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Autore: Nina Ninetta    04/01/2021    8 recensioni
Stefano Bonanni è un professore universitario che un giorno incontra un giovane studente di nome Lory, il quale gli chiede di poter scrivere la tesi con lui. Lory si rivelerà essere più di un semplice laureando e il loro rapporto muterà in qualcosa di diverso, fin quando il giovane gli confessa di avere pochi mesi di vita.
Prima classificata al contest "Manuale di Sopravvivenza Vol. 1" indetta da Spettro94 sul forum di EFP
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Amore Indegno Di Sopravvivere
 
 





 
Stefano sfreccia sulla A 2 lungo la corsia di sorpasso. La lancetta del contachilometri rasenta i 200 km all’ora, ma lui neanche ci bada. Le mani sono entrambe salde sullo sterzo, con gli indici tiene il tempo della canzone che si diffonde nell’abitacolo.
 
“Ay, no hay que llorar, que la vida es un carnaval” 
 
La macchina, un SUV BMW X3, va sull’asfalto nero. Ai bordi inizia a posarsi la prima neve di dicembre. Stefano prende fiducia e accompagna il ritmo anche con la testa.
 
“Y es mas bello vivir cantando”
 
Le labbra hanno un sussulto, gli scappa da ridere, sta per farlo, poi timidamente segue Cecilia Cruz e ne imita i vocalizzi a fine strofa.
 
“Oh, oh, oh, ay, no hay que llorar”
 
Un’assurda tentazione di ballare lo scuote tutto, il bacino piantato nel sedile si muove appena come se tentasse di sistemarsi meglio, invece ha solo tanta voglia di scatenarsi.
Il cartello autostradale indica che la prossima uscita è la sua, così come glielo ricorda la voce robotica del navigatore.
Siamo arrivati, pensa.
Quasi.
Questa volta Stefano ridacchia, non è propriamente sicuro che ascoltare quella canzone, la quale è un inno alla vita, sia la colonna sonora più indicata mentre si sta dirigendo a un funerale. A maggior ragione se il cadavere in questione è quello di un suo laureando.
Decelera e mette la freccia a destra, uscita Lauria Nord.
 
“Que la vida es un carnaval, y las penas se van cantando”
 
La signora Margherita aveva telefonato il giorno prima e fra singhiozzi convulsi gli aveva annunciato:
«Lory ci ha lasciato».
Lui non aveva pensato a nulla, ancora adesso non sapeva cosa pensare di preciso.
Finalmente.
Si era sentito sollevato in un certo senso, quasi libero, illudendosi che con la morte del ragazzo tutto sarebbe tornato come a prima che lo conoscesse. Aveva rivolto alla donna le sue più sentite condoglianze, ma si era gelato il sangue nelle vene quando questa gli aveva detto che lui sarebbe stato felicissimo di saperlo al proprio esequie:
«Vi era molto affezionato, professore».
 
Castelsaraceno è un piccolo paese lucano, in provincia di Potenza, incastrato nei manti aridi a circa 1000 m d’altitudine. Conta poco più di 1200 abitanti, età media 70 anni.
Il navigatore lo porta dritto dritto davanti alla casa del defunto: un’abitazione indipendente in pietra e muratura, con alte scale che conducono ai piani superiori e le galline sparse per il parcheggio fatto di ciottoli.
La donna che lo accoglie è vestita di nero da capo a piedi, sembra anziana, eppure Lory gli aveva confidato che sua madre aveva appena 55 anni. Lo abbraccia, ringraziandolo per essere lì.
«Venite professore», lo accompagna lungo un corridoio illuminato da ceri e fioche lampade, «venite. Lory vi voleva molto bene».
Lo sappiamo…
Stefano l’avevo intuito, a suo discapito.
 
La camera ardente è in realtà la stanza di un adolescente, probabilmente rimasta intatta da quando il defunto aveva deciso di iscriversi all’università di Torvergata a Roma, subito dopo il diploma. Alle pareti ci sono poster di cantanti rock e attori hollywoodiani; nell’angolo in alto, a destra della barra, c’è un albero di Natale addobbato, le lucine colorate scintillano  stonando con l’atmosfera mortuaria.
Distopico, pensa Stefano, manco stesse osservando un dipinto grottesco.
Ai lati del letto sono state disposte tre sedie per parte, occupate da alcune signore vestite a lutto, la Corona del Rosario fra le dita rattrappite dall’artrite e le sottili labbra che si muovono all’unisono, creando un sottofondo inquietante.
 
“Ave Maria piena di grazie il Signore è con te...”.
 
Qualcuno lo scruta dal basso verso l’alto, chiedendosi forse chi sia e da dove provenga quell’uomo di mezza età, ben vestito e curato nell’aspetto.
Un forestiero insomma.
La signora Margherita lo tiene per mano mentre si avvicinano al capezzale di Lory.
Oddio, no no no…
È solo in quell’istante che Stefano si accorge di non essere pronto a quell’incontro, ma è troppo tardi.
Tardi per tutto, realizza con una morsa al cuore.
Il ragazzo ha il viso grigio, non che abbia mai mostrato un incarnato più salutare, ma quello è il colore della morte. I capelli castano scuro sono puliti, qualcuno deve avergli fatto lo shampoo e la messa in piega poiché sono acconciati come piacevano a lui: ciuffo a coprirgli metà fronte. Le labbra violacee pare che abbozzino un dolce sorriso.
Sembra sereno.
Margherita gli accarezza una guancia e lo guarda come si farebbe con un innamorato:
«È sempre bello il mio Lory».
Stefano deve andarsene, gli manca l’aria, le voci in sottofondo gli arrivano ovattate, intanto che la litania continua.
 
“Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori...”.
 
Si sente come Alice nel Paese delle Meraviglie: prigioniero di un mondo parallelo dal quale non sa come fuggire, si aspetta di veder spuntare il Bianconiglio o la Regina di Cuori – magari quest’ultima potrebbe essere proprio la signora Margherita – gridando “TAGLIATEGLI LA TESTA!”.
«Era malat». Dice una delle donne nella stanza sussurrando a quella vicino, l’accento lucano radicato. «A’ frev, I’ duoli. Na’cosa brutta brutta».
«Maronna mia!» conclude l’altra facendosi il segno della croce.
 
“Il Signore è con Te, Tu sei la benedetta fra le donne...”.
 
Stefano finalmente riesce a liberarsi dalla presa di Margherita, ripercorre a ritroso il lungo corridoio e le scale, respirando a pieni polmoni l’aria gelida dicembrina. Una fitta all’addome lo costringe a rallentare il respiro - sembra che non riesca a espirare - e i pensieri. Consulta il cellulare, potrebbe telefonare a sua moglie, dirle dove si trova, che lei è ancora l’amore della sua vita; chiederle di Aurora, sapere se ha fatto la poppata, se le ha permesso di dormire almeno un po’. Se sente la sua mancanza. Tuttavia lì, fra le montagne, non c’è linea.
Assiste alla cerimonia funebre nella piccola cappella del paese. Il prete è un omino di 80 anni circa di cui non si comprende una parola di ciò che dice. Al solito pronuncerà tutte quelle cazzate sulla morte, sul disegno divino e la super balla dei secoli: un giorno risorgeremo.
La verità, pensa Stefano, é che non si può morire a 25 anni.
Alla fine della celebrazione si mette in fila per salutare i genitori del suo ex studente. Rimane per qualche minuto accanto alla bara, non ha neanche la forza di guardarla, eppure sente gli occhi azzurri di Lory che gli sorridono dalla foto poggiata sul legno chiaro, fra rose bianche e gigli candidi. Gli sorride Lory - il suo Lory – anche attraverso una stampa, attraverso un vetro trasparente. Gli sorride come faceva sempre quando era in vita. Sorrideva nelle giornate di pioggia, in quelle di sole; sorrideva per una battuta demenziale o quando lui era arrabbiato e lo divertivano le rughe che gli increspavano la fronte. Sorrideva quando li coglieva un acquazzone improvviso e Stefano era costretto a telefonare a sua moglie e dirle di non aspettarlo per cena:
«Piove a dirotto, sai che di sera non vedo bene».
Aveva sorriso anche mentre gli confessava della malattia.
Quando finalmente è il suo turno di fare le condoglianze, il padre di Lory risponde con un flebile grazie, ha l’aria di non sapere neanche più chi sia o cosa stia facendo. Margherita invece gli stringe le mani con fervore commosso e gli porge qualcosa che teneva custodita nella borsa:
«È una bottiglia di vino locale, Lory gliel’aveva comprata per Natale. Sono sicura vorrebbe che fosse vostra comunque».
Stefano è ammutolito, prende il dono che gli viene allungato per istinto.
«Restate professore, adesso è tardi, il cimitero è chiuso, perciò Lory verrà sepolto domani mattina. Restate a dormire a casa stasera. Sono già le cinque passate, dove volete andare con questa neve?». La signora è un fiume in piena, Stefano si chiede se sappia che…
No, meglio credere di no.
Prova a convincere la donna che proprio non può, deve assolutamente rientrare, domani ha lezione.
«Ma domani è sabato, Lory scendeva sempre per il fine settimana perché non aveva corsi». Margherita sarà anche addolorata per la morte del figlio, ma il suo cervello non è ancora andato in pappa, a differenze di quello del marito.
Lo farà nei prossimi giorni, riflette Stefano, eccome se lo farà…
«Davvero signora, non vorrei approfittare di voi».
«Lory sarebbe tanto contento se restaste anche per la sepoltura».
Il ragazzo gli aveva rivelato che sua mamma sapeva fare leva sui punti deboli delle persone, era una vera detective, sarebbe riuscita a far confessare il più spietato dei serial killer.
«Va bene, ma dormirò in un hotel».
Esce dalla chiesetta passando accanto alla bara posta davanti all’altare, senza voltarsi l’accarezza con la punta dell’indice per tutta la lunghezza del fianco, mentre nell’altra mano stringe l’ultimo regalo di Lory.
Il suo Lory.
 
Trova un piccolo bed and breakfast con tutte le camere a disposizione, ovviamente. La proprietaria, una donna sulla cinquantina, vedova e senza prole, ma con una piccola colonia di gatti, gli chiede se sia lì per il funerale del figlio del bombolaio.
«Sì», risponde Stefano, aspettando che gli dia le chiavi della camera da occupare. Non sapeva che lavoro facesse il padre di Lory, ma immagina che stiano parlando del medesimo esequie, dal momento che non dovevano essere molti i giovani morti in quel piccolo paese sperduto della Lucania.
«Era un bravo ragazzo» la classica frase di circostanza dedicata a una persona defunta che non si conosceva.
«Già».
«Stanza tre, secondo piano».
«Grazie». Stefano entra nell’ascensore e appena prima che le porte si chiudano domanda se sia possibile ordinare una pizza.
«Certamente».
«Diavola, grazie».
«Vuole qualcosa da bere?».
«No. Ce l’ho». Le mostra la bottiglia ancora incartata, poi le porte automatiche si chiudono con uno sbuffo.
 
Stefano si lava via la giornata con una doccia bollente, sebbene non abbia alcun ricambio: fermarsi a dormire a Castelsaraceno non era nei suoi programmi quando era partito quella mattina. Indossa i pantaloni senza la cintura, la camicia allacciata disordinatamente, poi siede alla piccola scrivania e scarta il regalo di Lory. Sapeva che si trattava di un Aglianico del Vulture DOCG prima ancora di togliergli l’involucro che lo custodiva.
Se ne è ricordato…
Ne aveva parlato spesso con il suo studente, nonostante lui non fosse un gran bevitore. Stappa la bottiglia e si inebria dell’odore intenso, dolce e speziato, quindi ne versa un po’ nel bicchiere di plastica sigillato che trova sul lavabo in bagno. Il colore è di un bel rosso rubino: la cosa più calda e avvolgente su cui i suoi occhi si siano posati quel giorno.
Ne beve un lungo sorso, sa di amarena e frutti rossi.
«Ottimo!» dice alla stanza vuota. Se ne versa un altro goccio e di nuovo lo manda giù come fosse una necessità più che un piacere.
Mangia la pizza disteso sul letto, il cartone tiepido adagiato sulla pancia e la tv accesa che prende solo i canali locali. Ogni tanto butta un occhio al cellulare, sperando che ci sia una tacca di linea. Niente. Allora beve un altro po’, intanto la tensione allenta la presa e la mente inizia a propinargli i ricordi di un passato recente.
 

*
 
«Professor Bonanni».
«Sì, lei chi è?».
«Buongiorno professore, sono Lorenzo Lo Piccolo. Mi piacerebbe fare la tesi con lei».
Stefano alzò gli occhi dai suoi appunti e guardò l’interlocutore davanti a sé: era un giovane ragazzo con addosso una felpa verde che ritraeva la faccia di Einstein, troppo grande per quel fisico magro; occhiali dalla forma arrotondata e la sottile montatura rossa gli coprivano parte del viso, ma non il sorriso. Spontaneo. Genuino. A Sinistra un folto ciuffo di capelli castani copriva metà fronte.
«È all’ultimo anno signor Lo Piccolo?». Chiese Stefano mentre raccattava la sua roba.
«Sì, ho finito tutti gli esami e vorrei laurearmi per dicembre».
Il professore indossò la giacca e prese con sé la pila di libri e cartellette dalla cattedra, quindi si mosse verso l’uscita dell’aula e Lorenzo lo seguì.
«Dicembre è solo fra sei mesi. Ha fretta?». Lorenzo non ebbe neanche il tempo di rispondere perché il professore aggiunse: «Fisica tecnica è una materia molto ostica, è sicuro della sua scelta? Sono uno intransigente io».
«Sì professore, sono sicuro».
Stefano Bonanni si fermò a scrutarlo e poiché lo studente non era ancora fuggito a gambe levate decise di dargli fiducia.
«Bene, si presenti nel mio dipartimento durante l’ora del ricevimento».
 

 
*
 
 
Dicembre è solo fra sei mesi. Ha fretta?
Che domanda infelice era stata quella! Certo che aveva fretta, ma allora cosa poteva saperne?
Ormai la bottiglia di vino è a metà, forse qualcosa di meno. Fuori comincia a nevicare e il segnale TV si assenta sempre più frequentemente. Stefano si alza per andare a pisciare, tutti quei liquidi cominciano a fare effetto, e non solo sulla vescica. Frattanto che si deterge le mani studia il suo volto riflesso nel piccolo specchio sul lavabo. Ha 39 anni, avrebbe festeggiato i 40 in primavera. I capelli ormai sono del tutto brizzolati, il fisico però sembra resistere alle ingiurie del tempo, nonostante fare sport sia diventata una pratica più unica che rara; gli occhi tendono al grigio nelle giornate uggiose come quella. Lorenzo diceva che erano meteorologici, cioè mutavano con il clima, simili a quei souvenir che si comprano alle bancarelle e che ricalcano i monumenti tipici di una città d’arte.
 
 
*
 
«Domani starò fuori tutto il giorno». Stefano aveva dato quella notizia a sua moglie Patrizia senza guardarla in viso. Ultimamente gli riusciva sempre meno reggere il suo sguardo. Lei era sul divano con Aurora attaccata al capezzolo: i seni gonfi e scuri dopo la gravidanza strabordavano dal reggiseno.
«Ma è sabato, l’università è chiusa».
«Il mio laureando vuole fare una ricerca per la tesi, lo accompagno».
«Avevo in mente di andare al centro commerciale. Aurora ha bisogno di alcune cosine…».
Stefano si alzò dalla sedia e lo sguardo inesorabilmente cadde sul petto denudato, provando un certo disagio per le forme morbide di sua moglie: ciò che un tempo lo eccitava adesso lo innervosiva, non riusciva neanche più a guardarla o a sopportare nel letto quella presenza calda e voluttuosa vicino al proprio corpo, soprattutto quando lo abbracciava premendogli contro i suoi grossi seni.
 
«Tua moglie non sospetta nulla?» gli aveva chiesto Lory sdraiato sopra di lui, il mento adagiato sul torso nudo e le coperte tirate fino all’ombelico. Stefano intanto gli accarezzava i capelli appena lavati e asciugati, scendendo fino alla base della schiena e tornando su, tracciando linee invisibili sulla pelle eburnea. Entrambi profumavano di sapone neutro.
«No, non credo».
«No o non credi?». Lo sguardo chiaro del ragazzo aveva avuto un guizzo di malizia e subito il professor Bonanni si era sporto in avanti tenendolo per la nuca e baciandolo. Quando gli sorrideva così lo faceva impazzire.
Ed era impazzito davvero la prima volta.
 
Dopo un mese da quando quello studente pelle e ossa gli aveva chiesto di laurearsi con lui gli incontri nell’angusto studio del Dipartimento di Ingegneria erano divenuti dapprima settimanali, poi quasi quotidiani. Da subito c’era stato qualcosa che l’aveva attratto, pensava fosse solo il modo che aveva di esprimersi, di discutere di materie scientifiche. Invece era la sua intera persona che gli piaceva, il quadro generale insomma.
Per quel giorno Lorenzo Lo Piccolo era il suo ultimo appuntamento, poi sarebbe potuto tornare a casa a godersi la piccola Aurora e soprattutto a riposarsi: da qualche tempo tenere lontani certi pensieri lo sfiancava.
Stefano lo aveva accompagnato alla porta, liquidandolo in meno di dieci minuti: era stanco, nervoso, stressato. Non riusciva né a parlargli né a sorreggere i suoi occhietti vispi e curiosi che correvano su tutto. Che si posavano sulle sue labbra.
Forse era frutto della sua immaginazione, pura follia; forse dipendeva da ciò che era accaduto la sera precedente, quando sua moglie si era infilata nel letto praticamente come mamma l’aveva fatta e aveva preteso che la appagasse.
«Sarò anche diventata mamma» aveva esordito con la voce suadente mentre gli accarezzava il membro. «Ma sono anche una moglie e una donna» aveva concluso lambendoglielo con la lingua, credendo di dargli piacere - e lo stava facendo, ovvio - ma il bello era arrivato nell’attimo in cui aveva socchiuso gli occhi e aveva visto il volto di Lory, la sua espressione irriverente, sfottente quasi. Avevo preso sua moglie da dietro e aveva continuato così, senza riuscire a fare diversamente. Senza smettere di pensare per un momento che non stesse penetrando lei.
Quando Lory il giorno successivo, nel suo piccolo studio, gli aveva detto:
«È un peccato che tu sia sposato, i begli uomini non dovrebbero mai impegnarsi seriamente con qualcuno», Stefano l’aveva baciato. D’istinto, senza rifletterci. Le sue labbra si erano incollate a quelle di Lorenzo come calamite.
E poi era impazzito
 
*
 
 
Quanto ti faceva impazzire quel ragazzetto, eh Ste’?
Stefano si versa un altro bicchiere di vino con la speranza di zittire la voce nella mente. Ormai ha la testa offuscata dai ricordi di quegli ultimi mesi che si susseguono senza un ordine preciso: immagini, volti, sensazioni si accavallano e si confondono. Non c’è più un prima e un dopo.
Lorenzo Lo Piccolo gli aveva sconvolto l’esistenza. Le sue certezze, tutto ciò in cui aveva sempre creduto si era sbriciolato fra le sue mani. Lo aveva odiato per questo, si era maledetto per avergli detto sì quel giorno, sì alla tesi. Aveva desiderato che sparisse, si dileguasse, che non tornasse più dalla Basilicata quando andava a trovare i suoi genitori.
Avevi sperato che morisse?
Altroché! Si era immaginato lui stesso di ucciderlo.
E adesso che è morto cosa ti resta?
Ricordi.
Ricordi che non poteva spartire con nessuno. Ricordi che avrebbe custodito per sempre dentro di sé, perché l’unica persona al mondo con la quale li aveva condivisi era defunta.
 

 
*
 
Era impazzito, appunto, l’aveva baciato e si era ritratto con gli occhi spalancati, mentre indietreggiava e cozzava con la schiena contro la biblioteca, qualche libro era caduto ai suoi piedi.
«Vattene!» gli aveva intimato. «Vattene, non farti più vedere. Trovati un altro relatore».
«Non è successo niente». Lorenzo si era avvicinato, ma Stefano l’aveva respinto senza grazia. «Non è successo niente» ripeteva il ragazzo abbozzando un sorriso per tranquillizzarlo.
Il professore era una maschera di orrore e terrore, piangeva coprendosi il volto. Vergognandosi e farfugliando:
«Sono un uomo sposato, ho una bambina bellissima e sana, mia moglie mi adora. Mi sono laureato a 25 anni, sono uno dei professori più giovani e rispettati dell’ateneo, sono un ingegnere, cazzo! Sono un uomo di scienza! Seguo delle formule fisse, so che senza disciplina e armonia il mondo non si tiene in piedi. Sono un uomo di scienza, il mio cervello è abituato a pensare seguendo un ragionamento fisso, empirico, senza sfumature. Non esistono sfumature nella mia vita, sono un uomo scienza!».
Stefano si era lasciato scivolare sul pavimento e Lorenzo si era chinato sulle ginocchia, continuando a tenere quel dolce sorriso stampato sulle labbra. Piano gli aveva preso i polsi e tirato via le mani dal volto scioccato. Quest’ultimo non aveva opposto resistenza.
«Sì» aveva cominciato Lory. «Sei un uomo e hai un cuore», posandogli una mano sul petto lo sentì battere all’impazzata, «provi emozioni, non siamo robot, non siamo macchine. Non sei freddo come quelle formule meccaniche che studi. Sì, sei un uomo e provi sentimenti che non sempre puoi prevedere o gestire».
 

 
*

Lorenzo era diventato Lory, come lo chiamavano le persone che gli volevano bene e Stefano si era meravigliato di quanti pochi amici avesse.
«Capita quando sei malato di aids».
Al professore Bonanni quasi era andata l’acqua di traverso.
«Tranquillo, non si trasmette tramite saliva. E usiamo sempre il preservativo, quindi non rischi nulla».
In ogni caso, Stefano era impazzito, di nuovo.
Lo aveva insultato, aveva detto che lo avrebbe portato alla rovina, che aveva una moglie e una figlia, a loro non ci pensava? E se le avesse contagiate?
«Non ci pensi tu a loro, dovrei farlo io?».
Il docente gli aveva annunciato che non avrebbero più avuto contatti intimi, che da quel momento in poi il rapporto che li legava sarebbe stato solo ed esclusivamente accademico.
Sebbene si fosse informato personalmente tramite un’accurata ricerca in rete e si sentiva più o meno tranquillo, l’unica cosa che avrebbe potuto accertare di non aver contratto la malattia era ovviamente quella di andare da un medico e sottoporsi a delle analisi. Ma l’idea lo atterriva: e se sua moglie fosse venuta a sapere di quegli esami? Aveva perciò deciso di lasciar correre, promettendosi che al primo sintomo avrebbe messo da parte la vergogna e si sarebbe rivolto a uno specialista.
Poiché non accadde nulla, quando dopo una settimana dalla loro ultima conversazione Lorenzo era andato nel suo studio per consegnargli la parte finale della tesi - che ormai era in dirittura d’arrivo -, Stefano gli aveva domandato se avesse con sé un condom. Lo studente aveva tirato fuori dalla tasca anteriore dei jeans una bustina di plastica rossa e si erano divertiti un bel po’.
Stare con la moglie non lo soddisfaceva più, tra l’altro lei aveva iniziato a insospettirsi, le domande erano diventate insistenti e alla fine litigavano.
 
 
Il giorno della laurea Lorenzo gli aveva presentato i suoi genitori, gli unici venuti per l’evento. La madre sembrava contenta, il padre imbronciato. Quella stessa sera Lory gli svelò che non gli restava molto da vivere. La malattia era a un punto di non ritorno, il suo corpo troppo debilitato per sostenere cure più invasive.
«Ma la medicina ha fatto passi avanti nella cura dell’ HIV».
«È vero, ma solo se presa in tempo» gli spiegò con calma il ragazzo. «Quando ormai è a uno stadio avanzato subentrano tanti di quei problemi…».
«Non capisco, scusami Lory, ma non riesco a comprendere il tuo ragionamento».
«I miei genitori non sanno che sono gay, non lo avrebbero accettato e gli avrei dato solo un dispiacere. Quando ho iniziato a stare male l’ho tenuto nascosto, non sono andato da un medico perché mi vergognavo, avevo solo 16 anni».
«16 anni?!».
«Ero fidanzato con un uomo più grande, affetto da aids. Io non lo sapevo e non abbiamo mai usato protezioni. Per anni ho lasciato che la malattia facesse il suo corso per vergogna e paura. Non ho cercato aiuto fin quando non sono svenuto durante l’ultimo anno di liceo. Al pronto soccorso mi hanno fatto delle analisi e mi è stata diagnosticata l’HIV, ma era troppo tardi».
 
*
 
Stefano beve l’ultimo sorso di vino direttamente dal collo della bottiglia. La testa gli ciondola in avanti, le spalle sono scosse da tremiti. Piange come un bambino in preda a una crisi isterica. Vorrebbe tanto delle braccia che lo stringessero, un petto su cui posare il capo e lasciarsi andare senza difese, senza timori. Ora che Lory non c’è più si rende conto di essere completamente da solo e vulnerabile, quel ragazzo allegro aveva riempito i giorni grigi e uguali, ma di contro lo aveva allontanato dalla sua famiglia.
Patrizia.
Si ridestò.
Patrizia, sua moglie, era tornata a casa dai suoi genitori perché ormai certa che lui avesse un’altra. Aveva cercato di convincerla che non era cosi, non c’era nessun’altra donna, ma che non avesse un amante questo no, non aveva potuto giurarglielo sulla vita della loro bambina, come lei gli aveva chiesto.
Aurora.
Aurora stava crescendo senza un padre. Cosa avrebbe detto quando sarebbe diventata più grandicella? Dov’era nelle notti in cui avrebbe dovuto stringerla fra le braccia rassicurandola che non c’erano mostri nel buio?
All’improvviso un’illuminazione: doveva parlarle. Doveva rivelare a Patrizia il vero motivo della sua assenza in quegli ultimi mesi. Avrebbe capito, lei era una persona intelligente.
Si alza dal letto troppo repentinamente, rischiando di inciampare, perciò attende che la stanza smetta di volteggiare. Poi si trascina in bagno per sciacquarsi il viso con acqua fresca, gelata più che altro. Tenta di abbottonarsi la camicia alla bell’e meglio, si infila le scarpe e intanto borbotta:
«Mi riprenderò la mia vita. Tutti hanno un momento di difficoltà nella vita, tutti possono sbandare. Per questo motivo un uomo deve essere messo alla gogna? Un brav’uomo non ha diritto a una seconda chance? Tutti ne abbiamo una…».
Lory non ne ha avuta un’altra.
La voce nella sua mente è spietata.
«No, ma se l’è cercata!».
Aveva solo 16 anni.
16.
«Aaahhh stai zitta! Zitta! Zitta! Zitta!»
Si da dei leggeri colpi alla testa, non è mica colpa sua se Lory è morto. Era malato da tempo, lui cosa poteva farci?
 
Lascia la camera in fretta e furia, scrivendo il suo numero di cellulare su un post-it alla reception, in modo che possa saldare il suo debito. Quindi esce all’aria aperta, nevica. Soffici e gelidi fiocchi incolore si posano ovunque. È notte fonda e il silenzio avvolge l’intero paesino di montagna, trasformandolo in qualcosa di mistico, vicino alla sacralità.
Mette in moto l’auto è accende il calorifero, riscaldandosi le dita intirizzite. Parte lentamente, la ruota posteriore di destra slitta un paio di volte, il manto è congelato, ma non può arrendersi. Ora che la soluzione gli si è mostrata in tutta la sua semplice essenza. Socchiude le palpebre e ripete a mente il suo piano: tornare dritto a casa da sua moglie; rivelarle che questo studente, quello che aveva preso tanto a cuore come diceva lei, era in realtà malato di HIV e temendo che avesse potuto contagiare lei o Aurora aveva preferito tenersi alla larga. Inoltre era in fin di vita, perciò aveva fatto di tutto per aiutarlo a laurearsi in tempi record. Infine le avrebbe promesso di fare le analisi, così per essere sicuri che non avesse niente.
Patrizia avrebbe capito, sicuramente commossa da quella triste storia e spinta dal suo buon cuore lo avrebbe abbracciato e Aurora gli sarebbe corsa incontro con le braccia spalancate.
Ne sei proprio sicuro?
 



fine
***

Questa storia partecipava al contest "Manuale di Sopravvivenza Vol. 1" indetto da Spettro94 sul forum di EFP il quale prevedeva di seguire la traccia del pacchetto; alla fine, a seconda di determinati fattori, il protagonista sarebbe potuto sopravvivere oppure no. Anche io l'avrei scoperto a contest concluso. Quella che segue è quindi l'ipotesi finale dettata dall'autore del contest stesso. Ho pensato di riportarla qui, per chiarire ciò che sarebbe accaduto al professore Stefano Bonanni: 
 

Segue un’ipotesi di finale:
 
Stefano, desideroso di tornare da Aurora e pieno di sensi di colpa, guida in un costante senso d’irrealtà peggiorato dall’effetto del vino. Il manto è ghiacciato, si fatica a mantenere il controllo della vettura ma lui non si da per vinto. Un’altra auto sfreccia all’improvviso dalla corsia opposta. Una sterzata brusca e tardiva fa ribaltare l’automobile. Il serbatoio si buca e il carburate scivola lungo la carrozzeria e dentro l’abitacolo. In un attimo è fuoco. Le fiamme avvampano e Stefano è troppo maldestro e nervoso per riuscire a liberarsi in tempo; il soccorritore, troppo anziano e debole per aiutarlo. Aurora è l’ultimo pensiero che lo sfiora, prima che il rosso dilaghi e lo consumi…
  
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