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Autore: SkyDream    28/12/2020    5 recensioni
[Ship!YamaYachi/ Cenni TsukkiYama]
«Yamaguchi, quando pensavi di dirmelo?» chiese Kei senza distogliere gli occhi dal telefono, ma abbassandosi le cuffie.
«Non pensavo ti importasse, Tsukki.» Il suo tono era flebile, ferito probabilmente dai lacci delle scarpe quanto dalle parole che il suo amico - dopo tanti anni - teneva in serbo solo per lui.
«Che non mi importasse? Molto divertente, Yamaguchi, considerando tutte le volte in cui ti ho visto in queste condizioni, o te ne sei dimenticato?».
«Avrei preferito dimenticarlo, in realtà».
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«Mi spieghi come posso chiedere ad una ragazza di uscire in queste condizioni? Cosa dovrei dirle?! Di prepararsi a vivere con un rifiuto umano?» Tadashi non ebbe il tempo nemmeno di finire di parlare, si ritrovò le mani di Kei alla collottola del golfino che lo sollevavano, letteralmente, dalla panca.
«Si può sapere che cazzo stai dicendo, Yamaguchi?» Il volto di Kei era scuro come lo aveva visto poche volte, stringeva la stoffa tra le dita con così tanta potenza da far sbiancare le nocche.
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Kei Tsukishima, Tadashi Yamaguchi, Yachi Hitoka
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Note iniziali: La storia è ambientata durante il terzo e ultimo anno di liceo di Tsukishima e Yamaguchi. Ipotizzo che il loro rapporto si sia fatto un po’ più maturo di quello che ci propone il manga, ma spero di non averli resi OOC.
Sono presenti note a fondo pagina.
 
 
Tomorrow It Will Be Bette~
[YamaYachi/TsukkiYama]
 
Ho imparato che non importa cosa accada,
o quanto brutto possa sembrare l’oggi,
la vita continua, e sarà meglio domani.

(Maya Angelou)
 
 
Tadashi aveva ormai la sua routine da parecchi anni, da sette per la precisione.
Si alzava presto al mattino, molto prima dei suoi coetanei, e si stirava lentamente nel letto finché i suoi muscoli e le sue ossa non decidevano che fosse arrivato il momento di uscire dalle coperte.
Allora infilava le ciabatte e si piegava totalmente in avanti, poi totalmente indietro portando gli occhi fino al soffitto.
Ci vedeva bene anche quella mattina, se ignorava la piccola sfocatura dovuta alle pochissime ore di sonno.
Tadashi era poi solito vestirsi subito, per non prendere freddo, e cominciava a sbrigare le prime faccende dentro la sua stanza, per quello che poteva.
Doveva scaldarsi per bene se voleva andare a scuola in perfetta forma, dopo tutto quel tempo non ci faceva più nemmeno caso.
Quando sua madre scendeva in cucina per la colazione, lo trovava ormai pronto, di solito intento ad ascoltare il notiziario delle sette con una tazza fumante in mano.
«Ti sei svegliato presto anche stamattina, Tadashi.» gli sussurrava con una carezza tra i capelli. Il piccolo corvo afferrava poi la borsa per la scuola e correva via prima dell’inizio degli allenamenti.
Incontrava Tsukishima circa ottantasette passi dopo.
Tsukki la mattina impiegava almeno trenta minuti buoni per connettere, per cui prima delle sette e mezza era praticamente impossibile porgli qualunque domanda che non concedesse un grugnito come risposta.
Tadashi non lo sapeva - forse non lo avrebbe mai saputo - ma ogni mattina, da sette anni per la precisione, il suo amico lo analizzava con lo sguardo fisso da dietro le lenti dei suoi occhiali.
“Le gambe si muovono coordinate”.
“Agita le mani senza fatica”.
“Non sembra mostrare segni di dolore”.
“Non ha gli occhi lucidi per la febbre”.
Appurate che le sue quattro constatazioni, giorno dopo giorno, fossero veritiere, Tsukki sospirava pesantemente e poteva finalmente cominciare la giornata.
Non che fosse particolarmente apprensivo nei confronti del suo amico più piccolo, semplicemente era cosciente della sua situazione e tutto voleva fuorché farsi trovare impreparato.
Tadashi, davanti l’ingresso della scuola, lo guardò con un sorriso enorme in faccia prima di sparire tra la folla.
Era cresciuto, in altezza e in muscoli, i suoi capelli scuri si erano fatti così lunghi da necessitare di un elastico che li tenesse fermi dietro la nuca.
Non solo, ormai aveva degli amici. Un sacco di amici, e tutti gli volevano un gran bene, soprattutto da quando era diventato il capitano della squadra.
Hinata, come ogni volta, si precipitò dalla palestra per corrergli incontro e coinvolgerlo in qualche discussione nata con le matricole. Tsukki si chiese da quanto tempo il piccolo schiacciatore fosse diventato un fastidioso modello degno della copertina del Fly High. Stupido Hinata, e stupidi i suoi capelli rossi.
Yachi, timida come sempre ma dal corpo ormai ben delineato, sollevò una mano per salutarli prima di scomparire nei meandri dei corridoi, non prima di aver rivolto un’occhiata ammirata al nuovo capitano della squadra, ancora intento a conversare con il suo amico di strategie e schiacciate.
Tadashi, nell’Aprile di quell’anno, si era ritrovato una maglietta con un bel numero 1 sul torace. Ci aveva messo un po’ ad ingranare e capire, ma poi il sorriso dei suoi compagni aveva tolto ogni dubbio.
Chi meglio di lui poteva motivare la squadra e tenere alto il tenore della Karasuno?
E Kei non aveva avuto nulla da ridire, anzi, lui più di chiunque altro poteva confermare quanta forza contenesse quel piccolo corpo malconcio e colmo di lentiggini che, sotto il sole, sembravano brillare.
Semplicemente si era limitato a dare un colpo sulle sue spalle, che più che un complimento sembrava una promessa.
Sembrava dire “Io ci sarò, qualunque cosa accada. Sarò il tuo braccio destro.” e, dovette ammettere, lo era stato davvero, anche se non in veste di vice.
Quel turbinio di pensieri terminò solo all’ennesimo suono della campana, quando si ritrovò di fronte la sua classe del terzo anno.
 
«Vorresti chiedere a Yachi di uscire? E allora?» Kei si sistemò meglio gli occhiali sul naso e diede una spettinata ai capelli biondi, ora un po’ più corti ai lati.
«Allora non so che fare! Come si fa? Devo mandargli un messaggio, oppure scriverle una lettera-».
«Scrivere lettere è da babbei».
Il tono gelido con cui sentenziò lasciò interdetto il povero Tadashi, che si ritrovò immobile al centro del vialetto che portava alla palestra.
«Sapevo che non dovevo chiedere a te!» Quella constatazione riuscì a far rabbrividire Kei come mai nessuno era riuscito a fare.
«Se lo sapevi già, perché lo hai fatto?».
«Perché sei il mio migliore amico e speravo ti importasse».
Kei abbassò lo sguardo e incontrò quello imbronciato dell’altro, si guardarono per un momento prima di voltarsi dall’altro lato.
Erano cresciuti, così come il loro rapporto era maturato e Tadashi aveva acquisito abbastanza sicurezza da distaccarsi dal suo amico e trovare una propria identità. Tutto era cominciato dal primo servizio in salto flottante.
L’adrenalina lo aveva accompagnato per giorni, Kei poteva anche capirne il motivo.
D’altronde, fino a qualche anno prima, non sapeva nemmeno se avrebbe più camminato, figurarsi se avrebbe mai potuto immaginare di fare un punto ai nazioni giapponesi.
«Comunque ho deciso, dopo l’allenamento glielo chiederò e la porterò in quella gelateria dove fanno le coppette con i biscotti a forma di stellina! Sono sicuro che le piacerà un sacco!» Tadashi non ebbe il tempo di sentire la risposta dell’altro, Hinata prese la rincorsa tuffandosi sopra di lui e travolgendolo. Di nuovo.
«Capitano Yamaguchi, devo mostrarti una cosa spaventosa!».
Kei, come unica cosa spaventosa, avrebbe voluto vedere la testa di Hinata appesa alla porta dello spogliatoio. Aveva notato subito, infatti, la smorfia di dolore in cui si era corrucciato il volto del suo amico quando quello schiacciatore esaltato gli era volato di sopra.
Tadashi aveva tentennato su un piede e, con la mano destra, aveva stretto la maglietta di Hinata nel suo pugno, inspirando e rimanendo in apnea per qualche secondo, prima di buttare fuori l’aria.
«Ehi, quanto entusiasmo, che è successo?» Tadashi si staccò dolcemente Hinata di dosso e lo seguì dentro la palestra dove Kageyama stava ancora urlando qualcosa alle matricole.
Kei rimase lì, sulla soglia dell’ingresso, la testa ancora a navigare tra quei pensieri che rimbombavano nella sua testa.
“Non ora.” pensò stringendo un pugno.
“Non ora che è felice”.
“Non ora che ha trovato il coraggio di fare il primo passo”.
 
La palestra era fredda, d’altronde non ci si poteva aspettare diversamente dalle prime settimane di Novembre. Lì a Miyagi soprattutto, la neve non tardava mai ad annunciarsi.
«Ragazzi cominciate con una corsa di riscaldamento, almeno dieci giri, vedete di respirare profondamente e ossigenate per bene le vostre menti. La partita della settimana prossima ci vuole pronti per vincere!» Tadashi adorava spronare la sua squadra, gli veniva naturale e - di nascosto - si consultava con Daichi ed Ennoshita per chiedere consiglio. Gli ex capitani lo avevano rassicurato, nessuno di loro era stato autodidatta e tutti erano andati a piangere dai propri senpai almeno una volta l’anno.
Era prassi.
Kei cominciò il suo riscaldamento, diede particolare attenzione ai polsi e alle dita, con il freddo non avevano mai smesso di dargli un po’ fastidio dopo il torneo nazionale di due anni prima.
Tadashi però non correva, camminava a passo sostenuto ma non cercava di stare dietro gli altri come al suo solito.
La mano destra era rimasta tesa, per tutto il tempo dell’allenamento, nel tentativo di dare indicazioni e spiegare le traiettorie alle matricole. La mano sinistra era rimasta irrigidita sul suo fianco.
Come facessero i loro compagni ad essere talmente ciechi, Kei non se lo chiedeva nemmeno più.
Semplicemente lui guardava Tadashi, ma oltre il suo volto e i suoi sorrisi incoraggianti vedeva anche un’infanzia e un’adolescenza segnata, vedeva anche uno sguardo colmo di speranza. Perché di questo lo avevano nutrito fin da bambino.
Speranza di una vita totalmente normale, non solo apparentemente.
A fine allenamento, quando il cielo era ormai totalmente coperto da quel cielo blu, Tadashi si avvicinò alla cesta del palloni e cominciò a raccoglierli uno ad uno, senza staccare lo sguardo dal pavimento scivoloso.
Yachi si avvicinò per aiutarlo, ma non ci furono ragioni: “Vai pure, è già tardi”, “Sarai sicuramente impegnata per gli esami di fine ciclo”, “Tranquilla, ho quasi finito”.
Scuse su scuse che non trovavano alcuna spiegazione logica.
La ragazza non se la sentì nemmeno di contraddirlo e, con il volto visibilmente deluso, lo salutò portando la mano a mezz’aria come sempre.
Il resto della squadra uscì dallo spogliatoio facendo una gran caciara - in una ventata di normalità che sembrò donargli il respiro per una frazione di secondo - permettendogli così di potersi cambiare lontano dai loro sguardi.
Eppure Tadashi lo sapeva, Kei era lì. Sdraiato sulla panchina con le cuffie in testa e il telefono di traverso, sembrava immerso in qualche video.
Probabilmente era l’ennesimo documentario sui dinosauri, come se ne avesse visti pochi nella sua vita.
«Oh, sei arrivato. Pensavo fossi caduto dentro il cesto dei palloni.» commentò vedendo entrare il suo amico con la borsa sulla spalla. Tadashi sospirò - per tutta risposta - e si sedette sulla prima panchina cominciando a litigare con i lacci delle scarpe.
Erano dannatamente strette e, se le avesse tenute un minuto di più, probabilmente avrebbero dovuto amputargli i piedi. Non riuscì a togliere i calzini, non voleva vederli.
Così come avrebbe voluto indossare subito i guanti e non guardare più i suoi polsi.
«Yamaguchi, quando pensavi di dirmelo?» chiese Kei senza distogliere gli occhi dal telefono, ma abbassandosi le cuffie.
«Non pensavo ti importasse, Tsukki.» Il suo tono era flebile, ferito probabilmente dai lacci delle scarpe quanto dalle parole che il suo amico - dopo tanti anni - teneva in serbo solo per lui.
Sapeva che Kei aveva un modo suo di dimostrare affetto, come poteva non comprendere ormai?, ma era sempre più difficile capire quanto fosse interessato della sua vita e soprattutto in quali ambiti.
Perché su quello sentimentale sembrava proprio non voler essere al corrente di nulla.
«Che non mi importasse? Molto divertente, Yamaguchi, considerando tutte le volte in cui ti ho visto in queste condizioni, o te ne sei dimenticato?».
«Avrei preferito dimenticarlo, in realtà».
 
No, la realtà era ben diversa.
Tadashi non avrebbe voluto mai dimenticare quei momenti  alle elementari passati con Kei al suo fianco, seduti sul pavimento del suo bagno mentre lui piangeva rannicchiato in un angolo e il suo amico usciva tutti i pupazzi dei dinosauri dallo zaino, mettendoli in fila sul bordo della vasca.
Cominciava a farli parlare e a farli lottare tra di loro, almeno finchè Tadashi non si calmava e allungava una mano - la destra - per afferrarne uno e giocare con lui.
Sua madre li trovava sempre così, seduti a terra e travolti da un’ambientazione preistorica che potevano vedere solo loro.
Prendeva Tadashi in braccio, lo portava a letto e dava loro il telecomando.
Kei riordinava i suoi pupazzi dentro lo zaino e si sedeva al suo fianco, tra quei cuscini morbidi che odoravano di disinfettante e accendeva il televisore per guardare “Happy Rawr” sul secondo canale.
Tadashi si addormentava ogni volta, stremato dal pianto e dalla febbre che cominciava a salire. Allora Kei scivolava sui cuscini e lo guardava, allungava una mano sulla sua fronte e la trovava sempre calda. Sempre di più, così tanto da far stringere gli occhi e rabbrividire il suo amico.
Quante cose a soli dieci anni o poco più, aveva dovuto imparare. Primo fra tutti a frizionare la fronte per far abbassare la febbre. Tadashi a volte, nel sonno, gli chiedeva di continuare a raccontare le sue storie con i dinosauri e passavano le notti così, sotto le coperte, immersi da pupazzetti dalle zanne colorate, ignorando un mostro enorme che sembrava travolgere entrambi.
Come poteva Tadashi voler dimenticare quei momenti?
Erano importanti, per quanto quella malattia avesse trasformato la sua vita in un inferno. Era comunque un inferno colmo di dinosauri e di Kei che lo costringeva a guardare “Happy Rawr” per intere ore, il che rendeva il tutto decisamente più vivibile e sopportabile.
Kei era rimasto con lui perfino nel momento della diagnosi, quando sua madre lo aveva portato in braccio dal reumatologo con i piedi così gonfi da non potergli infilare le scarpe.
L’avevano chiamata “Artrite idiopatica giovanile”, un nome che non trovava senso nelle menti ancora immature di due studenti delle elementari.
Kei sapeva solo che il suo amico aveva la febbre e dei dolori così forti da farlo piangere e che - soprattutto - non poteva camminare.
Sperava che il dottore gli porgesse una pillola e che tutto sarebbe passato, un po’ come quando lui aveva l’influenza.
Invece no.
Aveva visto la madre del suo amico piangere di nascosto, Tadashi starsene immobile sotto le lenzuola per interi giorni. Poi avevano cominciato a prenderci le misure, lo avevano fatto insieme, e tutto era diventato più semplice da gestire.
Avevano capito che Tadashi sarebbe rimasto bloccato a letto - costretto a guardare le repliche di quel coloratissimo cartone sui dinosauri - soltanto a cicli, sarebbe successo di tanto in tanto e non sapevano mai quando, ma solo per poco tempo.
Il medico aveva detto che a volte, con le giuste cure, le crisi diminuivano mano a mano che il paziente cresceva. E così era stato per Tadashi, che non aveva comunque rinunciato ad una vita normale.
Aveva passato gli ultimi due anni delle elementari e i tre anni delle medie accanto Kei, lo aveva seguito passo passo perché era la sua certezza.
Aveva anche cominciato la pallavolo al suo fianco, non che lo appassionasse più di tanto, ma almeno non era solo e lì, in quella palestra, c’era un’aria distesa dove poteva sentirsi al sicuro.
Aveva conosciuto un insegnante al primo anno, non era nemmeno della sua classe ma lo aveva preso subito a simpatia. Era stato lui, capendo la situazione, a consigliargli di diventare un pinch server.
Avrebbe potuto giocare, essere fondamentale per la squadra giocando solo pochi minuti, senza stressare ulteriormente il suo corpo.
Certo, si sarebbe dovuto allenare duramente, ma questo non sarebbe stato un problema.
Tadashi aveva coraggio e resistenza da vendere.
Era capitato però, qualche volta, soprattutto all’inizio, che Tadashi si ritrovasse con i piedi gonfi a fine allenamento. Un anno dopo aveva cominciato a bloccarsi anche il polso sinistro.
Allora Kei se lo caricava in spalla - d’altronde era così piccolo in confronto a lui - e lo riportava a casa, lo faceva sedere sulle mattonelle del suo bagno in camera e aspettava.
Tadashi soffriva, affondava i denti sul labbro inferiore e a volte il dolore era così forte da fargli venire la nausea.
Kei si era preso cura di lui - per quanto potesse - ogni volta, senza farglielo mai pesare.
Quando l’epoca dei dinosauri giocattolo era ormai passata, cominciò a scaricare dei giochini per il telefono.
Una volta si erano ritrovati a sfidare qualcuno su un quiz di cultura generale e - Santi Numi! - Tadashi cercava di aiutarlo mentre si reggeva alla tazza con le lacrime agli occhi.
Ma era quella parvenza di normalità che lo aiutava a non cadere nel baratro della disperazione, e Kei lo aveva capito davvero troppo presto per la sua età.
Per questo non si era assentato mai un momento, senza mai concedergli la sua pietà, facendogli dono della sua sola presenza. Ogni momento.
Ad ogni procedura medica dolorosa, ad ogni picco di febbre.
E Tadashi, davvero, non lo avrebbe mai dimenticato.
 
«Speravo non succedesse. Non oggi che volevo parlare con Yachi.» Tadashi finì di cambiarsi e rimase lì, seduto su quella panca umida. Aveva gli occhi lucidi ma non un solo singhiozzo sarebbe salito alla sua gola.
«Negare l’evidenza non ti aiuterà a superare la crisi.» rispose l’altro continuando a guardare qualcosa sul telefono.
«Mi spieghi come posso chiedere ad una ragazza di uscire in queste condizioni? Cosa dovrei dirle?! Di prepararsi a vivere con un rifiuto umano?» Tadashi non ebbe il tempo nemmeno di finire di parlare, si ritrovò le mani di Kei alla collottola del golfino che lo sollevavano, letteralmente, dalla panca.
«Si può sapere che cazzo stai dicendo, Yamaguchi?» Il volto di Kei era scuro come lo aveva visto poche volte, stringeva la stoffa tra le dita con così tanta potenza da far sbiancare le nocche.
«Tsukki, lasciami andare. Non puoi darmi torto.» pigolò l’altro portando lo sguardo verso terra. Le mani attorno alla collottola rallentarono.
«Se vuoi rinunciare alla possibilità di chiedere a Yachi di uscire, non sarò di certo io a farti cambiare idea. Ma sappi che se sei un rifiuto umano, non è certo per quei piedi gonfi.» Kei aprì la porta dello spogliatoio scoprendo che dietro vi era già un cielo colmo di stelle.
Non si voltò, non voleva vedere le lacrime del suo amico. Non in quel momento.
«E per quale motivo allora, se non perché sono malato?».
«Perché non hai le palle di ammettere che sei molto altro, che non sei solo malato».
Tsukki richiuse la porta dietro di sé e aspettò seduto sugli scalini della palestra. Una parte di se gli urlava di andarsene, che Yamaguchi se la sarebbe cavata lo stesso in qualche modo.
Vi era però un’altra parte, quella che amava i dinosauri giocattolo e “Happy Rawr”, che lo convinse a rimanere lì.
 
Tadashi mancò da scuola per più di tre giorni. Tra i ragazzi della Karasuno si vociferava di un’influenza stagionale, quella settimana aveva anche fatto particolarmente freddo, per cui non si insospettì nessuno.
Kei passava da lui ogni pomeriggio, dopo gli allenamenti, per portargli gli ultimi aggiornamenti della squadra e le simulazioni degli esami.
Tadashi non poteva camminare, per quanto le caviglie fossero decisamente meno gonfie rispetto a qualche anno prima. Anche il polso, seppur irrigidito e infiammato, non era minimamente paragonabile.
Si sarebbe ripreso in una manciata di giorni, ma ciò non avrebbe fatto altro che allontanarlo ancora di più da Yachi e dal suo sogno di portarla a mangiare un gelato colmo di stelle croccanti.
Arrivò la domenica, dove i primi fiocchi di neve cominciarono a imbiancare le stradine di Miyagi.
Kei uscì di casa nel primo pomeriggio, nella speranza di poter approfittare di una tazza di cioccolata calda a casa Yamaguchi. Sua madre aveva delle mani divine in cucina, c’era poco da fare.
Fu proprio lei ad aprirgli la porta con aria sofferente che mal si accompagnava a quel sorriso perenne a cui era abituato Kei. La madre di Tadashi era parecchio ansiosa - motivo per cui fin da piccolo l’accompagnava ovunque, visto che la sua sola presenza sembrava rassicurarla - ma ciò non trapelava minimamente dal suo viso che solitamente era allegro e spensierato.
Non quel pomeriggio.
«Tadashi è in camera sua, è da ieri che non vuole parlare e non ha nemmeno mangiato. Non so che fare.» aveva ammesso poco dopo con le mani in grembo mentre qualche lacrima minacciava di uscire.
La signora Yamaguchi si sarebbe tagliata un arto per far felice suo figlio, avrebbe dato la sua stessa vita per saperlo libero da quella maledizione che lo aveva colpito quando era solamente un bambino.
Come doveva sentirsi in quel momento?
Kei la rassicurò con una carezza sulla spalla, salì le scale e bussò tre volte alla porta prima che un grugnito gli concedesse di entrare. La camera era totalmente avvolta dal buio, tanto che il ragazzo fu costretto ad accendere la luce per poter raggiungere la finestra e spalancarla.
«Tsukki, si può sapere che stai facendo?!» Tadashi si ritrovò prima una luce al neon sparata in faccia, poi dell’aria gelida che inondava casa.
«Cerco di farti riprendere, non mi sembra che un malato non possa tenere le luci accese e far cambiare aria ad una stanza che puzza di calzini sporchi.» Kei si affacciò dalla finestra e ammirò, per qualche secondo, la meravigliosa vista delle montagne del nord ormai totalmente bianche.
«Avrei preferito rimanere al buio. Non mi andava di vedere nessuno.» brontolò il diretto interessato sedendosi sul materasso.
«Allora non guardarmi e torna pure a piagnucolare sotto le coperte, sappi che non te lo vieterò».
«Oh, insomma Tsukki, smettila di trattarmi così una buona volta! Che sei venuto a fare?» la voce era sofferente e frustrata. Stanca.
«Ad insultarti, mi sembra ovvio.» Kei si voltò quel tanto che bastava per notare il viso arrossato e rigato di lacrime del suo amico. Non era quello il modo in cui voleva spronarlo, ma era l’unico che conosceva.
«Ora che lo hai fatto, per favore, potresti lasciarmi solo?» la voce di Tadashi era ora flebile, come se avesse la febbre alta.
E Kei lo aveva visto il suo amico con la febbre alta, così tanto da farlo delirare.
Lo ricordava dolorosamente bene.
«Si può sapere perché non hai ancora telefonato a Yachi?».
«Telefonarle per dirle cosa?».
«Che uscirete insieme appena ti sarai ripreso, idiota!».
«Idiota ci sarai tu, Tsukki, perché non mi riprenderò mai e lo sai meglio di me e non voglio costringere Yachi ad uscire con uno sbagliato come me!».
«Con un idiota come te, vorrai dire!» Kei era decisamente alterato.
Perfino Tadashi si ammutolì davanti quella frase detta con rabbia e - davvero? - disperazione. Kei teneva i pugni stretti come se fosse ad un passo dallo scagliarglieli in testa.
«Senti, Tadashi, non te lo ripeterò due volte. Una volta non eri un figo, eri un marmocchio che si spaventava della sua stessa ombra, ma poi hai cominciato a soffrire e nonostante tutto guarda dove sei! Quante persone si sarebbero iscritte a pallavolo sapendo di avere l’artrite a solo dieci anni, quanti sono arrivati ai nazionali e sono diventati capitani di una squadra?».
Tadashi, ancora una volta, non rispose. Rimase immobile a fissare le lenzuola stropicciate tra le sue dita.
«Lo vedi? Hai tenuto la testa alta davanti i bulli alle medie, non sei rimasto indietro nonostante tutto, ti sei fatto degli amici e ti sei anche innamorato. Si può sapere perché stai rinnegando tutto questo? E’ questo che sei diventato? Sei arrivato a sputare su tutto ciò che hai conquistato con immensa fatica più di qualunque altro?».
Kei si avvicinò così tanto che, stavolta, fu Tadashi ad aggrapparsi al colletto della sua camicia.
«Tutto quello che stai dicendo lo sai tu e lo so io. Non lo sa lei, e non voglio che mi veda in questo stato, dove non posso camminare da solo né tenerle la mano, non voglio che soffra come me.» rispose con la voce smorzata dai singhiozzi, lasciò lentamente la presa fino a sedersi nuovamente sul letto, tremava in quel pigiama un po’ sudato che lo aveva visto sfebbrare già un paio di volte nella stessa giornata.
Era esausto.
Ogni volta la stessa storia: Dolore, gonfiore, febbre. Dolore, gonfiore, febbre.
Era stanco, mortalmente stanco di tutto questo.
«Allora chiamale e raccontale tutto. Digli chi sei veramente, ma conosco Yachi quanto te e so che ti dirà le mie stesse parole.» la voce di Kei tornò calma, non vi era più ombra di quella rabbia che aveva malcelato fino a poco prima.
Richiuse la finestra, aprì l’armadio e gettò dei vestiti puliti sulla testa del suo amico ancora scosso.
Si premurò di spazzolargli i capelli e aiutarlo a vestirsi. In assoluto silenzio.
Richiuse la porta dietro di sé solo quando sentì il telefono di Tadashi che squillava, pronto a chiedere alla loro manager di raggiungerlo a casa sua.
Sperava che Yachi non si facesse strane idee.
Prima di uscire di casa, però, tranquillizzò la madre del suo amico, suggerendole poi di preparare due tazze di cioccolata per la ragazza che - poco dopo - avrebbe citofonato alla sua porta.
La donna lo strinse a se, per quanto Kei fosse decisamente più alto, ringraziando i Numi del cielo per averlo mandato in quella casa.
Kei inforcò le cuffie alle orecchie e sparì dietro l’ennesima coltre di neve.

 
«Andrà bene, respira!» si sentì oltre la porta dello spogliatoio maschile.
«Sto respirando!» rispose una ragazza poggiata al muro del corridoio, teneva una bottiglia di sali minerali in mano e se la rigirava tra le dita con fare nervoso.
«Dalla voce non sembrerebbe, Yachi.» Tadashi uscì finalmente con la sua divisa da capitano addosso. Si avvicinò alla ragazza e si abbassò quel tanto che serviva per catturarle le labbra in un bacio casto ma non frettoloso.
Quella sensazione di morbidezza lo avrebbe accompagnato per tutta la partita e non poteva desiderare di meglio per smorzare la tensione che lo coglieva ogni volta.
«Come ti senti?» La voce della manager era così bassa da sembrare un sussurro. Alzò gli occhi su quelli scuri del suo fidanzato e gli regalò uno sguardo non carico di preoccupazione, ma di amore.
«Sto bene, è rientrato tutto. Tu come stai?» Tadashi le prese la mano portandosela vicino al cuore, lì dove cominciava il numero 1 che se ne stava ben teso sul suo torace.
«Anche io sto bene. Ti sarò vicina tutto il tempo, okay?».
«Come sempre, Yachi!».
«Come sempre, Tadashi!».
 
Stavano insieme ormai da mesi, il loro percorso da liceali stava per giungere al termine, ma il legame che si era instaurato era così profondo e solido che non sarebbe di certo bastato un diploma per tranciarlo.
Tadashi le aveva raccontato tutto, a testa bassa e con le mani tremolanti e doloranti.
Quel pomeriggio d’inverno - che mai gli era parso così lontano come in quel momento -, Yachi gli aveva preso il volto con entrambe le mani e lo aveva sollevato per guardarlo negli occhi.
Non solo gli aveva confessato di sapere già che nascondeva qualcosa - per quanto non immaginasse minimamente l’immensità di quella croce -, ma sottovoce gli rivelò anche il suo segreto.
Che poi di segreto non aveva nulla.
Se Tadashi poteva far vedere gli effetti fisici del male che lo attanagliava, Yachi non poteva farlo. La sua ansia era solo parzialmente visibile agli altri, la punta di un iceberg decisamente più grande.
Così, più che innamorarsi e fidanzarsi come due normali adolescenti, Tadashi e Yachi si erano alleati per sconfiggere i loro mostri e tenersi i momenti belli che le giornate insieme gli regalavano.
Avevano imparato a gestire i propri problemi, ma anche ad aiutare l’altro senza che nessuno si accorgesse di nulla.
Allora Tadashi le stringeva le mani quando la vedeva respirare a fatica o perdersi nel suo mondo, Yachi - dal canto suo - aveva imparato a conoscere il polso e la mano sinistra del ragazzo, percependo a un solo tocco i suoi cambiamenti.
Inoltre, cosa che aveva davvero toccato il cuore del capitano, Yachi riusciva a sostenerlo quando faticava a camminare.
E mai, mai una volta si era fatta indietro quando aveva bisogno di essere accompagnato a casa mano nella mano.
 
«Yamaguchi, guarda che cominciamo anche senza di te».
La voce calma di Kei riecheggiò nei corridoi.
 
Si era ormai abituato alla presenza costante di Yachi anche nella sua vita. Sapeva quando doveva lasciarli soli, ma non era proprio riuscito a staccarsi da Tadashi.
Ci aveva pensato - almeno all’inizio -, aveva sospettato che con l’arrivo ufficiale della ragazza nella vita del suo migliore amico per lui non ci sarebbe stato più posto.
Oh, e a dir la verità non sembrava neanche una prospettiva così amara.
La mattina avrebbe potuto godersi la sua mezz’ora di silenzio, a pranzo non avrebbe sentito fiumi di chiacchiere e in campo non si sarebbe sentito continuamente pressato dallo sguardo insistente di un certo capitano.
Meraviglioso, anzi, idilliaco. Un vero paradiso.
Peccato che il solo pensiero di non ricevere più i messaggi la sera, il pensiero di non avere nessuno che si preoccupasse se fosse presente o meno a lezione, che non si curasse delle sue dita malandate per quelle schiacciate murate male, che non gli dedicasse la sua più totale attenzione nei rari - rarissimi! - momenti in cui decideva di aprirsi … beh, era veramente nauseante.
Oltretutto, pensò tra sé la prima volta che li aveva visti baciarsi, se Tadashi se ne fosse andato, la sua immensa altezza non avrebbe avuto più alcun senso.
Fin dall’età di soli otto anni, Kei aveva creduto di essere così alto solo per poter proteggere quel bambino minuto che veniva preso in giro per le sue lentiggini.
A cosa sarebbe servito il suo metro e novanta se Tadashi lo avesse cestinato come una vecchia cartaccia?
Per sua fortuna - e per quella di chi gli stava intorno in quei giorni tremendi - le risposte non tardarono ad arrivare.
Tadashi riusciva a gestire i suoi impegni di capitano, di fidanzato e di amico con una maestria encomiabile.
Kei aveva visto le sue attenzioni ridursi, ma mai sparire. Tadashi sarebbe rimasto al suo fianco, pronto ad ascoltarlo e ad informarlo in qualunque momento.
Glielo aveva detto espressamente, nessuno avrebbe mai preso il suo posto.
E, soprattutto, glielo aveva detto davanti una puntata di “Happy Rawr”, testimone innegabile del loro legame.
A lui, in fondo, andava bene così. Vedere il suo amico con quel sorriso lo faceva stare bene, così come vederlo in piedi e senza occhi lucidi.
Perché erano passati tanti anni, e ne sarebbero senz’altro passati molti altri ma mai, mai, Kei si sarebbe tirato indietro. Ogni volta che Tadashi gli avrebbe chiesto di farlo tornare a casa, lui se lo sarebbe caricato sulla schiena e lo avrebbe riportato lì, su quel pavimento del bagno dove troppe volte si erano guardati negli occhi chiedendosi come sarebbe finita.
 
E Kei avrebbe voluto poterlo dire a quei bambini che erano stati.
Non piangete.
La vita continua, e sarà meglio domani.


 
Note: La malattia di cui soffre Tadashi è l’Artrite Idiopatica Giovanile correlata all’ entesite. Fa parte dei sottogruppi delle IGA, colpisce per lo più i maschi tra gli 8 e i 10 anni.
Nella storia Tadashi soffre di una forma tutto sommato lieve, che gli consente di avere una vita quasi del tutto normale. Purtroppo non sempre e così, per molti bambini è invalidante.
Una buona parte, però, sta meglio con l’avanzare dell’età e grazie a dei farmaci particolari di ultima generazione, oggi tantissimi pazienti riescono ad andare a scuola e a mantenere una vita sociale.
La medicina non si ferma, e lo scopro ogni giorno di più.
Perdonatemi se mi sono dilungata nelle note, ma non avevo alcuna intenzione di sminuire l’impatto sia fisico che psicologico che le IGA portano con sé e non voglio dare questa erronea impressione.
Note dell’autrice: Ebbene sì, è arrivata!
No, non sono una loro vera e propria fan, però devo dire che lo Tsukki nelle fan fiction è decisamente più allettante di quello sbruffone tsundere del manga!
Ufficialmente nasce come una YamaYachi, ma non nascondo che potrebbero esserci cenni di una probabile TsukkiYama. Ma lascio a voi il piacere di interpretare la storia come più vi aggrada ♥ D’altronde è questo il bello delle fan fiction, no?
A presto!
-SkyDream
   
 
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