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Autore: Luinloth    02/01/2021    8 recensioni
Gli angeli sono scesi sulla terra e hanno soverchiato l’umanità, regredendola ad uno stato quasi medievale. Gli umani lavorano come schiavi alla costruzione di una torre, di diverse torri sparse intorno al globo, ma nessuno sa cosa succederà una volta che il loro lavoro sarà concluso. John Winchester è a capo di una delle cellule della Resistenza e Dean nei confronti degli angeli non ha mai provato altro che odio, per ciò che hanno fatto alla sua famiglia, per ciò che hanno fatto a Sam. Finché, un giorno, Castiel non viene assegnato al suo cantiere e tutte le certezze che aveva iniziano a sgretolarsi. Ma come gli ripete spesso suo padre, un umano non dovrebbe mai fidarsi di un angelo.
80% AU, 20% what if (vi assicuro che non è così complicato come sembra)
Dal testo:
«Perché?» […]
«Perché ho sempre creduto che non mi importasse» […] «Ma mi sbagliavo»
Genere: Angst, Drammatico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester, Sam Winchester
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Nessuna stagione
Capitoli:
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Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene

 

 

31. Nel suo volo

 

16 giugno 2009

Il giorno in cui Dean compiva ventun anni, un ragazzo precipitò dall’ultimo livello della torre in costruzione. 

Non era certo la prima volta che un servitore del cielo faceva una fine simile. Nei venticinque anni che lui aveva trascorso al cantiere ne aveva visti a decine, buttarsi volontariamente di sotto o soltanto scivolare, inciampare, venire traditi dalla miserabile impalcatura arrugginita che avrebbe dovuto sorreggere il loro peso e che invece fin troppo spesso si piegava e cedeva, in una cacofonia di urla e acciaio gracchiante.

Ma il giorno del suo ventunesimo compleanno, il giovane uomo che finì a sfracellarsi tra due blocchi di marmo, sotto gli sguardi atterriti degli ultimi umani che, passato il crepuscolo, ancora si trascinavano sotto la torre, tirò il suo ultimo respiro a neanche tre metri dalla figura nervosa di John Winchester. 

New York gli restituiva scampoli sfilacciati di cielo azzurrino, frammenti inceneriti e un abisso di asfalto crepato che sembrava ondeggiare — qualche centinaio di metri più in basso — come un oceano di polvere pronto a inghiottirlo. 

Ciò che terrorizzò Dean più di tutto fu il silenzio.

Il vuoto pneumatico che riempì le sue orecchie, nell’istante in cui le unghie di Michael persero presa sul suo collo e lo spazio che il suo corpo umano occupava si ridusse a un concetto astratto (l’orizzonte si era spezzato), lo scorrere del tempo perse consistenza. 

Uno. 

Due. 

Aveva cominciato a contare soltanto perché non voleva che gli si schiantasse prima il cuore.

Tre.

John si era avvicinato al cadavere del ragazzo, si era chinato su di lui ed era scomparso, per qualche attimo, dietro uno dei due blocchi di marmo; poi l’aveva tirato su lentamente, sollevandolo con delicatezza, con l’attenzione che avrebbe riservato a un cucciolo ferito. 

Quattro.

Aveva riportato lui il corpo ai genitori.

Cinque. Sei.

All’epoca, il ragazzo era parecchio più grande di Dean. A giudicare dalla corporatura e dalla linea dura dei suoi polpacci insanguinati avrebbe potuto avere anche più di trent’anni, eppure sembrava così piccolo tra le braccia di suo padre. Così sereno.

Sette.

Otto.

Le donne del cantiere raccontavano che un secondo prima di morire la vita che hai vissuto riesce a infilartisi sotto le palpebre e che la si può vedere passare — se si è ancora abbastanza lucidi — come fotografie sfogliate in fretta.

Ma tutta la vita di Dean si era condensata in un unico ricordo, e in un unico sorriso.

John lo aspettava, ai piedi dell’Empire State Building. 

Aveva alzato la testa verso di lui, lo guardava, e Dean poteva quasi scorgere il luccichio benevolo delle sue iridi scure, la linea severa delle labbra, appena incurvate all’insù.

Era venuto a prenderlo. 

Avrebbe raccolto da terra le sue ossa sfasciate, fatto fagotto dei suoi organi spappolati, e se lo sarebbe portato via.  

Nove.

Die-

 

 

 

 

Il dolore si prese suo padre, New York, e tutto quello che rimaneva.

Un’oscurità di seta si chiuse sopra la testa di Dean, poi qualcuno gli sfilò la spina dorsale dal torace e le sue costole — d’un tratto prive di cardini — si serrarono intorno ai suoi polmoni in una morsa infuocata.  

 

 

 

 

Undici.

 

 

 

 

Dodici.

Quando il buio si diradò, un enorme mausoleo d’acciaio torreggiava sopra di lui: le vetrate dell’Empire State Building luccicavano come specchi d’acqua.

Tredici. 

Il cielo sullo sfondo era nero — no — azzurro, e terso. Limpidissimo.

Quattordici.

Non ci si poteva teletrasportare all’interno del grattacielo gli aveva detto Castiel, mesi prima ormai. 

Si era lanciato dietro di lui quindi, in quella manciata di secondi si era rimesso in piedi e si era precipitato attraverso lo squarcio nella parete — sfuggendo persino a Michael — prima che questa si richiudesse? 

Lo aveva seguito, nel suo ultimo volo? 

Era così debole; non era stato nemmeno in grado di fermare il sangue che gli gocciolava ancora dal taglio aperto sulle sue labbra. 

Aveva usato quel che rimaneva dei suoi poteri per raggiungerlo, una volta fuori dall’edificio? Aveva provato a frenare — a evitare in qualche modo l’impatto, senza riuscirci — o non aveva potuto far altro che afferrarlo, stringersi contro il suo corpo e… cadere?

Gli occhi rotti di Castiel fissavano un cielo senza nuvole. 

Le braccia scarne dell’angelo erano scivolate dalla testa di Dean — intorno alla quale si erano saldamente avvolte, un attimo prima dell’urto contro il suolo — alle sue spalle, e il ragazzo realizzò di trovarsi rannicchiato contro il busto di Castiel — le dita avvinghiate alle maniche sdrucite della sua giacca bianca — con il suo intero peso che ancora gli gravava sulle costole.

Rotolò su un fianco e atterrò con la faccia sull’asfalto. 

Nonostante Castiel si fosse frapposto tra lui e il terreno — e una morte certa — riuscendo ad attutire il colpo e la gravità delle lesioni, lui faticava comunque a muoversi e si sentiva come se l’avessero appena preso a calci.

«C-Castiel?»

L’angelo non si mosse. 

Non aveva prodotto neanche un suono quando lui era sceso dal suo torace, le braccia gli erano cascate lungo i fianchi come arti di plastica e la sua sagoma spezzata continuava a tenere lo sguardo inchiodato a quella volta celeste tanto pacifica, insensibile alla linea oscena che gli deformava la gamba sinistra.

Dean strisciò sulla pancia finché non riuscì a sollevarsi facendo leva sugli avambracci. Si puntellò sui gomiti e il brecciolino aguzzo della strada gli s’insinuò sotto la pelle, grattando e graffiando e facendolo sibilare.

Una nube grigiastra si addensò sopra il viso insanguinato dell’angelo. 

Polvere.

Si alzava e turbinava risalendo per metri dal suolo, vorticava in mulinelli farinosi che si infilavano nelle narici e gli raschiavano la gola. In pochi secondi l’intero quartiere di Midtown, Manhattan, venne travolto da una bufera di rifiuti e cenere, finché Dean non lo sentì.

Sembrava scaturire dalle viscere del mondo e invece proveniva dal novantesimo piano del grattacielo sfocato — origine e centro della tempesta improvvisamente abbattutasi sopra New York — che li sovrastava.

Che fosse un grido, un richiamo, una richiesta di aiuto, lui non lo sapeva. 

Forse il piano di Anna era davvero andato a buon fine e quello era lo strepito vittorioso della morte che dopo secoli era infine riuscita a prenderselo.

La voce di Michael gli riempiva le orecchie, gli faceva tremare le ossa, e lui ebbe appena il tempo rendersi conto che Sam si trovava ancora lassù, da qualche parte all’interno dell’Empire State Building, al fianco di un Arcangelo che Dean sperò con tutto se stesso potesse proteggerlo, difenderlo come non era riuscito a fare in quattro anni. 

Dopodiché una luce insopportabile lo investì, insieme a una seconda raffica di vento che lo costrinse ad appiattirsi nuovamente al suolo. E che si rese conto poco dopo, con orrore, non trasportava soltanto buste di plastica nella sua scia.

Come una grossa nube di cavallette mute, richiamate da ogni parte del globo, gli angeli ferivano l’aria e irrompevano all’interno dell’edificio facendone esplodere le finestre: una pioggia di frammenti aguzzi si sostituì alla polvere agitata dal vento.

Dean si trascinò fino al viso di Castiel e lo chiamò ancora — inutilmente — finché le urla di Michael cessarono, le schegge di vetro smisero di graffiargli la schiena, e il lato sud di uno dei livelli superiori del grattacielo — tra il settantesimo e l’ottantesimo piano, o forse addirittura più sù — improvvisamente deflagrò.

Non potevano rimanere lì.

Nessun angelo aveva ancora fatto caso a loro — due sagome quasi immobili, se osservate dall’alto, nel mezzo di un cerchio di detriti — ma se anche fossero stati così fortunati da non essere notati — durante la battaglia che ormai si annunciava imminente, se non addirittura già in corso all’interno dell’edificio — sarebbero stati certamente travolti e uccisi dalle macerie che l’Empire State Building, dopo la detonazione, aveva cominciato a sputare giù di sotto.

Perciò Dean puntò le ginocchia sul terreno sporco e cercò di non pensare, di non pensare al turbinio bianco sopra la sua testa, al tubo d’acciaio che si era appena schiantato a pochi metri da lui, alla gamba sinistra di Castiel piegata in un angolo che nemmeno nei peggiori incidenti al cantiere aveva mai visto. 

Si strinse l’angelo contro il petto, passò un braccio sotto le sue ginocchia, spostò il proprio peso sui talloni e si tirò in piedi.  

Ogni cellula del suo corpo urlò. 

Castiel non era particolarmente pesante — di certo non avrebbe potuto esserlo più di un blocco di marmo — ma ora Dean aveva la sensazione che la sua colonna vertebrale si fosse assottigliata fino a ridursi allo spessore di un capello e che stesse per rompersi in mille pezzi da un momento all’altro. Ogni passo gli spediva fitte atroci dal coccige alla base del collo. 

Si rifugiò nel primo edificio semi-integro il cui soffitto non pareva sul punto di crollare. Ebbe persino la lucidità di cercare un muro che rispondesse vagamente alla descrizione di ‘portante’, prima di accartocciarsi su se stesso e di crollare a terra, senza più forze.

Avevano un cuore che battesse, gli angeli? 

Un ritmo, una pulsazione, un alito a cui lui si potesse ancora aggrappare?

Un filo di sangue scuro — suo forse, o forse di Castiel, non avrebbe saputo dirlo — si allungava sul terreno sotto di loro e strisciava, si fermava e si biforcava e si riuniva di nuovo, come la ramificazione del delta di un fiume scarlatto.

Dean si sentì venire meno. 

Il corpo esangue di Castiel lo teneva ancora stretto tra le braccia.

Pensò che non l’avrebbe lasciato mai più.

 

31 marzo 2009

«E queste?»

«Queste cosa?»

Le dita di Castiel disegnavano minuscoli cerchietti sul dorso della sua mano. Avevano cominciato a muoversi sulle sue spalle, un abbondante minuto prima, ed erano poi scese lungo le sue braccia, tratteggiandone il profilo dei muscoli con una lentezza languida che gli aveva fatto venire la pelle d’oca.

«Chi te le ha procurate?»

«Ah» mormorò distrattamente Dean, riaprendo gli occhi «Quelle»

A lui quelle carezze non dispiacevano — affatto — ma avrebbe dovuto aspettarselo che in quel modo, presto o tardi, l’angelo le avrebbe notate.

Illuminate dalla caratteristica luce azzurrina — che il ragazzo non avrebbe mai più potuto associare a nient’altro se non dell’ordinatissimo appartamento di Castiel — le cicatrici apparivano quasi traslucide, irregolari e ancora profonde, anche sul suo palmo ruvido di uomo adulto. Si facevano persino più marcate dall’altro lato, in corrispondenza delle sue nocche, lì dove i polpastrelli dell’angelo si erano appena fermati, in attesa.

«Avrò avuto tredici o quattordici anni» rispose Dean, ricomponendosi di malavoglia sul divano «A sorvegliare il cantiere in quel periodo c’erano soltanto tre angeli, ma temo di aver dimenticato i loro nomi» riferì in fretta.

Erano ferite vecchie. 

Storie vecchie, anni lontani, lui era sceso a patti con la sua infanzia e la sua adolescenza da parecchio tempo ma non aveva lo stesso tutta questa voglia di riportarle a galla, quella sera.

Non voleva caricare anche Castiel di quel peso.

«I nomi posso facilmente immaginarli»

Evidentemente, Castiel era di tutt’altra opinione.

Dean rovesciò la testa all’indietro, abbandonandosi con un sospiro contro la testata del divano fino a ritrovarsi con lo sguardo puntato verso il soffitto.

«Eravamo bambini, maschi, gli adulti sgobbavano nella cava fino al tramonto e io e Sam avevamo sempre fame» iniziò a raccontare «Io avevo sette anni e lui appena tre, quando scoprimmo dove i Collaborazionisti nascondevano i viveri, e da allora neppure le peggiori minacce di papà erano riuscite a farci desistere dallo sgraffignare qualcosina, di tanto di tanto o… beh… forse anche un po’ più di qualcosina» si corresse sogghignando.

Castiel sollevò un sopracciglio.

Di certo non per biasimarlo di essersi dato al ladrocinio in età tanto tenera — gli angeli avevano commesso peccati ben peggiori — ma perché i furti di cibo erano particolarmente mal tollerati nei cantieri delle torri, e altrettanto severamente puniti. Dean decise di non mandarla tanto per le lunghe.

«Smettemmo il giorno in cui ci sorpresero con le mani nel sacco» gli confessò, senza troppi giri di parole «Cioè… sorpresero me, almeno. Sam era ancora piccolo, riuscì a nascondersi in tempo, e io dissi ai Collaborazionisti che ero l’unico a conoscere il modo di intrufolarsi in quel container senza essere visto, e che cosa ci fosse al suo interno»

E chissà per quale miracolo d’autunno, quegli esseri ributtanti gli avevano creduto. 

«Non fare quella faccia Castiel, gli angeli non mi impiccarono a nessun albero né mi amputarono un bel niente, come puoi notare. Forse perché ero solo un ragazzino, o perché avevo cominciato a lavorare nella cava e a quanto pare lavoravo già bene, secondo i loro fottutiss…»

Basta così.

Dean richiuse precipitosamente la bocca facendo scattare i denti uno contro l’altro. Aveva parlato anche troppo.

Per quanto Castiel non sembrasse avesse dato particolare peso al suo principio di invettiva, era troppo impegnato a fissarlo inorridito.

«Sì… insomma… sempre meglio che due dita in meno, no?» se ne uscì infelicemente lui, tentando di rompere il suo silenzio afflitto «E il peggio è venuto dopo, comunque, non riuscivo neanche a grattarmi la punta del naso e Sam ha dovuto imboccarmi per una settimana… tra l’altro credo che quella sia stata l’unica volta in cui papà gli ha rifilato anche la mia razione di ceffoni…» rifletté «Di solito era il contrario»

Ma poche volte gli era capitato di vedere John così agitato: era ritornato alla loro baracca e aveva trovato solo Sam, in un lago di lacrime. Aveva attraversato il cantiere come se avesse un’orda di diavoli alle calcagna, ma quando l’aveva ritrovato non c’era già più un centimetro di epidermide sulle mani di Dean che non pulsasse e sanguinasse come se lui le avesse infilate in un mucchio di carboni accesi. 

«Posso farle sparire»

«Eh?»

Nel turbinio dei suoi pensieri, la voce di Castiel era andata dispersa.

«I segni delle frustate» ripetè l’angelo «Dalle tue mani, dalla tua schiena, posso cancellare tutte le cicatrici che hai»

In un primo momento, Dean non seppe cosa rispondergli; lanciò un’occhiata alle Ninfee di Claude Monet, come se potessero offrirgli consiglio.

«No» decise infine «Non… non servirebbe»

Castiel corrugò la fronte, visibilmente confuso.

«Non cambierebbe quello che che è successo, non… non cambierebbe il passato» gli spiegò, riprendendo coraggio «La cava, Zaccaria, la faccia di Sammy durante quella settimana… continuerò lo stesso a sognarmeli la notte — di tanto in tanto — anche senza un paio di cicatrici a rammentarmeli» ammise, recuperando il contatto visivo con l’angelo «Riesci a capire cosa intendo?»

Gli occhi di Castiel rimasero a frugare a lungo dentro i suoi, prima che quello si decidesse ad annuire. 

Dean si lasciò cadere di nuovo sull’imbottitura soffice del bracciolo, sprofondando tra i cuscini con un gemito sollevato che guadagnò rapidamente in calore, una volta che Castiel si fu disteso accanto a lui.

Il suo respiro guadagnò in frequenza. 

A volte gli sembrava quasi impossibile riuscire a provare sensazioni come quelle. Che al mondo esistesse ancora qualcosa di così perfetto, e profondo, che non si portasse dietro uno strascico di spine: nel suo mondo anche un bagliore accecava, e non c’era fiamma che non ustionasse. 

Ma il caldo che dal suo petto si irradiava al resto del corpo non bruciava e lo sguardo di Castiel era chiaro, dentro il suo, e luccicava di luce che si poteva guardare. 

Non era il sole d’agosto del Colorado, che gli scorticava la faccia; era luce buona.

Il riverbero della luna sull’acqua.  

«Castiel…»

L’aria non voleva più saperne di vibrare tra le sue corde vocali.

«Castiel, non…»

Castiel gli aveva preso la mano destra e aveva posato le labbra sul suo palmo sfregiato. 

Non che non l’avesse mai baciato in posti ben più imbarazzanti di quello ma non…

Non così.

Sarebbe stato uguale se Castiel fosse sceso dal divano per prostrarsi davanti ai suoi piedi, e ai suoi occhi sconcertati.

Provò a ritrarre la mano, ma lui la trattenne. 

Senza violenza, quel tanto che bastava a concedere a Dean di spostarla un po’ dalle sue labbra, ma senza per questo farsela sfuggire dalle dita.

«Castiel, le mie cicatrici non sono qualcosa per cui tu debba chiedere scusa» provò allora ad imporsi, alzando appena la voce.

Non era giusto, non sarebbe stato appropriato, di fronte a lui c'era pur sempre un angelo e Dean… 

«E comunque avrei potuto essere più accorto ed evitare di meritarmele» 

Dean non gli avrebbe permesso di umiliarsi così.

Castiel non interruppe le sue obiezioni — limitandosi a ricambiare silenziosamente il suo sguardo — ma quando alla fine il ragazzo tacque, la presa sul suo polso anziché diminuire sembrò rafforzarsi.

«Mi hai detto che non posso cambiare il passato» esordì l’angelo, a bassa voce. Dolcemente, come se avesse paura di spaventarlo «Però forse…»

Le sue labbra di nuovo sul suo palmo. 

Una per una, sulle sue nocche, e stavolta ritrovare il fiato per replicare a Dean parve molto più difficile.

«Forse posso…»

Sul taglio mai ricucito e mai rimarginato a dovere che gli aveva lasciato una cicatrice spessa e rosa sull’avambraccio. 

«Almeno questo» lo supplicò «Almeno questo, lasciamelo fare»

Dean gli lasciò fare tutto ciò che voleva. 

Mentre il buio della sera si faceva inchiostro, fuori dalla finestra.

Gli lasciò imparare a memoria fino all’ultimo squarcio mal medicato sulla sua schiena.

Lo lasciò muoversi, mormorare parole incomprensibili sulla sua bocca e scivolare, aspettare, e poi indugiare ancora; scendere fino ai suoi fianchi e serrare i denti, per l’unica ferita che Castiel aveva visto aperta ma che non aveva avuto la risolutezza di curare, quando aveva potuto; lo lasciò chiedere e dopo lo lasciò implorare, finché non vide le sue pupille accendersi e il suo corpo perfetto reclamare lo stesso orgasmo elettrico che aveva sconquassato lui neanche mezzo minuto prima. 

Dean lo lasciò accarezzargli i capelli.

Lieve e continuo come una preghiera sussurrata, il respiro di Castiel rimase sulla sua pelle fino all’alba.

Fu la notte più lunga della sua vita.

 

16 giugno 2009

Dall’esterno della costruzione semi-crollata in cui Dean si era rifugiato, cominciavano a provenire rumori sempre più concitati.

Udiva spari, il crepitio di una parete che si spaccava. Voci che si alternavano strepitando maledizioni.

«Ci troveranno presto, vedrai»

Castiel non diede segno d’averlo sentito.

«Qualcuno verrà a ripararsi in questo edificio, e sarà sicuramente un umano» proseguì «Io non ce li vedo mica, i tuoi fratelli piccioni, a nascondersi durante una battaglia» 

Dean si sistemò lo stesso un po’ più diritto, appoggiandosi con tutta la schiena contro la parete alle sue spalle e accomodandosi la testa di Castiel — ancora abbandonata sopra il suo sterno in una scomoda posizione da torcicollo — nell’incavo del braccio, tra il gomito e la spalla. 

Il taglio all’angolo della bocca dell’angelo aveva smesso di sanguinare.

«Ci porteranno da Anna, sicuramente lei saprà cosa fare» 

Sempre che sia ancora viva, si intromise una vocetta sgradevole nella sua testa.

Sempre che non fosse già troppo tardi.

«E anche Gabriel è dalla nostra parte adesso, sai?» Dean ignorò la sua — finora unica — interlocutrice e proseguì, imperterrito «Ti rimetterà a posto la gamba e ti restituirà i tuoi poteri… ad Anna è bastato un po’ di riposo, poi era come nuova»

Anna non si è mica lanciata giù da un grattacielo, osservò la vocetta. 

Sta zitta.

Non è rimasta dieci giorni incatenata al pavimento. 

Stai…

Dean ribaltò il capo all’indietro fino a sbatterlo violentemente contro il muro. 

Al terzo colpo una cascata di vermi luminosi gli colò d’improvviso sopra le retine, montandogli una nausea atroce, ma almeno quella stronza d’una vocetta era stata ridotta al silenzio.

«Probabilmente ci staranno anche già cercando…» boccheggiò, sentendo le grida all’esterno intensificarsi «Tra poco saranno qui vedrai…»

La bocca di Castiel sapeva di sangue. 

«Però per favore non lasciarmi di nuovo…»

Il primo angelo che Dean aveva avuto il piacere di vedere morto era stato Zaccaria. 

«Per favore…»

Gli aveva piantato due pallottole in corpo e l’aveva guardato vibrare e accasciarsi su se stesso, il volto sfigurato da due orbite nere e vuote.

«Per favore…»

Ma ad eccezione del suo setto nasale fratturato, i lineamenti di Castiel non erano mutati d’una scheggia dall’ultima volta che lui li aveva tracciati con le labbra. 

I suoi occhi erano ancora lì, spalancati. E freddi.

Così disperatamente blu che Dean non avrebbe mai trovato il coraggio per richiuderglieli.

 

7 aprile 2009

L’alba saliva dal mare e strabordava sopra New York chiazzandola di giallo e di rosa.

«Castiel?»

Dean appoggiò la punta delle dita sulla superficie lucida del vetro.

«L’oceano è davvero tanto grande come si dice?»

Il riflesso dell’angelo comparve accanto al suo, nella cornice argentata della finestra chiusa.

«Secondo le scale metriche umane, l’acqua ricopre il pianeta Terra per un’estensione di trecentosessanta milioni e seicentocinquantamilaottocentoquarantanove chilometri quadrati»

Castiel gli cinse la vita con le braccia e il calore che abbracciò la sua schiena nuda fu sufficiente a scombussolare Dean molto più di quella cifra assurda.

«Settecentoventisettemila… e invece quanto…» balbettò, mentre la bocca morbida di Castiel gli carezzava il collo «Invece la terra quanto spazio occupa?»

«La superficie delle terre emerse…» meditò per un attimo l’angelo, fermandosi con il mento sulla sua spalla «Ha un’area decisamente minore che si aggira sui centoquarantanove milioni e… Ma come mai tutta questa curiosità?»

«Oh… Non è niente di che»

Dean arrossì, ma stavolta non fu per il bacio che Castiel gli aveva appena lasciato tra i capelli.

«Da piccolo Sam aveva letto in un libro che gli oceani ricoprono i due terzi del pianeta e io non gli ho mai creduto» spiattellò alla finestra «Ma con questa storia dei trecentosessantamila-bla bla milioni adesso credo che avesse sempre avuto ragione lui» bofonchiò indispettito.

Castiel rise, e lo baciò di nuovo.

«Un giorno ti porterò a Cape Trail» disse «Credo che voi umani lo chiamiate ancora così»

Dean, a cui quel nome non diceva assolutamente nulla, pensò stesse riferendosi a una delle terrazze panoramiche dei piani superiori. 

«E’ un promontorio sulla costa ovest, nel vecchio Stato dell’Oregon se non mi sbaglio. Non saranno le Hawaii ma dovrei riuscire a trasportarci entrambi fin lì senza troppa fatica»

«Fuori…» Dean girò le spalle al panorama urbano e si ritrovò a un soffio dal viso di Castiel «Fuori di qui?» sussurrò sbalordito.

«Dovrò chiedere il permesso a Metatron… ma credo che potrà fare a meno di te per una mezza giornata» sorrise l’angelo, di fronte al suo sconcerto «E poi sei sotto la mia responsabilità, non la sua, e io avrò pure il diritto di portare le mie responsabilità dove mi pare e piace, o no?» aggiunse, strappandogli uno sbuffo divertito.

«Tieni» Castiel gli tese la sua camicia azzurra «L’alba è già passata, se resti ancora finirai per fare tardi» 

Dean afferrò l’indumento con la stessa riluttanza con la quale l’angelo glielo stava porgendo e impiegò cinque minuti buoni ad appaiare ogni bottone con la sua asola.

Odiava quei vestiti. 

Odiava l’alba, odiava Metatron, odiava quel grattacielo e tutti i suoi schifosi occupanti, e a volte credeva di non possedere nient’altro, di non avere nient’altro di davvero suo se non quello — l’odio — la linea di fuoco che lo separava dalla pazzia, senonché…

«Ci vediamo più tardi, Dean»

Era stato a tanto così dal dirglielo, quella notte: andiamo via.

Ci dovrà pur essere un posto dove potremmo stare, dove neppure gli Arcangeli saranno mai in grado di trovarci. 

Prendiamo Sam, e Kelly, e le ninfee, e andiamocene via.

Dean recuperò la giacca dal bracciolo del divano e si avviò verso la porta.

«Castiel?»

«Mh?»

Castiel non si era ancora rivestito. Cercava qualcosa tra le pagine di uno dei libri aperti sulla sua scrivania.

«Cosa c’è a Cape Trail di tanto interessante?»

L'angelo rialzò la testa e c’era una luce strana nei suoi occhi.

Forse erano solo i raggi del sole nascente che si riflettevano sul pavimento chiaro; l’iridescenza delle lampadine attaccate al soffitto, che non erano ancora state spente. 

Dean se ne rese conto solo molto tempo dopo. 

Che se quella mattina gli avesse chiesto di andarsene, Castiel avrebbe detto di sì.

«L’oceano, Dean» gli rispose l’angelo, sorridendo «Oceano fin dove puoi guardare»














Solo una nota a margine: quando nel primo flashback parlo di ‘ferita che Castiel aveva visto aperta ma che non aveva avuto la risolutezza di curare’, mi riferisco a quella che Alastair ha inflitto a Dean durante l’attacco al cantiere, nel capitolo 5 (e che viene poi menzionata anche nel successivo). 
Non so assolutamente come commentare questo aggiornamento. Grazie per le recensioni e per tutto il sostegno e l’affetto .
Ci rivediamo tra due settimane.
Take care *
*fugge*

   
 
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