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Autore: PrincessintheNorth    18/12/2020    2 recensioni
Nuova edizione della mia precedente fanfic "Family", migliorata ed ampliata!
Sono passati tre anni dalla caduta di Galbatorix.
Murtagh é andato via, a Nord, dove ha messo su famiglia.
Ma una chiamata da Eragon, suo fratello, lo farà tornare indietro ...
"- Cosa c’è?
Deglutì nervosamente. – Ho … ho bisogno di un favore. Cioè, in realtà non proprio, ma …
-O sai cosa dire o me ne vado.
- Devi tornare a Ilirea."
Se vi ho incuriositi passate a leggere!
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Morzan, Murtagh, Nuovo Personaggio, Selena | Coppie: Selena/Morzan
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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MURTAGH
 
Non so per quanto tempo rimasi nelle cucine: davanti a me, il piatto di avanzi che ero riuscito in qualche modo a mettere insieme per Kate diventava più freddo ogni minuto che passava.
Non sarei dovuto essere così sconvolto: sapevo benissimo di cos’era capace Galbatorix, e dunque dovevo prevedere che non avrebbe trattato Katie con i guanti. Lei l’aveva sfidato apertamente davanti ai suoi soldati: era ovvio che non l’avesse presa molto bene.
Eppure, la rivelazione di Alec continuava a scavare una strada di acidità nel mio stomaco che mi faceva chiedere come fosse possibile che non avessi ancora vomitato tutto.
Secondo Morzan ci ha messo parecchio, a … ad oltrepassare le sue difese, la voce di Alec risuonò nella mia testa, venata di dolore e rabbia. Almeno un mese. Galbatorix ha rimosso i ricordi della prigionia non appena è riuscito a prendere il controllo. Lei non ha idea di quel che è accaduto, ma Sìgurd ha sentito i pensieri ed il rimorso dei carcerieri.
Era ovvio che lei non avesse ceduto: per tutti gli dei, era Katherine. Non si arrendeva mai senza prima combattere con tutte le sue forze, e di solito vinceva: ma stavolta si era trovata davanti un nemico contro cui non poteva nulla.
Alec non era sceso nel dettaglio, non mi aveva descritto ogni genere di tortura attraverso la quale Galbatorix l’aveva fatta passare: dubitavo che persino lui, o Sìgurd, ne fossero a conoscenza. Ma sapevano, dai pettegolezzi, che Kate era stata rinchiusa nelle segrete di Uru’Baen per almeno un mese, che era stata affamata, e che di notte, quando il silenzio era totale, le sue urla di dolore si potevano sentire in ogni angolo della città.
L’unica cosa che mi dava un po’ di pace, più che altro perché sapevo che ne dava a lei, era il sapere che, nonostante la sua debolezza, né Galbatorix né altri si erano imposti su di lei in quel senso. Sapevo, vista la sua precedente esperienza con Grasvard, che lei non sarebbe mai riuscita a sopportare un dolore simile.
Un mese intero …
Io non sapevo quanto avevo resistito, la prima volta. Quando Galbatorix aveva superato le mie difese. Inizialmente avevo provato a tenere il conto dei giorni in base ai pasti che mi venivano somministrati, ma quando il re aveva capito che comprendere lo scorrere del tempo mi dava modo di controllare ancora qualcosa della mia vita, il cibo aveva iniziato a scarseggiare, ad essermi recapitato agli orari più assurdi o a non essermi dato affatto. Ero arrivato a contare cinque giorni: poi, avevo perso il senso del tempo. Non mi ero mai preoccupato di informarmi sull’argomento. Una volta uscito dalla cella, avevo fatto tutto il possibile per dimenticarmela.
Derek doveva saperlo. L’avevo sentito parlare con Morzan, una notte, riguardo al rapimento di Kate. Galbatorix aveva detto chiaro e tondo che le avrebbe impartito un po’ di disciplina, ed entrambi loro sapevano cosa significava. Perché non avevano fatto niente?! Perché nessuno aveva fatto niente per lei? Galbatorix non era nemmeno un vero e proprio re, non c’era alcun motivo per cui dovevamo dimostrarci rispettosi delle regole di guerra con lui. Katherine non era più importante dell’avere ragione?! C’era stato così tanto tempo … così tanto tempo per salvarla. Potevamo partire per Uru’Baen il giorno stesso in cui lei era stata rapita e riprendercela, e concludere quella guerra mesi prima. Saremmo stati al Tridente, adesso, e i bambini avrebbero riavuto la loro mamma, com’era loro diritto. Invece Derek aveva preferito giocare secondo le regole, aspettare, fare piani di guerra, aspettare gli elfi, mandare dichiarazioni, spostare un intero esercito. Nel frattempo, Galbatorix aveva acquisito ancora più potere e Katherine era stata torturata.
Loro stavano bene e giocavano agli eroi: e lei ora aveva il terrore di contrariare chiunque, persino me, per paura di una punizione. Davvero valeva la pena lasciare che lei venisse torturata, plagiata e trattata in quella maniera da Galbatorix, pur di avere la ragione dalla propria?
Stronzi, li maledissi e afferrai il piatto di bacon, dirigendomi verso le nostre stanze.
In quel momento potevamo essere al Tridente, felici e contenti, al sicuro. Belle avrebbe potuto festeggiare il proprio compleanno tra le braccia di sua madre. Evan avrebbe avuto qualcuno ben più qualificato di me per spiegargli perché, a differenza dei suoi fratelli, lui somigliava solo a me e non anche a Kate. Killian non avrebbe avuto il bisogno di salutare il disegno che aveva fatto con la sua mamma per riuscire a dormire.
Io avrei avuto mia moglie. E mio figlio.
Ma evidentemente fare gli eroi era più importante di lei, o di me, o dei bambini, o dello stesso bambino che lei aspettava. Per gli dei, e se l’avesse perso durante le torture? Era una possibilità estremamente concreta. Di chi sarebbe stata la colpa, a quel punto? Degli aguzzini o di coloro che non avevano ritenuto indispensabile alzare il sedere per andarla a salvare quando potevano?
Non dovrei tornare. E chi me lo fa fare di tornare all’accampamento? Ora hanno il loro gran bell’esercito, gli araldi, le dichiarazioni. Katie invece non ha un cazzo di nessuno. Il mio posto è qui, con lei, col bimbo. Perché dovrei combattere per loro? Tanto un Cavaliere in più o in meno non fa differenza. La mia conoscenza magica è grande come un mandarino in confronto alla loro? E allora facciano a meno del cazzo di mandarino!
A suo padre, dopotutto, non avevo mai giurato nulla. L’unica cosa che mi legava a Derek era la parentela acquisita. Non c’era nulla che mi obbligasse a tornare indietro e rischiare la morte. Loro avevano deciso di lasciare Katherine nelle mani di Galbatorix, senza informarmi della cosa, senza prendersi il disturbo di dire “ehi, abbiamo la quasi totale certezza che lui stia torturando tua moglie incinta. Cosa pensi dovremmo fare a riguardo?”. Avrei dovuto saperlo, ma avevo tre figli da accudire: non avrei potuto fare niente nemmeno volendolo. Loro, invece? Potevano fare tutto. Eragon non aveva figli, così come non ne aveva Arya. La mamma era incinta all’epoca, quindi Morzan poteva andare a prendere Katherine, così come poteva farlo Derek.
In quattro potevano andare a salvarla. In quattro potevano evitarle indicibili sofferenze. Ma nessuno aveva alzato un dito. Non suo padre, non il mio, non Eragon, che era la cazzo di causa primaria di tutto quel casino. Mi aveva venduto a Galbatorix per scoparsi Kate, fregandosene del fatto che avessimo una figlia di soli tre mesi, e poi aveva abbandonato lei alle torture, ad un animale che la picchiava ogni volta che lei diceva qualcosa che non gli piaceva. Lo sapevano, tutti loro, che lei aveva ancora un livido sul labbro per quella ragione? Gliene importava qualcosa?
Avrei dovuto ammazzare Eragon quando ne ho avuto l’occasione. Ma non importa. Rimedierò prestissimo.
Katherine era ancora sveglia quando rientrai: era evidente che fosse stanca, ma non riusciva a trovare una posizione comoda per dormire.
«Eccoti!» esclamò, con un sorriso dolce sulle labbra che riuscì, nel giro di un secondo, a farmi dimenticare almeno metà di tutta la rabbia che provavo. «Che è successo? Ti eri perso nella tua stessa casa?»
No, amore, avrei dovuto dirle. La verità è che ho scoperto una cosa orribile che non riesco a sopportare.
Ma quelle parole non lasciarono mai le mie labbra.
Lei aveva il diritto di sapere, certo: ma anche il diritto, sacrosanto, di avere un po’ di pace e felicità dopo tutto quello che aveva sopportato. Saperlo l’avrebbe fatta chiudere ancora di più in sé stessa e nel suo dolore, ed era l’ultima cosa che serviva alla sua psiche già provata da un anno tremendo, tra il mio ritorno, la nuova gravidanza, la malattia di Belle, i complotti dei suoi genitori ed il rapimento.
Ha sofferto abbastanza per tutta una vita.
«Capita anche ai migliori!» sbuffai dunque, mettendo il piatto ricolmo di cibo sulla cassapanca davanti al letto e raggiungendola fra le coperte. «Questo posto è enorme, e non posso certo dire di averci vissuto parecchio. Il demonio?» chiesi, riferendomi al bambino con il soprannome che gli avevamo trovato quel pomeriggio.
«Non ha preso bene il tuo allontanamento» Kate riferì, ridacchiando. «Ha protestato».
«Smettila di picchiare la mamma …»
Già troppa gente ha alzato le mani su di lei.
Katie si accoccolò contro di me e iniziò a smangiucchiare un po’ di bacon, sbadigliando fra un morso e l’altro.
«Forse dovresti dormire» le suggerii, visto che si stava sforzando per tenere gli occhi aperti. «Insomma, avresti anche tutto il diritto di farlo. Ci abbiamo dato dentro per tutto il giorno».
«Come se potessi anche dormire» sbuffò. «Se mi giro da una parte, lui protesta. Mi giro dall’altra, e mi prende a calci. Dopo dieci minuti mi viene mal di schiena. È tutto inutile».
Nota per me: ringraziare gli dei per avermi fatto nascere uomo.
Con il mio consistente aiuto, il piatto di bacon fu ripulito in meno di dieci minuti, e alla fine Katherine riuscì a trovare una posizione quasi comoda per dormire.
Ma nonostante lei fosse lì tra le mie braccia, tranquilla e finalmente al sicuro, io non riuscii a chiudere occhio per il resto della notte.
 
 
Il giorno successivo lo passammo, di nuovo, nel castello: avevo provato a convincere Katherine ad uscire per un giretto nelle zone più selvagge della tenuta o al mercato del villaggio vicino, ma non c’era stato verso. La prima proposta era per lei impraticabile a causa dei disagi della gravidanza; la seconda invece l’avrebbe costretta a vedere delle persone, e sopportare i loro sguardi ricolmi d’odio non era una cosa che si sentiva pronta a sopportare. Io ero cresciuto facendoci l’abitudine, e quando ero finito al servizio di Galbatorix le chiacchiere già non mi ferivano più, ma lei era sempre stata molto amata, sia in patria che all’estero. Non poter comprendere quanto l’improvviso odio della gente la facesse stare male mi irritava molto, perché non avevo idea di come aiutarla.
Alec, Sìgurd e gli altri se ne erano andati verso le nove del mattino, con abiti non più laceri, molti viveri, molto rum (gentilmente offerto dalle cantine di Morzan), denaro, una lettera di marca di Katherine in caso i pirati avessero fatto storie ed uno specchio magico, per contattarci in caso di bisogno.
«Vieni» Kate sorrise dirigendosi verso l’ingresso del castello. Alla fine ero riuscito a convincerla a fare un giretto nei giardini, evitando accuratamente la zona dove i nostri draghi si stavano dedicando a certe attività: l’aria fresca le aveva fatto bene, riportando un po’ di colore sul suo viso. «I carpentieri sono appena andati via, hanno finito di dare gli ultimi ritocchi alle camerette».
Le camere dei piccoli erano nell’ala ovest del castello, due a destra e due a sinistra rispetto alla nostra: Kate aveva deciso di darne ognuna a ciascuno, in caso ci fossero stati problemi con il ritorno a casa e Lionsgate fosse diventato il nostro unico tetto. Grazie ad un sistema di grate e canali d’areazione, i rumori delle camerette arrivavano tutti nella nostra, così che potessimo sentirli se, nel bel mezzo della notte, fosse successo qualcosa.
Entrando in ognuna di esse mi resi conto che erano perfette per ognuno di loro: erano state modellate secondo i loro gusti e le loro passioni, indipendentemente dal fatto che fossero bambini di sangue blu. Erano camerette dove si sarebbero sentiti a loro agio, nel proprio piccolo regno.
La camera di Belle era quella che ogni principessina come lei potesse sognare: un letto a baldacchino di betulla bianca, con tende rigorosamente rosa e passamaneria dorata, una casa delle bambole più alta di lei e, per non farle mancare nulla, parecchie armi giocattolo. Aveva persino una specchiera, piccola come lei, e arazzi con storie di donne-guerriere alle pareti. Killian, invece, avendo preso da sua madre una certa passione per le navi, aveva un lettino ricavato da una scialuppa (già sapevo che l'avrebbe adorato alla follia), delle sartie appese alle pareti per arrampicarsi, e grandi velieri, i suoi preferiti, affrescati sulle pareti. Quanto alla stanza di Evan, sembrava di entrare in una giungla: leoni, tigri, scimmie ed uccelli variopinti sembravano sbucare dai muri, dipinti a formare una foresta. Si era appassionato agli animali selvaggi ad Uru'Baen, quando guardavamo le figure delle enciclopedie di animali per passare il tempo, e visto che si divertiva parecchio ad arrampicarsi, il letto era stato posto su un piccolo rialzo che, fondendosi perfettamente con il muro dietro, lo faceva sembrare una casa sull'albero. 
«Questa è quella del bambino …» Katie fece con trepidazione aprendo l'ultima porta, a destra della nostra, e rivelando una nursery adatta sia ad un bimbo che a una bimba. Una culla di mogano era posta al centro della stanza, con tendine di tulle e seta verde chiaro. Era già piena di giochi, vestiti, pannolini, tutto ciò che poteva servire ad un neonato e di più: in un angolo, sotto la finestra, c’era persino un cavallino a dondolo.
Mi bastò vedere quella cameretta, tutto l’amore che vi era profuso dentro, per risollevarmi dai pensieri che mi perseguitavano dalla sera prima: sì, Katie aveva subito cose orribili, ma ora erano finite. Adesso era ora di farla finita con quella guerra e accogliere nostro figlio in famiglia, viziarlo e farlo crescere circondato d’amore.
Ma per assicurare a me, a Katherine e al bimbo quel futuro, avrei dovuto combattere.
Un’ultima volta, decisi. Un’ultima battaglia, e poi metterò via la spada, per sempre.
Chissà se ne sarei stato in grado.
   
 
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