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Autore: Martin Eden    08/01/2021    1 recensioni
Ciao a tutti! Dopo anni di latitanza, mi è venuta voglia di tornare su questo Fandom, che ho tanto amato...e lo faccio con una vecchia storia LOTR che ho ripreso in mano ultimamente, dopo aver rivisto i film della trilogia de Lo Hobbit...mi è venuta voglia!
Scommetto che molti di voi, come me si sono posti questa domanda: ma Legolas e Aragorn dove si saranno conosciuti?! :D
Questa fanfiction cercherà di dare una risposta...allora voi leggete e commentate! :)
Genere: Avventura, Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aragorn, Legolas, Thranduil
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Compagni di Sventura'
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Aragorn

 

La bruma scura di quelle terre mi salutò con un alito di vento che trasportava con sé l’odore di una giornata nuova. Quelle erano praterie ostili a qualsiasi creatura avesse il coraggio di metterci piede, ma dell’aria potevi sempre fidarti: portava novità e ti ricordava che ancora per un giorno eri stato capace di rimanere vivo per riempirtene i polmoni.

Avevo marciato per diverse lune. Un controllo come tanti ne facevo, solo reso urgente dal fatto che c’erano stati recenti e alquanto sospetti rivoltamenti al Sud del mondo. Avevo udito parlare di una certa battaglia, dove squadroni di Elfi, uomini e Nani si erano scontrati con le forze del Male, e ne erano usciti vincitori. Il drago Smaug era finalmente morto, e una parte di Terra-di-Mezzo pareva aver ritrovato la quiete dopo la tempesta.

Non avevo avuto il tempo di scoprire più dettagli. Il mio pensiero era subito corso al Nord, dove Fornost, capitale del vecchio regno di Angmar, dormiva da tempo sonni troppo leggeri.

Io e gli altri Raminghi avevamo notato strani movimenti molti mesi prima delle ultime notizie. La terra aveva preso a brulicare improvvisamente di orchi, spuntati da chissà dove, raccolti in schiere che attraversavano il territorio in lungo e in largo. Apparentemente senza un capo, senza uno scopo e senza una direzione precisa, macinavano leghe e distruggevano tutto ciò che incontravano nelle brughiere, forse nell’attesa di ricevere un segno.

Il non sapere di quale segno si trattava, e soprattutto da parte di chi, mi aveva ottenebrato il cuore di un’inquietudine difficile da domare.

Eravamo pochi guardiani sparsi lungo i confini del Nord con il Beleriand: impossibile anche solo cercare di pianificare un’offensiva valida contro quegli esseri. Avevamo bisogno dell’aiuto di altri Uomini, ma le missive e i rinforzi arrivavano con ritardo e nelle proporzioni dovute a ogni piccolo avamposto che si rispetti. A volte venivano inviati giovani imberbi e ancora lontani dal pensiero delle armi, e molto tempo era perso a spiegare che cosa ci si aspettava da loro e a insegnarglielo.

Tuttavia, l’organizzazione dei miei guerrieri procedeva spedita come mi aspettavo. In fondo, eravamo ancora in attesa di ulteriori chiarificazioni in merito a quella marmaglia che si spostava a macchia d’olio sul continente.

Da un paio di giorni ne tenevo d’occhio una. Erano poche decine di orchetti, armati con lame di fortuna – come avevano fatto a forgiarle in così poco tempo? Con quali strumenti? Sotto la guida di chi? Non erano certo bestie note per il loro brillante intelletto. Li seguivo di soppiatto dalle colline e più li osservavo, più mi convincevo che doveva esserci un piano più articolato, dietro tutto questo. Ma non conoscevo ancora il volto di chi tramava alle nostre spalle.

Chiunque avesse invocato le progenie di Melkor doveva essere molto potente. Conoscevo la storia elfica. Lo Stregone di Angmar era stato imprigionato dalla forte magia dei Valar secoli or sono, fatto sparire nel profondo della terra, avvolto in catene invincibili. Solo una magia altrettanto potente avrebbe potuto permettergli di tornare a galla, anche solo in parte.

Tutto ciò non era di mio gusto. Avvertivo nell’animo un certo subbuglio e non sapevo come proteggermi senza mostrarmi debole. Avevo a che fare con qualcosa di molto più grande di me, di tutti noi Dunedàin: molto più grande di qualsiasi esercito potessi immaginarmi sulla Terra-di-Mezzo. Come poter rimanere impassibili di fronte a una tale certezza?

Ma mi rifiutavo di vacillare. Pancia a terra, continuavo pedissequamente nei miei inseguimenti e nelle mie esplorazioni, sperando di raccogliere qualche indizio utile. Gli elementi da me raccolti, insieme a quelli dei miei uomini, mi avrebbero aiutato a tracciare un quadro più completo della situazione e a prendere decisioni più sagge.

La responsabilità che era stata di mio padre e di tutti i miei avi, sangue del sangue dell’antica stirpe dei Nùmenor, mi pesava addosso come un macigno. Sapevo che prima o poi sarebbe successo. La vita mi metteva a dura prova ancora una volta, per permettermi di mettere a frutto le mie capacità.

Difficile esser solo, in quei momenti. Fornost era come una signora silenziosa e composta, che mi fissava da lontano con quell’espressione cupa.
Stava a nord-ovest, là dove calava il sole. Una rocca ormai distrutta e alquanto sinistra, specie durante la notte. I raggi della luna non erano mai riusciti a specchiarsi sulle bianche pietre, al contrario, queste parevano assorbirla, nere come la pece, nere come un destino avverso.

Era evidente che in quei luoghi indugiava ancora la morte, sotto diverse forme. Avevo potuto constatarlo di persona quando mi ero recato in meditazione nelle terre dei miei antenati.

Avevo attraversato quelle terre in ogni direzione, ma nessun viaggio mi era rimasto altrettanto impresso. Quella volta, avevo superato le colline e mi ero diretto esattamente verso la rocca, deciso a sorpassarla in un giorno e una notte di cammino, per continuare lungo la mia rotta verso nord-est, dove mi avevano detto si trovavano le tombe dei miei padri.

Man mano che mi avvicinavo, una sensazione di pesante tristezza mi invadeva il più profondo del cuore e delle gambe, come se il terreno fosse diventato d’un tratto più vischioso e mi trattenesse, invece che lasciarmi andare. Erano stati giorni senza sole e notti senza stelle, come quasi sempre in Angmar. A quel tempo non c’erano ancora orchi a rincorrersi lungo le lande desolate ma altre presenze animavano quei luoghi, ne ero sicuro.

Non le sapevo riconoscere, non credo nemmeno di averle mai intraviste. Ma le ho sognate, ogni ora buia che passavo sveglio, a tormentarmi per non aver percorso sufficiente strada. Le avvertivo a un soffio da me, leggere come brezza estiva ma in pieno inverno. Erano una nota stonata nel quadro apparentemente perfetto ed immobile di Fornost. Le uniche presenze che impropriamente avrei definito “vive”.

Eppure, si erano rivelate incredibilmente utili nella mia missione. Nonostante l’addestramento, infatti, avevo temuto di non dimostrarmi all’altezza di un compito del genere: ero giovane, allora, e non ancora del tutto maturo. Il mio viaggio serviva a questo. A rendermi forte abbastanza per affrontare il resto dei miei anni da solo; per poter governare la vita di altri uomini, senza tradirli e senza farli soffrire inutilmente, per un capriccio della mia inesperienza. Mi aspettava un’ardua impresa.

Non era vera e propria paura, la mia; piuttosto, quasi una rabbia preventiva al pensiero di non poter farcela a portare a compimento quello che gli altri si aspettavano da me.

In quell’angolo di mondo, dove il confronto con altri esseri viventi era raro quando non ostile, la solitudine sembrava l’alternativa più preziosa e indolore. Anche io l’apprezzavo, specie in quel momento di passaggio che mi rendeva tanto nervoso.

Ma non a Fornost.

A Fornost, era il silenzio ad ucciderti.

Era nell’aria che respiravi lì. Non saprei descrivere meglio come. Questione di abitudine, immagino. Quando ero più giovane, mi sentivo come strangolato. L’ambiente sembrava quieto, ma in verità era denso di malignità, come se creature tenebrose dovessero d’un momento all’altro saltare fuori e prenderti. Alla rocca le orme di Melkor erano ancora tangibili e scottavano come fuoco ardente sotto i miei piedi, che non vedevano l’ora di togliersi di impaccio.

E poi c’erano quelle presenze. Se tendevi l’orecchio, potevi sentirle cantare e lamentarsi. Erano un popolo di dimenticati, i cui corpi erano stati falciati via dal tempo e dall’incuria, senza degna sepoltura. Loro non potevano sapere che i vivi li veneravano ancora nelle loro case, lontane miglia e miglia da lì.

La Battaglia di Fornost ad Angmar era stata una delle peggiori mai vissute dalle razze, se non la peggiore. Non c’era stato tempo per piangere, per salvare un elmo, un pezzetto della corazza lucida. Non potevo pensarci. Ma ci pensavo, assillato e assediato com’ero da quei fantasmi.

Non so come feci quella notte a non impazzire.

Con i primi fulgori del giorno, me ne andai di fretta. Sotto i raggi clementi dell’alba, anche la terra mi pareva lieve. Mi ricordo che ancora sudavo sotto la cotta di maglia, come preso dai più tremendi tremori di febbre.

Considero quella notte come la prova più dura che io abbia mai superato.

Man mano che mi allontanavo, si era allentata anche la tensione nei muscoli e nella testa. Fu un vero sollievo.

Ero ancora vivo.

Avevo marciato per due giorni, senza voltarmi indietro. Il sole tramontava rosso sulle mie spalle e sul mio viso segnato dall’insonnia, ma non volli fermarmi. Conoscevo il mio destino e conoscevo anche la mia cocciutaggine: non mi avrebbe permesso di attardarmi ulteriormente.

Finalmente, arrivai alle montagne del confine nord di Angmar.

Cominciai a cercare.

Non sapevo esattamente cosa. Non sapevo cosa stavo attendendo: una strada, un’indicazione, per quanto malconcia, era già chiedere troppo? Un simbolo di pietra, una scheggia di un’arma che mi ricordasse in un qualche modo i miei avi?

Cercai nei dintorni per tutto il giorno, ma non trovai niente.

Piuttosto deluso, mi accampai nelle vicinanze per la notte. Smangiucchiai qualcosa, anche se non avevo molta fame, poi mi avvicinai al fuoco. Mi coprii con una coperta e mi sdraiai per terra, con la schiena rivolta alla pietra e il viso verso la luna avvolta da una nuvola.

In quel momento, lo vidi. Un viso. Non so bene di chi fosse, ma si era materializzato contro il cielo scuro, brillando di un argento strano, tremolante.

Mi alzai di scatto, una mano sulla spada.

L’apparizione danzò pigramente nell’aria, per niente spaventata. Sembrava mi guardasse, o ridesse di me, non so. Forse mi conosceva, ma io non riuscivo proprio a identificarla. Ero piuttosto agitato, per quanto mi sforzassi di reagire razionalmente.

La osservai mentre lentamente si muoveva in una direzione, dritta in mezzo alle rocce. Sembrava molto sicura di dove stesse andando, anche se io vedevo solo uno sbarramento, un muro invalicabile.
La seguii con circospezione, la spada sempre alzata. La intravidi mentre si avvicinava sempre di più a un punto. Per un attimo sembrò esitare, mentre tentennava un po’ a mezz’aria. Ma quando mi avvicinai, riprese a seguire le venature di roccia verso la mia destra.
Immaginai che mi stesse aspettando.

Giungemmo insieme a un anfratto. Era molto stretto, molto basso, ma indovinai che lì doveva esserci un passaggio. Mi sentii in un attimo più tranquillo, nonostante non sapessi ancora dove mi avrebbe condotto. Speravo, nella direzione giusta.

Rinfoderai la spada. La strana figura fece come un giro su se stessa, per un secondo ebbi l’impressione che mi guardasse; poi, si dissolse nell’aria. Non un suono, non un gesto o un sorriso. Aveva compiuto il suo dovere.

Guardai il cielo e rivolsi una preghiera per questo sconosciuto. Spero sia arrivata fino a lui.

Mi infilai nell’anfratto, cercando di incastrare il mio corpo magro attraverso la fenditura: era veramente molto stretta, dovetti quasi strisciare per giungere dall’altra parte.

Dopo un tunnel che mi parve infinito, mi ritrovai di nuovo all’aria aperta, in mezzo alle montagne. Per me fu un vero colpo.

Ero di fronte a una radura straordinariamente erbosa, rotonda, circondata e solcata da speroni di roccia. Quelli al centro, però, non erano semplici pezzi di pietra, notai aguzzando la vista nel chiarore della luna: erano statue.

Ne rimasi abbagliato. Avvicinandomi, coglievo ogni particolare venatura e finalmente riconoscevo dei volti, una piega delle labbra, nei capelli. Qui la forma di un elmo; là la forma di un corno. Era uno spettacolo bellissimo e imponente.

Li riconobbi. Erano i miei padri, così come me li avevano descritti re Elrond e i miei fratelli elfi Elladan e Elrohir. Gli antichi re di Nùmenor, re della mia stirpe, dalle barbe lunghe e il corpo glorioso: Uomini che avevano dato la vita per il Mondo senza chiedere nulla in cambio, prima e dopo la Battaglia di Angmar. Ora mi parlavano.

Non sentii alcuna paura, mentre attraversavo quel mausoleo e mi portavo al centro, dove si trovava un vecchio altare. Poggiai le mani sulla fresca pietra, mi inginocchiai e vi appoggiai la fronte in una nuova preghiera.

Ero a casa.

Ricordando quel momento, non potevo sentirmi altro che bene, più forte e sicuro di me di quanto non fossi mai stato. Quella missione era stata l’inizio della mia storia di uomo adulto, e anche di erede al trono. Quando mi trovavo in difficoltà, sapevo che avrei potuto contare sui miei avi, sulle loro promesse e sulla loro saggezza, che mi erano state infuse quella notte in quella radura.

Ora, tornato sulla terra di Melkor, attingevo a quel pozzo di conoscenza solo quando lo ritenevo strettamente necessario, ma era confortante sentirsi protetto da una tale virtù.

Mi acquattai nell’erba, coprendomi con il mantello.

Riprendevo l’inseguimento degli orchi.

  
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