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Autore: Imperfectworld01    12/12/2020    0 recensioni
Megan è ormai fuori pericolo, non è più indagata per l'omicidio di Emily Walsh, ha ripreso in mano la sua vita e ha ritrovato se stessa, sebbene tutti la vedano diversa e la accusino di essere cambiata. Ciò che non vedono, è che quella è la vera lei: forte, sicura, determinata.
Ma i suoi problemi non sono finiti.
Si era posta un obiettivo: scovare il vero colpevole e ottenere giustizia per la sua amica, ed è ciò che ha intenzione di fare. Non si fermerà finché non ci sarà riuscita, costi quel che costi.
Ma desiderare una cosa con tutta se stessi e combattere per averla, è sempre la cosa giusta da fare?
//SEQUEL DI CAUSE IT'S RIGHT. PER CAPIRE QUESTA STORIA È NECESSARIO AVER LETTO IL PREQUEL//
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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2. A testa alta

Dentro di me sapevo che David non avrebbe preso bene la mia richiesta, ma non ero stata in grado di valutare quanto male avrebbe reagito, di conseguenza rimasi esterrefatta dalla sua aggressività. A maggior ragione perché si era sbagliato su ogni punto, ed era questo ad avermi dat0 maggiormente fastidio. Sembrava che ormai chiunque non riuscisse a fare di meglio che sottolineare i miei errori e i miei atteggiamenti sbagliati.

E, dal momento che non riuscivo proprio a smetterla di fare stronzate, la cosa accadeva sempre più frequentemente.

Ma quella non era affatto una stronzata. Stavo cercando di fare la cosa giusta, finalmente.

Feci queste riflessioni mentre guidavo verso casa dopo l'incontro con David. Le sue parole mi rimbombavano nella mente e il più delle volte si sovrapponevano fra loro, rintontendomi e causandomi una forte emicrania.

«Avevi detto di essere sicura che fosse stato lui! Mio padre ha mandato in prigione un innocente perché ha deciso di fidarsi di te! È andato contro la deontologia forense ed è stato richiamato più volte durante il processo, rischiando di essere sospeso, solo per riuscire ad andare fino in fondo e portare al limite Dylan e ottenere ciò che tu volevi.»

«Suvvia Megan, è normale che tu non l'abbia visto in buone condizioni, non è in un resort a cinque stelle, non se la sta passando bene e tu lo sapevi che sarebbe stato così. Era ciò che volevi, no?»

«Perché Herman avrebbe dovuto fare una cosa del genere, sentiamo? Solo perché adesso non siete più amici? Non puoi trasformare ogni persona che ti fa un torto nell'assassino di Emily e cercare di sbatterlo in carcere, solo per fargliela pagare per il male che ti ha causato.»

«Quindi è questo il vero motivo per cui hai voluto vedermi. E le parole che mi hai detto erano solo parole buttate all'aria, vuote come te.»

«Forse è meglio dimenticare tutto. Magari ci si rivede fra altri trentasei giorni. Chi incolperai la prossima volta, Olivia?»

Solo su una cosa aveva fatto centro, ed era l'unica che mi aveva davvero ferita, come solo lui era in grado di fare. Per le altre cose mi ero soltanto arrabbiata ma comunque avevo incassato il colpo con facilità, perché in cuor mio sapevo che non erano assolutamente vere, però quando mi aveva detto di essere vuota, non ero riuscita a trovare nessuna argomentazione per ribattere e per difendermi.

Era la verità e io lo sapevo. Ero vuota.

L'assordante e fastidioso rumore di un clacson mi riscosse. Guardai attraverso lo specchio retrovisore e vidi un signore impaziente che imprecava gesticolando animatamente, e così mi accorsi che era scattato il verde al semaforo e che io ero la prima della lunga fila di veicoli che si era andata a creare. Stavo quindi per ripartire, ma mi arrestai nel momento in cui l'auto dietro la mia si spostò sulla destra per effettuare una manovra di sorpasso. «Svegliati, ma non lo vedi che è verde? Cretina!» urlò il conducente. Cretina io? Io ero solo distratta, mentre lui aveva appena sorpassato a destra volontariamente. La fretta a volte faceva davvero male alle persone.

Spero che prima o poi si prenda una multa, dissi fra me e me.

Per arrivare a casa avrei dovuto svoltare a sinistra al prossimo incrocio, invece andai dritto e imboccai un'altra strada. Non me la sentivo di tornare a casa e affrontare i miei in quelle condizioni: vestiti e capelli ancora leggermente umidi, il trucco sugli occhi colato e una faccia da funerale.

Da qualche settimana avevo ripreso a truccarmi. In alcune situazioni mi aiutava a nascondere meglio le emozioni, o almeno ne avevo l'illusione. Di certo nascondeva le occhiaie quando la notte precedente la passavo in bianco. La dottoressa Blackburn non aveva ritenuto necessaria la prescrizione di altre compresse per il sonno dopo che avevo terminato la prima confezione, era convinta che non ne avessi più bisogno. E in effetti era così, la maggior parte delle volte. Ma c'era almeno una volta a settimana in cui ero invasa da pensieri, incubi e ansie che si protraevano per tutta la notte. Era anche convinta che non ci fosse più la necessità che ci vedessimo settimanalmente. Infatti non prenotavo una seduta con lei da circa tre settimane.

Dopo aver parcheggiato l'auto, scesi e feci un rapido scatto per giungere sotto il tettuccio della veranda e proteggermi dalla pioggia. Suonai al campanello e attesi pazientemente finché la porta non si aprì e vidi comparire, come sempre, un paio di occhi verdi dall'aspetto radioso, abbinati a una chioma color mogano raccolta in una coda di cavallo. Ora i suoi occhi rivelavano un'espressione stupita. Decisi di chiarire i suoi dubbi senza che dovesse sforzarsi di chiedere qualsiasi cosa: «Mi perdoni dottoressa Blackburn, so che è tardi, e che è anche sabato, ma avevo davvero bisogno di... be', lei ha detto che in caso di emergenza sarei sempre potuta venire da lei, e quindi... ho bisogno del suo aiuto».

Annuì comprensiva, prima di spostarsi a lato della porta affinché potessi entrare: «Certamente, vieni pure dentro, Megan». Strisciai i piedi sul tappetino posto all'entrata prima di avviarmi dentro casa sua.

Mi fece accomodare sulla solita poltrona nera e poi andò in un'altra stanza per procurarsi una coperta da avvolgermi attorno al corpo. Non mi ero neanche accorta di tremare.

«Scusi per l'ora, è praticamente ora di cena...»

«Non preoccuparti, Megan. Come hai detto prima, puoi sempre venire da me» rispose, prima di sedersi sull'altra poltrona posta di fronte alla mia. «Allora, di che cosa vorresti parlarmi, Megan?»

A sentire quelle parole, rimasi interdetta per un paio di secondi. In realtà non c'era niente che potessi dirle. Non potevo dirle del mio senso di colpa per aver mandato Dylan in carcere, né di come facevo a sapere che fosse innocente, né potevo parlare di David, dato che avevo ancora sedici anni e per questo (oltre che per altri numerosi motivi) non saremmo potuti stare insieme.

Ma non volevo neanche che quella visita si trasformasse in una perdita di tempo, sia per me che per lei. Così improvvisai. In realtà, iniziai improvvisando, ma in seguito mi resi conto di non star fingendo un bel niente. «In questo periodo mi sento... diversa. Anzi, in realtà io penso di essere rimasta più o meno la stessa, ma sono tutti a vedermi diversa. In senso negativo.»

«Ti riferisci a qualcuno in particolare con quel "tutti", Megan?» domandò la dottoressa Blackburn.

«Non lo so, tutti. Tutti quelli con cui ho a che fare. I miei genitori, i miei compagni di scuola.»

«Tu pensi che abbiano ragione sul tuo cambiamento, Megan? Prima hai detto di ritenere di essere rimasta la stessa.»

«Lo sono. Sono sempre Megan Sinclair. Ma senza etichette. Non sono più Megan Sinclair la brava ragazza, Megan Sinclair la ragazza della porta accanto, e altre fesserie simili. Prima erano le etichette a costringermi a mantenere un certo comportamento, non ero io a decidere come comportarmi. Per me contava di più far credere a tutti che quelle etichette che mi affibbiavano corrispondessero alla realtà, piuttosto che chiedermi se effettivamente lo fossero. Ma adesso sono soltanto io a decidere chi sono. È adesso che sono davvero me stessa. Ma a nessuno va bene come sono.»

«E a te va bene?»

Mi presi qualche istante per riflettere davvero su quella domanda. L'unica cosa a cui riuscivo a pensare era ciò che avevo fatto a Dylan.

«È questo il tipo di persona che vuoi essere? Una che sfrutta le debolezze degli altri per ottenere ciò che vuole?» mi aveva detto qualche ora prima. Me lo ricordavo bene.

Ma forse non avrei dovuto basarmi solo sugli sbagli commessi. Chiunque, volendo, poteva fare del male, così come poteva fare del bene. Non per questo doveva essere giudicato solo su uno dei due aspetti, dovevano essere messi a confronto insieme.

E non c'era solo del male in me. C'era, non sarei stata umana se non avessi avuto anche un lato cattivo, ma c'era anche tanto bene. Dovevo solo stare attenta a scegliere quale usare.

«Sinceramente? Sì» risposi alla dottoressa Blackburn.

Mi rivolse un sorriso sincero. «Lo credo bene. Stai diventando una donna forte, Megan. Guarda che passi da gigante sei riuscita a fare in così poco tempo! Eri una ragazza impaurita, insicura e ferita...»

«E anche debole» aggiunsi, ma la dottoressa scosse la testa a quella mia affermazione: «No, non ho mai avuto motivo di pensare che tu fossi debole. Come ogni persona, avevi dei limiti. Ma hai superato uno dei più grandi: hai raggiunto l'amore per te stessa. C'è chi ci prova per tutta la vita senza mai riuscirci. Sono seriamente fiera di te, Megan».

Mi si formò un sorriso spontaneo in volto. Avevo fatto la scelta giusta ad andare a parlare con lei. Quella era stata una giornata intensa, in senso negativo, pesante e anche infinita, ma le parole della dottoressa Blackburn erano riuscite a risollevarmi lo spirito e a farmene dimenticare per un po'.

•••

"Ti aspetto sotto le tribune del campo da football."

Non appena dopo aver letto il messaggio, mi avviai energica in direzione del campo da football.

Mi avvicinai alle tribune, come mi era stato scritto, e vidi George che mi attendeva. Indossava un grosso felpone blu, come suo solito, e si guardava intorno costantemente, come se temesse che arrivasse qualcuno da un momento all'altro.

«Allora, ce l'hai?» chiesi impaziente, prima di tirare su con il naso. A causa di tutta la pioggia che mi ero presa sabato, ero stupita per il fatto che mi fossi presa soltanto un raffreddore e non qualcosa di peggio.

«Ce l'ho qui in tasca» rispose indicando la grande e larga tasca della sua felpa. «Ma prima voglio i soldi.»

Roteai gli occhi e tirai fuori il borsellino che tenevo nel taschino dello zaino. «Venticinque, giusto?» domandai.

«Trentacinque dollari» rispose e strabuzzai gli occhi: «Cosa? Ieri quando ti ho scritto avevi detto venticinque» rimbeccai.

«Ho detto che il prezzo parte da venticinque e che può variare a mia discrezione.» Si esibì in un sorriso beffardo. Che bastardo. Sapeva benissimo quanto mi servisse e aveva deciso di farmela sudare.

«E perché proprio trentacinque?» domandai.

Scrollò le spalle. «Be', non ci conosciamo, giusto? Perché farti un prezzo di favore?»

«Hai ragione, ma io ne ho solo venticinque...»

«Allora l'affare salta» disse, indietreggiando di qualche passo.

«Ti prego, George. Ne ho bisogno» lo implorai, mentre lui scoppiò in una risata fragorosa.

«Addirittura mi preghi, Megan Sinclair? Sentiamo, ma perché ti serve così tanto?» chiese avvicinandosi al mio viso con fare indagatore. I suoi occhi color nocciola erano piccoli e sottili, senza un briciolo di empatia.

Durante il fine settimana mi ero presa del tempo per pensare alla situazione di Dylan. David non avrebbe parlato con suo padre, era troppo orgoglioso, ma forse a quello avrei potuto rimediare io andando direttamente a casa dell'avvocato di Finnston. Prima però avevo bisogno di rivedere Dylan, cosa che mi sarebbe stata impossibile dal momento che aveva chiesto alla guardia di vietarmi l'accesso alle visite.

«Sei più interessante di quello che pensavo, sai? Prima di te le persone dicevano due cose, una opposta all'altra: c'era chi diceva che sei una brava ragazza, un po' figa di legno; e poi c'era chi ti dava della troia con le tette enormi» disse, spostando lo sguardo sul mio seno dopo aver pronunciato l'ultima frase. 
Lo fissai disgustata e poi tirai su la cerniera del bomber nero, così da privarlo della visione. Sorrise e poi riprese a parlare: «Io personalmente non ho mai saputo a quale delle due versioni sul tuo conto credere. Ma ora forse si formerà una terza versione, Megan Sinclair che gira con un documento falso. Il tuo ex ragazzo è uno sporco assassino criminale che passerà i prossimi quindici o vent'anni della sua vita in carcere, ma di te che mi dici? Non è che siete fatti della stessa pasta?» domandò, passandosi la lingua sul labbro inferiore.

A scuola si diceva che George Radley fosse uno squilibrato da cui era meglio stare alla larga, solo non immaginavo così tanto.

Comunque, contrariamente alle sue aspettative, non mi scomposi e non persi la calma. «Avevi detto che non avresti fatto domande. Ora dammi quel documento, a meno che tu non voglia che riferisca alla preside Fitzpatrick che vendi documenti falsi in giro per la scuola. Se dovesse poi denunciarti alla polizia distrettuale, potresti passare fino a un anno in carcere, oltre che pagare una caterva di soldi.»

La stessa cosa valeva anche per me se mi avessero scoperto. Ma per Dylan ero disposta a correre quel rischio.

George rimase in silenzio, senza trovare nulla per ribattere.

«Se non ti fidi, puoi andare a consultare la legge della Louisiana che ne parla. L'ho cercata l'altro giorno, se vuoi te la mostro» dissi, tirando fuori il cellulare.

Scosse la testa. Poi sbuffò e roteò gli occhi. «D'accordo, Megan Sinclair, hai vinto.» Tirò fuori dalla tasca della felpa il documento d'identità falsa e, prima di consegnarmelo, mi strappò in modo brusco le banconote dalle mani. «O forse, dovrei dire Heather Wilson?» domandò, facendo riferimento al nome falso che aveva scelto per il documento. Poi si voltò e si allontanò.

Diedi un'attenta occhiata al documento per controllare che fosse il più identico possibile a quelli veri. Per quanto mi costasse ammetterlo, aveva fatto un buon lavoro. Restava solo da scoprire se sarei riuscita a convincere le guardie del Juvenile Justice Intervention Center.

•••

Quando uscii da scuola, realizzai che il mio piano ben congegnato sarebbe tristemente sfumato se non fossi riuscita ad arrivare in tempo per l'orario delle visite. Mi serviva la macchina di mia madre, ma non sarebbe tornata a casa prima delle 17:30. L'ultimo turno per le visite era dalle 18 alle 19 di sera. Non ce l'avrei mai fatta. Mi serviva subito una macchina.

La soluzione al mio problema sembrò materializzarsi davanti a me non appena vidi passare una figura minuta da un caschetto biondo ondulato. «Lucy!» esclamai per attirare la sua attenzione.

Al mio richiamo, si fermò e si voltò di scatto nella mia direzione. Avanzai di qualche passo fino a raggiungerla. «Ehi, tutto bene?» le chiesi.

Lei annuì ed emise un sorriso. «Tutto bene, grazie. Tu come stai, Megan?»

Ignorai la sua domanda. «Tempo fa avevi detto di avere in mente di organizzare una visita al carcere con i ragazzi della tua parrocchia, giusto?»

«Mi fa piacere che tu te lo ricordi! Sì, la verità è che riteniamo che le persone che si trovano lì dentro non siano lì per loro scelta. Cioè, sì, hanno fatto cose orribili, ma solo perché non hanno saputo cogliere la presenza di Dio nella loro vita. Quando ci si sente dimenticati e messi da parte dal Signore, allora si compiono gesti terribili. Se riuscissimo a portare un po' di Dio nella loro vita, forse riuscirebbero a pentirsi dei peccati commessi e a iniziare un cammino, magari anche iniziare una nuova vita una volta che saranno usciti di prigione. Dio dà sempre una seconda possibilità, e io penso che tutti la meritino.»

Avevo sempre invidiato Lucy per la sua profonda fede. Non era affatto semplice credere così tanto in qualcosa, nonostante tutto, nonostante il mondo di merda in cui vivevamo, nonostante le cose orribili che sentivamo ogni giorno, nonostante nella vita non ci fosse mai nulla di certo e di eterno.

Io al momento credevo solo in me stessa. Ma non così ciecamente come lei credeva in Dio. Il più delle volte credevo in me stessa solo perché ero l'unica cosa che mi era rimasta.

«Be', oggi devo andare al Juvenile Justice Intervention Center di New Orleans e mi chiedevo se ti andasse di accompagnarmi. Così magari puoi sentire le guardie per sapere se sarebbe possibile realizzare il tuo progetto.»

«Penso che sarebbe grandioso! Certo che mi va di accompagnarti.»

«Ottimo, andiamo con la tua macchina?» domandai, avviandomi verso il parcheggio.

«Ma... intendi adesso?»

«Sì, adesso. Ci vuole un'ora e mezza per arrivare, e l'orario per le visite chiude alle 18:00» spiegai.

Lucy parve farsi prendere dal panico. «Ma... ma adesso non sono pronta! Non ho preparato un programma, né...»

«Non importa, vedrai che ti verranno spontanee le cose da dire» la interruppi. «Sarà Dio a ispirare le tue parole» aggiunsi, sentendomi per un attimo un'idiota. Avevo seriamente detto una cosa del genere?

Lucy sembrò comunque apprezzare, difatti accettò esibendo un sorriso radioso.

•••

Per tutto il viaggio rimasi costantemente agitata. E se non avesse funzionato? E se mi avessero scoperto? Dylan avrebbe potuto informare le guardie del mio imbroglio. E il problema non era tanto l'aver buttato via venticinque dollari, ma il fatto che avere un documento falso costituiva un reato. Ne avrei subìto le conseguenze. E poi chi avrebbe mai creduto che avessi ventitré anni se me ne andavo in giro con quella faccia da bambina e quella frangetta da scolaretta? E se qualche guardia mi avesse riconosciuta?

A quel punto tirai su i capelli e li legai in uno chignon. Chiesi a Lucy se avesse delle forcine con sé per tirarmi su la frangia, ma mi rispose che aveva solo un cerchietto nero con i pois bianchi nel cruscotto. Allora sciolsi i capelli e mi misi il cerchietto. Poi tirai fuori dallo zaino la borsa dei trucchi che, fortunatamente, quella mattina mi ero portata dietro perché ero in ritardo e non avevo fatto in tempo a truccarmi. Ripassai il mascara e la linea di eyeliner e poi ultimai il tutto stendendo una rossetto liquido di color rosso.

«Non mi hai ancora detto perché devi andarci tu, in carcere» disse Lucy, guardandomi stranita per via di quegli insensati preparativi. Aprii la bocca per rispondere, ma lei mi precedette: «È per Dylan, vero? C'è lui in quel centro di detenzione per minori?».

Rimasi interdetta per qualche istante e infine annuii.

Mi aspettavo che avrebbe fatto altre domande, del tipo perché avrei voluto incontrare il mio ex ragazzo accusato dell'omicidio della mia migliore amica, ma invece rimase in silenzio.

In quel momento realizzai che la qualità migliore di Lucy, fra le tante che aveva, era sicuramente l'empatia. Sapeva immedesimarsi nei panni degli altri, e capiva sempre quando era meglio evitare di addentrarsi in certi discorsi, quando una persona era in vena di parlare o quando, invece, aveva bisogno soltanto di silenzio.

«Ah, devo avvisarti di una cosa prima che andiamo verso i controlli» dissi. «Da questo momento in poi io sono Heather Wilson.»

Lucy mi fissò stralunata, ma acconsentì senza chiedere ulteriori spiegazioni.

Con il cuore in gola, mi avviai allora verso la guardia. Era la stessa di sabato. Avevo il terrore che mi riconoscesse. Le gambe iniziarono a tremarmi come la prima volta che ero entrata lì dentro. Se avessi continuato in quel modo non sarebbe andata a finire bene. Avrei dovuto mostrarmi fiera e sicura di me, camminare a testa alta.

Sentii il braccio di Lucy insinuarsi attorno al mio, prendendomi a braccetto. Mi rivolse un sorriso complice e io la guardai con riconoscenza. Con Lucy al mio fianco mi sentivo già più tranquilla.

Esibimmo i nostri documenti, e nel momento in cui la guardia si focalizzò sul mio, cominciai a trattenere il respiro.

Continuai a trattenerlo anche dopo. Dopo che mi aveva riconsegnato il documento, dopo che ero passata sotto al metal detector, dopo che anche Lucy mi aveva raggiunta. Ripresi a respirare solo nel momento in cui quest'ultima si rivolse a me per dirmi: «Ci vediamo dopo, Heather». Dopo quelle parole, lei si allontanò insieme a una guardia che l'avrebbe portata dai responsabili per discutere del suo progetto, mentre io fui scortata verso la sala delle visite.

«Dunque, lei è qui per...»

«Dylan Walker» risposi. A quella risposta, l'uomo al mio fianco guardò accigliato.

«Allora non temo che le sarà possibile vederlo.»

A quelle parole, sentii il cuore morirmi in gola.

Allora mi aveva riconosciuta. Ero fottuta.

   
 
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