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Autore: Fragolina84    29/12/2020    0 recensioni
Ti prego, Dio. Fammele ritrovare vive. Sono tutto quello che ho: ti scongiuro, non lasciare che me le portino via. Non potrei sopravvivere.
Sequel de "Il sapore della libertà"
Nicole e Steve McGarrett sono diventati genitori e la piccola Evelyn è entrata a far parte delle loro vite. Sarà anche lei protagonista di questa nuova storia, in cui i McGarrett saranno chiamati a fare i conti con i loro incubi peggiori.
Genere: Avventura, Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Steve McGarrett
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I miei Five-0'
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Otto giorni.
Tanti ne sono passati da quando Evelyn è stata rapita.
Steve e Nicole sono disperati... e i rapitori lo sanno bene.
 
Danny sbirciò l’orologio: era ora di andare a prendere Grace all’allenamento di pallavolo.
Chiuse il computer e prese le chiavi dell’auto, spegnendo la luce nel suo ufficio.
Nicole era alla sua scrivania, le cuffie sulle orecchie. Stava sicuramente esaminando le ultime segnalazioni pervenute. Erano già state verificate tutte e nessuna si era rivelata fondata, eppure lei insisteva per ascoltarle alla ricerca di qualche indizio che poteva essere sfuggito.
Danny sentiva una gran pena per lei e Steve. Aveva un’idea di cosa stesse provando: anni prima sua figlia era stata rapita da un ex collega corrotto che cercava vendetta per essere stato incastrato dalla sua testimonianza. Grace era rimasta nelle mani dell’uomo per meno di un giorno, ma in quelle ore lui era morto diecimila volte. Evelyn mancava ormai da otto giorni: non sapeva se lui sarebbe stato in grado di resistere così a lungo senza impazzire.
Aprì la porta dell’ufficio di Nicole e la donna si abbassò le cuffie sul collo.
«Steve non è ancora tornato?»
«No, si è fermato dal Governatore per aggiornarlo sulla situazione». Si appoggiò allo schienale della poltrona e abbandonò la testa all’indietro. «Non che ci siano novità degne di nota, purtroppo».
«La troveremo, Nicky» affermò e lei girò la testa per fissarlo.
«Non mentire» replicò. «Facciamo questo lavoro da troppo tempo per crederci ancora. Può essere chissà dove, non necessariamente su quest’isola. Ammesso che sia ancora viva».
Un singhiozzo le squarciò il petto. Danny la raggiunse e la cinse con il braccio, posando la guancia sulla testa di lei. La tenne stretta mentre piangeva in silenzio. Non seppe quanto erano rimasti così, ma alla fine Nicole si scostò.
«Devi andare a prendere Grace» disse, asciugandosi le lacrime con i palmi.
«Sicura che posso lasciarti?» chiese. «Posso chiamare Rachel» aggiunse, ma Nicole scosse la testa.
«Vai, sto bene» affermò, anche se non era vero.
Danny la salutò e uscì. Nicole si sistemò di nuovo le cuffie e riprese ad ascoltare le segnalazioni ricevute quel giorno. Erano sempre meno: nonostante l’impegno di tutti, l’interesse mediatico dietro il rapimento di Evelyn stava scemando.
Il suo cellulare vibrò sul piano della scrivania. Era un numero sconosciuto, ma non diede particolare peso alla cosa e rispose: «Tenente Knight».
Dall’altra parte udì uno strano respiro, poi una voce pesantemente contraffatta.
«Vuoi rivedere tua figlia, tenente?»
Nicole drizzò la testa di scatto. Qualcosa le diceva che quella non era una telefonata come le altre.
«Chi parla?»
«Se vuoi rivedere tua figlia viva devi fare tutto quello che ti dirò» rispose lo sconosciuto, ignorando la sua domanda.
«Come faccio a sapere che non è un bluff?»
«Il pupazzo preferito di tua figlia è un piccolo drago di nome Scintilla» asserì la voce metallica e Nicole balzò in piedi, mandando la sedia a sbattere contro il muro: quello era un particolare che non avevano divulgato di proposito. Se il tizio sapeva di Scintilla, voleva dire che era o era stato in contatto con lei.
«Cosa vuoi?» disse e l’altro ridacchiò.
«Vedo che ho catturato la tua attenzione. Molto bene». Il cuore di Nicole batteva all'impazzata, quasi assordandola. La voce proseguì: «C’è un vecchio impianto di depurazione abbandonato, tra Waimanalo e Kailua; segnati queste coordinate» spiegò, dandole i riferimenti che lei scrisse su un foglietto. «Devi venire da sola, non parlare con nessuno, né con tuo marito né con nessun altro, o tua figlia muore».
Quelle parole le gelarono il sangue nelle vene. Era evidente che si trattava di una trappola, ma non aveva scelta. Quando fosse stata là, si sarebbe fatta venire una qualche idea per venirne fuori.
«Ci vogliono venticinque minuti dallo Iolani Palace all’impianto. Se ci metti in minuto di più penserò che hai provato a rintracciarmi o che ti sei fermata a parlare con qualcuno e tua figlia morirà».
«D’accordo, va bene. Ho capito. Verrò da sola».
Udì il clic di fine comunicazione e si mosse immediatamente. Afferrò le chiavi della sua Audi e, disdegnando l’ascensore, prese le scale, sperando di non incontrare nessuno. Fu fortunata e arrivò alla sua auto senza problemi.
Salì e avviò il motore, manovrando in retromarcia per uscire dal parcheggio. Avrebbe potuto accendere sirena e lampeggianti, ma non voleva attirare l’attenzione quindi guidò veloce ma senza esagerare, seguendo le indicazioni del navigatore.
Mancavano cinque minuti all’appuntamento quando imboccò una strada sterrata. Un cartello sgangherato e arrugginito segnalava la direzione verso il luogo che il rapitore le aveva indicato.
La vegetazione delle Hawaii aveva ripreso possesso della zona e Nicole sentì le foglie strisciare sulla carrozzeria. Proseguì fino a una delle grandi vasche dell’impianto e si fermò, spegnendo il motore.
Si era scatenato uno dei soliti acquazzoni ma anche con il velo di pioggia poteva vedere che il sito doveva essere abbandonato da tempo. Ogni cosa attorno a lei era fatiscente e diroccata, a partire dalle baracche di lamiera che dovevano essere servite da uffici, in passato. Per terra c’erano cartacce e sacchi di immondizia strappati.
Il cellulare di Nicole squillò: era di nuovo il numero sconosciuto.
«Sei stata puntuale, brava» disse. «Ora lascia le chiavi nel quadro e scendi, lentamente».
Nicole fece quanto le era stato ordinato e rimase in piedi accanto all’auto. La pioggia la inzuppò la maglietta e le bagnò i capelli.
«Metti il vivavoce e appoggia il cellulare sul tettino».
Di nuovo, obbedì.
«Ora, getta pistola e distintivo».
Nicole staccò l’arma dalla cintura e la gettò lontano, sotto un grosso cespuglio, fra l’erba incolta. Stessa sorte toccò al suo distintivo.
«Hai altre armi addosso?» chiese. «Pensa bene prima di rispondere: ti perquisiremo prima di portarti da lei e se ti troviamo addosso qualcosa…» lasciò la frase in sospeso e Nicole si abbassò di scatto. Sollevò la gamba del pantalone e gettò via la pistola che teneva nella fondina alla caviglia.
«Bene, vedo che ci intendiamo a meraviglia» approvò. «Ora prendi il cellulare, togli la batteria e gettalo. Poi fai tre passi di lato e attendi».
Nicole seguì le indicazioni e si spostò. All’improvviso qualcosa le si appoggiò sul collo e una potente scarica elettrica le fece perdere conoscenza.
 
Steve parcheggiò la Camaro davanti allo Iolani Palace e rimase per un momento in auto, carezzando il pelo di Eddie che sedeva sul sedile del passeggero. L’incontro con il Governatore non era stato granché utile: Denning gli aveva assicurato il pieno appoggio delle forze dell’ordine, ma Steve era davvero preoccupato.
Erano passati troppi giorni senza alcuna notizia e quell’inattività cominciava davvero a pesargli. Era furioso, con se stesso e con il mondo. Con se stesso per non essere riuscito a proteggere la sua famiglia e con il mondo che gli aveva portato via la sua bambina. L’unica cosa che lo faceva andare avanti era il desiderio di mettere le mani su chi aveva preso Evelyn. Non aveva alcuna importanza quanto ci sarebbe voluto o quante risorse avrebbe dovuto usare: avrebbe trovato quei bastardi e avrebbe vendicato tutto il dolore che avevano provocato.
«Andiamo, bello» disse rivolto a Eddie e scese dall’auto, notando che la RS5 di sua moglie non era più nel parcheggio. Lo trovò strano perché gli aveva detto che lo avrebbe aspettato al quartier generale, quindi salì in ufficio.
Danny, Chin e Kono erano nei rispettivi uffici, ma quello di Nicole era vuoto. Steve entrò in quello del suo migliore amico.
«Danno, sai dov’è Nicole?» chiese.
Danny sospirò: «No, quando sono uscito per andare a prendere Grace era qui ma quando sono rientrato non c’era più. Forse è andata a casa prima, era davvero provata».
Steve annuì.
«Senti, Steve» aggiunse l’amico. «È meglio se vai a casa anche tu, non hai una bella cera». Si alzò e si avvicinò, mettendogli una mano sulla spalla. «Fratello, Evelyn ha bisogno che tu e Nicole siate concentrati al massimo, non potete mollare, ok?»
«Sì» rispose Steve e Danny colse una preoccupante esitazione nel suo tono. Mai, nei tanti anni in cui avevano lavorato insieme, gli era capitato di vederlo in quelle condizioni. Steve era sempre determinato e pronto all’azione, aveva sempre un piano in mente, per quanto folle potesse essere. Ma quella situazione lo stava logorando. Anzi, stava logorando tutti loro perché erano Ohana e se un membro della famiglia è in difficoltà, tutti soffrono con lui.
«Vai a casa, Steve» consigliò Danny. «Resta un po’ con Nicole. Ci siamo noi qui, ti chiameremo in caso di novità».
Steve seguì il suo consiglio senza obiettare e anche quello era un sintomo di quanto quella situazione lo stesse mettendo a dura prova.
Quando arrivò alla villetta in Piikoi Street vide subito che l’auto di Nicole non c’era. Aggrottò la fronte: ma dov’era finita?
Prese il cellulare e la chiamò, ma si attivò subito la segreteria. Steve provò il primo fremito di allarme, mentre faceva partire una seconda chiamata.
«Dimmi, capo» disse Kono.
«Kono, ho bisogno che mi rintracci il cellulare di Nicole» ordinò senza preamboli.
«Il cellulare di Nicole?» chiese l’altra, incredula. «Steve, va tutto bene?»
«Non lo so» replicò. «Fai in fretta, per favore».
Udì in sottofondo il rumore della tastiera del suo computer.
«Steve, non ho alcun riscontro. Il cellulare di Nicole sembra spento».
Il fremito di allarme che aveva provato prima divenne più reale.
«Riesci ad agganciare il GPS della sua Audi?»
Mentre Kono lanciava la ricerca la sentì parlare con Danny e Chin per aggiornarli.
«È all’aeroporto» gli comunicò alla fine e il suo tono esprimeva tutta la sorpresa che anche Steve stava provando.
L’uomo avviò il motore e lanciò l’auto in uno stretto testacoda, ripartendo nella direzione opposta. Eddie, sballottato sul sedile, guaì una protesta.
«Ragazzi, c’è qualcosa che non va» borbottò.
«Recupera i filmati delle telecamere fuori dal palazzo», intervenne Danny rivolgendosi a Kono. «Dobbiamo capire a che ora è andata via».
Mentre la squadra lavorava al quartier generale, Steve correva come un pazzo per le strade di Honolulu, con la sirena che ululava e i lampeggianti accesi.
«Eccola» disse Chin. «Steve, è uscita alle cinque e venti».
«Io me ne sono andato alle cinque, è uscita poco dopo di me» aggiunse Danny.
«Ok» replicò Steve. «Controllate se ha ricevuto qualche chiamata prima di uscire».
«Sì, c’è una chiamata da un numero prepagato, irrintracciabile». Chin digitò alcuni comandi. «Hanno parlato per sette minuti. Poi Nicole ha ricevuto un’altra chiamata dallo stesso numero circa mezz’ora più tardi e hanno parlato per altri cinque minuti».
Nel frattempo Steve era arrivato nel parcheggio dell’aeroporto. Kono agganciò il suo GPS e lo guidò fino a che si fermò dietro l’auto di Nicole. Scese e si avvicinò al veicolo, la mano pronta sulla pistola. L'Audi era vuota: Steve provò la maniglia.
«È aperta, le chiavi sono nel quadro».
C’era decisamente qualcosa che non andava: Nicole non avrebbe mai lasciato la sua macchina in quel modo. Qualcos’altro attirò la sua attenzione. Il profumo di vaniglia di Nicole era guastato da un sentore acre di fumo di sigaretta.
Steve premette il pulsante sulla plancia e aprì il bagagliaio. Si avvicinò con cautela, timoroso di quello che avrebbe potuto trovare, ma era vuoto eccetto che per la cassetta di sicurezza con lo stemma della Five-O e che conteneva la loro attrezzatura.
«Steve» lo chiamò Chin, «sto accedendo alle telecamere dell’aeroporto, la troveremo».
«No, lei non è qui» replicò Steve, chiudendo il bagagliaio e recuperando le chiavi. «Qualcun altro ha portato qui la RS5 e l’ha abbandonata, sperando forse che venisse rubata. Recupera i dati del suo GPS, devo sapere dov’è stata prima di arrivare qui».
Steve rimase in attesa, passeggiando avanti e indietro come un leone in gabbia. Il suo istinto gli diceva che Nicole era in pericolo ma doveva restare calmo e non farsi prendere dall'irruenza. Era certo che la scomparsa di sua moglie avesse a che fare con il rapimento di Evelyn e di sicuro qualcuno l’aveva chiamata dicendole di avere notizie della bambina, attirandola in una trappola.
«Steve, quando Nicole ha ricevuto la seconda chiamata era in quello che sembra in impianto abbandonato nei pressi di Kailua. Ti mando l’indirizzo».
«Ok». Steve aprì il baule della Camaro e infilò il giubbotto antiproiettile. Poi si mise al volante e sgommò via facendo fumare i pneumatici sull’asfalto. «Raggiungetemi là».
Arrivarono praticamente insieme e Steve fermò l’auto in derapata, scendendo con la pistola già impugnata. Ormai era buio ma alla luce dei fari vide tracce fresche di pneumatici che erano compatibili con quelli dell'Audi. Fece cenno ai suoi compagni e si dedicarono a perquisire il luogo con l’esperienza dovuta alla lunga pratica, ma non trovarono nulla. Eddie gironzolava per la zona, il naso incollato al terreno.
Alla fine si riunirono davanti al cofano della Camaro di Steve che era furibondo e, incapace di stare fermo, si muoveva nervosamente, stringendo e rilassando il pugno nel tentativo di controllarsi.
«Se non l’avrà già fatto qualcun altro, quando la ritrovo la ammazzo io per non avermi detto nulla».
«Steve, probabilmente non ha avuto scelta» provò a difenderla Danny, ma Steve non lo lasciò proseguire.
«Ti rendi conto che adesso hanno mia figlia e mia moglie?» gridò. «Tutta la mia vita ora è nelle mani di quei bastardi, chiunque siano. Hanno una leva potentissima: se mi diranno di spararmi un colpo in testa per salvarle, lo farò».
Danny gli posò le mani sul petto.
«Adesso cerca di calmarti, fratello» gli disse, cercando di farlo ragionare. «Tieni questa rabbia per quando troveremo quei maledetti, ora non ti serve». Riuscì a spingerlo indietro e a farlo appoggiare al muso dell’auto. «Chin, chiama la Scientifica. Devono setacciare questo posto, magari troveranno qualche indizio».
Lui e Kono si allontanarono un po’, lasciandoli soli. Steve rimase a testa china, svuotato di ogni emozione. Gli sembrava un orrido incubo, ma purtroppo quella era la cruda verità e il suo cervello continuava a ripetergli che le aveva perse entrambe, noioso come un disco rotto.
Tutte le torture e le percosse che aveva subìto erano niente in confronto a quello che stava passando in quel momento, al dolore straziante che gli rodeva dentro come un animale che si stesse nutrendo della sua anima.
Doveva fare qualcosa, qualsiasi cosa, fosse anche setacciare ogni singola casa di Oahu, o sarebbe uscito pazzo del tutto.
In quel momento, Eddie abbaiò e Steve sollevò la testa di scatto. Il cane aveva il muso infilato in cespuglio a pochi passi di distanza e Steve lo raggiunse.
«Ehi, bello. Fammi vedere cos’hai trovato» lo richiamò. «Bravo, Eddie».
Il distintivo di Nicole brillò quando si chinò per raccoglierlo. Lì accanto c’erano due pistole, l’arma personale di sua moglie e la piccola pistola che usava portare alla caviglia.
«Qui c’è il suo cellulare» disse Danny, raddrizzandosi con l’apparecchio in mano. «La batteria è stata staccata, di certo perché non potessimo rintracciare la posizione di Nicole».
Steve raccolse il distintivo e si raddrizzò, stringendolo nel pugno guantato. Alzò gli occhi al cielo nero su cui le stelle cominciavano a comparire come minuscole lucciole.
Ti prego, Dio. Fammele ritrovare vive. Sono tutto quello che ho: ti scongiuro, non lasciare che me le portino via. Non potrei sopravvivere.
 
Nicole tornò alla coscienza con lentezza.
Aprì cautamente gli occhi: si trovava in una stanza buia, forse un seminterrato. Era sdraiata sul fianco su un duro pavimento di cemento.
La testa le faceva un male cane e provava un intenso bruciore alla nuca. Quando mosse la mano per portarla dietro la testa si accorse che era strettamente legata con una ruvida corda. Fu costretta a muovere entrambe le mani e trattenne un gemito quando sfiorò la pelle sulla nuca: aveva una specie di piccola ustione ed era quella a provocarle dolore.
All’improvviso ricordò com’era finita lì: la scarica del teaser che l’aveva tramortita le aveva lasciato quei segni dietro il collo.
Non aveva idea di quanto tempo fosse passato perché le avevano tolto l’orologio e in quel luogo non c’erano finestre che potessero aiutarla a valutare lo scorrere del tempo. Di sicuro, dopo averle fatto perdere conoscenza, l’avevano spostata: era praticamente certa di non essere più al vecchio impianto di depurazione.
Si mosse con cautela, girandosi a pancia in su. Qualcosa tintinnò e Nicole percepì un peso sul piede. Si raddrizzò con fatica e fece scorrere le mani fino alla caviglia destra: aveva diversi giri di una pesante catena d’acciaio avvolti attorno alla caviglia e fermati con un grosso lucchetto.
Afferrò la catena e provò a tirare ma non cedette di un millimetro: probabilmente era fissata ad un muro o a qualche altro supporto molto stabile, quindi desistette. Non poteva sapere quanto tempo sarebbe rimasta lì dentro e doveva risparmiare le forze.
Sedette per terra: a parte l'ustione sulla nuca non aveva altre ferite, se non contava quelle al suo orgoglio. Si era fatta fregare come una novellina, pur se prima di partire aveva avuto la sensazione che potesse trattarsi di una trappola.
Anche perché, a ben pensarci, cosa aveva ottenuto? Non sapeva se Evelyn fosse viva, né dove fosse. E ora, i rapitori avevano preso anche lei: qualsiasi cosa avessero chiesto a Steve, lui avrebbe acconsentito pur di riportarle a casa sane e salve.
Già, Steve. Se non l’aveva già fatto, avrebbe rintracciato la sua Audi con il GPS ma, quando fosse arrivato sul luogo, non avrebbe trovato altro che le sue armi e il distintivo. Di certo era furioso con lei per non avergli parlato della telefonata che aveva ricevuto e poteva immaginare come si sentisse in quel momento, con tutta la sua famiglia nelle mani dei rapitori.
Non aveva molto senso tormentarsi con quei pensieri. Quello che doveva fare era raccogliere quante più informazioni possibili per cercare di uscire da lì. Anche perché quel buio compatto sembrava quasi avere una consistenza solida e doveva fare qualcosa per cercare di tenere impegnato il cervello.
Misurò la catena che risultò molto corta, forse meno di un metro. Si alzò in piedi, tendendo le braccia per cercare di capire dove si trovasse. Trovò l’anello infisso nel muro a cui era fissata la catena e provò di nuovo a smuoverlo ma senza risultati.
Si trovava in un angolo della stanza perché riuscì a toccare due pareti che al tatto risultarono di cemento come il pavimento. Tese le braccia verso l’alto e si accorse che, mettendosi in punta di piedi, riusciva a toccare il soffitto che, a differenza delle pareti, era di legno.
Il buio era fitto come non credeva possibile e attorno a lei non c’era davvero nulla che potesse esserle utile per liberarsi o almeno per cercare di capire dove si trovasse. C’era solo un secchio di latta, che probabilmente doveva servirle per i bisogni. Così, rassegnata, sedette per terra e si raggomitolò nell'angolo. Chi l’aveva portata in quel luogo prima o poi sarebbe tornato e allora forse avrebbe avuto un’opportunità.
Si umettò le labbra secche e si accorse in quel momento di avere una gran sete. In effetti, la temperatura nella stanza era soffocante: la maglietta era zuppa di sudore e l’escoriazione sulla nuca bruciava come se ci avessero versato sopra dell'acido.
Si impose di non pensarci. Steve le aveva insegnato delle tecniche utili a rilassarsi e ad estraniarsi dalle situazioni spiacevoli e le mise in pratica, cercando di regolare il respiro e il battito del cuore.
Non seppe quanto tempo era passato, ma alla fine udì il rumore di una chiave che girava in una serratura e una lama di luce cadde sul pavimento. Nicole spalancò gli occhi, guardandosi attentamente attorno.
Era effettivamente in un seminterrato. Una scala di legno laccato di bianco scendeva dal piano di sopra, dall’altro lato della stanza rispetto a dove era lei. La luce veniva dalla porta che era stata aperta alla sommità della scala, ma era luce artificiale quindi Nicole non poteva capire se era notte o giorno.
L'angolo in cui si trovava lei era completamente vuoto ma, al di fuori della sua portata, c’erano scaffali pieni di roba. Riconobbe un set di valigie, degli attrezzi da giardino e un bel po’ di scatolame. Sembrava il normale seminterrato di una normale casa di Oahu. Poteva essere ovunque.
Qualcuno prese a scendere la scala. Nicole rimase immobile nel suo angolo: osservava la persona che stava scendendo ma, con la luce alle spalle, non riusciva a vederla. Indossava delle semplici sneakers e un paio di pantaloni bianchi; era una donna e ne ebbe la certezza quando vide che indossava una camicetta a fiori.
La donna arrivò al fondo della scala e Nicole strinse gli occhi nel tentativo di vederle il volto, ma quella sembrava ben attenta a mantenerlo nell'ombra. La sconosciuta rimase in silenzio a lungo, fissandola. Se cercava di intimidirla, aveva sbagliato persona.
«È un grande piacere averti qui, tenente».
«Vorrei dire lo stesso, ma la sistemazione lascia un po’ a desiderare a mio avviso» replicò Nicole, sollevando le mani strettamente legate.
L’altra ridacchiò.
«Sì beh, scusa se non è l'Hilton». Nicole conosceva quella voce, ne era sicura. Solo che non riusciva a inquadrarla bene. Era certa di averla già sentita, e anche molto di recente. «Avrei voluto fare le cose in modo diverso, sai? Non era necessario arrivare a questo punto» continuò.
«Senti, stronza» sbottò Nicole. «Non stare tanto a menarla per le lunghe: dov’è mia figlia?»
«Oh, sì. La piccola Evelyn».
Sentirla pronunciare il nome di Evelyn in quel modo le fece calare una nebbia rossa davanti agli occhi ma si impose di stare calma e di ascoltare quello che quella tizia aveva da dire.
«Evelyn sta bene, puoi stare tranquilla» disse, suadente. «Ma temo di non poter mantenere quello che ti è stato detto al telefono». Nicole tacque finché l’altra proseguì. «Credo che non sia una buona idea farti vedere la bambina».
Nicole sogghignò: «Non ci crederai ma me l'aspettavo».
«È solo che le ho già detto che la mamma se n’è andata, che la mamma ha abbandonato lei e papà. È ovvio che ora non posso permetterti di vederla».
La donna balzò in piedi, rapida come un fulmine e si tese in avanti per quanto glielo permetteva la catena.
«Tu hai fatto cosa?» gridò.
«Non devi preoccuparti, Evelyn andrà nelle migliori scuole e avrà il meglio che si può trovare a Oahu. Ci penserò io. Anzi» aggiunse, «ci penseremo io e il comandante McGarrett».
Il modo in cui pronunciò il nome di suo marito le fece tornare di colpo la memoria. Ma sì, quella voce! Come aveva fatto a non riconoscerla prima? Avevano pensato a pedofili, assassini, trafficanti di esseri umani… e Evelyn era stata rapita da…
«Jessica?»
«Oh, hai capito, finalmente. Ti facevo più sveglia, tenente».
«Jessica, cosa stai facendo?» domandò Nicole.
«È colpa tua!» urlò, avventandosi contro Nicole che alzò istintivamente le mani per proteggersi il viso. «Bastava che ti mettessi da parte e mi lasciassi vivere in pace con il mio Steve. Invece hai voluto fare di testa tua e adesso pagherai con la vita».
«Sei completamente pazza».
«Io non sono pazza!» le gridò in faccia, estraendo la pistola che aveva tenuto infilata nella cintura sulla schiena e gliela puntò al volto.
Nicole si abbassò di scatto.
«Calma! Ehi, calma!» disse, sollevando lentamente le mani e tenendole davanti a Jessica, sperando che si tranquillizzasse e abbassasse l’arma. Intanto calcolava la distanza che la separava da lei, ma era troppa: se si fosse lanciata su Jessica avrebbe rischiato di prendersi un proiettile in corpo e tutto sarebbe finito in quello scantinato buio.
«Hai ragione tu, Jessica. Non sei pazza» tentò di blandirla. «Ho sbagliato a dirti quelle cose e ti chiedo scusa. Sono contenta che Evelyn sia con te, so che baderai a lei al meglio». Tutto dentro di lei si rattrappiva dal ribrezzo nel pronunciare quelle parole, ma doveva calmare Jessica.
La mano della ragazza tremava, il dito era piegato sul grilletto. Nicole rimase immobile a testa china, sperando che lo prendesse per un atto di sottomissione. Funzionò perché alla fine Jessica abbassò la pistola e salì le scale senza dire altro. La porta si richiuse e Nicole piombò di nuovo nell’oscurità.
Quella ragazza non le era piaciuta dal primo momento in cui l’aveva vista, ma non l'avrebbe mai creduta capace di arrivare a tanto. Era decisamente pazza: per qualche motivo tutto da scoprire doveva aver puntato Steve e si era fatta l’idea che, eliminata Nicole, lui sarebbe stato libero per lei. Il pensiero che quella psicopatica armata tenesse in custodia Evelyn la faceva rabbrividire.
Doveva aggrapparsi all’idea che non avrebbe mai fatto del male alla bambina, era l’unica cosa che poteva sostenerla. Quanto a lei, la sua situazione non era delle più rosee: sebbene fosse sicura che Jessica non aveva il coraggio di ucciderla, la sarebbe bastato tenerla rinchiusa in quello scantinato. Se fosse rimasta bloccata in quel posto soffocante, senz’acqua, per un tempo sufficiente, non ci sarebbe stato nemmeno bisogno di sprecare un proiettile.
«Devo trovare il modo di andarmene da qui» mormorò a se stessa e, afferrando di nuovo la catena, prese a strattonarla con forza.
  
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