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Autore: Moonfire2394    30/12/2020    0 recensioni
I genitori di Leona e Gabriel vengono uccisi brutalmente da un trio misterioso di vampiri in cerca delle mitiche "reliquie". Dopo il tragico evento, verranno accolti al campo Betelgeuse, un luogo dove quelli come loro, i protettori, vengono addestrati per diventare cacciatori di creature soprannaturali. In realtà loro non sono dei semplici protettori, in loro alberga l'antico potere dei dominatori degli elementi naturali: imedjai. Un mistero pero' avvolge quell'idilliaco posto e il subdolo sire che lo governa: le strane sparizioni dei giovani protettori. Guidata dalla sete di vendetta per quelli che l'avevano privata dei suoi cari, Leona crescerà con la convinzione che tutti i vampiri siano crudeli e assetati di sangue. Fino a quando l'incontro con uno di loro, il vampiro Edward Cullen, metterà sottosopra tutto quello in cui ha sempre creduto facendo vacillare l'odio che aveva covato da quando era bambina. Questo incontro la porrà di fronte a una scelta. Quale sarà il suo destino?
Una storia di avventura, amicizia e giovani amori che spero catturi la vostra attenzione:)
Genere: Avventura, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio
Note: Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Precedente alla saga
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Capitolo 44 – Lux Omnia Vincit Parte II

Valerio

Tutto ciò che avrebbe ricordato Valerio sarebbe stato il pestilenziale lezzo di zolfo e altri gas sulfurei che non riusciva a distinguere con l’olfatto. L’antico aveva avuto a disposizione intere generazione per covare quel magma rovente e liquefatto che strisciava come un serpente fra gli interstizi della caverna. Aveva visto gli abomini precipitare uno dopo l’altro dentro a quell’immenso calderone di orrori senza nemmeno rendersi conto verso cosa stavano andando incontro. Non che avessero avuto altra scelta. La carne è carne aveva minimizzato la fata. Magari la morte era ciò di più misericordioso che gli si poteva concedere a dispetto della loro catatonia mentale di cui erano affetti. Non erano altro che succubi della volontà di qualcun altro. A differenza loro però, Valerio aveva scelto di sacrificarsi e quella scelta non era stata così difficile come si potrebbe pensare. In fondo non era così male. Non avrebbe più sofferto. Presto sarebbe tutto finito e l’immagine dello sguardo assente della sua Sara avrebbe smesso di torturarlo per sempre. Sì, gli sembrava un buon compromesso. Poco gli importava se avesse devastato ogni cosa. Lui era pronto anche a questo, poteva anche smettere di fingere di essere quello che non era. Un egoista, non un eroe, anche se quel segreto lo avrebbe tenuto solo per lui, non avrebbe permesso a nessuno di pensare il contrario. Avrebbe continuato a vivere nella memoria di tutti come una leggenda e questo lo appagava tanto da accettare tutto il resto. Ma questo non cambiava i fatti. Lui lo era fino al midollo e sarebbe morto come tale, pensò giocherellando con il cavalluccio di legno che aveva in tasca.
«Ne sei sicuro, ragazzo?» gli domandò il Sire con le mani infilate dentro le maniche e gli occhi glaciali che sembravano perforarlo da parte a parte.
«Con tutto il rispetto suo Clementissimo» si sforzò di mantenere un tono neutro «Capitano Augias, quattordicesimo squadrone anti-vampiro, se non le dispiace. Me lo sono guadagnato quel titolo, ora più che mai, e non ho alcuna intenzione di retrocedere a un passo dal tirare le cuoia» terminò sfiorandosi il petto con tre dita, giusto per utilizzare un’ultima volta il gesto del congedo ufficiale. Poi sogghignò sardonicamente alla vista del suo burbero cipiglio. Ormai non aveva più nulla da perdere.
«E comunque qualcuno doveva pur difendere la reputazione dei protettori italiani, e mettere a tacere qualsiasi ridicolo pettegolezzo sulla nostra presunta codardia. Non avrei permesso una tale fuga di notizie così denigranti. Non si angusti, potrà rendermi onore con una bella effige sulla mia tomba. Oh, e se accetta qualche suggerimento: “il più bello e figo di tutti” dovrebbe essere adeguato come commemorativo. Adesso, se le compiace, avrei un appuntamento improrogabile con un mostro che mi risucchierà l’anima per sempre, non vorrei farlo aspettare. Dicono sia parecchio irascibile» disse infine strizzandogli l’occhio confidenzialmente al suo quasi suocero. Non si fermò abbastanza a lungo per assistere alla sua reazione e marciò in silenzio verso il consiglio dei sette assiepato attorno all’abisso gorgogliante di lava. Il vecchio Valchiria gli allungò un coltello con il manico finemente intarsiato di simboli arcaici, scritti nella antica lingua di Hijir. I contorni del viso dell’anziano erano tremolanti per via delle ondate di calore che danzavano fra loro. I bagliori del magma riverberarono lunga la lama affilata. Impassibile come una statua, si incise un taglio sul palmo della mano lasciando che il sangue sgorgasse fuori dalla ferita e procedettero col patto, legandosi indissolubilmente alla volontà del capo supremo dell’intera guarnigione dei protettori di tutta Europa. A quel punto ripescò dalla tasca il giocattolo di legno rubato dalla stanza di Leona e lo strinse forte ignorando il liquido scarlatto che gocciolava sul pavimento.    
«Signore, signore, ci stanno attaccando. Stanno per sfondare la barriera di ghiaccio!». Il giovane protettore che era accorso a metterli in guardia al termine di quella maratona cacciava fuori ogni respiro con estrema difficoltà. Il Sire chiuse gli occhi riflettendo su quelle parole e borbottò qualcosa di simile a “non c’è più tempo”. Valerio si sorprese a voler temporeggiare ancora un po’, in memoria dell’ultimo briciolo di amor proprio che gli era rimasto, ma non poteva tirarsi più indietro. Guardò un’ultima volta il cavalluccio insanguinato di Leona e fu pizzicato da una strana elettricità. Non c’era alcun dubbio sull’autenticità del potere che trasudava. Si tamponò il sudore via dagli occhi con la manica della giacca e si mosse lentamente verso il suo destino. Aveva la bocca secca e il battito accelerato. Rise della sua paura. Poi rivolgendo un breve inchino al consiglio si avvicinò sempre di più al precipizio zampillante di lava «È stato un piacere signori…ma neanche più di tanto». Non avrebbe lasciato che quelle fossero le sue ultime parole.
Ti amo Sara, disse rievocando ancora una volta il sapore delle sue labbra, per addolcire la sua fine. Poi si gettò nelle braccia delle fiamme senza alcuna esitazione. Ma proprio mentre si lasciava avvolgere da quel tocco rovente, il rimbombo di un’arma da fuoco gli scoppiò nei timpani. Poco istanti prima di raggiungere il fondo, si rese conto di non essere stato l’unico a saltare nella fossa. Valchiria, il padrone con cui aveva suggellato il patto di sangue, lo stava accompagnando fin laggiù, nel ventre della montagna, con un bossolo incastrato fra le sopracciglia.
Il suo sorriso era spento. I suoi occhi contemplavano il nulla eterno.
Ma adesso che il suo padrone era morto, chi l’avrebbe fermato?

Tiziano

La canna della pistola era ancora calda e fumante quando sputò fuori altri sei proiettili. Il tiratore non aveva mancato un solo bersaglio, né le pallottole avevano dato prova di inefficienza alcuna. Il puro acciaio d’Hijir, fuso con una mistura di verbena e legno di biancospino, era sviscerato silenziosamente dentro le membra del consiglio facendoli lacrimare sangue sul pavimento. Tiziano osservò il loro ondeggiare incerto che s’interrompeva bruscamente sul baratro alle loro spalle, proprio mentre si accasciavano mollemente sulle loro gambe per abbandonarsi ai marosi bollenti della lava che beccheggiava nelle profondità di quella laguna infuocata. L’Antico era stato sfamato con una prima portata di innocenza, una seconda di eroismo e con un dessert di vecchie leggende indigeste, vanagloriosi dimentichi della sacralità del loro ruolo di anziani. Il consiglio era stato sterminato con le stesse armi che avevano impugnato con fierezza nella loro gioventù rocambolesca di cacciatori di esseri sovrannaturali. Tiziano ne avrebbe colto l’ironia se quelle morti, assolutamente non necessarie, soprattutto quella di Valchiria,  non avrebbero compromesso le già inesistenti possibilità di sopravvivenza del campo. Cubetti di ghiaccio tintinnarono nel suo stomaco, raggelandogli il sangue nelle vene: erano perduti. Tanto valeva partecipare a quel suicidio di gruppo e risparmiarsi il disturbo di assistere alla disfatta di un popolo che lui era stato incapace di difendere.
Se una occhiata avrebbe potuto ferirlo, allora Tiziano non avrebbe esitato ad azzannare il possessore della pistola con lo sguardo più cruento di cui era capace «Ti rendi conto di quello che hai fatto o sei stupido quanto credo che tu sia?».
L’assassino si umetto le labbra con la lingua, caricò le cartucce e gli sibilò come un serpente a sonagli di tacere, indirizzandogli la pistola sul petto «Ascoltalo. Gli ultimi gemiti del dormiente. Abbi rispetto, stai per assistere alla nascita di un dio ed io sarò colui che imbriglierà il suo potere» sbiascicò sghignazzando follemente. Le sue risate rimbalzarono sulle pareti rocciose e quegli echi giocondi sfrecciarono da tutte le parti sotto forma di dardi avvelenati.
«Sai io ti ammiravo» disse rivolgendo per un attimo la bocca dell’arma per terra. Tiziano sospirò piano per non farsi sentire e fissò con disgusto il suo ex braccio destro, sebbene timoroso di fomentare le sue follie, almeno fin quando si fosse trovato dalla parte sbagliata del mirino. Gli occhi lividi di Gomez e le gote flosce che gli pendevano sul mento sporgente gli parlavano celatamente di come gli eccessi delle sue manie di grandezza lo stessero corrodendo dall’interno. «Ma parliamoci francamente, non hai mai saputo pensare abbastanza in grande. E sono contento di questo o ci saresti tu a galleggiare in quella brodaglia incandescente al posto di Valchiria. Adesso mettiti comodo e goditi lo spettacolo».
«Non credo proprio, vecchio mio. La coppa da cui stai per bere contiene un nettare dalla dolcezza inarrivabile per il tuo modesto palato.»
 Gomez strinse gli occhi in due fessure «È sempre stato così non è vero? Non mi ritieni all’altezza? Be’ dovrai ricrederti mio clementissimo. La fortuna mi ha arriso quest’oggi e presto più niente potrà fermarmi. Sono io il suo padrone, lui obbedirà e risponderà solo a me. E ti consiglio di cominciare a piegarti sulle ginocchia se vuoi avere una speranza di elemosinare la mia pietà».
Tiziano si sollevò il cappuccio sulla testa centellinando la sua paura a piccole sorsate «Non me faccio nulla della pietà di chi è già morto. Hai appena firmato la tua fine e io non me ne resterò qui a sprecare fiato con te. Hai reso nullo il patto di sangue e hai dato libertà a un mostro che ci distruggerà tutti».
«Quale patto di sangue?» domandò mentre il rossore defluiva dalle sue guance.
«Io mancherò di immaginazione ma tu, mio caro hai ben altre deficienze con cui fare i conti» disse schermandogli la vista della sua espressione compiaciuta voltandogli le spalle. Un altro proiettile sfrecciò vicino al suo orecchio e per poco non sfiorò il tessuto del mantello.
«Era l’ultimo, eh? Comunque non avrebbe fatto la minima differenza. I nostri proiettili sono in grado di trasformare in cola brodo un vampiro di marmo ma con quello…».
«Non osare dare un altro passo! Esigo una spieg…» terminò la frase cinguettando come un allodola all’alba, la voce ridotta a uno stridulino pietoso prima che un enorme pugno fatto di rocce appuntite e arbusti selvatici lo riducesse a un mucchio di ossa spezzate e frammenti sanguinolenti sparsi per il lastricato. A distanza di pochi attimi un'altra mano colossale articolata in lunghe dita, da cui ruscellavano vagonate d’acqua torrenziale, si aggrappò forte conficcando le unghie fra gli avvallamenti incuneati nel terreno pietroso. Per ultimo affiorò con estrema lentezza una giogaia di dorsali frastagliati nelle cui depressioni si potevano intuire le fattezze di un volto antropomorfo. Il magma gli colava da ogni orifizio: dalle orecchie, dalle narici, agli angoli della bocca, lambendogli il contorno di una mascella appena abbozzata e gocciolandogli oziosamente sul mento. Le orbite vuote che si ritrovava al posto degli occhi erano illuminate da fiaccole olimpiche inestinguibili. Tiziano si assottigliò lungo la parete, smise di respirare e pregò che le tonalità scure del suo mantello lo mimetizzassero con l’ambiente circostante. Il mostro spalancò la bocca in uno sbadiglio annoiato e così facendo risucchiò tutto l’ossigeno disponibile in quell’atmosfera già di per se rarefatta. Poi, dopo un’interminabile sequela di attimi strazianti, rilasciò quel miscuglio di gas che era rimasto  incastrato in mezzo a quelle stalattiti aguzze che ricordavano di quanto più simile a dei canini. Una nube densissima di cenere vulcanica turbinò fuori dalle fauci offuscando completamente la vista del Sire ormai vicino all’uscita.
L’antico era sveglio e non avrebbe avuto più alcuna importanza l’imminente invasione che li attendeva.
Tiziano rimase immobile, rannicchiato con la testa ingoiata dentro al cappuccio come se potesse renderlo invisibile agli occhi dell’ormai vigilissima creatura elementale, con una domanda ad agitarsi furiosa dietro i suoi denti serrati come una ganascia: che cosa aveva fatto?

Gabriel

«Squadra uno: tenetevi pronti a sganciare le catapulte al  mio segnale. Squadra due: intingete le frecce nel combustibile e coprite il lato nord ovest…» Gabriel si concesse un attimo per strizzare l’occhio a Morgana mentre abbaiava i suoi ordini. L’angolo della sua bocca tremante guizzò in un mezzo sorriso. Gab osservò  affasciato le movenze aggraziate della ragazza mentre sceglieva alla cieca una delle frecce dalla faretra, le dita arcuate attorno alla crine dell’arco, invidiandogli il modo in cui  le sfiorava le labbra rosse come ciliegie mature, i suoi respiri lenti e concentrati, il vento che giocava con le sue ciocche infuocate…Dovette sforzarsi di mettere a tacere la sua tachicardia e tenersi per sè i suoi pensieri che bruciava di desiderio. «Squadra tre: voglio vedervi combattere come demoni, vibrate le vostre spade senza esitazione, dimenticatevi dei volti di chi avete amato perché quello che vedrete sarà solo un involucro vuoto che non esiterà a trapassare le vostre fottute gole» li mise in guardia passeggiando avanti e indietro fra i ranghi serrati. «Squadra quattro, voi…e tu chi diamine sei?»
L’uomo adiposo e baffuto che il medjai si trovò accanto prelevò il cappello dal suo nido confuso di riccioli castani trascinandoselo sul petto e si esibì in un inchino appena accennato. Aveva due macchie untuose sotto le ascelle sudaticce, un fiatone da fumatore incallito e i capelli appiccicati alla fronte. Gab non riuscì a scrollarsi di dosso quella vaga familiarità che provò alla vista del suo sorrisetto burlesco nascosto dai baffi arricciati. 
«Tua sorella ci è arrivata prima di te» lo stuzzicò lo straniero.
Gabriel non si astenne dal sollevare un sopracciglio «Ok, senti bello, o mi dici subito chi diamine sei e cosa ci fai qui o ti assicuro che la tua interruzione non resterà impunita. Se non te ne fossi accorto qui si fa sul serio e non abbiamo a disposizione barelle abbastanza larghe per soccorrere il tuo culone flaccido».
«Ti ho invaso il palcoscenico, eh?» gli disse grattandosi il mento «Continua a giocare al condottiero, mi faccio da parte. Sono qui per guardarti le spalle come chiesto dalla tua adorabile metà. Quando schermerò le illusioni delle sidhe della fata oscura ed eviterò che ti manipolino la mente allora forse mi ringrazierai di non esserti cavato gli occhi da solo o di non averti lasciato infilare le dita in qualche altro posto piuttosto sconveniente…non farmi fare certe allusioni di fronte a delle signore» terminò omaggiando le ragazze con occhiate lusinghiere.
«Candle? Che cosa ci fai qui?» lo richiamò una voce melliflua e leggera come una piuma.
Gabriel si produsse in un inchino formale «Sua Altezza, qual buon vento! Anche lei da queste parti?». Delilah intrecciò le dita in grembo e fece scivolare i suoi freddi occhi adirati prima su Gab e poi sull’ippopotamo baffuto vicino a lui. «Non vorrei minare la sua regale autorità ma la pregherei di rispettare la fila e aspettare il suo turno per le domande».
Delilah lo ignorò e si sporse in avanti per cingere le braccia grassocce dell’uomo «Tu sei…libero, allora questo vuol dire che…Ce l’ha la ragazza non è vero?».
«Non ti devo più nulla Delilah, il tempio è crollato, il ciondolo blu è stato depredato dal suo piedistallo, il vincolo è sciolto».
«Hai una nuova padrona a quanto pare» sibilò lei mitigando a stento la rabbia.
«Al momento il volere della giovane Leona, è il mio».
«Ehm, qualcuno potrebbe dirmi che diavolo sta succedendo? Non vorrai dirmi che tu…oh, cazzo. Sei quel cazzone del fantasma! Amico, dovresti cominciare a tenere giù le mani dalle ciambelle glassate…Qualcuno dia un insulina a quest’uomo!».
 Candle incrociò le braccia, soffiò piccole trombe d’aria dalle narici e i baffi presero a sventolargli sotto il naso  «Ce ne hai messo di tempo, eh ragazzo. Sei più tardo di quello che mi aspettavo…». Il battibecco fu interrotto da un sinistro e rude scricchiolio persistente dietro di loro.
«Merda, Merda, Merda» imprecò Caterina inforcando la lancia in direzione della lastra di ghiaccio. Qualcosa di ferino luccicò nei suoi occhi neri «Si sta rompendo, avevi detto che avrebbe retto ancora un po’! Se a letto le tue prestazioni hanno la stessa durata, sono felice di non aver mai diviso il materasso con te. Fatevi fottere tu e il fiume congelato».
«Se, ti piacerebbe. E porta rispetto al mio ghiacciolo gigante…ok, questa mi è uscita terribile» ci rifletté su Gab.
Marlena represse un urlo in gola risultando più come grufolo soffocato «È rimasto almeno qualcuno fra voi idioti a cui importi qualcosa di quello che sta distruggendo la barriera al di là del fiume? Siamo comunque spacciati ma almeno vorrei evitare a quei maledetti stronzi di lasciargliela vinta a tavolino».
«Qualcuno mi ricorda chi ha invitato la scrofa in calore lì dietro?». Anche questa volta toccò al povero Ascanio acciuffare la bionda sbizzarrita e pronta a scalciare come un castrone al rodeo, beccandosi un paio di gomitate intercostali del tutto immeritate.
«Gabriel attento…!». Norman si era lanciato appena in tempo sull’amico evitandogli di rimanere schiacciato sotto il peso di una placca di ghiaccio staccata dalle sommità delle mura.
«Grazie, bello. Per quel che vale, mi dispiace che mia sorella ti abbia dato due di picche. Ti devo un enorme favore» gli disse lui scompigliandogli i capelli.
Norman arrossì al ricordo del rifiuto di Leona e scacciò via la sua mano rimettendosi a posto la capigliatura ingarbugliata come meglio poté «Facci solo arrivare alla fine di questa stramaledetta giornata ancora tutti interi e siamo pari».
«Non posso farti una promessa del genere…»
Lo schiocco sonoro di una lingua sul palato fece sussultare tutti i presenti «Ma io sì mio caro giovanotto. Se cadete voi, così farà anche la mia isola. E noi non possiamo permettercelo» disse la fata risentita dalla sua arrendevolezza.
«Noi?»
Fu allora che la fata roteò gli occhi al cielo, non perché infastidita, sembrava che con lo sguardo volesse creare una breccia in quel denso gregge di nuvole soffici sopra le loro teste. Sciolse il nodo delle sue dita intrecciate in grembo facendole danzare per aria mentre una sottile scia fumante fluttuò dai suoi polpastrelli. La nebbia attorno a loro si fece sempre più fitta tanto da perdersi di vista l’uno con l’altro. Ma fu quando si diradò che Gabriel rimase davvero stupito.
L’intera guardia reale della regina prese forma dalle volute della bruma. Dapprima nient’altro che figure evanescenti, man mano che la nebbia si assottigliava lasciava al suo passaggio splendide sagome alate dalla bellezza sovraumana e regalmente bardate nelle loro luccicanti armature. Guardandosi attorno, il loro piccolo esercito si accese di una flebile speranza ma persino allora Gabriel si chiese se avrebbe potuto fare la differenza. O forse lui stesso temeva di illudere sé stesso e chi lo circondava con devozione. In ogni caso il ragazzo decise saggiamente di tacere e di non mostrarsi titubante, soprattutto per non offendere la generosità della regina. Era tutto quello che avevano, anzi più di quello che avessero mai sperato, e non gli rimaneva molta scelta se non schierarsi in battaglia e pregare tutti i santi in cielo affinché le sorti della guerra andassero in loro favore. Stava per urlare degli ordini quando una delle guardie si fece avanti fra la folla.
«Era destino che questa cosa la finissimo insieme» disse la voce attutita dalla celata dell’elmo. A Gab parve di riconoscere quella voce e spinto dalla curiosità provò a sbirciare all’interno del copricapo. Non tentò nemmeno di nascondere il sorriso quando scorse due grandi occhi marroni nascosti dietro due enormi lenti a fondo di bottiglia. Nel complesso gli donava sul serio quell’armatura, ma Fabrizio non lo avrebbe mai saputo.
«Ti stavamo aspettando quattrocchi, la festa non sarebbe cominciata mai senza di te». Ci fu un brusio generale di esultanza fra i loro ranghi che Gab non ebbe alcuna intenzione di placare. Se solo ci fosse stato un dopo, comunque non avrebbe avuto nulla da festeggiare. Riconoscendo l’amico, Norman corse al suo fianco e i due si salutarono sfiorandosi le nocche a vicenda. Quell’idillio però ebbe vita breve. Il fiume stava per collassare su se stesso entro qualche secondo. Soffiò un bacio in direzione di Morgana e la ragazza fece finta di afferrarlo al volo in tutta la sua deliziosa timidezza. Poi strinse i denti e lasciò che il mana fluisse nel suo corpo. La ghiacciaia prese lentamente a fluidificarsi crepando in più punti della muraglia, ma Gab era preparato a contenere le conseguenze catastrofiche di quel disgelo. Si immerse con la mente in quella costellazione di molecole d’acqua e prese coscienza di ognuna di essa. Quando quel muro d’acqua, che aveva osato grattare il cielo, perse abbastanza quota, il medjai mollò la presa sul fiume esercitando però un ferreo controllo sugli argini o entrambe la parti sarebbero rimaste coinvolte nell’inondazione. Il torrente stava per far ritorno al suo letto di ciottoli nel momento in cui l’aria crepitò di energia. Gab aveva sentito parlare almeno un milione di volte della grande battaglia del deserto, ma gli riusciva difficile credere che quella distesa di mostruosità non fosse tranquillamente paragonabile al numero di nemici che i loro antenati avevano affrontato nelle sabbie calde del Sahara. Fu allora che l’odio di  Gab bruciò più intensamente di una pira. Tratteneva ancora il torrente sotto il suo controllo quando notò quelle creature alate intessute da mantelli oscuri, alcuni volti familiari incattiviti dal sortilegio, il simbolo del Lickage che brillava sui loro polsi, e…i freddi occhi rossi del vampiro che affiancava Frieda. Pensò ai suoi genitori e non ebbe più alcun dubbio su ciò che doveva essere fatto. La sua vendetta. L’aveva repressa per così tanto tempo per amore della sorella che si era accorto a malapena di come lo avesse avvelenato dall’interno. Un veleno che ormai gli aveva raggiunto il cuore. E allora scaraventò con disperata violenza i flutti del fiume contro i suoi nemici immaginando che in esso si nascondessero le lame più affilate che la sua mente fosse in grado di partorire.
Quando il fiume si tinse di rosso, sorrise.

Fabrizio

La conoscenza era l’unica arma che Fabrizio credeva fermamente di maneggiare meglio di chiunque altro. Soltanto con un libro in mano aveva potuto assaggiare l’ebrezza del potere, nessuna spada lo aveva mai fatto sentire così vivo. Seppur superbo quel pensiero, era la cosa sola che gli impediva di farlo correre ai ripari, lontano dalla vista delle pozzanghere vermiglie che si erano accumulate ai piedi dei loro nemici. Aveva letto di numerose battaglie senza mai desiderare di partecipare a nessuna di esse. Eppure, eccolo lì a servire una regina che non era la sua, soffocato e compresso da tutto quel metallo che lo ricopriva dalla testa ai piedi. La sua fervida immaginazione non lo aveva preparato alle urla, all’odore del sangue, alla morte, ai suoni che gli esplodevano nel cervello facendogli girare la testa. Sbrodolare come un poppante non rientrava nelle sue intenzioni, eppure quell’olezzo ferroso che si era infilato su per le narici non gli aveva dato altra scelta. Che razza di protettore era? Una successione di schiocchi lo fece sussultare rendendosi conto troppo tardi che si trattava del fascio elastico delle catapulte che veniva rilasciato. Grosse balle ricoperte di un intricato garbuglio di foglie e rami secchi descrissero una parabola sopra le loro teste per andarsi ad abbattere nel lato opposto del fiume dove le schermaglie di chi era sopravvissuto all’onda avanzava dritto verso di loro. Fabrizio riconobbe l’odore caustico della verbena soltanto quando si polverizzò in una finissima caligine verdognola. Sollevò lo sguardo nel momento in cui la vista del sole fu oscurata e il freddo dell’armatura di fece più pungente. L’avanguardia dei protettori, munita di abili arcieri, si schierò in prima linea e i loro archi fremettero. Uno sciame di frecce infuocate vennero scagliate a lunga gittata dietro il primo battaglione in modo tale da infliggere più danni possibile nella retroguardia costituita per lo più da abomini vampirizzati o da mezzi licantropi. Si accorse proprio in quel momento di essersi pietrificato al centro di quella carneficina e non solo perché due fatue avvolte in vesti oscure aleggiavano su di lui come rapaci su un cadavere. Per qualche miracolosa ragione, non stavano circuendo lui ma qualcun altro che sferragliava agilmente la spada alle sue spalle. Quando capì che il loro obiettivo era Norman, le gambe di Fabrizio si mossero da sole e corse verso di lui per fargli da scudo prima che le illusioni di quelle arpie gli confondessero la mente. Infatti la sua armatura luccicante non era stata forgiata per proteggere il fante dai fendenti di una spada o dalle punte di una freccia, ma per fungere da “contro-riflesso” per gli incubi lanciati dalle sidhe. L’intera armata delle fate della luce era immune alle maledizioni dello loro sorelle oscure proprio grazie a tutta quella ferraglia ingombrante che si trascinavano dietro.
Colto dall’impeto della battaglia, si ricordò della frusta che teneva arrotolata lungo il suo fianco e se la slacciò dalla cintura con un gesto fluido. Non appena le sue dita si avvolsero attorno al manico, l’arma sprizzò di una luce calda e abbagliante lungo tutta la cinghia fino alla sua estremità. Tentò di portare alla memoria le brevissime istruzioni che il capitano della guardia gli aveva urlato contro prima di attraversare la nebbia, e andò alla ricerca delle ombre delle sidhe proiettate sul terreno. Le trovò assiepate attorno a quella del suo migliore amico quasi come se volessero divorargliela a morsi. Il cuore gli balzò in gola quando gli occhi di Norman si riversarono all’interno delle palpebre e la presa sull’impugnatura della spada si fece più debole. L’ombra ai suoi piedi si era trasformata in una voragine oscura senza fondo sulla quale lui barcollava incerto.
L’incubo era in pieno atto.
Non si diede pena di quali oscure fantasie stessero andando in scena nel subconscio del fragile Norm, non quando un abominio stava per approfittare del suo coma indotto per affondargli le zanne sul collo. Si gettò su di lui sottraendolo alle grinfie del ringhiante abominio che schiumava di rabbia, e prese a spalmargli la neve sul viso per ripescarlo dall’incubo. Le placche addossate alla sua schiena si surriscaldarono e Fabrizio seppe che la schermatura stava funzionando. Guardò le ombre che lo avevano ghermito, ritirarsi come una risacca sul bagnasciuga, ferite dalla luminosità della sua frusta prodigiosa. Il respiro si fece così affannoso che il vapore si addensò tutto sulla superficie delle sue lenti da vista, ma la sua mano non trovò nessun ostacolo e impugnò il manico della verga luminescente con un grido. Le sue dita si allungarono sul nevischio per catturare il lembo delle ombre delle arpie. La filigrana di cui erano intessute gli ricordava la sfuggevolezza del fumo ma allo stesso tempo, con un po’ di immaginazione, i suoi lembi erano serici come velluto. Una volta arricciatosi quel lenzuolo nero attorno al suo polso, strattonò verso di lui e srotolò la frusta. Le sidhe, belle e terrificanti con le loro sclere annerite, urlarono di dolore alla vista del fascio luminoso e sollevarono le braccia sul viso per proteggersi dalle lame di luce proiettate dall’arma in suo possesso. La frusta disegnò una circonferenza sopra la sua testa prima di avvinghiarsi come un serpente attorno alle loro ombre, stritolandole. Il buio soccombé alla luce e le ombre delle due streghe si sgretolarono silenziosamente mentre i loro corpi si riducevano in cenere.
«Bel colpo, cadetto!» si complimentò Sheila proprio mentre, con molta più maestria del protettore, disintegrava tre sidhe con un solo fendente della frusta.   
«G- grazie» balbettò Fabrizio arrossendo dietro la celata. Purtroppo non ebbe molto tempo per gustarsi quelle lodi inaspettate. Era rimasto così affascinato dalla leggiadria della figlia di Delilah che non aveva fatto caso che altre quattro di loro si leccavano i baffi al pensiero di banchettare con le loro paure. Fabrizio deglutì e le sue gambe traballarono come quelle di un alcolizzato.
«Non ho idea di che cosa sia» lo risvegliò la voce del suo amico Norman afferrandogli il braccio. Il terrore sgusciava ancora dentro i suoi occhi cerulei ed era zuppo di sudore. Questo non gli impedì sorridere  « ma continua a utilizzare quella frusta strafiga, ne avremo bisogno».      
     

Caterina

Caterina represse il forte impulso di grattarsi dietro l’orecchio che continuava a pruderle in preda ad una fastidiosa orticaria. Non poteva permettersi quel tipo di distrazioni, pensò mentre faceva roteare la lancia al suo fianco. Annusò l’aria attorno a sé e storse il naso, in fiamme per quel putrido fetore di cadaveri. Scrollò i riccioli scuri dalla sua visuale e caricò il primo Drakulia che si trovò davanti. Affondò la lancia sul fianco destro della creatura, scivolò le mani sul bastone fino a raggiungere il punto in cui aveva trovato la sua carne e gli assestò una gomitata su per il mento. Il cranio scattò all’indietro con uno scricchiolio inquietante di ossa. Poi sfilò l’arma e ripulì la punta affondandola nella neve. Mentre quella strana fame cresceva dentro di lei ad ogni uccisione, proseguì con una presa. Facendo leva sull’angolatura inquietante che aveva assunto il collo del vampiro, gli girò attorno fino a che non gli si staccò la testa dalle spalle mentre il corpo decapitato cadeva in ginocchio. Piroettò appena in tempo e raccolse la sua lancia, per metà ricoperta di argento, per l’altra intagliata nella corteccia di biancospino, piazzandola dritta nel cuore di un secondo vampiro. Il Drakulia si pietrificò all’istante e cadde come un sasso inerte sulla neve spruzzata di sangue. Quel languore che le ribolliva nello stomaco non accennava ad estinguersi, anzi non faceva che aumentare. Nonostante questo, il suo orecchio captò lo sferzo di un rapido spostamento d’aria, così chiaro che le parve di averlo accanto. I muscoli si irrigidirono e la bocca le si inondò di saliva come se avesse avvertito la sua presenza, il suo lezzo dolciastro e vomitevole. La protettrice e la vampira sollevarono le braccia e le loro mani si allacciarono a mezz’aria in una prova di forza.
Mentre spingevano l’una contro l’altra, Caterina si accorse con gran sorpresa di poter vincere facilmente quella contesa senza versare una sola goccia di sudore, come se le ossa della vampira fossero fatte di sottile cartapesta pronta da accartocciare sotto la morsa delle loro dita intrecciate. La mascella della vampira scattò in avanti ghermendo il nulla e Caterina rispose con un cupo e incontrollabile ringhio dal fondo della sua gola. Per quanto lo ritenesse assurdo, la protettrice non avrebbe potuto ignorare ancora a lungo quella fame che iniziava ad assumere un significato bene delineato: la sua mente era intasata dal forte desiderio di morderla, masticarla, e sentire il sapore della sua carne fra i denti. Con la bava che le colava dalle labbra, rinunciò a quell’istinto di cui aveva quasi terrore. Che diamine le stava succedendo? Cosa c’era che non andava in lei? La cicatrice riprese a pulsarle sul petto e le ricordò della sua presenza. Era naturale che desiderasse uccidere dei vampiri, ma non con quella viscerale intensità. Cancellò quei pensieri turbinanti e spinse più forte contro la non-morta. Le braccia della sua oppositrice si spezzarono come ramoscelli secchi mentre si contorceva per il dolore con gli occhi ricolmi di stupore.
«Che cosa sei tu?» le aveva sibilato prima che la sua testa svolazzasse altrove.
Non lo so nemmeno io, le aveva bisbigliato al suo corpo freddo tanto quanto la neve sotto le sue scarpe.
 Pregna di disgusto per se stessa, decise di cambiare il target delle sue prede. Un mezzo lupo, che un tempo era stato un protettore, la guardava da lontano con sguardo famelico misto a qualcos’altro a cui non riuscì a dare significato. Perfetto, disse fra sé. Mentre correva verso l’abominio, gridò a Ethan di prestarle una delle sue bombe allo strozza-lupo. Il ragazzo anche se impegnato in altre questioni altrettanto sanguinose, portò una mano alla sua imbracatura e distrattamente le lanciò al volo quanto le aveva richiesto. Caterina si sbilanciò verso la sfera rossastra che vorticava sopra la sua testa e la afferrò senza molti problemi. Il problema, in realtà, non fu affatto intercettarla, ma ciò che provò quando la bomba sfiorò il palmo della sua mano.
Di lì in poi la ragazza ricordò solo le sue urla, le lacrime che le inondavano gli occhi e il bruciore indicibile che le marchiava la pelle attorno ai suoi polpastrelli. Si raggomitolò a terra in posizione fetale, urlando, scalciando, seppellendo la mano che le andava a fuoco sotto metri di neve per trovare sollievo. Non aveva mai provato nulla di simile in vita sua. Il dolore era così forte che avrebbe fatto qualunque cosa affinché smettesse. E proprio mentre quella preghiera le usciva inconsapevolmente dalle labbra, qualcosa si strinse attorno alla sua gola rubandole il respirò, la sollevò dal suo cumulo di neve mentre i piedi le danzavano frenetici a un metro da terra in cerca di un appiglio. Gli occhi della protettrice sembrarono strizzargli fuori dalle orbite quando la presa sul suo collo si fece più stretta. La sua lancia era fuori dalla sua portata. Non sapendo dove altro posare lo sguardo, incontrò gli occhi vermigli del suo aggressore ricolmi di una sadica soddisfazione. Il vampiro col mento non ancora ripulito del sangue di uno dei suoi compagni la osservò con curiosità e si leccò libidinosamente il labbro superiore.
«Hai fretta, piccola cucciola della luna? Perché non giochiamo insieme?».

Ethan

Ethan non credeva di essersi mai divertito così tanto in vita sua. Era una vera battaglia, una carneficina con tanto di cappello e lui ne era protagonista. Non che gioisse della scia di caduti alle sue spalle, ma poteva finalmente dare prova di se stesso, riscattando la sua reputazione che lo declamava come un bel faccino e niente più. Perché lui era molto di più, anche più coraggioso di suo fratello, e poteva dimostrarlo. Abbatteva un nemico dopo l’altro senza nemmeno preoccuparsi se fosse un abomino, un vampiro o qualcos’altro. Non aveva importanza. Contava solo il terrore nello sguardo dei suoi nemici, il dolce clangore della sua spada, il sangue sulle sue mani. Trascinato da quella frenesia si addentrava sempre più nelle profondità della guardia nemica, quando qualcuno, con uno strano casco sulla testa, intralciò il suo cammino per nulla scalfito dalle sue grida intimidatorie. E quello lo fece inferocire ancora di più. Da come gli indumenti di pelle scura aderivano sulle sue curve mozzafiato, intuì che si trattava di una donna. L’idea di danzare con la bella signorina lo spedì dritto sulle stelle. 
«Vieni da paparino» la provocò lui, adescandola con un guizzo delle sopracciglia. Non riuscì a vedere la smorfia di disgusto che la ragazza nascose sotto il casco, ma anche a costo di svelargli la sua identità volle renderlo partecipe del suo disappunto. E fu così che inclinò la testa sul petto e lasciò scivolare a terra l’elmetto. Una cascata di capelli castani dritti come spaghetti le si riversarono sulla schiena e sollevando il mento all’in su in segno di sfida, Ethan poté ammirare la linea fiera e decisa della mascella volitiva, i contorni marcati delle sue labbra piene e rosee, e il ghiaccio dei suoi occhi che si scioglieva su di lui. La ragazza era così bella tanto da volerla incorniciare e appendere il quadro in camera sua per contemplarla in silenzio. Ma qualcosa, una vaga sensazione di inadeguatezza strisciò lungo il suo intestino.
«Ci siamo già incontrati da qualche parte? Mi ricordi tremendamente qualcuno di mia conoscenza…» domandò lui senza pensarci. Inaspettatamente una risata priva di gioia affiorò dalle sue labbra e la sensazione che il protettore aveva provato poco prima si fece più intensa. La somiglianza non lasciava alcuna indecisione, ma…non poteva trattarsi della stessa persona. La notizia della tragica morte della figlia del sire di Firenze era giunta fin lì ad Andromeda in tutto il suo alone di mistero, quando lui era molto piccolo. Eppure, Ethan non riuscì a darsi pace, doveva sapere. Perché questo voleva dire che la ragazza che le stava di fronte era niente di meno che sua…
 «Sara…?» disse lui facendo un timido tentativo.
«Non conosco nessuna Sara» rispose lei monocorde prima che i suoi contorni cominciassero a duplicarsi come quella volta nell’isola delle fate. Allora il protettore britannico fu costretto a correggersi mentalmente. Non ne aveva ritrovata una, ma ben sette copie perfette della sorella resuscitata dal regno dei morti.

Marlena

La scimitarra di Marlena non era mai stata più rossa di così, continuava a grondare sangue sulla neve senza sosta. Già da tempo si era dovuta arrendere all’idea che Leona avesse ragione su tutta la linea, questo comunque non faceva di lei una sua alleata. Aveva scelto i suoi avversari evitando accuratamente di imbattersi in uno degli abomini perché le rivoltava lo stomaco anche solo pensare di usare la sua scimitarra contro di loro, anche se non avrebbe potuto continuare a fare finta che non esistessero. Come lei, tanti protettori esitavano di fronte a coloro con cui un tempo avevano riso e scherzato, condiviso gioie e sofferenze, vissuto amori e tradimenti. Tutto questo cancellato dalle loro memorie plagiate. Ma per ogni spada o freccia che tentennava ce n’era un’altra che non conosceva rimorso. La breve, triste vita dei protettori si risolveva con un inevitabile comune denominatore: prima o poi sarebbe terminata con una morte atroce. Se l’ora di Marlena fosse suonata quel giorno, di sicuro chiunque avrebbe potuto testimoniare come lei avesse avuto tutte le intenzioni di metterci i mezzi. Se fino a quel momento era rimasta concentrata sull’obiettivo, bastò la vista dei sette cloni per farle salire il sangue al cervello. Dire che fosse furiosa quando si catapultò in mezzo a quella mischia di orrori, restando inspiegabilmente illesa, sarebbe stato un eufemismo bello e buono. Scelse la più vicina e senza tanti complimenti l’attaccò alle spalle, infangando su due piedi il suo codice d’onore. Avrebbe lasciato morire volentieri il suo orgoglio in un angolo se con quel sacrificio avrebbe potuto mettere le mani addosso a quella vigliacca che aveva sgozzato la sua migliora amica. Proprio mentre il clone si voltava per parare il suo fendente, Marlena s’immagino più di venti modi diversi con cui avrebbe potuto restituirle il favore. Fu quando indugiò più del dovuto sul quindicesimo scenario di decapitazione che la protettrice si ritrovò faccia a faccia con quello che reputò in assoluto come l’incubo più inquietante della sua vita. Era uno scherzo di cattivo gusto?
«Per la barba di Mayak, mi prendi per il culo?» imprecò la protettrice lasciando ricadere l’arma al suo fianco. Marlena aveva solo sei anni quando la sorella di Fabiano era stata dichiarata morta, e ricordava come se fosse ieri tutte quelle volte che aveva sorpreso il ragazzino a piangere convinto che non lo guardasse nessuno. Quel pensiero, la rese ancora più inferocita di prima. Così quando azzardò un nuovo affondo, pensò di fare una cortesia a chiunque gestisse il cancello degli inferi restituendogli l’anima che aveva tentato la fuga. Ovviamente conosceva la bravura di Sara, le sue tasche erano piene degli elogi che le rivolgevano quando era in vita, eppure continuò a sfidarla disconoscendo la paura di perire nello scontro. Forse fu proprio quella tenacia a spingerla a terminare ciò che aveva iniziato, una sciabolata dopo l’altra. Soltanto quando fu più che sicura che quella pessima imitazione di Sara fosse stata smembrata a sufficienza, ripulì il suo sangue strofinando la spada nell’incavo del gomito, come lei aveva fatto con quello di Carlotta, e disse: «Bene. Adesso ne mancano solo sei».   

Ascanio

Ascanio non riusciva a trovare Marlena da nessuna parte. Da quando quello scontro era cominciato, si era perso nella spasmodica ricerca della ragazza, perché era certo che avrebbe fatto qualcosa di stupido e irresponsabile. Ciò indeboliva la sua difesa e faceva vacillare i suoi pronti riflessi. Quel giorno aveva scelto una ascia dalla rastrelliera che, sì, gli rallentava i movimenti, ma non aveva bisogno di una seconda ripassata. Brandendola a due mani i suoi attacchi si facevano più lesti e ripetuti soprattutto se destinati a colpire le braccia o le gambe del nemico. Col senno di poi non era stata la più geniale delle sue trovate, considerando che i suoi avversari correvano veloci come il vento, e ne ebbe conferma quando mancò il suo bersaglio e la parte ricurva della scure si andò a conficcare nella fanghiglia dove la neve aveva cominciato a sciogliersi. Facendo leva sul manico, tirò con tutte le sue forze col panico che gli cresceva dentro. Se solo non avesse perso quei secondi preziosi e l’avesse lasciata perdere - visto che quella spada non sarebbe più servita a quell’abominio decapitato – avrebbe sicuramente notato come la sua ombra si fosse addensata attorno ai suoi piedi. Finalmente riuscì a liberarla e si voltò appena in tempo per assistere ad una magistrale cavazione con piroetta di una delle migliori schermitrici del campo. Non avrebbe voluto avere ragione, ma come sospettava Marlena stava decisamente danzando con l’abominio sbagliato. Quando la riconobbe, il cuore prese a pompargli più velocemente contro la gabbia toracica e i brividi gli scossero la spina dorsale. Per un attimo credette che la ragazza stesse avendo la meglio, il ritmo incalzante delle sue finte e suoi capitoni dava poco spazio alle iniziative dell’abominio che assomigliava in modo inquietante alla sorella di Fabiano. Ma se credete che ogni morte sia spettacolarmente preceduta da un colpo di scena intriso di suspense, che ti dia la possibilità di riflettere sui tuoi errori o ti lasci il tempo necessario di “dire le tue preghiere”, chiedendo l’indulgenza di qualsiasi divinità in ascolto, non funziona così nella vita reale. Quella stronza entra senza nemmeno bussare alla tua porta o chiedere il tuo permesso, proprio come la spada di Sara era penetrata dentro lo stomaco di Marlena infilzandole la lama fino all’elsa, proprio come il pugnale che le aveva tranciato la gola. Era durata meno di un secondo, silenziosa e insignificante. Non aveva nemmeno avuto il tempo di soffrire, ma per Ascanio era un magro premio di consolazione. Si chiese dove fosse in quel momento, ora che la luce nei suoi occhi verdi si era spenta, anche adesso che un lenzuolo di sangue continuava scorrere macchiandole i vestiti mentre la neve si nutriva di esso. E desiderando intensamente che il suo cuore si fermasse insieme al suo, guardò la mezza luna metallica della sua scure incrostata di rosso e seppe cosa andava fatto.

Morgana

Morgana non aveva mai dovuto scoccare tante frecce in vita sua. Le dita doloranti le pizzicavano per il freddo e  per la pelle lacera attorno alle unghie rosicchiate. Gettò un’occhiata alla faretra quasi vuota e pestò i piedi per terra. Sorvegliare Gabriel mentre infuriava con Symphony nel mezzo di un manipolo di Drakulia era un lavoro a tempo pieno che non le aveva lasciato nemmeno un attimo per riprendere fiato. Avrebbe dovuto fermarsi e recuperare un po’ di frecce dai cadaveri se solo quella testa calda le avesse dato tregua invece di continuare a sbudellare ad oltranza qualsiasi cosa gli capitasse davanti come un macellaio. La sua spada era così intrisa di sangue che aveva pure smesso di cantare. Se ne era reso conto? O la furia lo aveva reso sordo? In un gesto automatico, ignorando le braccia che le andavano a fuoco, incoccò l’ennesima freccia, scaraventandola dritta dentro l’occhio di un mezzo lupo che aveva provato a morderle le caviglie. Lo strozza-lupo fece il resto. Morgana si morse le labbra mentre seguiva la scia di morte che Gabriel aveva seminato per il campo. Si  teneva vicino agli argini del fiume per mantenere un dominio su di esso e servirsene come scudo dagli attacchi alle spalle mentre sferzava lame d’aria fendendo  la carne con gesti secchi delle dita. Per non parlare di come godesse nello sfruttare il potere della solidificazione per impietrire il sangue all’interno dei corpi fino al punto di farli esplodere in un mucchio di budella fracide.
Era inarrestabile, glorioso, bellissimo e pericoloso. La ragazza ne sarebbe rimasta ammaliata se solo la paura non le avesse fatto imbizzarrire le farfalle dentro il suo stomaco. Da quella postazione non poteva vedere i suoi occhi incendiati dalla vendetta e si disse che era meglio così. Morgana era titubante. E se non stesse pensando lucidamente? Di certo le grida che lanciava ad ogni affondo glielo lasciavano credere tranquillamente. Era davvero la migliore soluzione quella di rubare il ciondolo a Leona? Era davvero saggio lasciare il peso di quella decisione a quel ragazzo appena uscito da un bagno d’odio e disprezzo? Per un momento s’immagino di immedesimarsi in lui, di penetrare la corazza dei suoi pensieri. Ottenere la sua vendetta gli avrebbe davvero restituito la pace che tanto agognava? No, probabilmente no se quello era il risultato. Poteva leggergli in ogni suo movimento il sadico piacere che provava ogni volta che ghigliottinava senza alcuna pietà la testa del mal capitato vampiro di turno. Allora avrebbe dovuto fidarsi della sua migliore amica? Almeno lei, sapeva quello che stava facendo? La cosa che stava cercando di combattere non costituiva di certo la minaccia più preoccupante. Se alla fine avesse perso se stesso, avrebbe perso tutto. E lei si sentiva in dovere di salvarlo da quella parte di lui ormai obnubilata dai suoi demoni. Quella confusione, non le impedì di portare involontariamente una mano alla faretra alla ricerca di una freccia. Quando ghermì il vuoto, il terrore le provocò un conato di vomito. Ma quello che più le fece aggrovigliare la lingua fu la devastazione che la circondava. Si era così concentrata sul difendere Gabriel via aria che non aveva fatto caso al resto dei suoi compagni. Per quanto avrebbero potuto resistere? Un’ora, massimo due? Non c’era bisogno di un esperto per diagnosticare la loro pietosa disfatta. Se l’esercito di Delilah non fosse intervenuto, le conseguenze sarebbero state ben peggiori. Questo, però, non significava che non si fosse trattato di un terribile spreco di risorse. Sarebbero dovuti fuggire quando ne avevano la possibilità. La protettrice scosse i lunghi capelli rossi e strinse forte a sé il suo arco come palliativo per i suoi poveri nervi mormorando delle scuse allo spirito di suo padre. I Cacciasciacalli non sono dei codardi. Ripeté a se stessa sotto voce. Se lo infilò su per la testa e corse a recuperare un’arma cercando di evitare d’inciampare in mezzo ai cadaveri. Scelse un gladio corto non ancora del tutto zuppo di sangue. Mentre valutava le smussature dell’arma alla flebile luce del sole, qualcosa la afferrò per i capelli e la fece cadere in ginocchio. Poi un dolore acuto le esplose in mezzo alle costole e il sapore ferroso del sangue le inondò la bocca. Qualcuno si stava divertendo a prenderla a calci. Non erano abbastanza potenti da ucciderla, ma sembrava quasi che si stessero trattenendo per farla soffrire un poco alla volta. Muori cagna! Le urlavano sghignazzando.
Incapace di reagire, si raggomitolò in attesa che tutto la smettesse di fare così tremendamente male, fino a quando non sentì urlare il suo nome e la fronte cominciò a pulsare. Per un attimo, tutto sembrò fermarsi, proprio mentre sentiva chiaramente qualcosa crescerle dentro e farsi spazio dentro di sé. Qualcosa di caldo, delicato, amorevole che le chiedeva senza nessuna sfumatura di prepotenza di essere accolto. Morgana non sapeva cos’era ma non oppose resistenza. Quando quel qualcosa attecchì in lei, Morgana spalancò gli occhi e mormorò a voce così bassa che solo lei poté udire «Gabriel…».
In un lampo acquisì la consapevolezza di ciò che stava accadendo, prese coscienza della dolce catena a cui era stata legata. Lei riusciva a sentirlo. Con le gambe che ancora si aggrovigliavano fra loro, tentò comunque di rimettersi in piedi. I cinque Drakulia che l’avevano aggredita la guardarono a bocca aperta, quasi come se fossero terrorizzati alla sua presenza. Morgana non capiva. Si tastò la faccia per controllare se si fosse trasformata in qualche specie di mostruosità, ma naso, occhi e bocca sembrava al loro posto. Ma allora…la fronte continuava a scottarle come in preda a una terribile febbre e in quel punto la pelle non era più liscia come lo era sempre stata. Seguì con le dita i contorni dei solchi che le erano stati marchiati sulla pelle e cercò di intuirne la forma.
«Non può essere…» disse osservando l’energia che le crepitava fra le mani pronta ad essere rilasciata ad un solo cenno. Distese il braccio alla sua sinistra e quel semplice movimento generò una raffica di vento vorticante che andò a impattare contro l’abominio che la braccava da quel lato. Fece lo stesso con la destra e con un moto circolare del polso rilasciò un piccolo ciclone. Ebbra di quel potere, sfruttò le correnti ascensionali per sollevarsi da terra, strappando le migliaia di frecce piantate nei corpi dei caduti. Il vento le accarezzava il viso, s’insinuava dentro ai suoi vestiti facendole il solletico e la portava sempre più in alto coronandola di un schiera di frecce acuminate. Morgana portò entrambe le mani al petto lasciando che fili d’aria che si diramavano dalle sue dita si aggrovigliassero attorno a sé e poi spinse con  la forza del pensiero accompagnando i flussi d’aria con un gesto liberatorio. Il cerchio di frecce in balia delle correnti venne scagliato verso i loro nemici abbattendo e penetrando tutto ciò che incontrarono. La protettrice giocò ancora un po’ con i flutti finché non le fecero sfiorare leggiadramente il terreno ad un pelo della coltre di neve sotto di lei e stringendo i pugni risucchiò le folate dentro i palmi delle sue mani.
«Dio, Morgana! Sei tutta intera?» stava urlando un Gab fuori di sé mentre le prendeva la testa fra le mani e le baciava il viso un po’ da per tutto. La ragazza rise, soffocata dal tocco della sue labbra bollenti.
«Io…Io». La protettrice non stette a sentire i borbottii sommessi del medjai e gli afferrò i riccioli sulla nuca per avvicinarlo a sé e incontrare ancora una volta le sue labbra morbide.
«Grazie» gli sussurrò sfiorandola la punta del naso con il suo «Non sono mai stata meglio».
«Cosa diamine…» stava per imprecare Gab prima che una lama sfrecciasse fra loro, costringendoli ad allontanarsi l’uno dall’altra. Al suo passaggio, Morgana sentì le sopracciglia congelarsi. Seguì l’impronta glaciale che la spada aveva tracciato nello spazio che li divideva e la ritrovò confitta in mezzo alla fronte di un mezzo lupo che guaì accasciandosi senza vita. Poco prima che toccasse terra, qualcuno fischiò e la spada fece ritorno al suo padrone, liberandosi del sangue della creatura strada facendo.
Morgana avvertì il cuore esploderle dentro al petto.
«Una dominatrice dell’aria, eh?» annotò la protettrice dai lunghi capelli neri raccolti in una coda facendo roteare la kopis prima di rinfoderarla nella guaina «Impressionante».
Il fratello non si lasciò fuggire l’occasione di provocarla «Invidiosa, eh?».
Leona roteò gli occhi «Niente che non abbia già visto» concluse con un ghigno. Occhieggiò di sottecchi il protettore accanto a lei e gli fece l’occhiolino mentre gli consegnava sul palmo della mano una piccola fiammella incandescente. La fronte di Fabiano s’illumino di un bagliore rosso soffuso e attraverso la frangia Morgana intravide delineato fra le sopracciglia il simbolo elementale del fuoco. Il globo rovente crebbe fra le mani del ragazzo gettando sul suo viso delle ombre che si agitavano come fili d’erba al vento. Quando fu soddisfatto della grandezza, il suo sguardo s’inferocì, prese la rincorsa e lanciò il globo al centro di un gruppo di abomini che vennero sbalzati via come bambole di pezza ustionate.
«Uh! Hilde pensa che quello ha fatto molto male!» disse una vocina stridula nascosta dietro il mantello di Leona. Attaccata alla sua cintura, fece capolino la testolina bionda di una graziosa bambina sfigurata da una cicatrice.
«E lei chi è?» gli domandò Gabriel piegandosi sulle ginocchia per osservarla da più vicino. Poi inarcò un sopracciglio e si morse il labbro inferiore per non scoppiare a ridere «Non ditemi che vi siete già dati da fare? Non sono ancora pronto per diventare zio! Ah come passa il tempo!».
«È una lunga storia» tagliò corto Leona ripulendosi del rivolo di sangue incrostato che le scendeva dalle orecchie. «Corri a nasconderti dietro a quella conca di rocce e non uscire per nessun motivo, sono stata chiara?». La piccola annuì energicamente e la treccia le ballonzolò sulla spalla. Le due si scambiarono un breve sguardo e Hilde le fece scivolare qualcosa in tasca, ma nessuno sembrava essersene accorto a parte Morgana. Mentre la bambina correva ai ripari, Gab la incalzò ancora «E così una bambina è il meglio che sei riuscita a racimolare? Quando abbiamo chiesto dei rinforzi, non era mica una battuta…».
«Perché a te quelli che sembrano?» lo rimbeccò Fabiano facendo girare su sé stesso l’amico. Morgana guardò il punto indicato dal protettore e per poco non svenne ai piedi di Gabriel dalla gioia. Le urla dei protettori inglesi riecheggiarono per tutta la vallata fino a che non si mescolarono a quelli della battaglia ancora in corso.
«Quanti sono?» domandò Morgana con ancora la bocca spalancata.
«Non importa» disse Leona facendosi improvvisamente cupa giocherellando col gioiello blu che le pendeva sul collo «Non gli lascerò mettere le mani sul ciondolo». Stavolta furono lei e Gab a scambiarsi quell’intesa e Morgana sentì montare il panico alle stelle in vista di ciò che gli aveva promesso.
«Va bene, uniamoci alla mischia…»  
«Leona…» la interruppe Fabiano «Ti prego. Concedimi un tentativo, lascia che me ne occupi io». Leona fece di tutto per fargli credere che non lo avesse sentito. Ma poi stringendo forte i pugni lungo i fianchi, infine, incrociò i suoi occhi e sospirò.
«Come ti compiace». E così dicendo la ragazza fece qualcosa che Morgana non si sarebbe mai aspettata. Cominciò a sciogliersi i capelli e i boccoli neri le ricaddero fino a ricoprirle il bacino. Entrambi fissarono il nastro scarlatto attorcigliato fra le dita della protettrice, poi Leona lo portò vicino alle sue labbra e lo baciò. Morgana non riuscì a capire chi fra due gemelli avesse invocato il vento, sta di fatto che il nastro, raccolto a coppa fra le sue mani, si librò in volo sopra le loro teste. Il filo rosso s’infiltrò nel ventre della battaglia serpeggiando leggero in mezzo a quel marasma di risse cruente. Ad un occhio inesperto, poteva dare l’impressione che si fosse perso, confuso da quel bagno di sangue, quando invece sgusciava deciso fra le gambe dei soldati. Quando si fermò, intrappolato fra le dita di un abominio dai profondi occhi azzurri, allora Morgana comprese ogni cosa. Ce n’erano altre sei identiche a lei eppure soltanto una era quella vera. Soltanto una avrebbe potuto riconoscerlo. Così Fabiano, ignorando le sue replicanti, si fece inghiottire da quel fiume serrato di sangue e ferro e corse incontro a sua sorella Sara.     

Angolino piccino dell'autrice che non mantiene la parola data <_< : Un grande scusa a tutti. Era abbastanza scontanto che il finale mi sarebbe sfuggito dalle mani e non sarei riuscita a concludere in due capitoli o prima della fine dell'anno come avevo preventivato. Perciò niente più promesse, anche se credo che non ci sarà più di un capitolo (spero). Ho voluto dedicare un paragrafetto a ciascuno dei miei personaggi giusto per dargli giustizia. Comunque, Keep calm and wait for the finale!  
   
 
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