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Autore: meiousetsuna    23/12/2020    3 recensioni
Storia partecipante alla challenge “Riproviamoci!” indetta da mystery_koopa sul Forum di EFP
A volte la luce più forte è quella del sole, che da vita a tutta la terra, splendente e calda.
A volte è una più inaspettata, tagliente e opaca, dal sapore d'inverno e vento, dai colori più consoni al cielo del nord.
Almeno, è come questa realtà appare a uno sguardo non umano, abituato al colore freddo che l'accompagna, ma che un calore estaneo saprà conquistare
[Citazione: “Livin' in winter, I am your summer” - Oggetto: Luci soffuse - Sottogenere: Urban fantasy]
Un bacio triste,
Setsuna
Genere: Fantasy, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Storia partecipante alla challenge “Riproviamoci!” indetta da mystery_koopa sul Forum di EFP
Citazione: “Livin' in winter, I am your summer”
Prompt/Oggetto: Luci soffuse
Sottogenere: Urban fantasy

Aurora borealis

Il candelabro era così vecchio da mostrare una a una le scalfiture lasciate dall’uso, ma non tanto da essere considerato un pezzo di antiquariato. Un po’ come il viso di una persona molto anziana quando la sua storia può essere letta da quello che ogni traccia rappresenta.
Almeno gli umani dicevano così: “Non farei mai un lifting, perché ogni ruga è un ricordo; quando ho pianto, quando ho riso, tutte raccontano un passaggio importante della mia esistenza, ci sono affezionato”.
Quella era in modo evidentissimo l’ennesima bugia autoindulgente di quella razza falsa e maligna con la quale i suoi simili convivevano da secoli, non senza traversie. A volte erano stati scoperti e perseguitati, cacciati come trofei, venerati, bruciati con le streghe, senza operare la minima distinzione. E dire che quelle erano povere donne ignoranti e senza protezione, mentre le fate erano vere. Non indossavano capellini fatti con foglie e boccioli di fiori, non materializzavano nessuna scarpetta di cristallo, tantomeno agitavano ridicole bacchette con sopra delle stelle dorate.
Le ali però sì, le avevano. Piccole ali trasparenti con riflessi azzurri, verdi o violetti. Dopo un certo numero di anni a contatto con le persone si atrofizzavano come qualsiasi parte del corpo che non venga allenata, e il cibo umano era così tentatore da far sì che tutte loro prendessero peso, rendendo l’operazione di librarsi nell’aria quasi impossibile.
D’altra parte essere considerate ‘anoressiche’ aveva pro e contro, a seconda delle epoche. Nel medioevo era stato un segno di distinzione, poi di bruttezza; ora si poteva aspirare a fare le modelle, ma poche di loro ci riuscivano per via della statura di solito minuta.
Non c’era vantaggio fisico nell’altezza per una creatura che avrebbe dovuto muoversi con circospezione, nascondendosi con facilità e che come via di fuga aveva il volo.
Al giorno d’oggi c’era anche quel gioco, il cosplay, che la divertiva molto. Tanti appassionati che la pregavano di farsi fotografie insieme, riempiendola di complimenti sul trucco favoloso che usava per i suoi personaggi.
“Sembra davvero che ti crescano dalla schiena! Come le hai attaccate le ali?”
Rispondeva qualche sciocchezza, beandosi dell’attenzione che suscitava. Chi ha detto che le fate sono solo buone? Un altro stereotipo; erano dispettose, inclini a soddisfare i loro piaceri, attratte come gazze ladre da quello che luccica. E tutte femmine. In questo la fantasia umana si era fusa con realtà. Non si potevano più riprodurre da quando erano morti gli ultimi elfi, unica razza i cui caratteri ereditari si fondevano con i loro. A volte, ogni cento o duecento anni, era nato il frutto di un’unione con un uomo. Erano bambini particolarmente belli, delicati, spesso ermafroditi, e sempre sterili.
A dispetto della sua mente cristallina e dura come il diamante, le era successo, però.

Un ragazzo bello come il sole l’aveva salvata da quello che considerava un pericolo mortale. La notte era accesa di luci e il loro colore era qualcosa mai visto prima. Non erano quelli freddi e puri del cielo invernale, dall’alba che con discrezione spingeva via il nero della notte con tinte che non lo offendessero con il loro contatto.
C’erano fuochi rossi e giallo oro, lampi d’arancio e striature di un rosa troppo violento per esistere in natura.
Il giovane correva con dei compagni in quello che chiamavano ‘un territorio di guerra’, ma quando l’aveva vista sola e immobile tra scoppi assordanti e fiammate, schegge di metallo, urla e sangue, aveva lasciato il gruppo gridando qualcosa al primo della fila, per raggiungerla in pochi secondi.
“Sta bene? Non può restare qui, sono arrivati! Morirà!”
Lei si era girata senza fretta, valutandolo. Come la maggior parte di loro le parlava come se fosse una terza persona, quell’abitudine ridicola che doveva significare rispetto, ma di fatto allontanava il contatto che si cercava di stabilire; non li avrebbe capiti mai. Il ragazzo aveva capelli biondi e occhi castani, era alto e forte e cercava di ripeterle la stessa frase in diverse lingue, non sapendo se lei lo capiva. Quando per tutta risposta aveva sorriso indicando l’aria avvampata di esplosioni e vapori chimici, lui l’aveva presa in braccio e via, era corso portandola per un tempo superiore a quello che avrebbe considerato possibile.
Erano arrivati in un rudere abbandonato, dove lui l’aveva posata piano sul pavimento sporco, come scusandosi della sua condizione. Lei si era avvicinata lentamente, gattonando, e l’aveva odorato, prendendosi il suo tempo, passando il naso sul suo viso, il collo, la capigliatura.
Polvere da sparo, pioggia, foglie morte, anticipo d’inverno. Le era piaciuto.
Quando aveva iniziato a spogliarsi con disinvoltura lui si era tirato indietro, alzando le mani.
“Non devi ripagarmi così, non sono qui per violare le donne”.
“Lo so, per questo ti voglio”.
Lui aveva sbarrato gli occhi, respirando in modo affannato, senza il coraggio di muoversi né per spostarsi né per avvicinarsi. Quando lei si era seduta sulle sue ginocchia, nuda e calda malgrado la temperatura gelida, baciandolo con labbra che profumavano di frutti di bosco, non aveva più resistito. L’aveva presa per tutta la notte, allontanando la paura, il buio, la fame, provando una felicità che credeva fosse sparita per sempre dalla faccia della terra. Al mattino si era svegliato trovandola ancora senza abiti, ferma contro il suo petto, convinto che fosse morta assiderata. Invece lei aveva spalancato gli occhi verdi, ridendo, rifiutandosi di dare spiegazioni. Ma si era lasciata vestire, condurre per mano fino alla cittadina più vicina, e accompagnare in quello che si poteva considerare un posto sicuro.
Quando lui l’aveva salutata gli aveva risposto “buona fortuna” – è così che si dice per non destare sospetti – e aveva avvertito una piccola stretta sul suo freddo cuore di fata. Solo un morsetto, come quello di un animalino che gioca a fingere di far male. Ma lui l’aveva sentito cento, mille volte di più.
“E se fossi incinta?”. Non era possibile, o almeno non era affatto probabile, ma si era divertita a lasciarglielo credere. Il risultato era stato un matrimonio, lì, nell’accampamento militare.
La sposa aveva una ghirlanda di fiori di seta, regalati da un’anziana donna commossa che si asciugava le lacrime col grembiule, dicendo che se la nipotina fosse stata viva le avrebbe somigliato, a quell’età. Lo sposo era frastornato, ma brillava di gioia. Era come fatto d’oro, per lei. In fondo poteva abbandonarlo appena si fosse sciupato o si fosse annoiata.

Le persiane socchiuse facevano trapelare solo un timido accesso di luce, filtrato dalle tendine blu di organza impalpabile. Le candele profumate, non di ottima qualità, sgocciolavano sul candelabro, rischiarando la stanza in modo discreto, come si usa in presenza della morte.
“Ti prego, vieni vicino”.
Il suono della voce dell’uomo era rugginoso e antico, il sussurro di labbra ormai tropo vecchie, fragili come carta velina. Ma per lei era ancora piacevole da ascoltare, anche se provava qualcosa di molto vicino alla tristezza. Non era fuggita quando lui si era ammalato, e non l’aveva potuto riparare. La magia delle fate non ha tale potere, funziona solo per loro stesse, egoista e inspiegabile come loro.
Ma del marito non si era disfatta come un giocattolo di cui ci si è stancati, neppure quando il suo corpo era appassito giorno dopo giorno, come un’estate che si arrende all’autunno, poi alla stagione finale.
Era rimasta con lui, sempre giovane, sempre bella. Avevano cambiato città, e lei era diventata man mano la figlia, poi la nipote, poi nessuno si era più disturbato a chiedere, perché arriva un’età che pone fine ai sospetti. Ora in quella camera nessun riscaldamento poteva allontanare il freddo che si spingeva spietato fin nelle ossa dell’uomo steso nel letto che avevano diviso fino a quel giorno.
Lui era stato l’estate, ma adesso lei era l’ultima luce, quella che brilla nel ricordo, nei sogni, nell’atmosfera irreale che accompagna gli ultimi momenti della vita. Pallida come un fuoco fatuo, vaporosa, ma vera come quell’amore che solo lui le aveva ispirato, pur non volendolo mai chiamare con quel ridicolo nome.
“Ho quasi cento anni”.
“Lo so”. Una carezza delicata sfiorò quello che era stato un bel viso che brillava di sorriso e di passione, piano, come preoccupandosi di mandarlo in polvere, di spezzare le giunture fattesi fragili e porose, il complesso groviglio di vene stanche.
“Un’ultima volta”. La richiesta galleggiò nell’aria, anch’essa troppo debole per viaggiare.
Lei annuì con una rara espressione dolce, abbassando le spalline dell’abito leggero. Quando nessun estraneo la vedeva portava solo abiti estivi, che difficilmente avrebbe potuto spiegare.
Le ali vibrarono, saggiando la libertà e l’aria intorno a loro, scudi di luce fredda contro l’eccesso del sole, contro l’esplosione di atomi invisibili, allontanando la paura, il silenzio.
“Vai, adesso, è tempo”.
Gli occhi di lui si lasciarono chiudere piano, con un ultimo sussurro.
“Grazie, Aurora”.

Note:
Ho volutamente omesso chi sono “loro”. Non contava quale fosse il Paese in guerra con l’altro, (l’ambientazione è ai giorni nostri, quindi eravamo nella II° guerra mondiale) visto che “Lui” rappresenta un uomo in genere, uno positivo, senza particolare legame con un luogo, così come tutti i riferimenti specifici sono nulli, non ho voluto dargli un nome.
Il colore delle ali di "Aurora" è appunto quello della vera Aurora Polare.

 

 

 

 

        

  
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