alla città. Non volevo, davvero! Lasciami solo andare a casa, elfo!” la sua voce era profonda, ma ancora giovane, e marcava le r in un accento particolare, non tipico di quelle lande.
“Accampamento?”
“Sì, quello della mia tribù. Si trova a nord-ovest da qui, in mezzo al bosco. Siamo nomadi, ci accampiamo lì da anni, non abbiamo mai dato fastidio a nessuno, lo giuro, elfo!”
“Mi chiamo Eiri, non elfo” con un sospiro, abbassò l’arco e ripose la freccia nella faretra. Quell’orco, Kizngart, non gli sembrava per nulla pericoloso. Valyk lo aveva sempre ammonito di stare lontano dagli orchi, diceva che erano violenti e pericolosi, che non avevano pietà per il prossimo, ma Eiri non si era mai convinto che fossero tutti così: le storie di Korr, sebbene fossero leggende, si rifacevano a luoghi e popoli reali, e gli orchi venivano descritti come grandi combattenti, dall’animo passionale ma altruista. Kizngart gli ricordava un po’ quelle storie e lo incuriosiva, soprattutto il modo in cui i suoi occhi vermigli si erano posati sul libro lasciato aperto sul suo grembo.
“Ti piace leggere?”
L’altro parve in leggero imbarazzo a quella domanda, portò lo sguardo verso il basso e la grande mano a grattarsi leggermente il collo. “Non so leggere. I miei genitori dicono che non serve per cacciare gli animali, ma mi piace ascoltare mia cugina Otah quando lo fa. Sta studiando per diventare la nuova Sciamana della tribù, quindi a lei è concesso”.
Gli occhi di Eiri si spalancarono sorpresi a quell’affermazione, conosceva così poco riguardo le Tribù Nomadi, avrebbe voluto fargli delle domande in merito, ma un’idea più interessante gli balenò nella mente.
“Posso insegnarti io a leggere e a scrivere” si propose, con un sorriso allegro stampato sul volto “ma ad una condizione”.
Eiri osservò il viso dell’altro esprimere una vasta gamma di sentimenti nell’arco di pochi secondi: dall’incredulità passò ad un sorriso speranzoso, per poi rabbuiarsi perplesso alla sua ultima affermazione. Trovava affascinante quella sua incapacità di celare le proprie emozioni, gli dava l’idea di una persona estremamente sincera.
“Cioè?”
Eiri ridacchiò davanti al palese timore dell’altro nei suoi confronti. Era strano che un orco grande e grosso come lui fosse a disagiato davanti ad un elfo mingherlino e pure storpio.
“Voglio che mi racconti tutto sulla tua tribù e i tuoi viaggi!”
A quell’affermazione, l’interno corpo di Kizngart si rilassò, mentre esibiva un piccolo sorriso che metteva in evidenza le zanne appuntite e prendeva posto vicino a lui.
“D’accordo!”
 
Tra Eiri e Kizngart si creò una strana, ma piacevole routine: si incontravano nel bosco ogni giorno, nel primo pomeriggio, al solito posto. Eiri gli portava sempre libri diversi per le loro lezioni: spesso erano racconti brevi su Korr, altre volte storiografie e leggende di Emeras e una volta gli aveva fatto leggere anche un manuale sulla caccia, visto che era uno degli interessi principali dell’orco.  
Kizngart – o Kiz, come aveva preso a chiamarlo Eiri– si era riscoperto ad essere un allievo veloce e curioso e, come promesso, dopo le lezioni, gli raccontava dei suoi viaggi: la sua tribù seguiva l’andare delle stagioni, migrando verso nord durante la stagione calda e soggiornando più a meridione durante quella fredda. In quei tragitti Kiz aveva avuto modo di visitare svariati luoghi, tra cui le città dell’Impero, il Regno dei Giganti, la ricca e antica città-stato Sacrate e un mucchio di altri posti che Eiri aveva letto solo nei suoi racconti.
Il legame che si venne a creare quell’autunno nacque e si sviluppò grazie ai libri e, come l’inchiostro fa su un pezzo di carta, col passare del tempo si arricchì sempre di più. Kizngart parlò ad Eiri della sua famiglia, dei suoi sogni di lasciare la tribù un giorno per diventare un avventuriero, mentre l’elfo gli raccontò di suo padre, di Valyk e della sua passione per l’arco, di come fosse diventato zoppo e di come quel giorno divenne il più felice della sua vita.
Quell’autunno, anche un altro legame si formò, seppur in maniera più timida e placida. Anche quello, come con Kizngart, nacque dalla passione per i libri: Eiri conobbe finalmente il misterioso amico di Valyk.
Accadde una sera, suo fratello aveva avuto una licenza anticipata e lo aveva invitato a trascorrere la notte con lui e altri suoi commilitoni in una delle piccole baite di proprietà dell’Accademia dei Ranger, sparse per tutto il bosco. Fu lì che Evaldas ‘Ev.’ Ambris gli si presentò e Eiri scoprì che era il migliore amico di Valyk.
Eiri capì subito perché suo fratello era stato sempre così restio a parlargli di lui: Ambris e Dumein erano i due clan elfici più importanti di Emeras e tra di loro era scorso molto sangue in passato. Ancora adesso, in realtà, tra le due famiglie c’era molto disaccordo, ma la guerra contro gli Orchi aveva messo quelle loro rivalità in secondo piano.
Evaldas, comunque, gli era parsa una persona incredibilmente sveglia, con cui aveva potuto conversare di libri per tutta la sera. Aveva un animo buono, forse troppo per quella città avida, che si prendeva tutto quando meno te lo aspettavi.
 
 
Quattordicesimo autunno
 

Quell’autunno fu l’ultima volta che vide Valyk.
Avvenne in una grigia giornata uggiosa, col vento freddo che ululava e le nuvole che minacciavano pioggia. Lo ricordava davanti alla tomba di Evaldas, dopo il suo funerale, quando i suoi parenti erano già andati via da tempo e suo fratello aveva potuto compiangere l’amico in solitudine, lacrime silenziose scendevano dalle sue guance. Gli occhi blu, che Eiri aveva visto brillare molte volte, erano ora spenti e privi di una qualsiasi luce. Era come se con Evaldas, se ne fosse andata anche una parte della sua anima.
Una volta Eiri aveva letto, in una storiografia sulle città elfiche, che i bambini di Emeras nascevano nel sangue.
Evaldas non era morto a causa della guerra, finita ormai mesi prima, ma un pugnale aveva trafitto il suo cuore. Sull’elaborata impugnatura troneggiava lo stemma della famiglia Dumein.
La faida tra le due casate elfiche si era riaperta, ma Valyk non ne avrebbe fatto parte. Aveva chiuso con la sua dannata famiglia, con quella dannata città e con le sue dannatissime guerre.
Eiri non seppe mai dove andò Valyk dopo il funerale del suo migliore amico. L’unica notizia che ricevette, qualche giorno dopo, fu da una delle cameriere di Villa Smeraldo, che dichiarava di averlo visto attraversare le porte della città con l’arco in una mano e uno zaino sulle spalle.
Nessuno ebbe più sue notizie.
 
 
 
 
 
 Diciottesimo autunno
 
 
La partenza di Valyk fece riemergere quel sentimento di noia e costrizione che Eiri aveva provato da bambino, quando suo padre lo aveva costretto su una strada che non aveva mai avuto intenzione di percorrere.
Senza più suo fratello a fargli da guida e da appoggio, Eiri si ritrovò a cadere in una nuova routine, a fare sempre le solite cose e a vedere le stesse persone ogni giorno. Passava molto più tempo nel bosco, lontano dalla sua famiglia e dai pericoli che la guerra civile portava nella città, ma a lungo andare, anch’esso aveva perso di attrattiva: non c’erano più sentieri nuovi da esplorare, alberi da ammirare o animali da osservare da lontano.
La noia ormai faceva parte della sua vita, come una sgradita compagna. Tuttavia, quando le prime foglie cadevano dagli alberi e le giornate si accorciavano, quella sensazione spariva per essere rimpiazzata da una più confortante, che gli scaldava il petto e gli faceva battere forte il cuore.
L’inizio dell’autunno significava l’arrivo della Tribù Duroacciaio nelle terre elfiche e, di conseguenza, l’arrivo di Kiz e dei suoi racconti sulle avventure che aveva vissuto nel corso dell’anno. Kizngart, che con il suo sorriso e i suoi modi di fare rudi ma teneri, rompeva la terribile monotonia della vita di Eiri.
“Ah, quasi dimenticavo, ho un regalo per te!” esclamò l’orco, interrompendo il racconto di una delle sue avventure nelle terre dell’Impero. Lui ed Eiri si erano ritrovati al solito posto, vicino ad una radura nel mezzo del bosco e si erano seduti ai piedi di uno dei tanti alberi.
Eiri osservò l’altro incuriosito, mentre tirava fuori qualcosa dalla sua sacca. Con un enorme sorriso che evidenziava le appuntite zanne ai lati della bocca, Kiz gli porse un oggetto rettangolare, dalla copertina di cuoio, con ricamate sopra delle scritte dorate.
“È una raccolta di leggende di Sacrate, l’ho visto in un negozio d’antiquariato nella città e ho pensato che ti potesse piacere”.
Non era la prima volta che Kiz gli portava qualcosa dai suoi viaggi e, ancor meno raro, che quel qualcosa fosse un libro, ma Eiri si stupiva ogni volta di come l’altro volesse renderlo felice, non era più abituato ad avere qualcuno che si prendesse cura di lui.
Posò gli occhi blu prima sul libro, accarezzando la copertina ruvida con le dita, e poi sull’altro. Ormai il corpo paffutello e da fanciullo di Kiz si era temprato in quello di un uomo dalle braccia possenti e le spalle larghe. La mascella si era squadrata e aveva guadagnato molti centimetri in altezza, superandolo di diverse spanne. Dall’ultima volta che si era visti, aveva lasciato crescere i capelli, ora raccolti in un piccolo codino. Una cosa che, però, non era cambiata in tutti quegli anni era il suo sguardo, quegli occhi rossi che tanto aveva imparato ad amare, erano sempre caldi e amorevoli quando si posavano su di lui.
“Grazie, Kiz” mormorò, prima di abbracciarlo di slancio e travolgerlo in un lungo bacio. Sentì l’altro sorridere contro le sue labbra e portare le braccia alla sua vita stretta, stringendolo a sé e sfiorando con le grosse dita la pelle sotto la maglia.
Con l’andare delle stagioni e degli anni, anche il loro rapporto si era evoluto, da un’amicizia sincera era sbocciata un’attrazione reciproca, che si era poi trasformata in un amore passionale, ma sincero.
“Ho pensato” sospirò Kizngart tra un bacio e l’altro “che potremmo leggerlo insieme, dopo” la mano dell’orco si infilò sotto la stoffa dei suoi pantaloni, accarezzandogli lentamente una natica.
Era difficile stare lontani per così tanti mesi all’anno e le lettere che si inviavano non erano mai sufficienti a colmare la mancanza l’uno dell’altro. Tuttavia, con un po’ di fortuna, quella era stata l’ultima volta che si erano costretti a subire una simile tortura: ora che aveva compiuto la maggiore età, Eiri programmava di lasciarsi alle spalle la città e la sua famiglia, per partire a inizio della bella stagione con la tribù di Kiz.
“Mhh, sì, dopo” sussurrò lascivamente Eiri nel suo orecchio, cedendo alle carezze dall’altro, ma ricercando la sua bocca con la propria per coinvolgerlo in un altro bacio e lasciarsi trasportare da quel sentimento di piena felicità e amore.
 
 
Come aveva imparato nel tempo, Eiri programmava la sua vita in una direzione e la sua famiglia lo obbligava ad andare in quella opposta.
“Il matrimonio è programmato per questo inverno”.
Da quando si era infortunato, suo padre e sua nonna avevano perso ogni interesse nell’educarlo. Uno storpio non può diventare un soldato o un guerriero valoroso. Da quel giorno era diventato come invisibile alla sua famiglia e, per certi versi, Eiri ne era stato felice: finalmente poteva fare quello che voleva, essere chi voleva. O almeno così aveva creduto, fino a quella sera, quando fu convocato nello studio di suo padre.
Entrare in quella stanza, da bambino, non era mai stato sinonimo di buone notizie. Era il luogo delle sue punizioni, se chiudeva gli occhi poteva ancora sentire il suono del cuoio che schioccava contro la sua pelle e i suoi pianti soffocati.
“Cosa?” domandò incredulo, credendo, anzi sperando, di non aver compreso il significato delle parole del genitore.
Kalir Dumein sospirò seccato, seduto dietro l’ampia scrivania, e ripeté le parole appena pronunciate: “Ormai sei adulto, è tempo che ti trovi una moglie. La primogenita del clan Bodwyn è un partito perfetto, la sua famiglia è ricca e i loro soldi e soldati ci saranno di grande aiuto nella nostra guerra contro quelle canaglie insidiose degli Ambris. Il matrimonio è già stato concordato, si terrà all’inizio dell’inverno. Tra un paio di giorni incontrerai la tua futura sposa, verrà in visita qui ad Emeras”.
“Non voglio farlo!”
Tutta la forza e determinazione che aveva messo nella sua obiezione scemò quando l’espressione di suo padre si contorse in una smorfia rabbiosa, facendolo alzare dalla poltrona e sbattere le mani sul tavolo.
“Non importa cosa vuoi tu, ma cosa vuole la tua famiglia, Eiri! Ti sei dimostrato una delusione come guerriero ed è già un miracolo che siamo riusciti ad accasarti, con quell’orrida deformazione che ti ritrovi. Sii riconoscente, non ti permetterò di portare ulteriore vergogna al nostro clan!”
Eiri era incredulo. Ancora una volta tutti i suoi sogni si stavano sgretolando a causa delle ambizioni di qualcun’altro. Se fosse stato più giovane avrebbe accettato passivamente le decisioni altrui, compiangendo il proprio destino. Pensò alle giornate passate nel bosco, al suo piede dolorante, a Kiz e ai suoi baci. 
Non era più quel ragazzino. Non si sarebbe arreso così facilmente.
 
 
Alea Bodwyn era certamente un elfa di bell’aspetto, con lunghi capelli biondi che le cadevano elegantemente sulle spalle mingherline, la vita stretta e un viso dolce e pulito, con due occhi verdi che parevano simili a gemme. Tuttavia, l’incontro che Eiri stava avendo con lei nel grande giardino di Villa Smeraldo era incredibilmente noioso.
Alea di per sé gli appariva banale, in confronto a Kiz: non aveva il suo sorriso imbarazzato, la sua voce roca che si emozionava quando parlava dei suoi viaggi, le sue mani grosse ma gentili che lo stringevano a sé come a proteggerlo da quel mondo crudele, in cui si trovava prigioniero.
In più non avevano nessuna passione in comune e i loro discorsi erano riempiti da vuoti imbarazzanti, che non aveva mai provato con Kizngart. Alea non sembrava una cattiva persona, ma semplicemente non era quella giusta per lui.
Eiri se ne sarebbe andato da quella città alla fine dell’inverno, sposato o meno, come aveva programmato di fare. Probabilmente anche per Alea sarebbe stato meglio così.
“Lo sai, Eiri”, la sua voce cordiale ma stranamente decisa giunse alle sue orecchie, distogliendolo dai suoi pensieri e facendolo sobbalzare appena “Tu non mi devi niente e non lo devi nemmeno alla tua famiglia”.
“Eh?”
“Io non ti piaccio. Sei distante, posso vedere chiaramente c’è qualcun altro ad occupare i tuoi pensieri”, Eiri aprì la bocca per ribattere, anche se non era sicuro di dove l’altra volesse andare a parare. Non sembrava arrabbiata o triste, anzi gli stava sorridendo, mentre riprendeva il suo discorso “ma va bene così, perché anche nei miei c’è un’altra persona. Un nobile umano della città di Baston, è una persona estremamente cordiale e coraggiosa e, soprattutto, mi rende felice”.
Eiri non capiva, perché gli stava dicendo tutte quelle cose? Si sentiva dispiaciuto per lei nel comprendere che provava le sue stesse emozioni, che anche a lei pareva di essere un uccello in una gabbia dorata.
Alea sorrise di nuovo, una folata di vento le mosse i lunghi capelli e la gonna del vestito.
 “Va pure da lei, Eiri. Scappa, ora che puoi, ci penso io a distrarre le guardie e a sistemare le cose con le nostre famiglie. Vivi la tua vita, come io ho intenzione di vivere la mia.”
Eiri rimase qualche istante a bocca aperta, incredulo. Dopo tutti quegli anni e tutti i sacrifici, finalmente poteva andarsene così? Poteva davvero aspirare a quella libertà che aveva cercato per tutta la vita?
Eiri sorrise, ricordando le parole pronunciate tanto tempo fa da suo fratello, in una sera d’autunno esattamente come quella.
Avrai anche tu la tua occasione.
E Eiri, finalmente, era pronto a coglierla.
“Grazie Aela, ti auguro ogni bene” furono le ultime parole che le disse, le uniche che avevano importanza, prima di dirigersi verso le stalle, con l’intenzione di scappare a cavallo nel bosco, dal suo Kiz.
In quella notte d’autunno, Eiri Dumein e Kizngart della tribù Duroacciaio semplicemente sparirono, senza lasciare alcuna traccia. Nessuno seppe mai dove fossero diretti o quale fosse il loro obiettivo e la loro storia si mescolò ai tanti racconti e leggende che popolavano Emeras, l’ultima, decadente, città elfica.
Forse la storia dell’ultimo figlio del clan Dumein è ora racchiusa in un vecchio volume, lasciato tra gli altri suoi fratelli sopra un polveroso scaffale.
Chissà se qualcuno leggerà mai quel diario dimenticato.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Epilogo

Un autunno

In quella giornata uggiosa di ottobre, nel porto di Trindara si poteva scorgere un’immagine curiosa: un giovane elfo, di bell’aspetto e dagli occhi blu come l’oceano, sedeva sopra ad una cassa di legno vicino ai moli. Un arco di buona fattura giaceva ai suoi piedi e un libro teneva tra le sue mani. Chissà come faceva a sentire nella mente le parole che leggeva, in mezzo a quel frastornante rumore composto dalle urla dei marinai, gli schiamazzi degli ubriachi e i garriti dei gabbiani.
Ancor più curioso era l’enorme orco dagli occhi cremisi che gli si era avvicinato, un grande zaino giaceva sulla sua schiena e un sorriso lieto faceva capolino sul suo volto. Le persone più vicine a loro, se non fossero state così prese dai loro affari, avrebbero potuto carpire le parole che gli rivolse.
“Forza, muoviti! Ho trovato un posto su una nave mercantile, è l’ultima che parte per le isole di Grumm, se la perdiamo ci tocca aspettare la prossima estate!”
Nonostante l’aspetto intimidatorio, così tipico della razza orchesca, il suo tono di voce era estremamente gentile, seppur carico di impazienza. Lo sguardo dell’elfo si illuminò a quelle parole, mentre, di tutta fretta, riponeva il libro nella sacca che aveva con sé e prendeva l’arco con una mano. L’altra si aggrappò al braccio possente del compagno, in cerca di un sostegno per la sua caviglia dolente.
Erano una coppia strana, ma chiunque li guardasse, anche se per soli pochi istanti, notava senz’altro la loro felicità.
Chissà quali avventure li attendevano aldilà del mare.
 
 
 
 
 
 
  
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