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Autore: Fragolina84    29/12/2020    0 recensioni
Ti prego, Dio. Fammele ritrovare vive. Sono tutto quello che ho: ti scongiuro, non lasciare che me le portino via. Non potrei sopravvivere.
Sequel de "Il sapore della libertà"
Nicole e Steve McGarrett sono diventati genitori e la piccola Evelyn è entrata a far parte delle loro vite. Sarà anche lei protagonista di questa nuova storia, in cui i McGarrett saranno chiamati a fare i conti con i loro incubi peggiori.
Genere: Avventura, Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Steve McGarrett
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I miei Five-0'
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Evelyn e Nicole sono scomparse
e a Steve non è arrivata alcuna richiesta di riscatto.
Chi sono questi misteriosi rapitori?

Steve stava impazzendo. Evelyn mancava ormai da nove giorni, Nicole da quasi ventiquattr’ore. Non aveva notizie di nessuna delle due, né era arrivata alcuna rivendicazione.
Non riusciva a capire cosa fosse successo, non riusciva a pensare. Tutta quella situazione era completamente surreale: perché rapire Eve e Nicole per poi non chiedere qualcosa in cambio?
Danny bussò con le nocche alla porta di vetro del suo ufficio e Steve gli fece cenno di entrare.
«Devo andare, Steve» gli disse in tono di scusa. «Devo andare a prendere Grace».
«Sì, ok» rispose Steve, assente.
Quei giorni lo avevano provato oltre ogni dire. Danny si accorse delle occhiaie scure e gli parve che avesse nuove rughe sulla fronte e attorno alla bocca. Non poteva immaginare se stesso nella medesima situazione: non ce l’avrebbe fatta. Eppure Steve andava avanti, non mollava: perdere non era nel suo vocabolario.
«Dovresti dormire in un vero letto» sottolineò Danny, lanciando un’occhiata alla coperta gettata sul divano: quella notte Steve non se l’era sentita di tornare nella sua casa vuotae aveva dormito in ufficio. «Puoi venire da me se vuoi».
«Ti ringrazio, Danno. Ma sto bene».
«Non è vero, ma fingerò di crederti»rispose, salutandolo e uscendo.
Quando fu solo, Steve cedette alla tentazione di lasciarsi andare. Era stanco, mortalmente stanco. Quella immobilità, la mancanza di informazioni… tutta quella storia lo stava uccidendo poco alla volta e, forse per la prima volta in vita sua, non aveva idea di come risolverla.
Appoggiò le braccia sulla scrivania e vi abbandonò sopra la testa. Si addormentò immediatamente.
Si svegliò di soprassalto mezz’ora più tardi, quando il suo cellulare squillò accanto al suo orecchio. Si passò una mano sul viso nel tentativo di spazzare via i residui di sonno.
«Dimmi, Duke» disse, aprendo la comunicazione.
«Steve, c’è una segnalazione per Evelyn» rispose Duke. «Si tratta di una donna, sembra molto agitata».
«Passa pure» replicò Steve, raddrizzandosi sulla poltrona.
Udì un fruscìo e un respiro dall’altra parte.
«Sono il comandante McGarrett. Con chi parlo?»
Non ci fu risposta. Un fremito gli corse lungo le braccia: aveva la sensazione che quella telefonata fosse diversa dalle altre. Tacque, in attesa.
«Non ho molto tempo» esclamò all’improvviso una voce dall’altro capo. «Loro potrebbero scoprirlo».
Steve balzò in piedi. Ora era assolutamente certo che quella telefonata fosse diversa.
«Ok, stia calma» cercò di rassicurarla. «Chi potrebbe scoprirlo?» tentò, ma la donna si agitò.
«No, no» ansimò. «Non posso farlo».
«La scongiuro, non riattacchi» pregò. «Lei sa dov’è Evelyn? Sa dov’è mia figlia? La prego». Ci fu un lungo silenzio, talmente prolungato che Steve controllò che non fosse caduta la linea. «È ancora lì?»
«3845 PokapahuPlace. Venga solo» e riattaccò.
Steve non ci pensò nemmeno per un secondo. Afferrò le chiavi e corse di sotto.
Conosceva l’indirizzo: era una zona residenziale di lusso ai piedi del cratere di Diamond Head. La raggiunse in dieci minuti, pur evitando sirene e lampeggianti: la donna gli era sembrata molto preoccupata che la scoprissero quindi non voleva mettere in allarme i rapitori, chiunque fossero.
Percorse lentamente tutta la via: il 3845 era l’ultima villetta. Era una bella casa in stile moderno, costruita su un terrapieno cintato da una bordura di bassi cespugli, perfettamente potati tutti nella stessa forma e alla stessa altezza.
Steve parcheggiò la Camaro sul vialetto, davanti alla porta del garage. Le luci in casa erano accese ma le tende erano tirate e non gli permisero di vedere all’interno.
Scese dall’auto e nascose la pistola con i lembi della camicia, avvicinandosi alla porta d’ingresso e suonando il campanello. Rimase lì davanti, guardandosi intorno. Non riusciva a capire come quel posto potesse essere collegato al rapimento di Evelyn: era una zona di lusso, perché qualcuno della zona avrebbe dovuto rapire sua figlia?
Certo, c’era la possibilità che Evelyn non fosse tenuta prigioniera nei paraggi, ma allora perché la donna che lo aveva chiamato gli era sembrata così spaventata dal fatto che potessero scoprirla?
La porta si aprì e Steve si voltò.
«Jessica?» chiese sorpreso. Era l’ultima persona che si sarebbe aspettato di vedere e un furioso campanello d’allarme prese a squillargli assordante nel cervello.
«Svelto, entri» disse in tono pressante, sbirciando le ombre dietro di lui, timorosa che qualcuno li vedesse insieme. Vagamente confuso, Steve la oltrepassò ed entrò in casa ma aveva fatto appena pochi passi quando la scarica del teaser lo tramortì, facendolo stramazzare sul pavimento.
Quando ritornò in sé, Steve era disteso di schiena su un tappeto, i polsi bloccati da una fascetta di plastica. Scosse la testa per schiarirsi la mente, ignorando il mal di testa lancinante che il movimento gli provocò.
Si guardò intorno. Era in una grande sala arredata in stile moderno con mobili di pregio. Il tappeto su cui era disteso era soffice e spesso e si armonizzava con il resto della stanza con la sua fantasia astratta.
A poca distanza da lui, seduta con le gambe accavallate su un divano di pelle nera, Jessica stava leggendo una rivista, del tutto ignara che lui si fosse svegliato.
«Dov’è Evelyn?» chiese con voce dura.
Jessica abbassò la rivista e la appoggiò sul tavolino. Poi si chinò su di lui.
«Oh, tesoro» disse con dolcezza. «Sono così felice che tu ti sia finalmente svegliato».
Steve si mosse, strattonando le fascette che gli morsero dolorosamente la carne.
«Amore, ti farai male così». La voce di Jessica trasudava miele.
«Dov’è Evelyn?»ripeté e il sorriso sbocciò sulle labbra di Jessica.
«Nostra figlia è di là che dorme» sussurrò Jessica, accarezzandogli il viso. Il cuore di Steve perse un battito: Evelyn era lì, in quella casa. Non gli era tuttavia sfuggito il modo in cui aveva calcato quelle due parole e d’un tratto colse uno strano luccichio negli occhi di Jessica e notò un lieve tremito nelle sue mani.
«Mi dispiace di essere tornato così tardi stasera» improvvisò. «Avrei dovuto avvisarti che avrei fatto tardi al lavoro».
«Non preoccuparti, amore» replicò Jessica senza un istante di esitazione. «So quanto è importante il tuo lavoro. Ciò che fai, è per me ed Evelyn».
Aveva colpito nel segno. Jessica era sicuramente disturbata e aveva sviluppato un’ossessione per lui, tanto da arrivare a prendere la bambina e a pensare che fosse sua. Di certo era coinvolta anche nella sparizione di Nicole.
«Dov’è Nicole?» chiese con dolcezza. L’espressione sul viso di Jessica cambiò in un lampo, facendosi livida di rabbia.
«Non avrebbe dovuto mettersi tra di noi» sbottò, voltandogli le spalle e prendendo a camminare per il salotto. Steve vide che aveva una pistola, infilata nella cintola dei jeans. «Voleva portarti via da me. Dovevo fare qualcosa, capisci?»
Steve avrebbe voluto avventarsi su di lei e costringerla a parlare, ma si impose di stare calmo. Jessica era chiaramente pazza e doveva muoversi con prudenza per non spaventarla e ottenere da lei le informazioni che gli servivano.
Si mosse con cautela, rimettendosi in piedi.Non appena si fu raddrizzato, Jessica gli si fece incontro. Si appoggiò a lui, posandogli la testa sul petto. L’istinto gli gridò di spingerla via, ma non lo fece. L’occhio gli cadde sulla poltrona alle spalle di Jessica: la sua pistola era appoggiata con noncuranza sul cuscino.
Si scostò con delicatezza e le fece alzare il viso verso il suo.
«Cos’hai fatto a Nicole?» domandò e di nuovo vide quel luccichio febbrile negli occhi di lei.
«Ancora nulla» gli rispose e Steve faticò a trattenere il sollievo. Quel “ancora nulla” voleva dire che sua moglie era ancora viva. Doveva solo trovare il modo per farsi dire dove fosse in quel momento.
«Perché sei così interessato a lei?» indagò Jessica, socchiudendo gli occhi.
«Non lo sono» negò, imponendosi di accarezzarle il viso. La sentì tremare sotto il suo tocco, ma la sua espressione era sospettosa.
«Non dovresti pensare alle altre donne, dovresti pensare solo a me» esclamò, la voce spezzata dalla rabbia.
«Io penso solo ed esclusivamente a te, Jessica» replicò in un mormorio accorato, ma capì di essere stato troppo precipitoso nel chiederle di Nicole.
Jessica fece due passi indietro, scostandosi da lui.
«Sì, questa l’ho già sentita» sibilò. «Anche Cameron aveva detto la stessa cosa, e intanto se la faceva con la mia migliore amica. Anche tu te la fai con quella puttana: è così, Steve?»
Steve fece per replicare che non era vero nulla, ma un movimento lo distrasse. Evelyn comparve nel corridoio: indossava un pigiamino rosa e abbracciava un peluche a forma di drago che ricordava vagamente Scintilla, avanzando a piedi scalzi stropicciandosi gli occhi.
Il tempo si fermò. Il cervello di Steve generò e scartò decine di piani per prendere la bambina, ma non poteva dimenticare che Jessica era armata. Non gli sarebbe importato beccarsi una pallottola pur di salvare sua figlia, ma non poteva metterla in pericolo in quel modo.
Mentre ancora stava cercando di decidere cosa fare, Jessica si mosse fulminea. Prese in braccio Evelyn, stringendola al petto.
«Tesoro, mi dispiace» disse, rivolta alla bambina che non si era accorta che Steve era nella stanza. «Papà purtroppo non ci vuole bene».
«Evelyn, sono papà» la chiamò e la bambina si raddrizzò e si volse verso di lui. L’espressione di pura gioia che le vide sul volto fu una staffilata in pieno petto e rischiò davvero di metterlo in ginocchio.
«Papà!» gridò, divincolandosi dalla stretta di Jessica per farsi mettere a terra e correre da lui. La donna però non la mollò e Steve la vide portare la mano dietro di sé, evidentemente per prendere la pistola.
«Se papà non ci vuole, non ci avrà nessuno» disse sommessamente.
Non poteva più attendere. Jessica aveva superato il punto di rottura e non c’era più nulla che lui potesse fare o dire per tranquillizzarla. Doveva agire e doveva farlo subito.
Si lanciò in avanti e, nonostante i polsi ancora legati, afferrò la pistola e la puntò verso Jessica. La sua anima si accartocciò al pensiero di avere un’arma puntata in direzione di Evelyn, ma ancor più lo spaventò vedere l’arma che Jessica aveva recuperato e che ora puntava alla testa di sua figlia.
«È finita, Jessica» disse, con una calma che era ben lungi dal provare. «Metti giù la pistola».
Evelyn era immobile, i grandi occhi blu colmi di terrore, ma non piangeva e Steve sentì il petto scoppiare d’orgoglio.
«Avremmo potuto essere felici insieme» urlò la donna, il volto trasfigurato dall’ira. «Potevamo crescere la bambina con amore, sarebbe stato meraviglioso».
«Metti giù la pistola» scandì lentamente, ma Jessica proseguì come se lui non avesse parlato.
«Sarebbe stata una vita meravigliosa, ma tu hai scelto lei. LEI!» gridò, ormai completamente fuori controllo. «Adesso non avrai più niente. Non avrai lei, non avrai me e nemmeno la bambina».
Jessica aveva ancora Evelyn stretta al petto ma si era sporta in avanti per sputargli addosso tutta la sua rabbia. I suoi occhi videro una piccolissima opportunità: il suo cervello la registrò ancor prima che lui ne fosse consapevole e mandò un impulso al suo indice che tirò il grilletto.
Colpì Jessica alla spalla destra. La pistola le sfuggì di mano e si accasciò. Steve balzò in avanti e si chinò per prendere in braccio Evelyn che gli si aggrappò subito al collo, nascondendo il volto contro la sua spalla, mentre lui recuperava la pistola di Jessica che piagnucolava tenendosi la ferita.
Steve individuò la cucina e fece sedere Evelyn sul bancone. Lo stringeva con forza sorprendente, sicuramente terrorizzata dall’esperienza vissuta.
«Eve, devi lasciarmi adesso. Papà deve liberare le mani» le spiegò ma la bambina scosse la testa. «Papà resta qui vicino a te, amore. Ma devi lasciarmi andare, ok?»
Lentamente la stretta si allentò. Steve prese un grosso coltello dal lavandino e, con un po’ di fatica, riuscì a tagliare la fascetta.
«Ora devi restare qui, Evelyn» le disse. Doveva assolutamente immobilizzare Jessica prima che si riprendesse dallo choc. «Papà torna subito».
Evelyn raccolse le gambe al petto e appoggiò la testa sulle ginocchia. Steve le diede un bacio sul capo e tornò precipitosamente nell’altra stanza. Quando lo vide, Jessica parve tornare in sé e cercò di alzarsi.
Steve l’afferrò per le braccia e la sollevò senza sforzo. La sbatté con violenza contro la parete, torcendole le braccia all’indietro senza alcun riguardo per la ferita. La donna gemette e lui provò un piacere feroce. Prese una fascetta dalla tasca e le bloccò i polsi, stringendola finché le penetrò profondamente nella carne.
Poi la fece girare e la spinse nuovamente contro il muro, puntandole la pistola al volto.
«Dov’è Nicole?» le gridò in faccia, ma Jessica piagnucolava e non diede cenno di averlo sentito. Ripeté la domanda altre due volte, ma capì che non ne avrebbe ricavato nulla e aveva fretta di tornare da Evelyn.
La fece sedere su una sedia della sala da pranzo, usando una seconda fascetta per assicurarla alla gamba del massiccio tavolo in acciaio e cristallo. Poi tornò in cucina.
Evelyn non si era mossa di un millimetro e Steve la raggiunse. Le fece alzare la testa: i suoi occhi erano colmi di lacrime e tanto grandi da riempirle tutto il viso.
«Va tutto bene. È finita, amore. È tutto finito, c’è papà qui con te». Evelyn scoppiò a piangere e gli si gettò fra le braccia.
Steve la strinse, sentendo quel piccolo corpicino tremare contro il suo. L’ansia e le preoccupazioni di quel giorno evaporarono in un istante e le gambe gli cedettero. Cadde in ginocchio mentre le lacrime sgorgavano dai suoi occhi, inaspettate e brucianti come acido; l’ultima volta che aveva pianto era stato al funerale di sua madre.
Continuò a stringere sua figlia, mormorandole una serie infinita di rassicurazioni, accarezzandola e vezzeggiandola, continuando a ricoprirla di baci finché si calmò e alzò la testa.Steve prese il fazzoletto dalla tasca dei pantaloni: le asciugò le lacrime e le soffiò il naso.
«Jessica mi ha detto che la mamma non ci vuole più bene ed è andata via» disse tra i singulti. «Voleva che chiamassi lei mamma e quando piangevo mi diceva che tu arrivavi presto, ma non venivi mai».
«Era una bugia. Jessica era una donna molto cattiva» commentò Steve. «La tua mamma ti ama da morire, Eve».
«Voglio andare dalla mamma. Andiamo a casa, papà?»
Steve non ebbe animo di dirle che Nicole era scomparsa perciò prese tempo.
«Prima dobbiamo chiamare lo zio Danny e dirgli che venga a prendere Jessica per portarla in prigione» le spiegò con calma.
Prese il cellulare e compose il numero dell’amico.
«Ho trovato Evelyn» disse quando l’altro aprì la comunicazione.
«Dov’è?»
«Adesso è al sicuro, in braccio a me». Gli diede velocemente l’indirizzo e lo pregò di raggiungerli al più presto, chiamando anche Chin e Kono.
Venti minuti più tardi, fu lui stesso ad aprire la porta.
«Piccola Rambo!» esclamò Danny quando la vide in braccio a Steve. La piccola lo salutò ma quando Danny cercò di prenderla in braccio, strinse le braccia al collo di Steve.
«Amore, io adesso devo parlare con Jessica, prima che vada in prigione. La zia Kono starà con te, va bene?» mormorò Steve.
«Voglio stare con te» si lamentò e Steve sospirò. La voglia di strangolare Jessica per le ferite interiori che aveva procurato a sua figlia crebbe a dismisura, accorciandogli il respiro e facendogli tendere tutti i muscoli del corpo.
«Lo so, ma farò presto». Fece cenno a Kono di avvicinarsi e quando vide cos’aveva in mano sorrise. «Guarda cosa ti ha portato la zia».
Kono sorrise mostrandogli Scintilla. Doveva averla recuperata nell’ufficio di Nicole prima di raggiungerlo lì dato che era sulla scrivania da quando lo aveva recuperato la notte che la piccola era scomparsa: Evelyn sorrise e si tese verso di lei, lasciando cadere il peluche surrogato che le aveva dato Jessica. Steve la passò fra le braccia dell’amica, facendole cenno con il capo di allontanarsi; lei annuì e si allontanò con la bambina.
Steve si voltò e rientrò in casa, seguito da Danny e Chin che notarono subito la macchia di sangue sul pavimento.
«La stronza è di là» annunciò senza inflessione nella voce. Danny scambiò un’occhiata preoccupata con Chin: la cosa non prometteva per niente bene.
Quando entrarono, Jessica girò uno sguardo atterrito su di loro.
«Vi prego, devo andare in ospedale. Sono ferita» supplicò. La camicia era intrisa di sangue che le era corso lungo il braccio ed era gocciolato sul pavimento.
«Non ci andrai» replicò Steve tranquillo. «Non finché non mi avrai detto dov’è mia moglie».
«Io non so dov’è» mugugnò.
«Non mentire!» proruppe, la voce secca e tesa come un colpo di pistola.Poi abbassò la voce a poco più di un sussurro: «Ti spiego una cosa molto semplice: tu non hai alcun valore per me. Se non avessi prestato giuramento, ti avrei già uccisa con le mie mani per quello che hai fatto alla mia famiglia. Troverò mia moglie con o senza il tuo aiuto ma finché non mi dirai dov’è, nessuno di noi chiamerà un’ambulanza per aiutarti».
Jessica ansimava come se avesse corso, continuando a far saettare lo sguardo da Steve agli altri due.
«Vi prego, ho bisogno di un medico» continuava a supplicare.
«Dicci quello che vogliamo sapere e lo avrai» rincarò Danny. «Quella ferita sembra davvero brutta, rischi di perdere il braccio».
La minaccia spaventò alquanto Jessica che sbiancò ancor di più.
«Io non volevo…» cominciò.
«Smettila!» le intimò Steve. «Non ci saranno attenuanti, non ci saranno sconti. Me ne assicurerò personalmente. L’unica cosa che avrai se collaborerai sarà un medico e la vita salva, che è molto più di quanto meriteresti». Si chinò e le strinse la spalla ferita, cavandole un rantolo. «LEI DOV’È?» gridò.
«Nel seminterrato» sputò infine e Steve partì di corsa, seguito da Danny.
La porta del seminterrato era in cucina. Era chiusa a chiave, ma Steve fece un passo indietro e la sfondò con un calcio. Si precipitò giù dalle scale, lasciando a Danny l’incombenza di trovare l’interruttore e accendere la luce.
Nicole era distesa a terra, immobile. C’era un caldo infernale in quel seminterrato e Steve si gettò su di lei. Era priva di sensi e la mano gli tremò quando la mosse per toccarle il collo in cerca del battito. Lo trovò e rilasciò d’un colpo tutto il fiato che aveva trattenuto.
Prese il coltello dalla tasca dei pantaloni e fece scattare la lama.
«Danny, vedi se trovi qualcosa per troncare quella catena» ringhiò, mentre tagliava la spessa corda che le bloccava i polsi. Doveva aver cercato a lungo di liberarsi perché la pelle dei polsi era livida ed escoriata.
Danny arrivò con un tronchese e attaccò la catena che ben presto cedette. La svolse dalla caviglia di Nicole e, appena ebbe finito, Steve la prese fra le braccia e la portò di sopra.
La adagiò con delicatezza sul divano.
«Danny, prendi dell’acqua e chiama un’ambulanza» ordinò. «Chin, dì a Kono che non faccia entrare Evelyn per nessun motivo, non voglio che veda Nicole in questo stato, è già abbastanza spaventata».
Entrambi scattarono ai compiti loro assegnati. Nicole era ancora priva di sensi: aveva le labbra secche e tirate ed era pesantemente disidratata.
«Nicky» la chiamò. «Nicky, amore, mi senti?»
Provò a schiaffeggiarle piano le guance ma Nicole non rispose. Danny arrivò con una caraffa di acqua e un bicchiere.
«L’ambulanza sta arrivando» lo informò.
Steve versò un po’ d’acqua nel bicchiere poi le prese delicatamente la testa e le fece colare poche gocce in bocca. Le massaggiò la gola, stimolandola a deglutire.
«Prendi degli asciugamani, bagnali e portali qui» disse, somministrandole altra acqua.
Danny tornò con gli asciugamani bagnati. Steve la sollevò delicatamente e le tolse la maglietta. Distese un panno umido sul divano e la adagiò di nuovo, coprendola con un secondo asciugamano bagnato. Le riprese la testa e la fece bere di nuovo, goccia a goccia, mentre Danny le posava una salvietta bagnata sulla fronte.
Versò altra acqua nel bicchiere e glielo accostò alla bocca e stavolta Nicole deglutì da sola. Posò il bicchiere e la chiamò di nuovo.
«Nicole, rispondimi. Nicky, sono Steve. Avanti, rispondimi, piccola».
Finalmente la donna aprì gli occhi. Sbatté più volte le palpebre finché fissò lo sguardo su di lui e lo mise a fuoco.
«Steve» esalò con un filo di voce.
«Sono qui» la rassicurò. Le porse di nuovo il bicchiere e Nicole prese un lungo sorso d’acqua. «Piano, dolcezza» raccomandò.
«Steve, è stata Jessica. Lei è…» biascicò e lui annuì.
«Lo so, so tutto. Jessica è di là, inoffensiva. Evelyn è fuori con Kono».
Non appena nominò la bambina, gli occhi di Nicole si spalancarono e cercò di mettersi a sedere.
«Ehi, vacci piano!» protestò Steve.
«Devo vedere Evelyn» gemette. «Dov’è?»
«Evelyn sta bene, tu però devi rimetterti giù e restare tranquilla. L’ambulanza sarà qui tra poco». Steve tentò di blandirla, ma Nicole gli afferrò il braccio con forza.
«Ti prego, ho bisogno di abbracciare mia figlia» supplicò e lui non resistette all’accorata preghiera che lesse in quegli occhi.
«Danny, nel bagagliaio della Camaro c’è una maglietta pulita». Danny si mosse per andare a prenderla, ma Steve lo fermò. «Poi dì a Kono di portare qui Evelyn».
Danny tornò qualche istante più tardi e le porse la maglietta. Era di Steve e le stava abbondante, ma non aveva importanza. Poi chiuse la porta scorrevole che dava in salotto, in modo che Evelyn non dovesse rivedere Jessica.
«Aiutami ad alzarmi» disse Nicole aggrappandosi a Steve che, brontolando che secondo lui era una pessima idea, la aiutò a mettersi in piedi.
Kono aprì la porta ed entrò. Teneva in braccio Evelyn e Nicole non riuscì a trattenere un ansito quando la vide.
«Guarda un po’ chi c’è» disse Kono alla piccola che si voltò e vide la madre.
«Mamma!» gridò. Kono la mise subito a terra ed Evelyn le corse incontro.
Nicole si chinò con qualche difficoltà e la afferrò al volo. Le gambe le cedettero, ma Steve la sostenne e la aiutò a sedersi sul divano. Con le ultime riserve di forza che aveva sollevò Evelyn e la strinse a sé.
Scoppiò a piangere. Tutta la paura di quei giorni, la tensione, l’ansia di non riuscire a ritrovare Evelyn ruppero gli argini e la donna si lasciò andare a quel pianto liberatorio. Anche Evelyn piangeva, rannicchiata contro il suo ventre, quel ventre che l’aveva portata per nove mesi.
Non riusciva a credere di averla ritrovata, non riusciva a pensare ad altro se non a Evelyn, ora al sicuro fra le sue braccia.
La scostò un po’ da sé, prendendole il viso fra le mani.
«Stai bene?» le domandò convulsamente. «Ti ha fatto del male?»
«Sto bene, mamma» singhiozzò la bambina e Nicole la strinse di nuovo contro il seno. «Avevo tanta paura».
«Non devi più avere paura, tesoro mio» la consolò. «Adesso mamma e papà sono qui, andrà tutto bene».
Le sirene dell’ambulanza fecero udire il loro lamento e pochi istanti più tardi i paramedici entrarono.Chin li accompagnò in salotto perché si occupassero di Jessica.
«Dovrebbero badare prima a te» borbottò Steve.
«Sto bene» replicò Nicole. «Ho tutto quello che mi serve proprio qui» aggiunse, prendendolo per mano.
Pochi minuti più tardi i paramedici portarono fuori Jessica, assicurata a una barella. Uno di loro si avvicinò a Nicole.
«Dovrei darle un’occhiata, signora».
«Niente in contrario, ma non ho intenzione di posare la bambina».
Il medico scambiò un’occhiata con Steve che annuì, rassegnato.
Le misurò la pressione e l’auscultò con lo stetoscopio, ma quando le disse che sarebbe stato opportuno che la portassero in ospedale per un controllo, lei scosse la testa e si rivolse a Steve.
«Andiamo a casa».
«Tesoro, credo che dovresti farti controllare» provò, ma senza troppa convinzione.
Nicole volse lo sguardo sul medico.
«Grazie, ma sto bene» disse di nuovo e quello raccolse il suo borsone e se ne andò.
«Noi andiamo con loro» disse Chin, e lui e Kono presero l’auto e seguirono l’ambulanza.
Nicole scostò ancora Evelyn da sé.
«Piccola, la mamma è molto stanca e non riesce a portarti alla macchina. Vai con lo zio Danny».
«Andiamo a casa?» domandò Evelyn con la sua vocetta.
«Sì, zuccherino» intervenne Steve. «Andiamo a casa».
Steve sorresse la moglie fino all’auto, aiutandola poi a prendere posto sul sedile del passeggero. Danny le mise in braccio la bambina e si tese per mettere la cintura di sicurezza ad entrambe.
«Sono felice che vi abbiamo ritrovate» mormorò, baciandole la guancia.
Steve si mise al volante e tornò con calma a casa. Rimasero in silenzio per tutto il tragitto tanto che quando arrivarono, Evelyn dormiva con un sorriso appena accennato sulle labbra.
L’aiutò a scendere dall’auto e la sostenne mentre raggiungevano la porta di casa. Nicole fece per salire le scale ma barcollò sul primo scalino e Steve fu veloce ad afferrarla.
«Ci penso io» disse e prese in braccio entrambe e portandole di sopra.
Nicole mise Evelyn nel loro letto: la piccola si raggomitolò abbracciando Scintilla e si mise il pollice in bocca.
Steve scese al piano di sotto e tornò poco dopo con della frutta, dell’acqua e la cassetta del pronto soccorso. Mentre Nicole sbocconcellava la frutta e beveva l’acqua a piccoli sorsi, lanciando spesso occhiate alla bambina addormentata, Steve aprì la cassetta e bagnò un batuffolo con del disinfettante, passandoglielo poi sulle abrasioni che aveva sui polsi. Non parlava e non la guardava negli occhi.
«Sei arrabbiato?» gli chiese, timorosa.
«Arrabbiato?» le fece eco. «Direi di no. Direi che furioso è un termine più appropriato».
Sapeva a cosa si riferiva. Quando se ne era andata, seguendo quella telefonata che era ovvio fosse una trappola, aveva agito in modo sconsiderato. Avrebbe dovuto fargli sapere cosa stava facendo, trovare un modo per mandargli un messaggio. Invece, accecata dalla promessa di rivedere Evelyn, aveva agito da sola.
La sua fortuna era che Jessica avesse alla fine accelerato i tempi. Se avesse aspettato solo un altro po’, lei sarebbe stata spacciata. Aveva fatto tutto benissimo fino a quel momento, ma poi era diventata ingorda.
Per Nicole era stata una fortuna, ma questo non cambiava il fatto che aveva disobbedito a Steve.
«Mi dispiace» mormorò. «Lo sapevo che doveva essere una trappola, ma la minaccia di far del male a Evelyn se avessi parlato con qualcuno ha fatto effetto».
«Ho temuto di perdervi entrambe. Credevo di impazzire quando ho trovato la tua auto abbandonata all’aeroporto e ho capito che avevano preso anche te».
Gli occhi gli si riempirono di lacrimee distolse lo sguardo. Nicole gli sedette più vicina e lo fece voltare verso di sé. Le lacrime scendevano silenziose dai suoi occhi: era la prima volta che lo vedeva piangere e il suo cuore sanguinò per lui.
«Ti chiedo scusa, posso immaginare quello che hai passato» sussurrò Nicole, accarezzandogli la guancia coperta di barba. «Ho perso la testa e ho pensato di farcela da sola».
Steve si asciugò le lacrime con il dorso della mano e si volse verso di lei.
«Ancora non riesco a credere che sia finita» sussurrò.
Entrambi si girarono a guardare Evelyn che dormiva beata in mezzo al loro letto.
«Come ti senti?» le chiese.
«Sto bene. Ho solo bisogno di fare una doccia».
Steve chiuse la cassetta del pronto soccorso e fece per scendere al piano di sotto, ma Nicole lo fermò.
«Steve! Evelyn può dormire con noi stasera?» domandò.
Lui sorrise: «Solo per stavolta. Ma ricorda che sei stata tu a permetterle di dormire qui. E con questa siamo pari!»
  
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