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Autore: _sweetnightmare_    06/01/2021    4 recensioni
In eterno, germanico.
In eterno, Irmin.
In eterno, per Thusnelda e Hlowig.
In eterno.
9 d.C.
La battaglia di Teutoburgo divenne letale per l'esercito romano che venne sterminato da varie tribù germaniche coalizzatesi contro il potere dell'Impero.
Storia partecipante al contest “Storie incrociate” indetto da mystery_koopa sul Forum di EFP.
Genere: Guerra, Malinconico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
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In Aeternum
 
 
Roma, 7 d.C
 

-“Per ordine di Tiberius Claudius Nero, Tiberius Iulius Caesar Augustus nominatus, imperium proconsulare maius  ductu, sarà affidato al potere del generale Publius Quintilius Varus , già governatore della Siria, la provincia della Gallia compresa tra i fiumi Reno ed Elba.”- 

Le trombe risuonarono mentre il praeco, in sella al cavallo addobbato con stoffe porpora bordate da passamaneria dorata, sfilava lungo le strette vie del Foro Boario, facendosi spazio tra la gente che, accalcata, sceglieva la merce migliore. I colonnati delimitavano la piazza, luogo d’incontro della popolazione, e le tettoie fungevano da protezione ai commercianti e alle bestie. Tutt’intorno vi era una lunga fila di bancarelle e tendoni che si nascondevano tra i colonnati, assieme ai bambini dopo aver rubato la mela più bella dal cesto del venditore più burbero e anziano. Quelle vie, delle quali non si vedeva più un solo ciottolo erano brulicanti di gente che, come nei cunicoli di un formicaio, si accalcavano e spingevano l’un l’altro, accompagnate da un vocio rumoroso e, talvolta, dai versi dei bovini legati saldamente con delle corde che venivano ceduti al miglior acquirente come cena all’ennesimo banchetto in onore di Bacco, assieme alle urla dei venditori. Arminio, nascosto da un pesante mantello e un cappuccio che gli copriva il viso scarno, osservava in silenzio la discussione tra un liberto e un ometto piccolo e sgraziato, un venditore di galline, che vantava a gran voce la qualità dei suoi animali e la loro estrema fertilità. I toni si facevano pian piano sempre più alti e forti, tanto che un gruppetto di curiosi si era avvicinato in cerca del nuovo pettegolezzo da raccontare lungo la strada verso casa. Un accenno di sorriso si impossessò delle labbra sottili e screpolate di Arminio: in cuor suo si chiedeva quando avrebbe potuto osservare nuovamente in silenzio quelle scene, migliori di uno spettacolo al Colosseo, e rivivere la quotidianità delle strade dell’Urbe che l’avevano visto crescere e correre. 

Come i due bambini che ridevano tenendosi per mano dietro di lui. 


 
Gallia Transalpina, territorio dei Cherusci, 9 d.C.
 

-“Ancora una sua visita!”- Arminio colpì il tavolo con tutta la forza che aveva, il pugno chiuso, le vene gonfie e spesse lungo il braccio. La barba incolta era illuminata dalla fioca luce della candela, mentre dall’esterno il ticchettio della pioggia sul selciato faceva da colonna sonora a quella serata colma di rabbia e incomprensione. Figlio del capo tribù dei Cherusci, era cresciuto sotto il dominio romano, tanto da far parte di una delle delegazioni come rappresentante della sua popolazione.

 
10 a.C.
 
-“Quando lo vedrà mio padre, mi ucciderà!”- Irmin correva per i boschi, stringendo una quaglia tra le mani. Il sangue scorreva sulle sue manine e colorava di rosso la neve bianca che registrava le impronte delle scarpette di cuoio del bambino, assieme a quelle più piccole di Thusnelda e di Hlodwig. Nessuno avrebbe mai potuto separare i tre uniti da un’amicizia che col tempo era sconfinata in un sentimento di fratellanza reciproca e, anche se Hlodwig era solo il figlio di un allevatore, la sua presenza era fondamentale per il trio.
Thusnelda deteneva il primato per ottenere il perdono da parte dei rispettivi padri con i suoi occhioni enormi e una spruzzata di lentiggini sul naso.
Hlowig procurava il necessario per le loro avventure e Irmin organizzava il piano per non farsi beccare.
Davanti alla sua tenda, due centurioni romani fecero segno ai due bambini di allontanarsi, mentre un terzo si avvicinò al figlio del principe Segimero, gli strappò la quaglia dalle mani e lo spinse all’interno. Il volto di suo padre era invaso da un’espressione corrucciata e rassegnata, mentre sua madre si copriva gli occhi gonfi e rossi, segno di un lungo pianto dirotto, e le guance rosee segnate dai solchi lasciati dalle lacrime.
-“Figliolo.”- Il capo dei Cherusci si avvicinò a suo figlio ponendogli una mano sulla spalla, quasi per cercare in quel gesto tutta quella forza che avrebbe dovuto trasmettere al bambino, ma che in quel momento era assente anche in sé stesso. Irmin rimase in silenzio ad osservare la scena, una situazione inaspettata, ma che in fondo aveva già capito. –“Figliolo.”- ripeté Segimero, mentre un centurione stringeva la mano al piccolo, portandolo via. Un urlo di donna invase la tenda, seguito da strani rumori e voci che cercavano di calmarla, unite a quelle del principe che cercava di convincerla che tutto sarebbe andato nel migliore dei modi e che grazie a questo sacrificio Irmin avrebbe garantito ancora la pace tra Roma e i Cherusci.
Thusnelda e Hlodwig si tenevano per mano, inconsci di ciò che stava succedendo. Appena videro aprirsi la tenda corsero verso l’amico, ma una spada li bloccò prima che potessero avvicinarsi. I cavalli, incitati al galoppo, affondarono gli zoccoli nella neve mentre Irmin, voltato indietro, guardava ciò che si lasciava alle spalle.
 

Sin da bambino aveva avuto modo di frequentare l’ambiente latino: come succedeva ai figli ancora piccoli dei capi delle colonie, era stato portato nell’Urbe per una maggiore scolarizzazione affinché potesse apprezzare la città tanto da non entrare, in futuro, in conflitto con essa.
Arminio, però, aveva deciso di prendere un’altra strada: fingere, per tornare a casa e riabbracciare suo padre.

Fingere, per riprendersi ciò che gli spettava di diritto.

Fingere, per rivedere i suoi fratelli e camminare accanto a loro, sempre un passo indietro per proteggergli le spalle.

Il piano era cominciato quando era ancora fanciullo. Ragazzino vivace e intelligente, aveva rapito da subito l’attenzione dei professori, che vedevano in lui un grande oratore. Spinto dall’Imperatore aveva però abbandonato l’idea che un giorno potesse insegnare la filosofia e la scienza a quei figli dei capi che come lui erano stati strappati ai loro padri da bambini, scalando la vetta del cursus honorum e permettendosi così di riuscire nei suoi intenti.
 Anche a costo di fingere una stretta alleanza con i Romani.
Era cominciata così una sfida con sé stesso e, segretamente, contro tutti coloro che lo avevano strappato dalla sua famiglia a otto anni. Fattosi valere sul campo e ottenuto la cittadinanza romana, Arminio decise di tornare nel suo villaggio, tenendo fede così a quella promessa che anni prima aveva giurato agli dei.
 

8 d.C
 

La strada era diversa. Più comoda, più veloce. Ma il cuore era lo stesso di quando era un bambino: batteva forte e riusciva a sentirlo nonostante il rumore degli zoccoli del cavallo sulle pietre. Appena arrivato di fronte alla tenda da cui era stato strappato, lacrime di commozione e paura gli invasero il volto, scivolandogli lungo le guance e sui vestiti. Rimase fermo per qualche istante, pervaso dai ricordi di quel pomeriggio d’inverno in cui era stato costretto da sconosciuti a lasciare la sua famiglia e i suoi amici senza una parola. Strinse le briglie del cavallo in due pugni, indeciso sul da farsi: una parte di sé fremeva dalla voglia di correre in quella che era stata la sua casa per troppo poco tempo e riabbracciare suo padre e sua madre, Flavus e i suoi amici. Dall’altra, un brivido di paura lo scosse: se non si fossero più ricordati di lui? Se l’avessero percepito come uno straniero, un nemico alleato dei nemici che voleva invadere e imporre il dominio romano? Hlowig cosa avrebbe pensato? E Thusnelda, si era sposata prima del suo ritorno?
Mentre si domandava tutto questo, sentì in lontananza una risata che conosceva troppo bene, seguita da dei passi che si avvicinavano e una cascata di riccioli biondi che ciondolavano lungo le spalle e incorniciavano il volto piccolo e lentigginoso. Un altro brivido percorse la sua schiena, ma questa volta la paura fece spazio alla felicità e a una strana voglia di stringere quella figura indistinta che diventava sempre più nitida e non lasciarla più.
Quello che sembrava un sogno divenne realtà, quando la ragazza gli buttò le braccia al collo. I suoi capelli gli portarono alla mente tutto ciò che non aveva mai dimenticato, persino il suo odore di latte e fiori era rimasto ben impresso nella sua memoria.
-“Irmin! Irmin!”- Il suo nome sembrava una dolce canzone affidata alle note del vento, se pronunciato da lei. Arminio la strinse forte a sé, il corpicino ancora esile ed efebico che non era mai cambiato, insieme al suo sorriso, al suo sguardo e alla sua semplicità.
-“Sono Arminio adesso”- esclamò, cercando invano di trattenere le lacrime.
-“Per me sarai sempre Irmin, il ‘fratello maggiore’ che ci tirava fuori dai guai.”- Thusnelda si staccò lentamente dal suo abbraccio, sfiorandogli le braccia coperte dall’armatura con le dita sottili e lunghe. –“Non sai per quanti anni ho pregato gli dei affinché tu tornassi.”- continuò, prendendogli la mano e incamminandosi verso la tenda vuota. ‘Anche il colore è lo stesso’, pensò tra sé Arminio, sperando che ci fosse qualcuno ad aspettarlo. Ricordava ancora l’interno, l’odore, le pelli che sua madre teneva accanto al fuoco in attesa di conciarle. Ogni piccolo particolare era accompagnato da un affetto che niente e nessuno era mai riuscito a estirpargli.
-“Li ho pregati anche io. A quanto pare, ci hanno ascoltati.”- Aprì leggermente la tenda da un lato, facendo entrare prima Thusnelda. Sentì come le sue gambe paralizzarsi: nulla lì dentro era cambiato. Sorrise, guardando il piccolo giaciglio accanto al fuoco che ogni sera si contendeva con Flavus: era ancora nello stesso posto. Chissà se suo fratello ci avesse più dormito. Thusnelda si voltò, in cerca del suo sguardo. Mosse la testa in avanti, invitandolo a tornare nella sua casa.
-“Hlowig?”- chiese Arminio, guardandosi ancora intorno come se fosse finito nei Campi Elisi.
-“Si è sposato. E ha un bambino.”- La ragazza scoppiò in una allegra risata, facendo cadere i boccoli biondi lungo le tempie e la fronte. –“E una capretta!”-
-“E tu?”-
-“Mio padre vuole darmi in sposa a un principe, non è della nostra tribù.”- annunciò rassegnata, alzando le spalle e accennando un mezzo sorriso dispiaciuto. –“Ma non mi piace, è arrogante e pretende che io sia completamente diversa da come sono stata educata”.- aggiunse, ricordando il loro primo incontro. Si era presentato alla sua tenda con fare spavaldo, pieno di ricchi doni per suo padre e uno sguardo indagatore che la studiava da capo a piedi, come se si trattasse di una bestia da macello da comprare. Capelli troppo lunghi, fianchi stretti, seno piccolo…e una lista di altre sue caratteristiche che il principe disprezzava a voce alta senza alcun riguardo. –“Ha un naso enorme! Ma non dirlo a nessuno, mi raccomando!”- sussurrò sottovoce, tenendo un dito sulle labbra e un sorriso più spontaneo. Ancora rabbrividiva al pensiero della vista di quell’uomo e, in cuor suo, aveva cominciato a programmare la sua fuga verso la libertà.
-“Ti sposo io!”- Thusnelda si voltò incredula. Arminio non aveva mai avuto uno spirito umoristico, eppure quella aveva tutto l’aspetto di una battuta spiritosa e priva di senso. ‘I romani non avranno cercato di cambiarlo così tanto’, pensò tra sé la ragazza.
-“Dai, Irmin. Non dire assurdità.”-  Spostò una ciocca dietro l’orecchio, facendo dondolare il pendente dorato ben annodato tra i capelli raccolti in una treccia al lato della testa. Abbassò lo sguardo e sorrise dolcemente a causa di quell’assurda e bizzarra ma alquanto autentica proposta. Non riusciva ad ammetterlo, ma per qualche strano motivo il volto di Irmin l’aveva accompagnata ogni giorno a partire da quel giorno in cui era stato allontanato da lei.
-“No, sul serio.”- Arminio scosse la testa, lo sguardo sicuro e dritto verso il suo. Le afferrò una mano e la strinse piano nella sua, massaggiandole il dorso con il pollice. –“Ti rapisco e ti sposo. Vuoi essere mia moglie?”-
Thusnelda si avvicinò ancor di più e si strinse a lui, affondando il volto nella sua spalla.
 Il principe dei Cherusci era tornato.
E anche il salvatore della sua vita.

 

 
Siete voi i responsabili di questa guerra, poiché in difesa delle vostre greggi inviate come custodi dei lupi anziché dei cani e dei pastori.’ Nella testa di Arminio le parole di Batone il Dalmata si facevano sempre vivide e chiare. Era vissuto abbastanza tempo a Roma per poter comprendere le caratteristiche e le strategie peculiari dei loro colonizzatori: farsi amici i nemici con tattiche ben mirate e poi, dopo aver ottenuto e rinnovato le alleanze, distruggerli agendo nell’ombra e nascondendosi come ratti. Senza alcun timore avrebbe rinnegato l’amicizia che lo legava a Varo, che si era imposto ai Germani in modo troppo violento, sanguinoso, cercando di sedare con le armi gli animi di chi preferiva i precedenti ordinamenti al dominio di un popolo straniero. Era già accaduto che prime avvisaglie di malessere generale erano emerse dalle piccole rivolte a causa dell’eccessiva tassazione unita ad una cattiva amministrazione provinciale. Varo aveva ignorato il rancore nutrito e alimentato dai suoi modi rudi, più da generale che da oratore.
Il piano era già pronto: aveva messo a tacere con successo le voci che avevano avvisato Varo del  possibile tradimento del suo pupillo a partire da quelle di Segeste, padre di Thusnelda, che insisteva affinché i congiurati venissero incatenati. Ora, urgeva mettere a conoscenza il suo uomo più fidato di una falsa rivolta nei pressi del massiccio calcareo di Kalkriese, nel territorio dei Bructeri, affinché potesse giungere da Varo e avvisarlo. Lì avrebbe avuto inizio l’imboscata da parte dei Germani.
 

La pioggia continuava a cadere lenta, dettando ritmi musicali assieme al vento.
La fiamma aveva ormai raggiunto il fondo della candela unta dal grasso di maiale, lasciando spazio al buio della notte. 
 Il momento propizio era arrivato.
 
 

La battaglia – GIORNO 1
 
-“Sei così sicuro che il piano funzioni?”- Hlowig si voltò verso Arminio, che procedeva svelto nella foresta tenendo sempre un passo avanti rispetto agli altri.  Da quando erano bambini, Irmin si era distinto per essere un abile stratega e, riuscendo sempre nei suoi intenti, aveva conquistato la fiducia dei suoi amici. Per Hlowig era impossibile che potesse fallire, ma quella sicurezza alimentata per anni stava pian piano facendo strada a un’incertezza e ad una nuova paura che qualcosa potesse andar storto.
Non si trattava più di nascondere ai propri padri le avventure per i boschi, o le notti passate a osservare le stelle. Davanti a loro, adesso, si profilava un nemico più grande, un Impero che da soli non sarebbero mai riusciti ad abbattere.
-“Certamente. Quell’imbecille di Varo non sospetta nulla e, anzi, si è introdotto con il suo esercito in questa foresta inesplorata senza un piano, né una precauzione.”- Arminio si arrestò improvvisamente, puntando con troppa foga un pugnale verso il cielo. –“Gli dei mi sono testimoni.”- sorrise poi, con uno strano guizzo negli occhi. Il terreno sconnesso e le piogge erano i principali impedimenti che il generale con le sue legioni avrebbero dovuto affrontare, dando così vantaggio ai Germani che conoscevano troppo bene quelle terre inesplorate e dimenticate dal mondo. Hlowig alzò le spalle e sussurrò qualcosa di molto simile a una supplica rivolta agli dei, mentre seguiva Irmin, fiero e impettito nella sua armatura. –“Tra poco saremo alla palude più vicina a Kalkriese, paesaggio ristretto e ostile. Ti ricordi, vero?”- Hlowig annuì.
 
 

-“Vieni qui, Irmin!”- Thusnelda si lanciò lungo la lastra di ghiaccio del lago, facendo scivolare i piedi coperti dagli stivaletti di cuoio. Dietro di lei, Arminio giocava con il cordone che teneva stretta la pelliccia sulle spalle, mentre Hlowig correva tra gli alberi spensierato. L’abbondante nevicata durante la notte aveva fatto diventare quel luogo più magico di quanto non lo fosse e, immerso in una coltre bianca, sembrava far parte di un mondo divino. Improvvisamente una palla ghiacciata colpì la testa di Irmin, frantumandosi su di essa e rilasciando piccole palline di neve sui riccioli castani. La risata di Hlowig risuonò in tutta la foresta, seguita da quella più dolce e angelica di Thusnelda che, nel frattempo, si era seduta sul lago ghiacciato a godersi la scena. I due presero a rincorrersi e a lanciarsi la neve, spargendola ovunque: sui capelli, sul viso, persino sui vestiti coperti dalle pellicce. Se solo Irmin avesse saputo che quella sarebbe stata l’ultima loro lotta, prima di essere portato a Roma, avrebbe riso di più, scherzato di più. Forse, avrebbe persino lasciato vivere la quaglia.
 

 
I Germani si nascondevano dietro la vegetazione, negli spazi stretti e angusti invasi dalla natura. Sotto il comando di Arminio era stato costruito un terrapieno dietro cui nascondere circa ventimila uomini armati, facenti parte delle sue truppe, in modo da poter sorprendere sul fianco sinistro i romani ignari. Per la prima volta, tribù vicine si erano unite contro un nemico comune e avrebbero combattuto fianco a fianco, dopo aver giurato fedeltà a un uomo che si era prestato ai servizi del nemico traendone vantaggio, ma che non aveva mai deciso di tradire il suo popolo.
I bisbigli dei soldati si confondevano con i sussurri del vento tra le foglie. La pioggia aveva smesso di cadere, ma un odore di umido misto a fogliame ormai marcio e bagnato si era impossessato dell’atmosfera circostante. Arminio guardò la scena poco distante, ben nascosto al fianco di Hlowig, dietro un albero. Quella terra sarebbe stata bagnata dal sangue di molti, di li a poco: soldati romani, germani, forse qualche innocente che si era imbattuto malauguratamente nel sentiero in quel momento così poco propizio. I due si scambiarono un’occhiata, prima che Arminio facesse cenno all’amico di dare l’inizio a quella battaglia sciagurata.  
 –“Stavolta sono io a guardarti le spalle”. – bisbigliò Hlowig, alzando il braccio verso colui che avrebbe dovuto lanciare il primo giavellotto. L’uomo coperto dall’armatura annuì, prima di prendere la mira, seguito dagli altri. -“Sei un uomo, ormai.”- disse Arminio, mentre si faceva spazio tra la fitta vegetazione.
 
Una serie di giavellotti, frecce e aste venne lanciata verso i Romani che, ignari, preparavano il campo per la notte. Nella foresta si scatenò il disordine: molti, non armati né protetti a dovere caddero trafitti al petto, mentre altri cercavano rifugio in attesa di potersi difendere al meglio. L’attesa si fece estenuante e, visto che le legioni temporeggiavano la risposta all’attacco, gli uomini di Arminio uscirono dai loro nascondigli e si gettarono verso il campo, assalendoli e dando inizio a una vera e propria strage. Il sangue colorava di rosso la terra, mentre i corpi si ammassavano l’un l’altro, il petto verso il cielo, il segno di un’offerta agli dei mai promessa ma ricevuta.
Arminio seguì i commilitoni e, con Hlowig poco più avanti, diede il colpo di grazia a quei pochi che cercavano di mettersi in salvo salendo sui carri semidistrutti. La battaglia continuò fino all’imbrunire, quando il campo brulicava di morti Romani, trafitti e spogliati delle loro armi e armature dai Germani.
Con il volere di Mani, che aveva condotto il carro con la Luna in cielo, l’offerta poteva dirsi soddisfacente.
 
 

La battaglia – GIORNO 2
 
Mani era andato via e aveva lasciato il posto a sua sorella Sol, che guidava il carro solare. Per lungo tempo Arminio aveva abbandonato il culto dei due fratelli, avvicinandosi a quello romano della dea Luna e del dio Apollo. Gli era stato spiegato che la dea era il complemento femminile di Sole e che, proprio come Sol e Mani, portavano gli astri su un carro. Inoltre, a lei era dedicato il primo giorno della settimana, mentre al dio l’ultimo, a compimento di un ciclo che durava sette giorni.
Non aveva però dimenticato, in quegli anni, le offerte che la sua famiglia faceva agli dei e il ringraziamento che sua madre, ogni sera prima di addormentarsi e ogni mattina al risveglio, gli faceva recitare.
La luce illuminava di un chiarore pallido il campo. La brina copriva le foglie rendendole lucide e ottimo pasto per gli insetti e i piccoli animali che vi si avvicinavano in cerca di ristoro, mentre nella valle Varo cercava di rimettere in sesto l’esercito dimezzato da quello che, fino a poco tempo prima, aveva difeso rinnegando gli avvisi dei comandanti e di Segeste, accusandoli di voler creare un clima di tensione e di aver calunniato un popolo alleato.
Una nuvola di fumo nero si alzò dal campo verso le fronde degli alberi: Varo aveva dato disposizione ai suoi soldati di bruciare i pochi carri che erano rimasti con la maggior parte dei bagagli per non lasciarli al nemico e, così, avvantaggiarli ulteriormente. Dopodiché sarebbero andati via per recuperare un vantaggio, seppur minimo, in previsione di un nuovo attacco. Varo era convinto che i Germani non si sarebbero fermati al giorno prima e che, anzi, avrebbero continuato fino alla morte dell’ultimo soldato sul campo.  Pertanto, valeva tentare la sorte e avvicinarsi il più possibile all’accampamento di Castra Vetera sul Reno dove, con il volere degli dei, Asprenate avrebbe potuto proteggere i pochi superstiti e salvarli.
 
Arminio osservò la nuvola di fumo alzarsi e disperdersi in lontananza. Da quanto poteva immaginare, i Romani stavano tentando la fuga e un possibile salvataggio. Bisognava sorprenderli e, possibilmente, anticiparli. Afferrò il braccio di Hlowig, addormentato in un giaciglio di pelle e sterpaglie, e lo scosse leggermente. L’uomo aprì gli occhi e osservò i soldati addormentati, nascosti tra le fronde, abbracciati agli archi e ai giavellotti. In compenso lui stringeva ancora il pugnale d’argento intagliato con le iniziali di Segimero che Arminio gli aveva consegnato prima di dormire come arma di difesa, qualora ci fosse stato il pericolo di un possibile contrattacco dei romani durante la notte.  
Il condottiero rimase impassibile ad osservare Hlowig, che lo guardava dubbioso. –“Vedi quello?”- Allungò il braccio e indicò con l’indice il fumo nero in lontananza. L’uomo accanto a lui annuì, per poi rivolgersi nuovamente ad Arminio, ancora perplesso, più da ciò che aveva appena visto che sul da farsi.
-“I Romani ci stanno tendendo un’imboscata. Noi dobbiamo essere più furbi, loro stanno cercando di salvarsi. Ho bisogno che tu raggruppi parte del nostro esercito e, insieme, vi avvicinerete all’accampamento di Castra Vetera. Lì sarà ad attendervi parte delle legioni contro cui abbiamo combattuto, molto probabilmente anche Varo. Non preoccuparti, io e la parte mancante dell’esercito vi raggiungeremo.”-  
Hlowig annuì ancora, senza fare domande. Si fidava di Irmin e sapeva che non lo avrebbe mai messo in pericolo. Agli occhi dell’esercito sembrava una missione suicida: andare verso la gabbia dei leoni e cercare di farsi ammazzare ad ogni costo. A quelli di Arminio e di Hlowig, invece, appariva la soluzione migliore. Il numero dei legionari era nettamente inferiore e, inoltre, parte delle armi erano state sequestrate il giorno prima, razziando carri e corpi a terra senza vita. Li avrebbero avuti lì, spogli di tutto, e avrebbero finito il massacro già iniziato.
E Varo non avrebbe più avuto via di scampo, se non quella di darsi ai Germani pur di aver salva la vita.
 
 

La battaglia – GIORNO 3
 

 
Per il secondo giorno consecutivo i Germani avevano avuto la meglio. I Romani avevano serrato i ranghi in uno spazio assai stretto, in modo tale che sia i cavalieri sia i fanti attaccassero i nemici con uno schieramento compatto. L’esercito procedeva in zone boscose, ancora lontane dal campo conosciuto, alla ricerca di uno spazio aperto e abbastanza grande da poter avere un certo vantaggio organizzandosi al meglio.
Arminio conosceva già le tattiche utilizzate dai Romani in guerra, i loro schieramenti e aveva calcolato la possibilità di non riuscita dell’esercito nemico. L’unica soluzione era coglierli alla sprovvista nella foresta, ancora una volta.
Metà dei commilitoni aveva seguito Hlowig, armati e protetti da testa a piedi. Poco dietro di loro, l’altra parte dell’esercito di Arminio lanciava giavellotti contro gli alberi colpendo qualche soldato che, nascosto, cercava rifugio.
Sia il campo, sia la foresta avevano visto una nuova strage di legionari. Una volta arrivati all’accampamento di Castra Vetera, Asprenate era corso fuori dalla sua tenda scortato da due soldati e, radunate alla ben meglio le truppe, aveva cercato di sedare sul nascere ogni possibile invasione della Gallia. I feriti in battaglia non vennero risparmiati, ma fu nella foresta che i Romani ebbero la peggio, con l’arrivo del restante esercito di Arminio.
Era arrivato il momento decisivo: affrontare Varo e vincere contro l’Impero, oppure perire sotto la sua mano.
Le legioni, nel frattempo, erano dimezzate e distrutte. Senza viveri e con poche armi, in un ambiente ostile e sconosciuto, erano stati divisi e organizzati al meglio delle possibilità dal comandante e da Asprenate, ma le opportunità di vittoria erano ormai giunte al minimo. Inoltre, il vento e la pioggia non erano favorevoli e così, mentre i Germani si preparavano a combattere l’ultima decisiva battaglia, i Romani pregavano gli dei affinché almeno Eolo fosse dalla loro parte.
L’eco della battaglia e della vittoria della Gallia risuonò nella foresta, tanto che le popolazioni vicine in quell’ultimo giorno inviarono rinforzi, infoltendo il loro numero già cospicuo.
Mentre i Romani, presi dal panico una volta appresa e provata sulla propria pelle la notizia, si davano alla fuga e al suicidio, Hlowig si diresse verso la tenda alla ricerca di Varo che, protetto da una schiera di legionari, radunava le poche scorte rimaste per tornare a Roma.
-“Per la Gallia e per Arminio, in eterno. Gli dei mi sono testimoni”.- Brandì il pugnale di famiglia che l’amico gli aveva donato e, senza dire una parola e con lo sguardo fisso verso il suo obbiettivo, trafisse oltre l’armatura i due legionari che si occupavano della sicurezza del comandante all’interno della tenda.
I corpi caddero esanimi, ricoprendo di sangue il terreno umido, mentre la pioggia bagnava le loro ferite. I rumori e le ombre che provenivano dall’esterno proiettate sulle stoffe della tenda costrinsero fuori Varo, che si guardò intorno attonito e ignaro del motivo per il quale uno straniero cercasse proprio lui, mentre nel campo aveva a disposizione ancora degli uomini da sacrificare.
Hlowig lo fissò. La sicurezza che in quel momento si era impossessata del suo corpo lo aiutava a tenere ben saldo il pugnale colorato di rosso del sangue dei soldati, con la lama puntata verso di lui.
-“Per la Gallia e per Arminio, in eterno.”- pronunciò ancora.
Il momento propizio era arrivato.
Varo, disarmato, corse nuovamente all’interno della tenda. Afferrò in fretta la spada con l’elsa placcata d’argento e pietre legata a uno dei pali che tenevano su le stoffe mosse dal vento, mentre Hlowig lo aveva raggiunto.
Senza dire una parola mosse il braccio in avanti, la spada tenuta ben salda e premuta contro il petto di Hlowig. Lo spinse fuori dalla tenda, ricambiando lo sguardo fisso del nemico.

Occhi verdi contro occhi scuri.
Il potere contro il potere.
L’amore per la patria e la libertà contro la fedeltà verso gli stessi ideali.
La forza per la difesa verso i propri alleati soppressi e caduti in battaglia.
 

Varo affondò la lama contro il petto di Hlowig. Il sangue colorò la spada e la tunica dell’uomo e, mentre il vento si alzava sfiorando e muovendogli dolcemente i lunghi capelli, cadde a terra con gli occhi spalancati, fissi verso il suo aguzzino.
-“Per la Gallia e per Irmin, in eterno.”- sussurrò ancora una volta, prima che il suo sguardo si spegnesse del tutto e i suoi occhi si girassero. Il naturale colorito delle labbra e del viso fece spazio a un grigiastro spento che pervase subito tutto il resto del corpo.
Un tuono risuonò nel campo, coprendo per un attimo il suono metallico delle lance e delle spade.
L’anima di Hlowig era stata portata via da Hel.
 
 

Varo si allontanò da quell’uomo che lui stesso aveva ucciso, verso la foresta. Il vento non dava tregua, alzando delle folate che portavano via foglie, terra e polvere. Le fronde degli alberi venivano sbattuti avanti e indietro, mentre la pioggia non cessava a smettere e, anzi, sembrava aumentare ad ogni suo passo. Isolato dai rumori del campo e accompagnato solo da quelli della natura che aveva deciso di ribellarsi, puntò in alto la spada ancora bagnata del sangue di Hlowig e alzò gli occhi al cielo cupo e coperto da nuvole grigie. La pioggia gli bagnava il volto, infradiciandogli i capelli, i vestiti, persino l’interno delle calzature in cuoio e lana.
Un urlo si diffuse in tutta la foresta, diventando eco una volta incontrata la potenza di Eolo.
La lama aveva penetrato il corpo di Varo oltre l’armatura, nello stesso punto in cui era affondata in quella di Hlowig. L’uomo cadde a terra e, nei pochi secondi che gli restavano prima di raggiungere l’Ade, pronunciò lo stesso giuramento del cherusco.
-“Per Roma e Tiberio, in eterno”.-
 

 
Qualche ora dopo, il campo era stato sterminato e razziato. La pioggia aveva lasciato il posto ad un timido Sole che illuminava i corpi straziati, bagnati e trucidati, permettendo ai Germani, carichi di armi ma stanchi più nell’animo che nel corpo, di montare i pochi cavalli rimasti per tornare al villaggio.
Alcuni corpi erano stati trascinati e raggruppati in piccoli carri come offerta agli dei. Altri, invece, erano stati bruciati sul posto. Molti Romani avevano scelto la via più facile e, prima di essere raggiunti dalle lame dei Germani, avevano offerto la loro vita morendo da codardi.
Varo stesso aveva deciso di non subire l’umiliazione del fallimento dell’Impero che rappresentava se fosse stato catturato e portato al villaggio come prigioniero e si era suicidato.
Arminio aveva congedato i suoi compagni e, con il corpo di Hlowig in sella, si era allontanato nella foresta. Il campo era coperto da ossa ammucchiate e disperse, mentre sui tronchi degli alberi erano conficcati teschi umani. Nei vicini boschi sacri si vedevano altari su cui i Germani avevano sacrificato i tribuni ed i principali centurioni.
Lontano da quello scempio organizzato da lui e dal suo migliore amico e fratello in battaglia, Irmin poteva finalmente ritrovare sé stesso e donare la giusta pace al corpo di Hlowig.
Il lago era ghiacciato, ma non così bello come quando erano bambini. Sulla spessa lastra che aveva coperto l’acqua, il vento e la pioggia avevano sparso qua e là fogliame e terra, dando al ghiaccio un colore più scuro e un aspetto sporco e abbandonato.  Legò il cavallo ad un albero e prese in braccio il corpo senza vita di Hlowig. Lo trascinò fino ai bordi del lago dove spesso avevano giocato con la neve e, dopo averlo stretto un’ultima volta a sé, lo depose su un piccolo cumulo di foglie e rametti che si erano spezzati dagli alberi a causa della tempesta dei giorni precedenti. Osservò ancora una volta i suoi occhi prima di chiudergli le palpebre per sempre e gli pose il pugnale con il quale aveva tentato di uccidere Varo sul cuore, secondo la tradizione.
-“In eterno.”- pronunciò, mentre le lacrime gli rigavano copiose il viso ed estraeva una penna dal sacchetto di stoffa che teneva legato alla cintola. La appoggiò sul suo petto, accanto al pugnale. L’aveva conservata fino a quel giorno a partire dal pomeriggio in cui un centurione gli aveva strappato la quaglia dalle mani, come unico ricordo della loro amicizia.
 

Il fuoco ardeva alto e avvolgeva il corpo di Hlowig, mentre Irmin correva veloce sul suo cavallo verso il villaggio. Non c’era più tempo per piangere l’amico. Era sicuro che gli dei avrebbero avuto compassione di lui: Hel si era impossessata della sua anima, portandola via dal corpo. Odino, invece, gli aveva sicuramente riservato un posto in un luogo felice, tenendo conto della fedeltà e della bontà di un uomo che si era sacrificato in nome di quell’amicizia mai tradita e sempre rispettata.
Si voltò indietro ancora un’ultima volta scacciando con la mano una lacrima, prima di sparire tra gli alberi.
 
 
In eterno, germanico.
In eterno, Irmin.
In eterno, per Thusnelda e Hlowig.
In eterno.
 

 
NDA: Tutto ciò che ho narrato è frutto dei miei cinque anni di liceo classico e di una laurea in archeologia, uniti all'interesse per una cultura così lontana dall'attuale, eppure estremamente dipendente. Ovviamente alcune vicende (come l'amicizia di Irmin e Hlowig, personaggio fittizio) sono state totalmente inventate o rese più dolci da ciò che erano davvero. Le parti in corsivo sono i ricordi di Arminio ambientati quando lui era un bambino e durante il suo ritorno in Gallia. Di seguito tutti i particolari e le fonti da cui ho preso spunto per scrivere questa One Shot.

-Il vero nome di Arminio era Irmin (o Ari), poi romanizzato in quello che tutti conosciamo. -Thusnelda è stata davvero la moglie di Arminio e, secondo le cronache dell'epoca, era stata promessa in sposa a un principe di una tribù vicina. Arminio, però, la rapì facendola diventare sua moglie. I due ebbero un figlio, ma nel 15 d.C la donna e il bambino furono portati a Roma come prigionieri da parte delle truppe di Germanico. 
- Secondo il sistema familiare/giudiziario celtico, la donna aveva il diritto dis cegliersi il marito e non poteva essere presa in sposa senza il suo consenso. Inoltre, secondo il ''lanamnas foxail'' (unione matrimoniale), la donna poteva lasciarsi rapire dal futuro marito. -Flavus era davvero il fratello minore di Arminio, ma a differenza sua militò fedelmente per l'esercito romano fino alla sua morte. 
-Era consuetudine nell'Antica Roma, che i figli dei principi delle province venissero portati nell'Urbe per una maggiore scolarizzazione e una maggiore conoscenza della cultura romana, affinché potessero prestare la loro fiducia anche da adulti. Con Arminio, nonostante la formazione romana, questo non accadde.
-Secondo le cronache Varo era davvero legato ad Arminio, tanto che ci si chiede quanto questa amicizia fosse alimentata dal puro affetto paterno, considerata anche la differenza d'età tra di due di quasi trent'anni. 
-Arminio andò in difesa del suo popolo poichè Varo, non a conoscenza della cultura germanica, aveva imposto il suo potere come un colonizzatore, piuttosto che un generale della provincia. 
-Una volta arresi alla sconfitta, la maggior parte dei romani si suicidò davvero sul campo, compreso varo, pur di non cadere nelle mani dei germani come prigionieri. 
-Le divinità germaniche citate e i loro ruoli non sono inventati da me, ma appartenevano davvero alla cultura delle popolazioni galliche. Cremare il corpo e non piangere troppo per la morte facevano parte della tradizione. 

Svetonio, Tacito e Dione Cassio sono gli autori da cui ho preso le informazioni sulla battaglia di Teutoburgo. 
   
 
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