Capitolo 44
Sinfonia d’amore
“Abbi pazienza, mia donna affaticata,
abbi pazienza per le cose del mondo,
per i tuoi compagni di viaggio, me compreso,
dal momento che ti sono toccato in sorte.
[…] Abbi pazienza, mia donna impaziente,
tu macinata, macerata, scorticata,
che tu stessa ti scortichi un poco ogni giorno
perché la carne nuda ti faccia più male.
Non è più tempo di vivere soli.”
Primo Levi, 12 luglio 1980
(da Ad ora incerta, l’opera poetica dedicata
alla moglie Lucia Morpurgo)
Immagine dal film “Il pianista”
Napoli,
marzo 1947
A
tarda sera, quando ormai anche l’ultimo cliente del Gran Cafè se n’era andato,
le dita di Davide continuavano ad accarezzare i tasti del pianoforte a coda
laccato in mogano, eseguendo una sua composizione. L’armoniosa melodia non
quietava il frastuono dei suoi pensieri.
Amava
Hannah che, per la giovane età, avrebbe potuto essergli figlia e, in una sera
come quella, nel silenzio della sala vuota, l’aveva baciata, mentre guidava la
sua mano nella Sonata No. 16 di Mozart. Seduti sulla panchetta, i loro corpi eran troppo vicini, i loro cuori irrimediabilmente legati
dal passato.
Lei
gli aveva raccontato ogni cosa, finanche di quanto fosse grata a se stessa per aver ceduto alle dolcezze dell’amore con il
fidanzatino perduto in guerra, prima che, a Mauthausen, accettando la proposta
di una Kapò, finisse nel postribolo frequentato dai Funktionshäftlinge[1],
sotto la falsa identità di una studentessa tedesca antinazista. Lui, invece, le
aveva omesso la vera causa della morte di sua figlia, accennando soltanto a una
grave colpa che pesava sulle sue spalle.
Lo
sviluppo struggente della melodia lo condusse adagio verso le note dell’Ave
Maria di Schubert che iniziò anche a cantare.
Si
sentiva in pace con la sua defunta moglie, interpretando come un segno
l’essersi ritrovato a Napoli e, quindi, l’aver conosciuto Hannah per mantener
fede a una promessa da lei fatta a Sarah. Non era il senso di colpa che,
giustamente, avrebbe potuto provare verso Maria e neanche l’imbarazzo per
l’enorme differenza d’età con la donna che amava a impedirgli di ricominciare
una nuova vita, ma l’incapacità, ovvero la mancata volontà, di perdonare se stesso per aver acconsentito all’eutanasia della sua
adorata figliola.
Il
calore della voce baritonale, la passione nelle note perfette stringevano il
cuore delle due ragazze, fermatesi dietro un pilastro della sala interna ad
ascoltarlo.
“Tu
sai cosa lo tormenta, non è vero?” La voce di Hannah era rotta dalla commozione
e dal patimento d’amore, mentre gli occhi di entrambe contemplavano la bellezza
da lui emanata.
“Credo
di sì”, rispose Sarah e sospirò, “ma dev’essere lui a raccontartelo.” Nelle
parole dense di malinconia per la sofferenza provata dall’amica, vibrava una
sorta d’invidia originata dal senso di fallimento per la sua vita matrimoniale.
Destinataria
lei stessa della sensibilità di Davide e testimone, a Fossoli, della
delicatezza nel modo di rapportarsi alla moglie, Sarah sapeva che, una volta
riappacificatosi con il passato, questi avrebbe accolto Hannah, donandole la
più bella storia d’amore.
Li
lasciò soli e, recatasi nel reparto caffetteria, si rattristì, all’udire il
signor Gennaro che commentava l’egregia esecuzione musicale con il giovane
addetto al bancone e intento a ripulirlo. “Quell’uomo è sprecato qui”, disse
rammaricato, seppur conscio di quanto la presenza di Davide avesse alzato di
livello la clientela del Gran Cafè.
Sarah
era consapevole che, prima o poi, gli eventi della vita l’avrebbero costretta a
un nuovo addio, a separarsi nuovamente dai suoi affetti, da un padre, da una
sorella e, con Matteo, non avrebbe potuto nemmeno sfogare il suo dolore, dato
che lui non li vedeva di buon occhio.
Sulle
ultime note dell’Ave Maria, le luci della caffetteria e del laboratorio di
pasticceria si spensero. Il suono dei passi che Davide aveva udito alle sue
spalle divenne presenza al suo fianco.
Le
fece spazio sulla panchetta e, non appena fu seduta, senza tentennamenti, prendendole
le mani tra le sue, le disse: “Hannah, tempo fa ti ho accennato di un peccato
che mi tormenta.” La sua voce era velata per lo sforzo fatto nel cantare e
l’emozione, i loro occhi erano già pozzanghere d’acqua, i loro sguardi come
fiumi che si riversano l’uno nell’altro. “Adesso anch’io sono pronto a
raccontare.”
Nella
comprensione di Hannah, trovò il perdono di sé. Le sue lacrime furono asciugate
dai baci di due labbra acerbe e dalle carezze sul viso di polpastrelli di seta.
Sul cuore della giovane donna che, alla sua tragica confessione, aveva reagito
con la maturità di chi la vita ha costretto a crescere in fretta, Davide poggiò
il capo in una dolce tregua, prima che la tenerezza sfociasse in passione. Al
loro toccarsi, il fianco di Hannah sfiorò il pianoforte, lasciando sfuggire una
nota stonata che fece da apertura all’armoniosa sinfonia d’amore di gemiti e
sospiri.
Nonostante
la liberazione del cuore e l’appagamento dei sensi, quella notte fu portatrice
di un nuovo tormento. Nel suo continuo girare e rigirare la testa sul cuscino,
Davide si chiedeva cosa lo differenziasse dagli uomini che entravano nei Sonderbauten[2]
per sentirsi vivi, persone e, sebbene fosse stato l’amore a guidare il loro
atto carnale, provava un senso di colpa verso Hannah, come se di lei avesse
reciso il fiore dell’innocenza.
Una
fitta pioggia iniziò a battere sulle finestre. Era il cielo che piangeva al
posto suo. Al boato di un tuono, sobbalzò dal letto e si rivestì in fretta. Era
pronto a ricominciare con Hannah la sua nuova vita.
Fradicio
di pioggia, bussò alla porta della donna che amava. Il paese addormentato non
poté vedere la sua corsa né udire il ritmo forsennato dei suoi passi e del suo
respiro che, alla vista di Hannah vestita di seta e di stupore, parve fermarsi,
come il cuore che sembrò perdere un battito. E, al cuore, motore della vita,
assoggettò i movimenti del suo corpo, prendendole le mani e piegandosi su
entrambe le ginocchia.
“Hannah,
vuoi essere mia moglie?” La proposta di Davide non fu accompagnata dal luccichio
di un anello, ma dal sigillo eterno di un bacio posato sul dito anulare
sinistro con labbra bagnate di lacrime e brina.
“Sì, io ti prendo così,
tu sei chi mi dà pace,
nella pace che è qui.
Sì, io ti prendo così,
tu sei chi mi dà il cielo,
sotto il cielo di qui.
Sì, io ti dico di sì.”
Claudio Baglioni, Io ti prendo come mia sposa (2009)
***
Il tuono la ridestò,
rimbombando come una delle tante bombe che furono sganciate sul campo di
Fossoli tra l’agosto e il novembre del ’44, provocandone la chiusura e il
trasferimento a Gonzaga.
Come allora, con il cuore
in gola e gli occhi dilatati nel buio della stanza, Sarah sedette di scatto sul
letto e, allungando una mano al suo fianco, ricercò la presenza di Hermann.
Impiegò pochi secondi per
tornare nella realtà presente, ma, ancora trafelata dallo spavento provato, non
la sfiorò il pensiero di suo marito, sorpreso in mare dall’improvvisa tempesta.