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Autore: Imperfectworld01    09/01/2021    0 recensioni
Corre l'anno 1983 quando la quindicenne Nina Colombo ritorna nella sua città natale, Milano, dopo aver vissuto per otto anni a Torino.
Sebbene non abbia avuto una infanzia che tutti considererebbero felice, ciò non le ha impedito di essere una ragazza solare, ricca di passioni, sogni e aspettative.
Nonostante la giovane età, sembra sapere molte cose ed essere un passo avanti alle sue coetanee, ma c'è qualcosa che non ha ancora avuto modo di conoscere: l'amore.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Scolastico, Storico
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Uno.


Quella notte stavo facendo una fatica immane a prendere sonno. C'erano ancora troppe cose che dovevo cercare di metabolizzare. Pensavo che il trasferimento in sé fosse già tanto, ma ora in più si aggiungeva un dettaglio che avrebbe enormemente influenzato la mia vita ancor più di quello che mi ero immaginata: non era più uno l'uomo con cui avrei dovuto convivere da quel momento in poi, bensì due.

O forse, avrei dovuto dire tre.

«E questo è il vostro bagno. È più piccolo, ma abbiamo pensato di lasciarvi questo perché è più vicino alla vostra stanza. Spero che vada bene» concluse così Claudio il suo giro turistico della casa.

Io e mia sorella annuimmo, ancora piuttosto scosse per quanto appreso poco prima. Non riuscivo a capire perché mamma ci avesse tenuto nascosto che Claudio aveva un figlio. Anzi, sarebbe stato molto meglio saperlo prima, anziché doversi trovare di fronte quella "sorpresa".

«E Giuseppe dov'è?» chiese a un certo punto Claudio a Vittorio, per smorzare il silenzio che si era creato.

«Un altro figlio?» non potei evitare di chiedere.

Claudio emise un flebile sorriso. «Be', più o meno.» Ma la cosa non fece ridere né me né mia sorella. Iniziai a sudare freddo all'idea che ci fosse davvero un altro figlio, finché poi non sentii qualcosa toccarmi le caviglie e i polpacci. Dava l'idea di essere qualcosa di morbido, peloso. Abbassai lo sguardo e vidi una creatura rossiccia e pelosa intenta ad annusarmi i piedi: un gatto.

Davvero?

«Ecco Giuseppe» disse Vittorio, chinandosi a terra per prendere in braccio quel felino come se fosse un bebè.

Non mi piacevano i gatti, preferivo di gran lunga i cani. I gatti erano scaltri e diffidenti, non mi capacitavo di come le persone potessero scegliergli come animali da compagnia.

«Mi sembra un nome inusuale per un gatto» commentai.

«Il suo nome completo è Giuseppe Garibaldi» specificò Claudio, facendo poi ridere mia madre.

Il che era ancora più inusuale. In che diavolo di famiglia ero capitata?, era ciò che avevo continuato a ripetermi per ore e ore: a pranzo e a cena, mentre continuavo a provare un disagio non indifferente; durante il pomeriggio, mentre sistemavo le mie cose nella mia nuova stanza; e infine, mentre mi giravo e rigiravo nel letto cercando di prendere sonno, senza ottenere risultati.

Non volevo mettere in dubbio che Claudio e suo figlio fossero due persone meravigliose, sembrava che entrambi stessero facendo il possibile per metterci a nostro agio, ma al tempo stesso mi era difficile riuscire ad abituarmi all'idea che non ero solo un'ospite lì dentro e che quella sarebbe stata la mia nuova casa. Avevo paura che non mi sarei mai ambientata.

In più, il caldo di quella notte non aiutava per niente a conciliare il sonno. A un certo punto, mi alzai dal letto per andare in cucina a prendere un bicchiere d'acqua. Cercai il più possibile di orientarmi senza l'ausilio della luce, dal momento che la porta della camera di Claudio e mia mamma era aperta e non volevo rischiare di svegliarli. Appoggiandomi con una mano al muro, percorsi il tragitto fino ad arrivare in salotto.

Dopodiché accesi la luce e, nel momento in cui lo feci, udii un sobbalzo a pochi metri da me e subito mi si materializzò davanti una figura incappucciata. A quel punto aprii la bocca per urlare a causa dello spavento, ma lui mi coprì la bocca con la mano. Gli afferrai il polso per scostare la sua mano dal mio viso: «Di preciso, quali sono i tuoi problemi?» chiesi, sforzandomi di tenere un tono di voce basso per non rischiare di svegliare gli altri.

Vittorio roteò gli occhi, prima di spalancare la bocca in un sorriso a trentadue denti, che in poco tempo si trasformò in una vera e propria risata. «Scusa, è che... è che stata una scena piuttosto divertente! Eri terrorizzata, sembrava che avessi visto Clara Calamai in Profondo rosso» disse e io aggrottai un poco la fronte: «Non so a che ti riferisci, non ho mai visto quel film».

Spalancò gli occhi a quella mia confessione. «Scherzi? È uno dei miei film preferiti, è un vero capolavoro! Ho qui la videocassetta, uno di questi giorni dobbiamo per forza rimediare» esclamò in preda a un entusiasmo che, neanche sforzandomi, sarei riuscita a condividere. Come riusciva a comportarsi come se fosse tutto normale? Come se avessimo confidenza e non fosse strano che fossimo invece due estranei costretti a vivere insieme.

«Grazie, ma passo. Non mi piacciono i film dell'orrore» rifiutai. «Comunque... ecco, avevo solo bisogno di un bicchiere d'acqua» aggiunsi, dirigendomi verso quella che, se mi ricordavo bene, doveva essere la cucina.

Mentre camminavo, pensando che la conversazione fosse ormai conclusa, Vittorio mi venne dietro. «Ah sì, e cosa ti piace? Candy Candy?» domandò e lo fissai con gli occhi ridotti a fessure. Poi, dopo aver capito che stava scherzando e non intendeva essere canzonatorio né offensivo, mi lasciai andare a un piccolo sorriso. Accesi la luce della cucina e aprii il frigo per prendere l'acqua. «Ci ho azzeccato, eh?» mi incalzò Vittorio.

«Veramente sono più una da Lady Oscar» confessai, prima di aprire l'anta della credenza e alzarmi poi in punta di piedi per afferrare un bicchiere. Purtroppo erano tutti impilati in fondo alla mensola e non ero alta a sufficienza per arrivarci.

«Ah, be' lei è una tosta» commentò, prima di allungare il braccio e afferrare il bicchiere per poi passarmelo.

«Grazie» dissi, prima di versarmi l'acqua nel bicchiere. Una volta fatto ciò per cui mi ero alzata dal letto, unii i puntini e rivolsi a Vittorio uno sguardo interrogativo. «Che cosa fai tu sveglio a quest'ora? E vestito in questo modo?» domandai.

Indossava infatti dei jeans, delle scarpe da tennis e aveva ancora il cappuccio nero della felpa in testa. Di certo sembrava qualcuno che voleva camuffarsi e non dare nell'occhio.

«Vado a una festa a casa di un amico. Per favore, non dire niente a nessuno. Se mio padre dovesse mostrarsi sospettoso domani mattina e fare domande, fingi di non sapere nulla, te ne prego!» disse unendo fra loro i palmi delle mani.

Stavo per annuire e dire che stavo per andare dritta a dormire e che c'erano alte probabilità che il mattino seguente non mi sarei nemmeno ricordata del nostro incontro, ma dopo un secondo in più di riflessione, cambiai idea. Incrociai le braccia al petto e cercai di darmi un'aria autoritaria e rispettabile, sebbene fosse difficile a causa della grande differenza di altezza fra me e lui. «Non dirò nulla...» cominciai.

«Oh, grazie, grazie, grazie!» esclamò interrompendomi. «Il fatto è che è martedì sera e mio padre fa sempre storie se esco durante la settimana, quindi sono costretto a svignarmela di nascosto» spiegò.

«Non mi hai fatto finire di parlare» dissi. «Io terrò la bocca chiusa, ma solo se tu mi porti con te.»

Spalancò gli occhi in segno di stupore. «Sei qui da meno di dodici ore, che fretta hai di andartene?» chiese.

«Non voglio cominciare l'anno scolastico senza conoscere nessuno. E lo so che siamo solo a metà agosto, ma... be', non voglio passare il resto dell'estate chiusa in casa senza sapere cosa fare e con chi uscire. E poi quando ricomincerà la scuola non voglio che le persone mi vedano ancora come quella "nuova", ora di settembre voglio essermi già integrata» spiegai, senza neanche sapere se avesse senso. Il fatto era che conoscere delle persone tramite qualcun altro era di certo più facile che far tutto da sola, e quella mi sembrava un'opportunità da cogliere in fretta.

«Sì, ha senso, ma devi stare tranquilla: ti avrei sicuramente portata a conoscere i miei amici in questi giorni. Come mai proprio stasera? Non sei stanca?»

Scossi la testa, per fargli capire che non avrei cambiato idea facilmente.

Dopo un attimo di titubanza, Vittorio scrollò le spalle e mi tese la mano: «Affare fatto».

Sorrisi e strinsi la sua mano per sigillare l'accordo. Poi corsi di fretta in camera mia per potermi preparare. Cautamente aprii i cassetti e scelsi qualcosa da mettermi, poi andai in bagno e mi cambiai. Optai per una semplice camicia bianca di cotone da infilare dentro a dei jeans a vita alta. Una volta vestita, spazzolai i capelli cercando il più possibile di dar loro una forma. Se avessi avuto più tempo li avrei cotonati, ma dovendo far in fretta mi limitai a legarli in una mezza coda di cavallo.

Dopodiché uscii dal bagno e tornai di corsa in salotto. Vittorio aveva rispento la luce. Per poco non inciampai in quella terribile palla di pelo rossa, che in risposta mi guardò con aria minacciosa e mi soffiò contro. Con quel buio neanche mi ero accorta della presenza.

Vittorio soffocò una risata e poi aprì e richiuse con attenzione la porta di casa, assicurandosi di non far rumore.

Successivamente prendemmo l'ascensore. In quel momento calò un silenzio imbarazzante, un po' come quando poche ore prima eravamo tutti e cinque a tavola. Solo che era peggio.
Sia io che lui cercavamo il più possibile di evitare l'una lo sguardo dell'altro, ma era più difficile dato che eravamo in uno spazio ristretto e in più l'ascensore era di una lentezza immane. «Questo ascensore è dell'anteguerra per caso?» chiesi per interrompere la tensione. «E quale delle due, soprattutto?»

Vittorio sogghignò ma non rispose. «In che scuola andrai?» domandò poi.

«Al ginnasio Manzoni» risposi.

«Be', ti è andata bene. Sono giusto tre fermate di metropolitana, però devi cambiare. L'hai mai presa la verde?»

Scossi la testa. «In realtà nemmeno la rossa. Avevo sette anni quando ho lasciato Milano, quindi...»

«Ah, giusto, giusto.»

«Anche tu vai a scuola lì?»

«Io? Ginnasio? No, la mia mente non è così eccelsa.»

«E chi l'ha detto che chi frequenta un liceo classico ha una mente superiore a quella degli altri? Non è mica con queste cose che si misura il cervello di una persona.»

Abbassò un poco la testa per avvicinarsi a me. «Lo sai? Sei forse la prima persona a dirmi una cosa del genere. Di solito se la tirano tutti, i cervelloni come te» mi picchiettò la testa con un dito.

Giungemmo finalmente al piano terra. Girai la manopola per aprire la grata dell'ascensore e poter uscire.

«In che zona abitavi prima?» chiese, facendo cenno al cartello della metropolitana con su scritto "CAIROLI - Castello".

«De Angeli» risposi. Ci dirigemmo fuori dalla palazzina. «Alla festa ci sarà qualcuno che va nella mia scuola?»

«E che ne so? Suppongo di sì.» Poi tirò fuori dalla tasca della felpa una chiave e si diresse verso una Vespa Piaggio color giallo cromo posteggiata pochi metri più in là.

Lo fissai con le sopracciglia inarcate. «In che senso, scusa? Non hai detto che è a casa di un tuo amico?»

«Sì, esatto, ma la verità è che c'è sempre un sacco di gente a caso a questo tipo di feste, sai? Non ho idea di chi potremmo trovare» scrollò le spalle.

«Che modello è?» chiesi poi, facendo cenno al motorino.

«Oh, è grandiosa! È una 50 special, sai che vuol dire? Ha quattro marce, praticamente una rivoluzione!» esclamò sprizzando entusiasmo da tutti i pori. Anch'io avevo sempre desiderato avere un motorino, ma chiaramente con il solo stipendio di mia madre, non ce lo saremmo mai potuto permettere.

«Ed è tutta tua?»

Scosse la testa. «Di mio padre, la comprò nel '69, appena era uscita. Allora non aveva ancora abbastanza soldi per permettersi una macchina. Ma adesso che ce li ha, non usa più questo gioiellino e quindi diciamo che è diventata quasi mia.»

Poi montò in sella alla moto e mi invitò a fare lo stesso.

«Ma ce l'hai il patentino, giusto?»

«A cosa serve? Tanto so guidare» disse con convinzione. «Allora, vieni o no?»

La grande fiducia che aveva in se stesso riuscì a persuadermi. In fondo doveva averlo fatto altre volte, quindi cosa rischiavo? Così salii sul motorino dietro di lui.

«Tieniti» mi consigliò.

In effetti non avevamo neanche il casco, perciò non era sicuro stare senza sostegno. Così annuii e cinsi la sua vita con le mie mani.

Poco meno di un quarto d'ora dopo giungemmo al suddetto luogo della festa, in zona Porta Venezia. Avevo un leggero mal di mare per via della guida spericolata di Vittorio, ma in realtà era stato divertente. Amavo l'adrenalina che sprigionava l'alta velocità. Sembrava quasi di volare.

Lui probabilmente non aveva gradito alla mia stessa maniera quel viaggio, dal momento che giurò che gli fossero finiti tutti i miei capelli in faccia.

«Dai, non è vero! E comunque è stata colpa del vento» tentai di giustificarmi.

«Ah, neghi l'evidenza?» inarcò un sopracciglio, prima di infilarsi una mano in bocca e tirar fuori un capello leggermente mosso e castano. I suoi erano quasi neri, quindi doveva per forza trattarsi di uno dei miei. Emisi una smorfia di disgusto, prima di scusarmi: «Ops... be', mi dispiace».

«Non fa niente. Vieni, andiamo» mi afferrò per mano e ci dirigemmo verso una folla di ragazzi radunati davanti a un portone.

Vittorio ne salutò alcuni con una stretta di mano e una pacca sulla spalla. «Lei è Nina» disse poi.

A quel punto iniziò un giro infinito di presentazioni in cui ripetei il mio nome una dozzina di volte stringendo mani di persone a caso senza ascoltare un solo nome che mi veniva fatto. «Sappiate che non mi ricorderò nessuno dei vostri nomi» dissi, provocando qualche risata.

Pochi minuti dopo ci trovavamo già in una stanza con la musica a tutto volume e gremita di persone, o così sembrava, ma in realtà non potevo affermarlo con certezza dal momento che la quantità di fumo nella stanza era tale da aver creato una vera e propria nube. Ciò conferiva al salotto un'aria suggestiva, certamente, ma era anche fastidioso dopo un po'.

Vittorio mi guidò infatti verso una finestra. La spalancò per far circolare un po' l'aria e poi si sedette sul davanzale, portandosi il ginocchio destro al petto e tenendo l'altra gamba a terra.

Aprì la bocca per dirmi qualcosa, ma non ne ebbe il tempo poiché fu interrotto da una voce stridula che giunse alle mie spalle: «Vittorio! Eccoti, finalmente. Si può sapere perché ci hai messo così tanto ad arrivare?» domandò.

Mi voltai e vidi una ragazza alta poco meno di me, con i capelli castani e liscissimi, lunghi fino al sedere - e io che credevo che non esistessero persone con capelli più lunghi di quelli di mia sorella; gli occhi erano grandi e da cerbiatto, dello stesso colore dei capelli; le sopracciglia scure e marcate. Indossava una gonna di jeans che le arrivava fino alle ginocchia e una maglia a maniche corte nera.

«Piacere, io sono Monica» disse poi rivolgendosi a me.

Le strinsi la mano e mi presentai a mia volta.

«Mina? Come la cantante? Oh, io la adoro, è una delle mie preferite!» esclamò.

«No, non Mina, Nina» la corressi, scandendo meglio.

«Ah, carino uguale, anche se è un po' strano come nome. Non fraintendere, non è che non mi piaccia, è solo che...»

«È il diminutivo di Marina» si intromise Vittorio, fornendole chiarimenti.

Lo fulminai subito con lo sguardo, ma lui nemmeno se ne accorse. Gli avevo detto che non mi piaceva essere chiamata col mio nome completo.

«Sei nuova di qui? Vieni, ti presento gli altri del gruppo!» esclamò, prendendomi per un braccio e trascinandomi verso il divano. Separò due ragazzi intenti a pomiciare e fece spazio affinché ci potessimo sedere entrambe. «Ragazzi, lei è Marina!» annunciò.

«Nina» la corressi, prima di iniziare un altro giro di presentazioni.

«Come mai non ti abbiamo mai vista?» domandò una ragazza riccia con i capelli super cotonati, Erica, supposi.

Praticamente fui inondata di continue domande e neanche mi fu dato il tempo di rispondere a tutte perché non smettevano di pioverne di nuove.

«E come sono i ragazzi a Torino?» chiese a un certo punto Monica.

«Con tre file di denti e nove gambe in più. Secondo te, Moni? Sono uguali a qui!» commentò innervosito un altro ragazzo, Giovanni, o forse Riccardo, oppure Fabio.

«Con quanti ragazzi sei stata?» domandò poi un'altra.

A quella domanda, tutti si zittirono e posero la loro completa attenzione su di me. Sembrava che dalla mia risposta a quella domanda sarebbe dipesa la salvezza del mondo intero. Così mi sentii un po' a disagio nel dire la verità, anche se normalmente non me ne vergognavo. «Be', io... ecco, ehm... nessuno» ammisi.

Spalancarono tutti gli occhi e la bocca in segno di sorpresa, come se ci trovassero qualcosa di strano. Che c'era di così tanto sconvolgente? Avevo appena quindici anni, non mi sembrava ci fosse molta fretta.

«Quindi non hai mai baciato nessuno?» chiese Monica. «Ma dai, se sei così carina!»

Carina? Sarei stata carina se avessi avuto il suo viso spaziale e il suo fisico da Sophia Loren. Monica era assolutamente perfetta. Io, a differenza sua, avevo due mandarini al posto delle tette e assolutamente nessuna forma. Ero l'unica della mia età a non essersi ancora sviluppata, com'era possibile che ancora non mi fossero arrivate le mestruazioni? Mi metteva un sacco a disagio quella situazione.

«Non capisco tutta questa necessità di avere per forza qualcuno, a me piace stare da sola» dissi semplicemente, scrollando le spalle.

Rimasero tutti in silenzio, ancora una volta, come se avessi detto qualcosa fuori dal mondo.
A me non sembrava così strano. Per secoli le donne erano state sempre associate agli uomini, assecondate a loro, come se fossero solo degli accessori da accompagnamento. Io avevo avuto la fortuna di nascere in un'epoca in cui questo stava cambiando e in cui la figura della donna stava iniziando a essere vista come qualcosa di più che una madre o una moglie devota, perciò non avevo alcuna intenzione di buttare via quella fortuna. Avrei sfruttato al meglio l'indipendenza e la libertà che a me erano state donate sin dalla nascita e che, al contrario, altre donne, compresa mia madre, avevano dovuto lottare per ottenere.

Dal momento che si era creato un leggero imbarazzo per via delle mie ultime parole, decisi di alzarmi dal divano e raggiungere Vittorio, il quale nel frattempo era intento ad accendersi una sigaretta.

«Ehi, mi dispiace che Monica ti abbia trascinata via, lei è fatta così, è travolgente e spesso non lascia neanche il tempo di riflettere. Però non è male, no?» disse.

«No, anzi, è molto... molto...» Onestamente non sapevo neanche trovare le parole per descriverla. Era sicuramente energica, estroversa, di una bellezza ammaliante per certi versi, e anche sincera e schietta. Ma fra quelle non riuscivo a trovare quella più adatta a definirla.

In quel momento riconobbi Tu di Umberto Tozzi uscire dal giradischi e risuonare in tutta la stanza.

Era uno dei miei cantanti preferiti, oltre al gruppo musicale "Il Giardino dei Semplici".

«Posso chiederti una cosa?»

Vittorio annuì, prima di aspirare una boccata di fumo.

«Me ne daresti una? Avevo lasciato il mio pacchetto a Torino di proposito, perché avevo intenzione di smettere, ma poi sono venuta qui e... be', qui fumano tutti, è praticamente impossibile. Ti prometto che te la restituirò uno di questi giorni.»

Inarcò le sopracciglia meravigliato. «E io che ti facevo come la cocca di mamma. Tieni» disse, tirando fuori un'altra sigaretta dal suo pacchetto e offrendomela. La misi in bocca e lui l'accese con l'accendino. «Grazie» dissi. «Ah, ti prego, non dirlo a mia mamma» aggiunsi, prima di aspirare il fumo.

Arricciò le labbra per qualche secondo e volse lo sguardo in alto, per dar l'impressione che stesse riflettendo accuratamente. «D'accordo, mi cucio la bocca» disse.

«Grazie» sospirai di sollievo.

«Ma solo se balli con me» aggiunse, lasciandomi interdetta per qualche secondo.

Sgranai gli occhi. «Scherzi?»

Scosse la testa. «Dai, adoro questa canzone!» esclamò, prima di dirigersi verso il cumulo di persone che, proprio come mi aveva chiesto di fare lui, stavano ballando. Sembrava che non mi stesse lasciando molta scelta.

«Aspetta, non l'ho ancora finita!» esclamai, ma lui fece orecchie da mercante e mi vidi obbligata a raggiungerlo.

A quel punto fui costretta a spegnere la sigaretta e a metterla in tasca, nella speranza che non si appiattisse.

Mi guardai intorno e vidi che erano tutti abbracciati a qualcun altro e ballavano, ognuno immerso nel suo mondo. Così cercai di cacciare il disagio che provavo, dal momento che tanto nessuno avrebbe fatto caso a noi. Mi sollevai leggermente in punta di piedi e appoggiai le mani sulle spalle di Vittorio, mentre lui cinse con delicatezza i miei fianchi.

Iniziammo a girare sul posto molto lentamente, proprio come tutti gli altri.
Non mi piacevano i balli lenti. Erano noiosi e inutili. Facevo danza sin da quando avevo tre anni. Avevo iniziato con danza classica, ma poi a sei anni avevo cominciato a fare danza moderna e contemporanea. Avevo provato anche con qualche lezione di salsa e bachata l'anno prima, ma non mi avevano entusiasmata.
Trovavo grandioso ciò che si poteva fare con i semplici movimenti del proprio corpo, quindi mi sembrava riduttivo stare in piedi come una sorta di stoccafisso.

Certo, forse l'avrei pensata in maniera differente se mi fossi trovata a ballare una delle canzoni d'amore più belle di quegli anni con una persona per la quale provavo dei sentimenti, e non con il figlio del fidanzato di mia madre. Ricordarmi di quel particolare fece apparire il tutto a dir poco incomodo e strano.

Per fortuna la canzone era ormai quasi giunta al termine.

Vittorio, che fino a quel momento aveva tenuto la sua guancia a contatto con la mia, a un certo punto sollevò a testa e la spostò di lato. Sollevai lo sguardo e vidi che stava discorrendo a bassa voce con uno dei suoi amici.

Non riuscii a sentire una sola parola, così non compresi perché a un certo punto si allontanò bruscamente e, dopo avermi fatto un occhiolino, mi lasciò sola con l'altro ragazzo che era venuto a parlargli.

Costui, con i capelli dello stesso color del miele e gli occhi fra il verde e l'azzurro, mi fissava sorridendo. «Nina Colombo, giusto?»

«Sì. Posso aiutarti con qualcosa?» chiesi, iniziando a sentirmi a disagio.

Il sorriso si allargò maggiormente. «Ti va di ballare?»

 

   
 
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