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Autore: AlexSupertramp    13/01/2021    8 recensioni
[...] Le mie armi erano cadute tutte, ammucchiandosi ai suoi piedi e lei, nella mia personale visione metaforica di certi avvenimenti, aveva preso quel mucchio fatto di apatia e paura di essere felice e gli aveva dato un bel calcio. E poi, sempre nella mia personale visione delle cose, si era messa pure a ridermi in faccia. E quella visione mi faceva ancora sorridere perché Kurata, in realtà, era semplicemente tutto ciò che volevo e tutto ciò di cui avevo bisogno per ricordare e dimenticare ogni cosa. [...]
Bonus Track di Upside Down
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akito Hayama/Heric, Sana Kurata/Rossana Smith
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Upside Down'
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La cosa più preziosa che puoi ricevere da chi ami è il suo tempo.
Non sono le parole, non sono i fiori, i regali.
È il tempo.
Perché quello non torna indietro e quello che ha dato a te è solo tuo,
non importa se è stata un'ora o una vita.
- David Grossman -

Ventiquattro ore
 

C’erano delle cose che mi sfinivano.
Gli allenamenti di karate, per esempio. Spesso tornavo a casa veramente distrutto, ma tutto sommato quella stanchezza fisica che sentivo alla fine di ogni giornata trascorsa in palestra mi piaceva anche, perché mi ricordava molte cose che, altrimenti, avrei rischiato di dimenticare.
Poi il traffico di Tokyo.
Quello sì che mi sfiniva davvero, senza ricordarmi assolutamente niente che non volessi dimenticare. Era una stanchezza fisica, ma soprattutto mentale perché avevo associato a quella cosa, il traffico, molti dei momenti in cui la testa semplicemente mi scoppiava.
E poi c’era lei, che mi sfiniva.
Se avessi dovuto stilare una lista in ordine di sfinimento, probabilmente avrei dovuto metterci lei prima di tutto il resto, perfino del traffico di Tokyo.
Ma quella lista, in realtà, non ci pensavo nemmeno più di tanto a farla perché se lei mi risucchiava tutte le energie che riuscivo a mettere insieme giorno dopo giorno, non potevo non ammettere a me stesso che non avrei mai potuto immaginare una vita senza quella sensazione. Perché, in fin dei conti, se ci ragionavo bene, lei non mi sfiniva.
Lei mi disarmava.
Kurata aveva avuto quell’effetto su di me fin dal primo momento in cui l’avevo vista, più di quattro anni prima. Era stata la fiammella di fortuna accesasi con un colpo più insistente sull’acciarino della mia anima, divenendo piano piano un vero e proprio fuoco che aveva costretto anche uno come me ad ardere da dentro.
Le mie armi erano cadute tutte, ammucchiandosi ai suoi piedi e lei, nella mia personale visione metaforica di certi avvenimenti, aveva preso quel mucchio fatto di apatia e paura di essere felice e gli aveva dato un bel calcio. E poi, sempre nella mia personale visione delle cose, si era messa pure a ridermi in faccia. E quella visione mi faceva ancora sorridere perché Kurata, in realtà, era semplicemente tutto ciò che volevo e tutto ciò di cui avevo bisogno per ricordare e dimenticare ogni cosa.
Quell’idea di lei che si scioglieva e mi entrava dentro, toccando certe corde che io nemmeno sapevo di avere, continuava a persistere nel mio cervello, mentre l’unica cosa che volevo era fondermi con il suo corpo ed esplorare ogni piccolo aspetto della sua essenza. Così, cercando di tramutare quel pensiero in concretezza, allungai una mano verso quel groviglio di filamenti ramati, che era l’unica cosa che mi lasciava vedere dal suo giaciglio sotto le lenzuola del mio letto, e pensai che volevo oltrepassarla e stringerla, in una mossa simbiotica che non riuscivo nemmeno ad immaginare nella sua interezza.
E riflettei nuovamente sul fatto che lei, Sana Kurata, mi sfiniva e mi disarmava, nella sua totale e innocente inconsapevolezza di essere l’unico essere presente su questa Terra in grado di farmi sentire alla pari di ciò che la mia idea di buono aveva sempre voluto che io diventassi.
Poi le sue spalle si mossero appena, in uno strano sussulto e non riuscii proprio a fare a meno di sorridere. Mi spostai su un lato, appoggiando la testa sul palmo della mano e, di colpo, mi sentii impaziente di aspettare perché si svegliasse e si voltasse vero di me, e mi sorridesse e poi mi baciasse.
E tutta la mia impazienza venne dannatamente messa alla prova, perché Kurata di svegliarsi proprio non ne voleva sapere a quanto pareva. Allora lasciai correre una mano sul letto, sotto le lenzuola che ci univano entrambi, fino ad arrivare in prossimità della sua schiena nuda.
Quell’impazienza di cui parlavo sembrava essersi trasferita in una camera buia sotto la mia mano, perché era come se quelle dita si muovessero da sole e il medio si fosse alzato appena senza aspettare un mio preciso segnale. In effetti fu proprio lui a sfiorare la sua pelle, e io mi sentii di nuovo padrone del mio controllo.
Le accarezzai la schiena con la punta del dito, lo feci correre un po’ su e giù. Lentamente mossi anche le altre quattro, che si appoggiarono piano alla sua pelle calda.
Ma poi non resistetti più e mi resi conto di averne veramente poca di pazienza, perché le dita si trasformarono in tutta la mano che si appoggiò pienamente sulla sua schiena. Navigò da sola risalendo su fino al fianco piegato, e io non riuscivo proprio a fermarla perché, in verità, stavo già fremendo all’idea di averla.
Allora continuai a salire lungo il suo fianco, oltrepassando le braccia chiuse davanti al suo seno e non potei fare a meno di sentirmi frustrato.
Possibile che fosse sempre così egoista?
Mi spostai quindi di qualche centimetro verso di lei, incollando il corpo alla sua schiena e le cinsi completamente le spalle. Cercai comunque di trovare un punto in cui infilare la mano, tra le sue braccia serrate come una roccaforte medievale, ma il fatto di non riuscirci senza forzare il mio braccio tre le sue, mi fece sentire ancora più frustrato.
Allora tentai un’altra strada.
Avvicinai il viso ai suoi capelli, ispirandone prima il profumo. Mi feci largo tra i capelli e finalmente arrivai al suo collo, baciandoglielo piano. E proprio mentre schiudevo le labbra per leccarle la pelle, la sentii mugolare un po’ infastidita.
Mi venne da sorridere, e continuai a baciarle il collo stringendola fra le mie braccia.
«Hayama…» la sentii mormorare in un leggero tono di protesta, allungando il viso dalla parte opposta alla mia. Non le risposi, perché cominciavo sul serio a non sentire nient’altro che il suo corpo appicciato al mio. Allora con la mano feci un percorso inverso scendendo giù nuovamente lungo i fianchi, fino ad afferrarle una coscia. Spinsi lentamente il bacino contro il suo corpo, sentendo la mia erezione farmi quasi male quando avvertii il contatto con la sua pelle.
«Hayama…»
Di nuovo quel richiamo, ma ormai i miei sensi avevano smesso di rispondere a qualsiasi cosa che non fosse quel corpo che mi ritrovavo tra le mani, e che mi stava facendo letteralmente impazzire. Infilai poi la mano tra le sue gambe, alzando un lembo delle sue mutande con la punta dell’indice per accarezzarla lentamente. La sentii gemere, finalmente, e quel suono che uscì quasi soffocato dalla sua bocca mi eccitò ancora di più, e non riuscii più a pensare a nessuna lentezza o dolcezza, perché il desiderio di averla iniziò a fare male sul serio.
Quindi, preso da quella nuova consapevolezza, girai la mano tra le sue gambe, infilando lentamente un dito nella sua intimità. Sorrisi tra me e me perché, nonostante i suoi tentativi di fingersi ancora addormentata, la sentii bagnata sotto le dita e proprio in quel momento, in un impeto di animalesca voglia di averla, le morsi il collo, usando forse un po’ troppa forza.
«Hayama!» mi richiamò insistente, ma questa volta si ritirò un po’ più lontano da me costringendomi a lasciare la sua calda intimità perché semplicemente la mia mano a quella distanza non ci arrivava più.
«Kurata, ma che c’è?»
«Stavo dormendo… dormivo. Perché devi sempre svegliarmi?» continuò, con quel tono irritante. Se avessi dovuto soffermarmi su un unico aspetto però, avrei detto con assoluta certezza che quella era l’espressione di Sana che preferivo in assoluto. Perché le esplose il viso e perché le guance erano rosse, e perché anche lei era eccitata e questo potevo affermarlo con certezza. Perché, nonostante stessimo insieme ormai da più di un anno, l’imbarazzo che mostrava ogni volta che io la scoprivo ad essere eccitata in quel modo era sempre lo stesso. Uguale a quello che le avevo visto in viso quella notte all’Old Boy, in cui avevamo fatto l’amore per la prima volta.
Allora non badai al tono irritante, ma mi concentrai solo sul suo viso eccitato e gattonai verso di lei, lasciando che le lenzuola ci cadessero ai lati scoprendoci interamente. Lei si sedette sul letto e io mi misi sopra di lei, bloccandola con il mio stesso corpo.
«Perché ho voglia di fare l’amore con te.»
«Mh…»
A quella specie di mugugno non ci badai nemmeno, perché tutto ciò che desideravo in quel momento si trovava esattamente sotto le mie braccia. Allora le piegai, affondando il viso tra le sue gambe e iniziai a leccarle una coscia, mordendola tra i denti senza metterci troppa forza, ma comunque non riuscii a non stringergliele quelle gambe tra le mani, perché mi ci sarei voluto perdere dentro. E di colpo, non ascoltai più niente.
Peccato che lei avesse iniziato a scalpitare.
Letteralmente.
«E io vorrei essere a Parigi ora, ma non si può mica avere tutto?» mi spiazzò, ritirandosi nuovamente lontano da me. Oltrepassò il mio corpo facendoci passare su una gamba, rendendomi abbastanza confuso.
Sbuffai sonoramente, quando la vidi prima sedersi sul letto, per infilarsi la mia maglietta, e poi alzarsi e sculettare via scomparendo dalla stanza.
Mi lasciai andare sul materasso, decisamente frustrato.
«Ragazzina egoista.»
In meno di due secondi, Sana si era dileguata dalla camera da letto portandosi dietro anche tutta una serie di cose che avrei voluto farle sotto le lenzuola. E sbuffai di nuovo, rigirandomi sul letto e poggiando la schiena sul materasso. Feci poi scivolare una mano lungo il busto, sotto le lenzuola, fino a raggiungere la mia erezione che era ancora lì, immutata e dolorante.
Mi passai poi una mano tra i capelli, prima di alzarmi dal letto e raggiungerla in cucina.
«Kurata… ma che fai?» le domandai, vedendola trafficare con la macchinetta del caffè. Lei si voltò di scatto e mi guardò con la sua solita espressione innocente, con quella sua tipica inconsapevolezza che si portava dietro ogni volta che io cercavo di distogliere l’attenzione dal suo corpo, dalle sue gambe che invece puntualmente mi spiattellava davanti.
Appoggiai una mano all’uscio della porta e continuai a guardarla.
«Colazione.»
«Mh.» mugugnai.
Da quando era diventata mono parola? Quello ero io, almeno fino a qualche tempo prima.
Decisi comunque di mettere da parte quella punta di orgoglio che stava lentamente prendendo piede da qualche parte dentro di me, e feci un paio di passi verso di lei. Le fui dietro in poco tempo, e decisi all’istante che il suo profumo insieme al caffè di primo mattino erano due fattori più che consistenti affinché certe mie fissazioni venissero superate.
L’abbracciai dalle spalle, stringendole il busto con un braccio. Feci correre la mano sulla sua pancia e l’altra la fiondai dietro, stringendole il sedere, ma di nuovo si divincolò, lasciandomi come un coglione davanti ai fornelli della mia cucina. Mi voltai sbuffando, cercandola con lo sguardo e mi resi conto che era finita proprio sull’uscio della porta.
«Ora mi spieghi che ti prende!» le dissi, quasi come un ordine. Ma lei non mi rispose nemmeno facendomi sentire dannatamente frustrato.
Allora era quello l’effetto che facevo?
«È tardi e devo andare a lavoro. Non ho tempo.» aggiunse dopo poco.
«Tu fai sempre tardi al lavoro.»
«Oggi no, invece. Hai qualche problema Hayama?» mi disse, alzando le spalle e guardandomi con una faccia che mi fece sentire quasi un alieno.
«Mi sembra che sia tu ad avere qualche problemi. Che ti prende?»
In quel momento lei si voltò nella mia direzione alzando le sopracciglia. Corrugai la fronte prima che emettesse anche un singolo suono, e la scrutai cercando di decifrare il suo viso, anticipando una plausibile spiegazione. Almeno quello che sperai stesse per darmi.
«Tu… pensi solo al sesso.» mi disse, abbandonandomi in cucina. Mi sentii gli occhi che quasi volevano uscirmi fuori dal viso e seguirla chissà dove, ma iniziai a provare anche uno strano moto di rabbia.
Allora la seguii nel corridoio, scoprendo che non era più nemmeno lì. Poi vidi la porta del bagno chiusa e sentii il rumore dell’acqua.
«Kurata, apri.» le dissi, battendo una mano sulla porta.
Non sentii nulla che non fosse il getto d’acqua del rubinetto che mi nascondeva ogni suono collegabile a lei. Allora ripetei l’operazione, battendo un po’ più forte.
«Non mi dire che non volevi… l’ho sentito sai?»
In quel momento sentii un rumore provenire dalla serratura della porta e abbassai lo sguardo in quel punto, rilassando le spalle.
Quello che comparve fu il suo viso arrossato e i capelli raccolti in una pettinatura alzata inspiegabile, con qualche ciocca ribelle che le finiva davanti al viso. Mi fissai qualche istante, il tempo necessario per rendermi conto che quella voglia che avevo fare l’amore con lei non faceva che aumentare, a discapito di quella sua insistenza nel non volersi fare nemmeno toccare.
«Cosa hai sentito?» mi tuonò in faccia. Notai un leggero aumento del rossore sulle sue gote e mi decisi a pensare che quello era il frutto della mia precedente teoria su quanto anche lei, nel profondo, desiderasse che io la toccassi e non perché fosse arrabbiata.
Per un motivo che proprio mi sfuggiva, tra l’altro. E quello era una delle ragioni per cui a volte ero indeciso sul fatto che lei mi disarmasse o mi sfinisse.
Comunque, mi sentivo ancora eccitato e le sue spalle nude che fuoriuscivano timidamente dalla porta semiaperta del bagno, insieme alla sua espressione arrabbiata, e a quei capelli disordinati non stavano contribuendo a farmi abbassare la guardia. E allora le sorrisi, in un modo che non capii se avesse colto o meno.
«L’ho sentito che anche tu lo volevi, eri bagnata Kurata. Non capisco perché fai tutte queste storie…»
«Perché tu… pensi solo al sesso.»
Di nuovo mi ripeté quella frase, con una punta di imbarazzo in più probabilmente. Ma alla fine si richiuse in bagno, lasciandomi per la seconda volta come un coglione.
«Io ci penserò anche sempre… spesso,» mi corressi, per andare in contro a quella sua nuova presa di posizione, «Ma non mi sembravi infastidita, fino a ieri sera.»
Non capivo la differenza tra la sera precedente e quella mattina. Cos’era cambiato dal sesso fatto qualche ora prima e quello che avrei voluto fare con lei quella mattina?
Forse erano passate troppe poche ore?
«Lo trovi così strano che io voglia fare sesso con la mia ragazza?» le urlai dall’altra parte di quel fottuto bagno. Maledissi mentalmente il giorno in cui avevo deciso di non sfondarle tutte quelle dannate porte di casa… quella era una cosa che le avevo servito proprio su un piatto d’argento.
Ma lei non mi rispose, di nuovo, e io avevo ormai esaurito la pazienza. Se voleva continuare quel gioco, doveva farlo da sola perché io la voglia di litigare sul nulla non ce l’avevo per niente.
Trovavo assurdo doverle dare simili giustificazioni, all’improvviso poi.
«Fa’ come ti pare. Ne ho abbastanza!» dissi quasi sbraitando, gesticolando con una mano. Stavo per defilarmi in camera per vestirmi e uscire di casa anche io, perché avevo bisogno di scaricare la rabbia che puntualmente spuntava fuori ad ogni litigio con lei, quando sentii la porta del bagno alle mie spalle aprirsi rumorosamente.
Capii che voleva che io sapessi che si era degnata di darmi retta.
«Non posso fare come mi pare Hayama, non è mica casa mia questa!» mi disse con un tono di voce decisamente arrabbiato. Allora mi voltai di scatto, alzando le sopracciglia.
«Eh?» riuscii a dire, quasi inebetito, «Sto per perdere la pazienza Kurata. Vuoi dirmi che problema hai stamattina?» le domandai insistente. Ma lei non fece altro che scrutarmi con un broncio in viso che non accennava a sparire.
«No! Vattene a correre, tanto lo so che stavi per fare quello.» e, di nuovo, mi chiuse quella dannata porta in faccia.
«D’accordo allora. Buona giornata!»
Mi infilai velocemente i pantaloni della tuta e una felpa per poi fiondarmi all’ingresso. Quando aprii la porta di casa, e mi sembrò di sentire nuovamente il rumore di quella serratura del cazzo alle mie spalle, ma non ci badai volutamente.
Sana certe volte mi faceva impazzire ed il motivo era sempre lo stesso: non mi faceva capire mai niente. E alla fine ero arrivato alla conclusione che era semplicemente perché, la maggior parte delle volte in cui litigavamo, il motivo lo capiva anche lei molto tempo dopo.
E poi, a furia di silenzi, me lo comunicava.
E quella era la ragione per cui spesso pensavo che lei mi sfinisse. Proprio come quella mattina, in cui pensai che la mia unica colpa fosse stata quella di desiderarla appena avevo aperto gli occhi.
Alla fine non è che risolsi molto andandomene in giro correndo, e rimuginando mentalmente. Mi sentii ancora più stanco quando tornai a casa, infilai la chiave nella toppa e mi resi conto che Sana non l’aveva chiusa a chiave quando era uscita.
Alzai la testa fissando il legno scuro della porta, e mi domandai se in realtà non fosse ancora lì. Guardai subito l’orologio che avevo sul polso e mi resi conto solo in quel momento che la mia corsa non era durata così poco come avevo pensato e che Sana di sicuro, era già a lavoro.
Allora scrollai le spalle, pensando che probabilmente aveva semplicemente dimenticato di chiudere la porta a chiave. Quindi entrai senza farmi troppi problemi, e mi defilai in bagno sfilandomi velocemente la felpa lanciandola ai piedi del lavandino.
Però qualcosa mi colpì.
Notai quasi subito che lo spazzolino che usava lei non c’era più. Insieme al tubetto del dentifricio afflosciato sul bicchiere che lei stessa aveva messo in bagno per metterceli dentro, c’era solo il mio.
Mi passai una mano tra i capelli, cercando di non arrivare alla più stupida e folle conclusione. Ma uno più uno ero ancora in grado di farlo, e andai in cucina sapendo perfettamente cosa cercare.
E infatti era lì. Sul tavolo della cucina, in bella mostra, c’era la copia delle chiavi di casa mia che le avevo dato, a cui aveva attaccato uno stupido portachiavi a forma di coniglio.
Rigirai quel portachiavi tra le dita stringendo quello stupido pupazzo fino a deformarlo.
«Stupida…» sussurrai, sentendo montare dentro una rabbia che non provavo da molto tempo. Sapevo bene che nemmeno la più lunga delle corse avrebbe aiutato a smorzarla; sarei potuto arrivare anche a Fukushima a piedi, senza risolvere un bel niente, perché se c’era una cosa che potevo fare era chiederle spiegazioni per quell’assurda decisione e capire cosa stesse succedendo.
E non mi sarei accontentato di una cazzo di porta in faccia.
Aspettai che arrivasse il momento della sua pausa pranzo e mi diressi alla sede dell’associazione dove aveva iniziato a lavorare da qualche mese.
Mi fermai su una panchina disposta proprio sul marciapiede di fronte all’ingresso del palazzo dove l’avevo accompagnata molte volte nelle settimane precedenti, quando non era ancora impazzita facendo impazzire anche me di conseguenza.
Non ci mise molto tempo, di fatto la vidi uscire dall’ingresso di quel palazzo nel centro di Ueno qualche minuto dopo, e di scatto, misi una mano sullo schienale della panchina. Ero decisamente pronto a parlarle e farmi spiegare cosa le fosse preso, così come il mio corpo era pronto ad attraversare la strada in quattro passi e raggiungerla. Subito dopo però corrugai la fronte, scivolando di nuovo sulla panchina quando la vidi uscire dal portone d’ingresso che sorrideva gesticolando, muovendo le braccia energicamente e appoggiando una mano di tanto in tanto sul braccio di un tizio che le camminava accanto.
D’istinto, mi sentii in diritto e, per certi versi anche in dovere, di metterci anche meno di quattro passi per raggiungerla e metterle un braccio intorno alla spalla, o darle un bacio dove capitava. Non importava in realtà il gesto in sé, quello che contava era il messaggio che quel tizio avrebbe dovuto recepire forte e chiaro. Ma tutta quella razionalità su messaggi ipotetici e azioni ponderate se ne andò rapidamente a farsi fottere quando il mio sguardo si soffermò attentamente sul viso di Kurata, che sfoggiò un’espressione che io conoscevo fin troppo bene. Allora mandai a fanculo ogni precedente pensiero, e mi alzai di scatto da quella dannata panchina e la raggiunsi.
Se c’era una cosa che riuscivo a far capire chiaramente di me stesso alle persone che mi circondavano era la scarsa, scarsissima durata della mia pazienza e quella era una situazione che, in altre parole, di pazienza ne richiedeva parecchia. Ma, nonostante quella consapevolezza, andai dritto da lei fregandomene bellamente di quello che avrebbe fatto chiunque altro.
E che lei non si aspettasse di vedermi riuscii chiaramente a capirlo dall’espressione sul suo viso, che fu anche un po’ conferma di quella sensazione strana e sgradevole di assoluto fastidio che avevo provato su quella panchina, quando l’avevo vista ridere con il tizio che, nel frattempo, continuava a starsene lì come se il mondo fosse suo.
Mi sentii improvvisamente attaccato.
«Hayama… che ci fai qui?» mi domandò, senza perdere tempo, accentuando quell’espressione che aveva acceso dentro di me quel senso di difesa.
«Oggi pranziamo insieme Kurata.» le risposi, facendo ondeggiare la sua copia delle chiavi di casa mia davanti al suo naso. Poi me le infilai in tasca, rimuginando qualche secondo sulla sua nuova espressione: era sempre così, un susseguirsi di facce diverse che riflettevano esattamente quello che aveva in testa, restituendolo però con un contorno di confusione che non mi permetteva mai di capirla del tutto.
E comunque poco mi importava in quel momento di capire effettivamente cosa le passasse per la testa, perché l’istinto continuava a tenere acceso dentro di me quel campanello strano che mi aveva fatto percepire la sensazione sgradevole sulla panchina.
Poi lei si voltò verso l’altro.
«Io vado a pranzo… ci vediamo dopo.» gli disse, sistemandosi la borsa sulla spalla.
Non riuscii a trattenermi dal lanciare un’occhiata a quel tizio e proprio in quel momento, il mio corpo si mosse e io non sapevo più su cosa focalizzare la mia attenzione: se su di lui o sulla mia stessa mano, che aveva afferrato quella di Sana, stringendole le dita, in un gesto che in realtà ero decisamente abituato a fare.
Ma in quel momento, lo sentii avere un sapore diverso, e mi resi conto di essermi appena investito di una forza diversa, una specie di risposta a quella sensazione di attacco che avevo percepito poco prima.
«Comunque, eri a disagio. Come mai?» le chiesi, quando fummo soli. Lei si divincolò dalla mia mano, e fece una strana espressione.
«No che non ero a disagio…»
«Lo sei anche adesso Kurata, che sta succedendo?» le domandai, con una sorta di strano fermento.
«Che vuoi Hayama?»
Allora esasperato, riacciuffai le chiavi di casa mia, sventolandogliele in faccia sperando che, in quell’occasione, riuscisse a capire qualcosa.
«Che significa questo? Mi prendi per un coglione?»
«Ah… quello.»
«Già. Non pensi che sia il caso che noi parlassimo… non lo so, di quello che ti passa per la testa per esempio?»
Sentivo che man mano che le parole mi uscivano dalla bocca, dentro di me quelle stesse parole stavano alimentando una rabbia che vedeva nell’espressione confusa e imbarazzata di Sana un terreno fertile su cui germogliare rigogliosa. Strinsi i pugni, perché io quella rabbia non gliela volevo dare, eppure sentivo che non avevo altra scelta perché alla fine, lei, continuava a sfinirmi.
«E tu non pensi che sia il caso di rivalutare un po’ certe proprie convinzioni?» tuonò lei, questa volta rendendo il suo viso un mero accumulo di rabbia.
E mi sentii pure frustrato, perché non riuscivo proprio a capirla, e pensai che forse non ne ero mai stato in grado davvero se, a distanza di più di un anno, continuavamo a gestire i litigi in quel modo.
«Cosa devo rivalutare? Si può sapere cosa ho fatto che ti ha dato così fastidio da andartene di casa?»
«Quale casa Hayama?»
«Kurata, non fare l’idiota. Mi spieghi cos’è questa scena che stai montando su? Perché io non riesco a spiegarmela… fino a ieri sera mi sembravi normale e…»
«Sì, esatto. Ieri sera… te lo ricordi di cosa abbiamo parlato?»
Quella domanda mi colse decisamente alla sprovvista. Se ripensavo alla sera precedente, mi venivano in mente un sacco di cose. Una tra le tante il suo arrivo a casa mia, la sua voglia di mostrarmi quasi subito quell’adorabile biancheria che aveva comprato e che le era durata addosso veramente pochi minuti, e poi una cena normale ritardata di qualche ora; discorsi fatti l’uno addosso all’altro come facevano sempre. E mi sentii ancora più un idiota per non riuscire ad afferrare quella che di sicuro era una sfumatura che io proprio non ero riuscito a cogliere.
Rimasi a fissarla, probabilmente troppo inebetito per non essere compreso da lei, che corrugò la fronte.
«No che non te lo ricordi, perché probabilmente ti ricordi solo del sesso, perché pensi solo a quello.» ripeté con molta più convinzione rispetto a quella stessa mattina in cui mi aveva buttato in faccia quella sua nuova visione di me. Allora mi passai una mano tra i capelli, stringendo appena una ciocca tra le dita.
«Kurata, per favore, visto che io evidentemente non ci arrivo, che dici se me lo spieghi eh?»
«Eppure pensavo fossi più sveglio Hayama.»
Quella frase mi suonò un po’ come una presa per il culo e decisi, in quel preciso momento, che la mia pazienza si era esaurita e che, in fondo, lei era libera di dirmi quello che voleva e quando voleva, così come io ero libero di decidere di essermi rotto semplicemente le palle di star dietro a quel groviglio di pensieri astratti.
«Sana cazzo, fa’ un po’ come ti pare. Io me ne vado a lavorare.»
«Ottimo Hayama, me ne vado anche io.»
Le diedi le spalle, ritornando ad avvolgermi di quella pesante nuvola di orgoglio che a volte mi faceva sentire così sicuro di uscirne vincente, ma anche un emerito coglione subito dopo.
Ma quella era una sensazione che ancora non ero arrivato a sentire.
Perché se da una parte mi aveva dato la sicurezza di andarmene, darle le spalle e abbandonare qualsiasi ulteriore tentativo di comprenderla, dall’altro mi conoscevo abbastanza bene da immaginare che non avrei lasciato comunque perdere.
Allora mi fissai nell’andarmene in quel momento e raggiungere John al locale.
«Buongiorno Akito, stai bene?»
Il viso di Kagome era cambiato dall’ultima volta che l’avevo vista e mi chiesi se quella non fosse solo una mia strana percezione da neofita di rapporti con donne incinte, perché non era passata nemmeno una settimana dall’ultima volta che l’avevo vista. Tuttavia, mi sembrò che le sue guance fossero cresciute allo stesso ritmo del suo pancione che, ormai, era visibile come il sole d’estate.
«Benone.» mi limitai a dire, abbandonando la giacca di pelle dietro al bancone. Non badai al fatto che, probabilmente, Kagome aveva captato qualcosa nella mia espressione perché lei, a differenza di John, non mi rompeva i coglioni ogni volta che mi vedeva di malumore.
Allora mi fiondai sul retro, mi cambiai la maglietta indossandone una nera a mezze maniche con il logo del locale sapientemente impresso sul petto, e tornai all’esterno, allacciandomi distrattamente il grembiule alla vita.
«Sana-chan è a lavoro?» mi domandò poi dal nulla.
«Già.»
«Sono contenta che le sia stata d’aiuto. La mia amica dice che è molto brava in quello che fa e che la sua associazione ne ha guadagnato molto.»
In realtà, mi misi a lavare i bicchieri sporchi nel lavandino e lo feci a mano, senza usare la lavastoviglie. Volevo qualcosa in cui essere impegnato perché quella conversazione appena intrapresa mi ricordava molto quelle che spesso avevo con John, con modi decisamente più delicati, e io non avevo voglia né di John né della sua copia femminile.
«Sì, se la cava.»
«Be’ la mia amica dice che ha un vero e proprio talento, che è diverso dal dire che se la cava. Mi sa che ora, oltre allo sportello psicologico, si occupa anche di orientare i nuovi arrivati sai?» e in quel momento spostai leggermente lo sguardo su di lei, cercando di decifrarne l’espressione. Avevo la mia idea di Kagome, di donna dolce ma sicura di sé e pensavo che lei rappresentasse la giusta nemesi per uno come John. Quindi scacciai di proposito il pensiero in cui mi stava provocando di proposito, continuando a difendere l’idea che mi ero fatto di lei.
In realtà quelle cose io le sapevo già, ed era stata Kurata a dirmele perché lei parlava, tanto e diceva molte cose. Però la verità era che alcune di quelle cose semplicemente me le perdevo, e sapevo che probabilmente lei ce l’aveva con me per quel mio limite. Ma io ce l’avevo con lei perché, allo stesso tempo, ero sicuro di non essere scivolato su nulla che fosse importante.
Poi l’insistenza di Kagome mi riportò alla realtà.
«E quindi la mia amica ha deciso di ampliare la sua associazione, perché non riesce più a star dietro alle richieste dei pazienti… me ne parlava proprio l’altro giorno. Sta assumendo persone e…»
Alzai la testa dai bicchieri e, nuovamente, la scrutai notando un’espressione diversa in viso. Mi domandai tutto quel parlare di Sana dove ci avrebbe condotto e, soprattutto, mi resi conto che se c’era una cosa di cui non volevo parlare era proprio Sana, o l’associazione per cui aveva iniziato a lavorare, né tantomeno le nuove leve che contribuiva ad addestrare.
Non ero certo uno stupido. Avevo capito perfettamente che quel tizio a cui lei toccava il braccio costantemente mentre gli parlava, era qualcuno che aveva a che fare con il suo lavoro, e i pensieri che mi ero fatto in testa avevano contribuito fin troppo a rovinarmi l’umore.
Non avevo intenzione di dare retta a Kagome e alle sue presunte congetture.
«Sai, credo che John non sarebbe contento se ti vedesse lì su quello sgabello invece che a riposo.» le dissi, senza prestarle troppa attenzione. Ma quella leggera risatina che mi rifilò ad un orecchio fu più fastidiosa di un’ipotetica risposta.
«Perché non dovrei essere contento, Acchan
Mi voltai di scatto, notando la figura di John comparire dalla porta sul retro che conduceva alla stanza-deposito dietro al locale.
Aveva due grossi scatoloni tra le mani, e io il suo viso nemmeno riuscii a vederlo per quanto erano grossi. Ma mi limitai a fissarlo qualche minuto, prima di tornare alle mie faccende, cercando di renderle più complesse di quanto non fossero.
«Oh, Akito si preoccupa solo per la mia salute.»
«Be’ fa bene. Ecco perché gli ho chiesto di sostituirti in questi mesi… non vorrei correre rischi con te, che non stai mai ferma.» e in quel momento il suo viso riemerse dagli scatoloni, per depositare un bacio sulla fronte di Kagome.
«Già, ma così toglierà tempo al karate.»
«Lascia perdere, se mi sono offerto è perché potevo.» tagliai corto.
«Come vanno gli allenamenti? Mi sembra di non vederti da una vita sai? Se escludi le giornate di lavoro, direi di aver perso il mio migliore amico.» disse John, mentre sistemava bottiglie e cianfrusaglie varie. Alzai gli occhi al cielo, cercando di ricordare nella mia testa l’ultima volta che io e John avevamo parlato, o almeno quella in cui era stato lui a srotolare qualche discorso estremo, come faceva lui, aspettandosi le mie osservazioni. E in effetti, non riuscivo a ricordarmelo… se ripercorrevo a ritroso le ultime immagini impresse nella memoria vedevo solo lei, e la mia tuta da karate.
«Comunque vanno bene.» gli dissi, come se avessi continuato a voce alta un discorso che, in realtà, avevo intavolato solo nella mia testa. Poi lo guardai per un attimo, riconoscendo lo stesso sguardo che aveva quando, da ragazzino, mi saliva un leggero imbarazzo perché sapevo che lui in qualche modo, ci era arrivato.
Allora mi concentrai nuovamente sui bicchieri, che ormai splendevano, e non ci badai più a quella sensazione che pensavo di essere riuscito a mettere da parte.
«E Sana-chan
Ma John era dannatamente insistente, cazzo. Lui e le sue domande, insieme a quelle di Kagome.
«È a lavoro John… ma verrà più tardi, tranquillizzatevi.»
Ma lo sentii avvicinarsi e con la stessa sicurezza con cui Kagome invece si allontanava, e mi sentii circondato dalla loro voglia di intromettersi nella mia vita e nel mio malumore.
Cazzo, mi chiesi se dovessi tenere conto alla gente di ogni passo.
«Sei una Pasqua oggi.»
«Bo… saranno gli ormoni.» borbottai, cercando di sembrare più sarcastico che stronzo, ma mi resi subito conto che a John quel confine non interessava affatto. Perché comunque me lo sentii addosso.
«Avete litigato eh, Acchan
Non gli risposi nemmeno, francamente lo trovai superfluo. E comunque, mi resi conto di stare navigando in un mare di melma senza appigli. Alla fine, le nostre litigate erano frequenti ma contenute, in termini di tempo intendo, e in qualche modo le cose si risolvevano. In quella situazione particolare però, sentii che c’era qualcosa che mi sfuggiva sul serio e che probabilmente non ce la saremmo cavata come le altre volte, se non avessimo messo da parte certi nostri limiti.
Allora dopo quell’inutile rimuginare, guardai John e rilassai le spalle, in una specie di sospiro. O almeno quello era ciò che volevo lui vedesse.
«Già…»
«E come mai?»
Allora scrollai le spalle, sventolando poi le mani al vento per eliminare via l’acqua di troppo. Mi sentivo le dita molli, completamente impregnate d’acqua.
«E che ne so… ce l’ha con me e non capisco il motivo. Questa volta proprio mi sfugge.» gli rivelai, girandomi poi e appoggiandomi con i fianchi al bancone.
«Be’ le hai fatto qualcosa? Che ti ha detto scusa?»
«Che… be’ mi ha accusato di pensare solo al sesso. E poi se n’è andata, lasciandomi queste sul tavolo della cucina.» mi resi conti di aver aggiunto particolari che non avrei fatto, fino a qualche tempo prima, e gli sventolai anche la sua copia delle chiavi di casa mia che custodivo ancora nelle tasche dei pantaloni, come un fantoccio o un acchiappasogni.
John si passò due dita sul mento, muovendole un po’ sulla barba incolta. Chissà, forse quello era il suo fantoccio acchiappasogni.
«Solo questo?»
«Già.»
«Deve essere impazzita allora…»
«È ciò che penso anche io, in effetti.»
«Perché sei un idiota, Acchan
«Senti… non vorrai mica cominciare con le tue lagne, vero?» lo interrogai, abbastanza incazzato. Ero convinto che quel suo aspetto si fosse attenuato nel corso dell’ultimo anno, visto che, a quanto pareva, la mia vita o il modo in cui la conducevo sembrava soddisfarlo parecchio.
Allora corrugai la fronte, pensando che non era possibile essere sempre dalla parte di Kurata.
«Io credo che un motivo ci sia.» riprese lui, tornando a rilassare il broncio che lo aveva accompagnato in quella battuta.
«Pensi che non ci abbia provato a capirlo? È tutto il giorno che le domando cosa abbia, ma lei non fa altro che dirmi che io penso solo al sesso… sta diventando sfinente.»
«Già…»
Lo guardai, alzando le sopracciglia decisamente sorpreso. Perché non mi aspettavo che mi desse ragione.
«Comunque fa’ un bel sorriso e stai tranquillo. Sono sicuro che risolverete. Non devi pensare di perderla per così poco…»
«Io non penso un bel niente. Sono solo sfinito.» tagliai corto, tornando a dargli le spalle per lavare quei bicchieri per la decima volta. Il fatto era che non riuscivo a concentrarmi e a mettere un pensiero decente dietro l’altro, almeno che avessero un minimo di logica. Ma se c’era un’immagine che proprio non riuscivo a lasciar andare, era il suo viso e la sua espressione a disagio quando l’avevo sorpresa a chiacchierare con quel tizio.
Mi martellava la tempia quella domanda, così tanto che non riuscivo nemmeno a formularla in silenzio nella mia testa.
«Ad ogni modo, quanta gente verrà stasera per Naosuke?» mi chiese John, interrompendo quell’inutile flusso di pensieri che mi stava portando solo a lavorare una merda.
Scrollai le spalle, abbastanza indifferente.
«Bo… dieci, quindici. Chi lo sa… quello conosce mezza Tokyo.» risposi abbastanza distrattamente.
«Va bene, ho capito. Sistemeremo la sala aspettandoci un esercito di gente.» mi disse, prima di avviarsi verso la sala e i tavoli da sistemare.
Sbuffai, lanciando poi lo strofinaccio con cui avevo iniziato a lavare i bicchieri sul lavandino del bancone per fiondarmi da John.
«Faccio io qui… tu sistema il resto.» gli dissi. Avevo bisogno di concentrare la mia testa su qualcosa che fosse manuale e mentale allo stesso tempo, per cui l’organizzazione della sala e la sistemazione dei tavoli mi sembrò il mezzo perfetto per evitare di continuare a pensare a lei, e a quella dannata espressione di disagio che le avevo visto in faccia quella mattina.
E alla fine ci riuscii, a non dedicarle tutta la mia giornata.
Guardai l’ora e probabilmente Naosuke e gli altri sarebbero arrivati di lì a pochi minuti. Allora mi avviai verso il bancone e mi spillai una birra, nell’attesa di iniziare quel turno di lavoro che prevedevo già essere massacrante.
Immaginai il momento in cui avrei finito e me ne sarei tornato a casa, e subito la mente tornò nuovamente sul mio ormai chiodo fisso: lei sarebbe venuta con me?
Feci un sorso di birra e mi passai la lingua sulle labbra, considerando il fatto che avevo spillato quella birra una vera merda e che non c’era praticamente nemmeno un briciolo di schiuma. Quindi feci cadere un po’ di birra nel lavandino, per poi avvicinare il bicchiere nuovamente allo spillatore, abbassandolo subito dopo la fuoriuscita della birra. Alla fine la schiuma traboccò anche dal bicchiere e mi sentii ancora più idiota.
Fu in quel momento che la porta del locale si aprì, spinta dal braccio di Naosuke, seguito da due ragazzi che non avevo mai visto, Hisae e Mizuki.
E poi nessuno più.
Controllai il cellulare rapidamente, nonostante non avessi sentito né vibrazioni né suoni. Come mi aspettavo, nessuna notizia.
«Ehi Akito, quanta vita qui dentro.» disse Naosuke, agitando un braccio per salutarmi. In breve le sue mani si appoggiarono al bancone proprio di fronte a me.
«Aspettavamo tutti te. John ha fatto un playlist in tuo onore.» gli dissi, prendendolo un po’ in giro. Dovevo ammettere che, da quando Sana era tornata in pianta stabile nella mia vita, avevo iniziato ad apprezzare molte cose che in passato avevo semplicemente lasciato che mi scivolassero sulle spalle.
Una tra le tante era proprio Naosuke e la sua amicizia. Averlo visto insieme a lei, giorno dopo giorno, comprendendo a fondo la natura di quel rapporto, era stato un modo per conoscere anche lei. Inoltre, ero fermamente convinto che la bellezza di Sana fosse arrivata a quei livelli anche grazie alla presenza di Naosuke, Hisae e Mizuki. E io non potevo non sentirli vicini in quel modo.
«Oh quanto vi mancherò da uno a dieci? Quanto?» disse lui, con il suo solito modo teatrale di far parlare il corpo e la bocca. Gli sorrisi, sinceramente divertito, e gli spillai una birra.
«Ci taglieremo tutti le vene appena metterai piede su quell’aereo.» lo presi in giro, porgendogli il bicchiere stracolmo che lui acciuffò in un nanosecondo.
«Questo qui sta già bevendo? Ci vuoi arrivare in coma all’aeroporto?» gli fece eco Mizuki, una volta avvicinatasi insieme ad Hisae. Naosuke le rivolse un’occhiata di sufficienza, aumentando la velocità con cui fece sparire la birra che gli avevo spillato solo pochi secondi prima.
«Magari ci arrivassi in coma… tutte quelle ore di volo mi stanno già mettendo agitazione.»
«Be’, pensa però che tra due giorni sarai finalmente a Londra. Non vedo l’ora di venirti a trovare.» aggiunse Hisae, visibilmente eccitata.
Quello scambio di battute attenuò il mio senso di inquietudine nell’aver constatato che Sana non era con loro. Mi domandai dove fosse, a quel punto, e mi sentii leggermente nervoso all’idea di non riuscire a prevedere il momento in cui l’avrei vista spuntare dietro quella porta.
Mi sentii catapultato indietro nel tempo di almeno due anni, al giorno della serata rock-country organizzata da John.
A volte mi domandavo, come una romantica fanciulla del cazzo, cosa sarebbe successo se lei quella stessa sera non fosse mai tornata qui al locale. E quando l’aspetto romantico della faccenda prendeva il sopravvento, mi convincevo che non potevamo che arrivare a quel punto in ogni caso.
Già, peccato che lei avesse deciso di farmi impazzire di nuovo, di punto in bianco e senza una cazzo di spiegazione.
«Hayama, non dirmi che stasera lavori? Dovresti essere al tavolo con noi, sai?» mi chiese Hisae, appoggiando i gomiti sul bancone di legno.
«Hai ragione, ma John ha bisogno di una mano qui… cercherò comunque di fare la mia parte.» le dissi, quando fu Mizuki a mettersi tra lei e Naosuke rivolgendomi un’occhiata confusa.
«Ma invece Sana dov’è?» mi domandò, e il mio sguardo volò rapidamente da Hisae a Naosuke, che si mise due dita sulla fronte.
«Mizuki, ma che domanda è?» le fece Hisae.
Avevo evitato appositamente di chiedere loro di lei, così come pensai a quel punto che anche Hisae e Naosuke avessero fatto la stessa cosa. Allora spostai lo sguardo su Mizuki, corrugando la fronte.
«Arriverà.» mi limitai a dire. Mi sentii improvvisamente ribollire dentro, per una serie infinita di ragioni. Ma, nonostante tutto, non volevo farne un affare di Stato perché se c’era una cosa che in quel momento volevo più di tutto, era parlare con lei e farmi dire cosa cazzo le stava prendendo.
Decisi di spezzare quel momento andando verso il computer accanto alla cassa, all’interno del quale John aveva già sistemato la playlist fatta per la festa d’addio a Naosuke.
«Be’ che arriverà è certo… il problema è capire come e quando, visto che è praticamente sparita.» mi fece eco Mizuki, e allora le mie mani si strinsero a pugno in gesto quasi spasmodico. Ma che cazzo stava combinando.
«Smettila cretina, Sana mi ha scritto poco fa dicendomi che avrebbe fatto tardi a lavoro e che sarebbe venuta direttamente qui.» aggiunse Hisae, o almeno fu quello che io riuscii a captare dal punto in cui ero. E decisi di non indagare oltre, di mettermi a lavorare e di parlare direttamente con lei, quando sarebbe arrivata.
E le ore successive trascorsero come se fossero stati degli eterni secondi che non volevano proprio saperne di avanzare più velocemente, e più quella concezione del tempo si solidificava dentro più l’attesa diventava estenuante.
Nonostante il lavoro, nonostante l’andare avanti e indietro tra i tavoli diventava sempre più impegnativo man mano che la serata prendeva forma, non riuscivo a togliermi quel pensiero fisso dalla testa. Così appoggiai il vassoio vuoto sul bancone, e afferrai il cellulare dalla tasca che continuava ad essere muto. E fu proprio lo schermo scuro privo di qualsiasi avviso a farmi incazzare sul serio, e mi decisi a cercare il suo contatto per chiamarla. Mi spostai verso il retro del bancone alla ricerca di un minimo di quiete, e fu in quel momento che la vidi entrare dalla porta d’ingresso.
Lasciai cadere il braccio e la mano che stringeva ancora il cellulare e mi sentii abbastanza frastornato quando la vidi voltarsi alle sue spalle, sorridente e gesticolante come suo solito. E stranamente non mi stupii affatto di notare che dietro di lei c’era qualcun altro. Il sentimento che sentii fu molto più forte dello stupore, non proprio sconosciuto ma sicuramente mi invase da dentro, e percepii uno strano formicolio alle mani quando Kurata iniziò a macinare passi all’interno della sala, seguita dal tizio di quella mattina.
La prima cosa che pensai fu che fosse stupida.
Probabilmente Kurata era talmente stupida da non rendersi conto che quel genere di cose, unito al suo strano comportamento di quel giorno, avrebbero potuto infastidirmi. E la cosa ridicola era che chiamare quella sensazione che provavo fastidio non era altro che un cazzo di eufemismo.
Allora la fissai, piantonai lo sguardo proprio su di lei che camminava tranquilla come se niente fosse stato e la seguii, mentre raggiungeva Naosuke e gli altri, seguita da quel tizio che sembrava stesse andando al patibolo. Alzai un sopracciglio, pensando che la mia ragazza fosse davvero stupida o, in caso contrario, stesse agendo in quel modo di proposito, considerazione che mi fece incazzare ancora di più.
Notai all’istante lo sguardo di Naosuke verso di me, mentre abbracciava Sana, e mi sembrò leggermente preoccupato. Non tanto quanto lo ero io, probabilmente, perché iniziavo a sentirmi sempre più fremente di andare lì e capire cosa stesse succedendo e, soprattutto, chi cazzo fosse quel tizio con cui lei era venuta.
Ripensai al fatto che, molto probabilmente, fosse veramente stupida da non capirle affatto certe cose.
Mi mossi, perché non resistevo più, e li raggiunsi, perché era il mio cazzo di locale e perché lei era la mia ragazza e mi sentivo già abbastanza idiota ad essere l’unico a non sapere niente, a giudicare dalle facce stranite dei nostri amici.
«Oh Akito, ti sei liberato.» disse Naosuke, con un sorriso nervoso. A quella frase, anche Sana si girò verso di me, restando comunque immobile.
Odiai quella situazione, detestai quel momento in cui non seppi cosa fare. Quell’istante in cui mi chiesi nuovamente cosa le passasse per la testa tanto da non avvicinarsi nemmeno. E odiai ancora di più me stesso per quella sensazione di trappola in cui mi sentivo proprio lì, davanti alla persona con cui condividevo la vita.
Poi lei abbassò lo sguardo con la fronte corrugata, e io esplosi.
Le presi un braccio, cosa che suscitò in lei una strana espressione di sorpresa, e la attirai verso di me allontanandola da tutto il resto.
«Kurata…»
Sospirai.
«Ciao…»
«Che cazzo stai facendo?» le chiesi secco. Lei boccheggiò incredula, ma anche imbarazzata, e potevo dirlo con estrema certezza.
«Hayama, ma che…»
«Ora tu vieni con me, e non accetterò un no come risposta.» le dissi, tirandola appena per un braccio.
«E se io, invece, non volessi venire?» mi rispose, con un tono provocatorio che mi fece vedere di colpo tutto nero. Ero indeciso sul da farsi, perché una parte di me, quella che avevo nascosto ben bene ai suoi occhi, quella stracolma di orgoglio e risentimento verso la gente, non vedeva l’ora di esprimerle tutto lo sfinimento che sentiva. Ma, se quella parte di me era così assopita, il merito era sempre stato suo.
Allora rilassai le spalle, e non le risposi. Mi limitai a trascinarla con me verso il retro del locale, sotto lo sguardo di John che, improvvisamente, aveva perso la concentrazione sui suoi cocktail per darla tutta a noi due.
Una volta dentro, chiusi la porta a soffietto alle mie spalle e incrociai le braccia sul petto.
«Io sto lavorando Kurata.»
«Lo vedo da sola.»
«Allora vedrai anche il fatto che ora, invece di lavorare, io sia qui con te. Credo di meritarle delle spiegazioni, no?» cercai di esprimermi senza rabbia, ma la vidi mordersi un labbro e mi domandai se, invece, quella rabbia non fosse uscita fuori ugualmente.
Poi abbassò la testa, abbandonano quello sguardo di sfida che le avevo letto in volto.
«Chi è quel tizio con cui sei venuta?»
A quella domanda, alzò la testa di scatto. Che diavolo, pensava davvero che non l’avessi notato?
«Kurata, sul serio? Credimi, ho esaurito la pazienza. Se hai qualcosa da dirmi, fallo e basta.»
«Ma… che dici?» mi chiese, tramutando la sua espressione di disagio in una di sorpresa.
«Dico che vorrei sapere cosa ti passa per la testa, dove sei stata tutto il giorno e chi cazzo è quel tizio con cui sei venuta stasera. Trovi che sia chiedere troppo?»
«Lui è un collega, pensavo lo avessi capito stamattina.»
«Certo che l’ho capito, così come ho capito che eri a disagio.» le dissi, sperando di essere stato abbastanza chiaro da farle capire cosa intendessi.
«Koji non c’entra niente, Hayama. Perché lo metti in mezzo?»
«Koji?» domandai, corrugando la fronte. Mi sentii esasperato, e disarmato. Allora mi passai una mano tra i capelli, lasciandocela lì per qualche secondo.
«Già… lavoriamo insieme, e mi è sembrato carino invitarlo.»
«E non ci sarebbe nulla di male, se tu non avessi deciso all’improvviso di farmi impazzire.» le dissi, con un tono di voce decisamente più alto del solito.
Ma quella era la fottuta verità: Sana mi stava facendo impazzire, nel giro di poche ore tra l’altro.
«Ah, sarei io quella che ti fa impazzire adesso? E cosa dovrei dire io?»
«Quello che ti passa per la testa, dannazione. Io non vivo nel tuo cervello.»
«Già, ma dovresti capirmi. E invece non lo fai.»
Mi sentii frustrato, colpito in modo vile e la guardai interdetto.
«Quello che pretendi tu non è capirsi, è leggersi nel pensiero. Cosa avresti fatto tu se io avessi deciso all’improvviso di non voler più vivere con te?»
«È questo quello che pensi Hayama?»
A quelle parole non potetti fare a meno di sollevare le sopracciglia, incredulo. Possibile che avesse ragione e che fossi io a non aver capito qualcosa?
«Cosa devo pensare? Non lo capisco…»
«Ti ricordi di cosa abbiamo parlato ieri sera?» mi domandò, decisamente arrabbiata. Sentivo che quella domanda aveva avuto il potere di capovolgere i nostri ruoli, e le nostre emozioni perché mi sentii messo con le spalle al muro.
Allora corrugai la fronte, concentrando la mente per riportare i miei ricordi alla sera precedente. La sentii sbuffare, quindi abbassai lo sguardo sul suo viso sul quale ci lessi una sorta di impazienza.
«Mi hai raccontato la tua giornata, di aver mangiato quel bento da schifo che ti ha fatta star male tutto il pomeriggio e poi abbiamo parlato di “Parasite” e del fatto che non ti fosse piaciuto. Ancora non capisco come sia possibile che non ti sia piaciuto…»
«Hayama?» mi chiamò sbuffando di nuovo. Allora ritornai alla sua prima domanda.
«Mh, poi…» mi sentii un idiota ad elencare tutto quello che ci eravamo detti la sera prima come se fosse la lista della spesa. Ed ero anche convinto che alla fine non ci sarei comunque arrivato a capire il motivo di tutto quel casino, perché probabilmente era legato ad una parola che mi aveva detto, e basta, parola che io non avrei mai ricordato.
«Poi mi hai detto che Hisae ha intenzione di cercare casa in un altro quartiere per avvicinarsi al lavoro, e che il vostro contratto di casa scadrà tra quattro mesi e quindi…» avevo deciso comunque di continuare ad elencare la lista della spesa, e pensai improvvisamente che avevo fatto la scelta giusta, perché quando avevo pronunciato quelle ultime parole, lo sguardo di Sana si assottigliò.
Allora probabilmente spalancai gli occhi.
«Non ci posso credere Kurata.» esclamai, passandomi una mano tra i capelli. Mi sentii sollevato, ma anche decisamente sfinito.
«Be’… perché scusa?»
«Perché mi hai fatto passare una giornata di merda, quando avresti semplicemente potuto essere più chiara. Ma ti diverti così tanto a non farmi capire nulla?»
«Guarda che Hisae e Mizuki l’hanno capito subito.» mi rispose lei, con le labbra imbronciate.
«L’hanno capito perché gliel’avrai raccontato probabilmente.»
«È che mi aspettavo che me l’avresti chiesto… e invece no, perché per te conta tutt’altro.»
«E invece sei fuori strada. Se tu non ti fossi addormentata, avremmo continuato a parlarne e…»
«Be’ ero stanca e… scusa Hayama, ma questo che c’entra?»
Sospirai rilassando le spalle. Certe volte Kurata mi sembrava così ottusa, ma dovetti ammettere a me stesso che in quella specifica situazione l’ottuso ero stato io e non mi ero soffermato sul mettere insieme una serie di indizi che lei, probabilmente nemmeno volontariamente, aveva lasciato perché io li vedessi.
«C’entra perché ti avrei detto che anche il mio contratto scadrà a breve… tra tre mesi in effetti.» le rivelai in modo del tutto tranquillo.
«Oh… non lo sapevo.» mi disse lei, e in quel momento notai un leggero rossore sulle sue gote. Mi morsi un labbro per trattenere un sorriso.
«Be’ non te l’avevo detto.»
«Già.»
«Perché per me le cose non sarebbero cambiate. Kurata io e te viviamo già insieme… almeno ho questa percezione, da sempre.»
«Ma non è proprio così comunque, io abito con Hisae… ora che Mizuki si è trasferita, e a breve lo farà anche lei, quindi pensavo che potessimo rendere le cose ufficiali, insomma. Ci voleva tanto a capirlo?» mi domandò. E di nuovo mise le labbra a broncio.
Mi domandai subito dove fosse finita la mia irritazione. Di colpo sentii che la frustrazione che avevo provato stava lentamente scivolando dalle braccia, attirata al suolo da una forza di gravità il cui punto focale era proprio di fronte a me.
Feci un passo verso di lei.
«Rendere le cose ufficiali?» le domandai, osservandone il viso arrossato.
«Sì… insomma, io pensavo che avessi intenzione di chiedermi di venire a stare da te. Seriamente intendo.»
«Seriamente?» chiesi più a me stesso in realtà, che a lei. Forse non ero mai stato abbastanza chiaro con Kurata, eppure avevo sempre pensato l’esatto opposto.
La vidi schiudere le labbra.
«Non lo so, ma io non agisco a comando.»
«Questo lo vedo, e io…»
«Nel senso», la interruppi, alzando appena il tono delle mie parole, «Che per me è già tutto serio e ufficiale. Non ho mai pensato di dovertelo chiedere così. È naturale che ti avrei chiesto di cercare una casa insieme, se tu mi avessi dato il tempo. E non pensavo sarebbe diventato motivo di litigio. Vedi… per me, tu sei già nella mia vita in modo serio ed ufficiale e non avevo certo bisogno di questo per rimarcarlo.» mi lasciai uscire quelle parole, come se davvero non avessi fatto altro nella vita. E non mi sorpresi nemmeno più di tanto perché anche quello per me era diventato naturale ed ufficiale.
«Hayama, io non…» poi si interruppe, guardando per terra. Allora eliminai del tutto la distanza che c’era tra noi e appoggiai le mani sul suo viso. Glielo strinsi appena e la guardai, notando le sue labbra che si piegavano leggermente verso l’alto.
«Ma se tu hai bisogno di una richiesta ufficiale, se è quello che desideri te lo chiederò ufficialmente.» le disse, abbassando appena il viso per raggiungere il suo sguardo. Lei mi guardò, fissò i suoi occhi nei miei e capii che era quella la mia ufficialità, era quello il mio averla seriamente così come non era nemmeno quello. E tanto altro.
L’ufficialità della sua presenza nella mia vita era rappresentato da tutto quello che facevamo insieme, tutto quello che facevo da solo nel modo in cui lo facevo, e non avevo bisogno di sentirmelo dire perché lo sentivo talmente dentro che qualsiasi parola non avrebbe racchiuso tutte le sensazioni che provavo da quando lei era entrata nella mia vita.
Non feci altro che guardarla negli occhi, fin quando lei schiuse appena le labbra. Solo allora il mio sguardo si appoggiò proprio lì, allora le strinsi il viso tra le dita avvicinandola al mio per baciarla, perché ne sentivo il bisogno dopo ventiquattro ore senza i baci di Kurata. E il fatto che la sua bocca mi accolse con una certa urgenza mi fece capire che anche lei sentiva la necessità di baciarmi, e non c’era ufficialità più seria di quella per me. Perché Kurata era semplicemente tutto ciò che volevo e tutto ciò di cui avevo bisogno per definire i confini delle mie stesse percezioni.
Fu un bacio breve, decisamente troppo in rapporto al tempo in cui ne ero stato privato, ma capii che lei voleva dirmi qualcosa.
Allora aprii gli occhi sentendo una strana confusione, quasi come se mi fossi appena svegliato.
«N-no… credo che non sia necessario alla fine.» mi disse, quasi sulle labbra. E poi mi sorrise, rimodulando nuovamente l’idea che io avevo di lei, che continuava a disarmarmi anche quando di armi ero proprio convinto di non averne più.
Le sorrisi di rimando, baciandole poi la punta del naso.
«Hai fatto un casino per niente, allora.» la presi in giro, aspettando trepidante che sulla sua faccia si disegnasse quel broncio imbarazzato che adoravo alla follia.
«Non è affatto così.» mi disse arrabbiata, ma non ci badai veramente. Avevo in mente di restituirle qualcosa, quindi mi infilai una mano in tasca prima di porgerle le chiavi del mio appartamento.
«Nell’attesa di avere una casa tutta nostra, per favore riprenditi queste.» le dissi, e lei mi rispose con un sorriso appena accennato. Poi la vidi fare un passo verso di me e allargare le braccia, finché non la sentii cingermi il petto, appoggiandovi poi una guancia.
La abbracciai di rimando, infilandole le dita tra i capelli e mi chiesi come diamine fosse possibile sentire così tanto la mancanza di qualcuno in così poco tempo.
«Kurata, devo tornare a lavoro e tu da Naosuke. Chi lo sente quello se poi non gli dedichi tutto il tuo tempo alla sua festa d’addio.»
«Già. Per favore, resta anche tu qualche minuto con noi.» mi disse, stringendo un po’ più forte la presa su di me.
«Vorrei presentarti Koji… lo hai un po’ intimorito oggi sai?» mi disse. Io le alzai il viso cercando il suo sguardo.
«Avevo le mie ragioni.»
«Eri geloso Hayama, l’ho capito subito.»
«Ma dai.» le risposi, sarcastico, quando vidi il suo viso appoggiarsi nuovamente al mio petto. Improvvisamente non mi importava più niente di quel tizio, di quella mattina, delle chiavi e di tutto il resto. Avevo ritrovato la mia pace, il resto poteva anche cadere.
Poi improvvisamente, in un movimento decisamente troppo brusco, si allontanò da me poggiando le sue mani sul mio petto. Mi guardò quasi avvilita.
«Oh no, da quanto tempo siamo chiusi qui dentro?»
«Bo, qualche minuto.» dissi vago.
«Mannaggia, l’ho lasciato solo. Povero Koji…»
«Kurata, lo fai apposta per caso?» le dissi abbastanza infastidito. Insomma, avevamo chiarito certo ma tutte quelle attenzioni nei confronti di quel tizio iniziavano a darmi davvero ai nervi.
Poi la vidi sorridere, e alzai un sopracciglio.
«Io non ho occhi che per te, Akito.» e quelle parole, accompagnate dal suo meraviglioso sorriso, le uscirono con una tale naturalezza che ebbero il potere di imbarazzarmi, nonostante fossi io che spesso e volentieri le suscitassi quell’effetto. E nonostante il tempo insieme, provavo una sorta di strano brivido dietro la nuca ogni volta che lei mi sorprendeva in quel modo.
«Ma Koji ha bisogno di me… mi ha confessato stamattina che vorrebbe chiedere ad Hisae di uscire. È molto timido eh… all’inizio mi sono sentita a disagio perché Hisae non è tipa da fare queste cose.»
«Hisae?» domandai, infilandomi poi le mani nelle tasche dei jeans.
«Sì. In realtà l’ha vista solo due volte, quando è venuta all’associazione per pranzare con me. E lui ora dice che è bellissima ed intelligentissima… devo assolutamente aiutarli.»
«Mh…» mugugnai perplesso, e in quel momento l’entusiasmo svanì completamente dal suo viso.
«Che c’è?» mi domandò, visibilmente delusa.
«Niente, niente. Facciamo che io torno a lavoro e tu a fare Cupido?»
La visi rilassare le spalle e sospirare, abbandonando le braccia inermi lungo i fianchi. Le diedi un bacio sulle labbra, accarezzandole la guancia. Mi resi conto che in realtà era passato più di qualche minuto da quando ci eravamo rintanati lì dentro e, nonostante sapessi che John non sarebbe mai venuto ad interromperci, non mi andava di lasciarlo solo con tutta quella gente. Oltretutto non c’erano più dubbi sul fatto che sarei tornato a casa con lei, tanto valeva mettersi a lavorare e pensarci dopo.
E così Sana tornò dagli altri e io non riuscii a non seguirla con lo sguardo, finché non li raggiunse. Sorrisi appena nel vedere Naosuke, decisamente alticcio, prenderla per i fianchi e sollevarla da terra. Spostai poi lo sguardo sugli altri, che sorridevano o chiacchieravano e mi sentii sollevato, ma anche stranamente impaziente di raggiungerli, una volta smaltita la mole di lavoro. E mi resi conto che in effetti quel mio nuovo desiderio non c’entrava affatto con Sana, o comunque non solo con lei.
Scossi la testa e tornai da John dietro il bancone. Ero sicuro che mi avrebbe chiesto qualcosa riguardo la mia assenza con Sana, ma sorprendentemente non lo fece. Si limitò a strizzarmi un occhio per poi tornare ai suoi cocktail, senza dirmi nulla per tutta la serata.
E alla fine i minuti trascorsero così veloci che nemmeno mi accorsi che ormai nella sala c’erano solo quattro tavoli occupati, uno di questi da Sana e gli altri.
Spostai lo sguardo proprio nella loro direzione osservandoli mentre ridevano e portavano a turno un bicchiere verso l’alto. Poi Naosuke alzò una mano, agitandola energicamente.
«Ehi, ti muovi a raggiungerci? Non me ne vado di qui se non facciamo almeno un brindisi insieme!» urlò, facendosi sentire da tutto il locale. Alzai le sopracciglia quando mi sentii John praticamente alle spalle.
«Perché non ti unisci a loro, Acchan? Tanto qui abbiamo finito… anzi, chiudi tu così io posso andare da Kagome.»
«Quando la smetterai di chiamarmi in quel modo?» lo ammonii, senza essere però veramente infastidito. Ormai usavamo qui toni più per abitudine che per un vero motivo.
«Quando andrai in pensione.»
Schioccai le labbra osservandolo mentre si allontanava verso la cassa non appena due clienti fecero la loro comparsa per saldare il conto. Mi fissai qualche istante sulla figura di John, mi sembrava abbastanza stanco onestamente. Ma sapevo bene che quella sua stanchezza aveva a che fare con Kagome, oltre che al lavoro ed ero altrettanto sicuro che a lui quella sensazione nemmeno pesasse. Alla fine c’era davvero riuscito, nella vita, a modellare le cose esattamente secondo le sue volontà e pensai che quella era un’altra caratteristica del mio migliore amico: essere dannatamente insistente perfino con il destino, o qualunque cosa per lui avesse agito.
Con lo sguardo tornai poi al tavolo a cui era seduta Sana, e corrugai la fronte quando la vidi ridere e accasciarsi proprio sul tavolo, piegando le braccia sotto il mento. Mi slacciai velocemente il grembiule scuro lanciandolo sul bancone, e li raggiunsi in pochi passi.
«Finalmente… qui sta per finire tutto.» Naosuke accompagnò quell’osservazione alzando una bottiglia di rum quasi vuota.
«Perché non mi riempi un bicchiere? Non esagerare però, devo guidare.» gli risposi, facendo il giro del tavolo rotondo per raggiungere Sana. La vidi scattare sulla sedia e la guardai un po’ stranito.
«Posso guidare io Hayama… sono bravissima!» ma quelle sue parole le uscirono un po’ sfocate e capii che aveva decisamente esagerato con l’alcol.
Mi avvicinai alle sue spalle, poggiando entrambe le mani sul viso.
«Vorrei vivere ancora un po’ Kurata.» Mi chinai quindi per darle un bacio sulla testa, per poi tirarmi una sedia dal tavolo accanto.
«Ora direi che possiamo brindare. Ci siamo tutti.» riprese Naosuke, porgendomi poi il bicchiere mezzo pieno. Lo afferrai, alzandolo appena seguito anche dagli altri.
«Prima parlavamo di cinema, e la tua ragazza ha gusti orrendi. Non so se lo sapevi.» continuò lui, ridacchiando e indicando Sana con un cenno del capo. Non gli risposi perché fui catturato da una serie di espressioni contrariate che si susseguirono sul viso di Kurata e decisi semplicemente di lasciarle il palcoscenico.
«Ma dai… solo perché sono in disapprovo con quello che dici. Questo non ti dà la ragione, Nao.»
«Volevi dire che sei in disaccordo…» le suggerii, ma lei mi rivolse solo una rapida occhiata senza nemmeno rispondermi.
«Sana ma come fai a dire che certi film sono orrendi? Nemmeno se mi scolassi tutta la bottiglia potrei accettarlo.» continuò Naosuke. Mi sembrò veramente sulla difensiva e la cosa mi divertiva abbastanza, considerando il fatto che quella doveva essere una specie di festa in suo onore.
«Be’ Nao, ho capito che in Parasite si vogliono denunciare i problemi sociali e di classe della Corea del Sud. Ma tutto quel sangue alla fine, andiamo. Non era affatto necessario…» Mizuki si pronunciò sventolando un bicchiere di birra mezzo vuoto e a quel punto, capii quale fosse il senso del discorso.
«Se fosse per te, non faremmo altro che guardare documentari sull’ambiente. Solo perché il sangue delle piante non è rosso poi…»
«Che cinico che sei Nao. Meno male che te ne vai a Londra guarda.»
«Mi mancherai anche tu, Mizu-chan
«Vedi? Non sono l’unica che la pensa così.» e a quel punto mi girai verso Sana, che sembrava anche abbastanza infastidita da quella discussione. Mi domandai invece quanto avesse bevuto.
«Lui è insensibile ai drammi, proprio come te!» aggiunse poi, indicandomi con il suo piccolo indice puntato esattamente al centro del mio petto. Feci una leggera risatina che contribuì ad accentuare quella sua espressione imbronciata in viso, e mi voltai poi verso Naosuke, quando lo sentii continuare la sua arringa.
«La prossima volta al cinema ci andiamo noi due, Akito.»
«Sarebbe fantastico, se non dovessi farmi quindici ore di volo per farlo.»
«Già, mannaggia.» rispose lui. In realtà aveva un’aria felice, ma allo stesso tempo riuscii a cogliere una venatura di tristezza nella sua espressione e la compresi perfettamente.
Ripensai rapidamente a quella sensazione di impazienza che avevo provato poco prima, all’idea di raggiungere proprio quel tavolo a cui ero seduto, e pensai che in fondo non mi era dispiaciuto affatto provarla e realizzare subito dopo il motivo per cui mi sentissi così bene in quel momento.
Poi mi sentii tirare un lembo della maglia.
«Devo presentarti Koji.» Kurata sussurrò quelle parole come se mi stesse proponendo una rapina in banca, con la preoccupazione in viso. Mi morsi un labbro, cercando di non farle vedere quanto trovassi deliziosa la sua faccia in quel momento, così spostai lo sguardo sul ragazzo che, in realtà, stava chiacchierando tranquillamente con Hisae.
Allora tornai a Kurata.
«Forse non è proprio il momento.»
«E invece sì. Gli ho parlato tanto di te a lavoro… in realtà non parlo d’altro sai? Credo che ti conoscano tutti in realtà.» mi disse quelle parole con una tale scioltezza che ci misi qualche secondo a realizzarne il significato. Probabilmente non mi ero mai reso conto di quel capovolgimento di noi stessi e di quanto, in realtà, spesso fosse lei a mettermi a disagio in un certo modo. Poi pensai che semplicemente, Kurata continuava a disarmarmi in ogni suo piccolo atteggiamento, anche da ubriaca, anche senza rendersene conto.
Le sfiorai una guancia con la mano, e lei si sorprese probabilmente di quel gesto, forse non capì cosa mi stesse passando per la testa e pensai che, in fondo, non avesse poi tutta quest’importanza.
La vidi avvicinarsi, mantenendo quell’aria che aveva assunto nel dirmi di volermi presentare il suo collega, e mi aspettai di sentirle rivelare chissà cosa perché lei sembrava che stesse proprio per fare quello.
«Hayama… io voglio tornare a casa con te adesso.» mi sussurrò, mettendosi anche una mano davanti alla bocca. In realtà, gli altri erano ancora impegnati nei loro discorsi sul cinema, quindi mi avvicinai facendo la stessa cosa per coprirmi la bocca.
«Ah sì?»
Lei annuì con la testa, mostrandomi un sorriso abbastanza eloquente, quasi riuscii a quantificare in realtà quanto avessero bevuto da quando la serata era iniziata.
«Proprio così…»
Allora mi allontanai di poco da lei, appoggiando un braccio sul tavolo. Lei seguì ogni movimento del mio corpo, probabilmente in attesa di una mia risposta. Mi feci improvvisamente serio.
«Devo dirtelo Kurata, tu pensi solo al sesso.» la parafrasai, cercando di imitarne anche il tono e mi infilai le braccia sul petto. Allora lei mi guardò quasi sconvolta, gonfiando appena le guance arrossate.
Comunque alla fine le sorrisi, e lei probabilmente capì o in realtà non era mai stata davvero arrabbiata. Forse era semplicemente ubriaca, ma a me quel suo essere così disinibita non dispiaceva affatto. Probabilmente perché davvero pensavo sempre al sesso, o quasi sempre e sinceramente non vedevo l’ora di tornarmene a casa con lei. Ma quella era la festa per Naosuke e sapevo anche che, probabilmente, non lo avremmo rivisto così presto e mi resi conto che anche Kurata aveva iniziato a pensare alle stesse cose, perché il suo viso si era leggermente rabbuiato.
«Comunque, restiamo un altro po’, e poi andiamo via. Ok?» le proposi, e fu quello che facemmo.
Restammo oltre il solito orario di chiusura, salutando John che se ne andò subito dopo l’uscita degli ultimi clienti, continuando a bere finché Naosuke non fu più in grado nemmeno di mettere in fila due parole di senso compito.
Alla fine quel Koji ci era riuscito a parlare con Hisae e loro due furono i primi ad andare via, seguiti da una serie di sorrisi e battiti da mano da parte di Kurata, che sembrava volesse gridare al mondo quanto era stata brava a far loro da Cupido. Il problema, pensai subito dopo, fu che lei di battere le mani non ne era affatto in grado perché a stento riusciva a tenere gli occhi aperti.
La afferrai per la vita, reggendola con entrambe le braccia. Era completamente andata e, nella mia testa sbuffai, perché in realtà ci avevo sperato fino alla fine in un epilogo diverso per quella serata.
«Hayama… sul serio, guido io stasera.»
«Sì certo, certo.» le risposi quasi per inerzia e lei, probabilmente nemmeno mi diede ascolto. Salutai Mizuki, l’unica ad essere perfettamente lucida insieme al sottoscritto, e Naosuke che continuava a dormire in realtà tra le braccia dei suoi due amici che non conoscevo. E mi caricai Kurata come un sacco di patate tra le braccia, depositandola poi nella mia auto. Ci mise davvero un secondo ad addormentarsi e io non potetti fare a meno di osservare il suo viso nel secondo immediatamente successivo, pensando a quanto fossimo stati idioti nell’aver avuto quel litigio stupido per tutte quelle ore.
Me la trascinai fino a casa, reggendole la vita con le braccia. La sentii mugugnare quando, a fatica, cercai le chiavi di casa mia per aprire la porta.
«Dove siamo?»
«A casa.» mi limitai a dire, spalancando la porta di casa mia per poi riprende Sana tra le braccia che sembrava essere sempre più pesante.
«Casa nostra Hayama? L’hai già presa?» biascicò a stento. Le sorrisi ma lei nemmeno mi vide, in realtà, così la portai direttamente in camera da letto per appoggiarla lì.
«Più o meno.» le risposi, mentre le sfilavo i vestiti di dosso per sostituirli con una maglietta di fortuna recuperata al volo dal mio armadio. Ricadde subito a peso morto sul materasso del letto e si rannicchiò su un lato, assumendo una posizione contratta che era quella in cui dormiva di solito.
Mi misi accanto a lei, sdraiandomi su un fianco senza nemmeno togliermi i jeans e la maglietta del lavoro. Le spostai poi i capelli dalla fronte scoprendole il viso, poi mi accorsi che aveva aperto gli occhi, anche se non del tutto, e le sorrisi.
«Hayama… ma a te piacciono le piante in case?»
«Come?» le chiesi, sbattendo gli occhi un paio di volte e continuando a pettinarle i capelli con le dita.
«Ma sì. Le piante… a me piacciono molto.»
«D’accordo, allora compreremo delle piante.»
«Poi vorrei anche… come si chiamano…» continuò a sussurrare, chiudendo nuovamente gli occhi. Non capivo proprio dove trovava ancora la voglia di parlare, ma nonostante tutto restai lì immobile di fronte a lei.
«Quelle cose che piacciono a Mizuki… quelli colorati e pesanti che si mettono a terra.»
«I tappeti?» le domandai.
«Sì sì, proprio quelli. Mi piacciono… anche quelli.»
«Va bene Kurata, compreremo anche dei tappeti. Ora perché non dormi?» le dissi, avvicinando il viso, per appoggiare poi la mia fronte contro la sua.
«Hayama…»
«Mh?»
«Io voglio vivere la mia vita insieme a te.» mi sussurrò sul viso.
C’erano molte cose che mi sfinivano.
Il karate e il traffico li avrei messi al primo posto senza ombra di dubbio. Se avessi dovuto stilare la mia personale lista di cose che mi sfinivano lo avrei fatto davvero, senza nemmeno pensarci. Avrei sicuramente specificato che lo sfinimento che provavo verso il traffico era ben diverso da quello indotto dal karate, ma era comunque stancante. Poi c’erano state quelle ultime… ventiquattro ore, che avevano contribuito a farmi rivedere i limiti entro i quali riuscivo a definire la mia stanchezza. Solo ventiquattro ore.
Poi però, per quanto quelle cose mi sfinissero in realtà, insieme ad alcuni atteggiamenti di John che ancora non riuscivo a mandare giù, mi sentivo comunque in grado di affrontarle e di ritornare sempre padrone del mio controllo.
Succedeva dopo il karate o dopo una giornata passata nel traffico di Tokyo. Quanto a John, di tempo per tornare padrone del mio controllo me ne serviva di più, a volte, ma ci riuscivo comunque.
Al contrario, avrei potuto contare sulle dita di una sola mano un altro tipo di sfinimento al quale non ero ancora riuscito a trovare una difesa. E forse chiamarlo in quel modo, sfinimento, non rendeva affatto giustizia a tutto ciò che lo innescava nella mia testa.
C’era una sola cosa nella vita che, di fatto, mi faceva pensare all’impossibilità della difesa.
Sana aveva chiuso di nuovo gli occhi, la vidi respirare profondamente e pensai che si fosse semplicemente addormentata. Cercai di trovare certe parole adatte, nonostante lei stesse dormendo. Mi serviva dirgliele e pensai che avrei potuto ripetergliele l’indomani appena svegli, perché in quel momento avevo una certa urgenza di farle uscire dalla mia testa.
E allora spostai lo sguardo sulle sue labbra appena schiuse, sulla mia mano che continuava ad accarezzarle il viso, e appoggiai la punta del naso sulla sua.
«Ti amo, Kurata.»
C’era una sola cosa al mondo che era stata in grado di disarmarmi completamente.
Perché, in fin dei conti, se ci ragionavo bene, Kurata non mi sfiniva.
Lei mi disarmava.
E in quelle ultime sole ventiquattro ore, mi ero reso conto che la cosa non mi dispiaceva affatto.
 
 
 
 *Note d'autrice*
Sorpresa!!
Pensavate di esservi liberate di me eh? Invece eccomi qui, con una piccola storiella che riprende ufficialmente gli eventi di Upside Down.
Che vi devo dire, io proprio non ci riuscivo a staccarmi da questi due e ho deciso di buttare giù questa cosina. Poi, man mano che scrivevo mi sono resa conto che non era tanto la mancanza che sentivo di questi Akito e Sana, quanto il fatto che mi sembrava di dover dire ancora qualcosa. Non lo so, lascio a voi libera interpretazione.
Inoltre, come avrete notato, è la mia prima storia (dopo tanto tempo) scritta in prima persona. E' stato un esperimento propedeutico e spero che abbiate apprezzato anche questo cambio di modo di narrare.
Detto ciò, vi saluto sul serio con UD che è proprio finita stavolta, e alla prossima storia <3
Vi ringrazio in anticipo, per leggere, apprezzare, disprezzare, commentare o no questa One Shot e ci vediamo presto di là con le risposte alle vostre bellissime recensioni <3<3
Tanti baci
Con affetto.
Alex
 
 
   
 
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