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Autore: Soe Mame    13/01/2021    2 recensioni
Il momento arriverà.
Continua ad aspettare, continua ad aspettare che arrivi.
Continua a sperare, continua a sperare che arrivi.
[1649-1738: È bastato meno di un secolo per cambiare tante cose tra il Sud Italia e la Spagna.]
Genere: Generale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Belgio, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non è che ci fosse alcuna differenza. La terra era della stessa sfumatura di marrone, il cielo dello stesso azzurro - Giusto le nuvole erano diverse. Poteva supporre che anche l'aria fosse la stessa. Quel che si presentava davanti ai suoi occhi non era niente di strano, di innaturale, anzi. Voleva vederne di più. Trasse un respiro profondo. Non c'era alcun motivo per esitare. Non lì.
Fece un passo avanti.
Non era cambiato nulla. La terra era uguale, il cielo era uguale, l'aria era uguale. Adesso voleva soltanto vedere ancora di più.
«Era ora che tornassi, eh, nonno?»

1734

L'ultima volta che era stato a Roma, Feliciano era appena stato portato via, Langobardia era morta e lo zio Petrus l'aveva accolto sotto la sua ala protettiva, dicendogli che si sarebbe occupato lui di qualsiasi cosa. La sua promessa era stata mantenuta con tanto, troppo zelo. Alle porte del nuovo millennio, in vista di un'Apocalisse che poi non era arrivata, Romano era scappato, salvo ritrovarsi afferrato per la collottola da sconosciuti che si autodefinivano suoi padroni.
Ora che ci rifletteva, erano trascorsi più di settecento anni.
Era strano rivedere qualcosa di conosciuto dopo così tanto tempo. Gli umani si stupivano di tornare ad una vecchia casa e riscoprirla coperta di rampicanti e polvere, gli interni divelti da visitatori sgraditi, animali di passaggio o vegetazione. Lovino era piuttosto sicuro che rivedere la propria città natale dopo settecento anni fosse simile, ma più estremo.
La cosa più assurda era il fatto che si trattasse di Roma, una città invasa di fossili architettonici alti metri e metri, che nessuno aveva avuto il coraggio di spostare. Il risultato era una gigantesca casa in rovina tappezzata di minuscole casupole al posto dei funghi e minuscole persone al posto delle formiche. Riconobbe i blocchi di pietra di alcune strade, riconobbe la forma di alcuni quartieri. Una città cresciuta sulle ossa di un mastodontico fossile. Ecco cos'era. Ecco perché era così bella.
Il Colosseo era ancora lì, meno devastato di quanto pensasse. A parte lo sbrago sull'anello più esterno, intendeva. Le case erano state costruite tutte intorno, separate dall'anfiteatro da un anello di vie intrecciate. Si fermò a guardarlo, mani nelle tasche, occhi verso le arcate più alte. Una cinquantina di metri di pietra innalzate quasi duemila anni prima. Sì, sapeva dell'esistenza di edifici più antichi e più impressionanti, ma quelli non erano parte della sua casa.

«Un tempo tutti facevano a gara per restaurare!» Ogni volta che passavano di lì, il nonno aveva da ridire. Quel giorno si era persino portato un fazzoletto, per asciugarsi delle lacrime inesistenti - Lo sapevano tutti che il nonno avrebbe tanto voluto riuscire a piangere a comando, per intenerire i suoi ascoltatori; purtroppo, il nonno non ne era capace e, soprattutto, sembrava non essere conscio del fatto che non sarebbe mai stato in grado di intenerire nessuno. «E ora guardate! Guardate!» Indicò il Colosseo e i Fori con un unico, ampio gesto del braccio. «Tutti sembrano essersene scordati! Non hanno il minimo rispetto per i loro antenati!»
Lavinius sospirò. Aveva perso il conto di quante volte avesse sentito quelle parole. Per questo li seguiva da lontano. Per questo e perché era grande, lui, e mica aveva bisogno di stare in braccio alla madre, come Felicianus.
«Mia dolce Teodelinda~» Il nonno si voltò verso Langobardia, con un enorme sorriso. «Vorresti impiegare un po' delle tue finanze per far felice il tuo
paterculus~?»
Langobardia lo osservò, con quel suo modo di guardare la gente al tempo stesso svampito e crucciato. Nessuno era mai riuscito a replicarlo. «Temo non mi sarà possibile,
pater.» disse, con una naturalezza tale da abbattere qualsiasi rimostranza di Romulus. Teodelinda, però, si voltò verso il Colosseo e lo indicò. I bracciali e le collane tintinnarono. «Stavo tuttavia soppesando l'idea di adornarlo con elementi nuovi.»
«Elementi nuovi?» Romulus pareva incredulo. Felicianus e Lavinius alzarono un sopracciglio in perfetta sincronia.
«Sculture di grande levatura!» Il volto di Langobardia brillava. «Le figure dei grandi imperatori e dei valorosi gladiatori impressi per sempre nella pietra millenaria della vostra fulgida era,
pater
Soltanto lei non notò il brivido che scosse il nonno. Con delicatezza, Romulus le prese la mano con cui stava indicando il Colosseo e, con un sorriso gentile, le disse: «Teodelindilla mia, apprezzo il tuo cortese pensiero. Tuttavia, ritengo tu sia più portata alla geometria e alla scultura zoomorfica, piuttosto che antropomorfa.» Le carezzò la mano. «Non devi sforzarti,
filiola
Langobardia sbattè le palpebre. Una volta, due. Poi sbottò. «State forse insinuando che io non sia capace di scolpire volti umani?»
«N-No, Teodelindilla, non volevo-»
«Non è mia intenzione mancarvi di rispetto,
pater, ma ritengo che voi non siate in grado di comprendere l'espressività dei miei murali!»


Ponte sant'Angelo era stato costellato di statue di angeli. Adeguato, visto il nome. Le balaustre erano state rifatte e l'angelo sulla cima dell'Adrianeum era diverso da come lo ricordava. Là sotto, il Tevere era... Era rimasto uguale, in un certo modo.

«Secondo te» Lavinius si voltò verso il fratello. «se ci buttiamo, ci sfracelliamo o rimbalziamo?»
Nei secondi successivi, aveva dovuto evitare di scoprire la risposta alla sua domanda trattenendo Felicianus per la tunica. A sentire lui, era scivolato e, non avendo i piedi a terra causa balaustra troppo alta, era finito con il cadere in avanti.
Per sicurezza, Lavinius l'aveva inseguito per mezza Roma esplicando a gran voce tutti i motivi per cui fosse un idiota.


A quanto sembrava, quel mascherone era diventato molto popolare. E sì che era solo un enorme medaglione con la faccia di un tizio con l'espressione di un pesce al mercato. Forse era la leggenda ad averlo fatto diventare così famoso. Insomma... Il nonno aveva detto loro che quello era un dannatissimo tombino.

«Ovviamente si tratta di sciocchezze!» Il nonno sventolò la mano. «E ora ve lo dimostrerò!»
Felicianus pigolò qualcosa, Lavinius rimase a fissare il faccione di pietra. Si era detto d'accordo con il nonno, ma non è che ne fosse proprio sicurissimo sicuro sicuro, ecco.
Romulus mise la mano nella bocca del medaglione. Pensò a cosa dire e pronunciò: «Sono l'Impero più brutto che ci sia!»
«Ma che cazzo di frase è.» Lavinius non fece in tempo a pronunciarla. Il nonno cacciò un urlo che spaccò i timpani e fece schizzare il cuore in gola. I due bambini accorsero, mentre il nonno si accasciava contro la parete, il mantello a coprire il braccio.
«
Avus!» Lavinius gli afferrò una spalla e lo scosse, il pianto di Felicianus nelle orecchie. «Ma sei coglione? Ecco perché-»
Il braccio scivolò da sotto il mantello. La mano era ancora al suo posto, intatta.
Felicianus smise di piangere. Lavinius si bloccò. Il nonno scoppiò in una gran risata.
«Perdonatemi, piccoli, non pensavo vi sareste spaventati così tanto!»
Felicianus guardò Lavinius. Lavinius guardò Felicianus. Come una sola persona, si scagliarono su Romulus e lo riempirono di pugni.


Ah, i bei ricordi. Ci sarebbe stato bene asciugarsi una lacrima immaginaria, ma Lovino non era teatrale come certa gente di sua sfortunata conoscenza.
Alzò lo sguardo. Non aveva seguito un percorso regolare ma, andando a caso, era arrivato. Sorrise. Che fosse il destino o qualcuno molto in alto, era finito lì.
Se ne sarebbe dovuto andare. Troppe cose dipendevano da un'unica azione compiuta per capriccio. Sarebbe stato pericoloso entrare, rimanere, anche per pochi minuti. Tutto poteva finire da un istante all'altro.
Aprì le braccia e inspirò a fondo. Il chiacchiericcio di una lingua che non usava da tempo, gli zoccoli dei cavalli sulla pietra, i versi dei piccioni forse immortali, il boato dell'acqua che si tuffava nelle due fontane. Il sole esattamente sopra la cupola. Il colonnato circolare che voleva illudere di avere un'unica fila di colonne, piuttosto che doppia. Riportò le mani in tasca. Era un buon momento per pregare. Perché non farlo in grande, allora?

«Piantala.» Strinse il suo fratellino stupido, che non aveva smesso di piangere un solo istante. «Che poi ti rinsecchisci e muori!»
Felicianus serrò la bocca, un tentativo fallito di fermare i singhiozzi. Gli occhi erano gonfi e arrossati, il volto scarlatto e sbattuto. Lavinius era sicuro fosse la sua immagine riflessa. Era stato costretto a portarlo fin lassù, sul monte Mario, dove nessuno potesse sentirli - dove loro potessero vedere chiunque.
Lo sentì dire qualcosa a proposito di Byzantium.
«A Byzantium non importa niente!» Lo strinse con più forza. «Non ti devi fidare di nessuno. Sono tutti cattivi!» Felicianus pigolò qualcosa. «A parte
mater, ovvio.» Dovette aggiungere. Lo sentiva tremare. Almeno non si sarebbe accorto di quanto stesse tremando lui.
Lo sentì dire qualcosa. Decise di essere onesto. «Sì, anche
mater è molto triste.» Tuttavia... «Non so quando verrà a prenderci. Per ora, rimaniamo qui.»
Felicianus annuì, piano. Tremava un po' meno. Lui, invece, no.
Non aveva mai visto un impero morire.


Più che una chiesa, era una piazza. Una piazza dal cielo arcuato e d'oro, sostenuto da colossali colonne bianche e oro, che formavano archi d'oro costellati di angeli e sorretti da altre colonne rosse... Solo provare a seguirne le forme era destabilizzante. Obiettivamente, era come tutte le altre basiliche, soltanto... Era conscia di essere grande. Se avesse iniziato a parlare, non si sarebbe stupito.
E poi, a caso, sul fondo della piazza c'era un enorme baldacchino senza letto, senza tende, con un altare e quattro enormi colonne ritorte. Una volta, un certo qualcuno gli aveva detto che i pirati si limitavano ad una croce rossa, per segnare il tesoro sulla mappa. Lì, preferivano fare le cose in grande, se non al contrario: il tesoro era la croce che segnava una tomba sulla mappa della piazza.
Lo zio Petrus era sempre con il suo Capo. Il suo Capo non era in vista. Lovino si inginocchiò accanto ad una delle colonne più vicine al baldacchino e giunse le mani. Meglio che il certo qualcuno non scoprisse mai che erano secoli che non si confessava. Avrebbe voluto dirlo allo zio Petrus, però. Chissà che faccia avrebbe fatto. No, meglio. Chissà che faccia avrebbe fatto nel vederlo.

Da tre anni stava succedendo qualcosa nel Granducato di Toscana.
Un'idea aleggiava nelle menti di chiunque ne fosse a conoscenza. Alcuni lo chiamavano "sospetto". Altri "speranza". Lovino non osava pendere né da un lato né dall'altro. Osservava i volti dei suoi compaesani, ascoltava le loro chiacchiere, teneva d'occhio i loro movimenti.
Non si osava parlarne ad alta voce. Coloro che parlavano di "sospetto" non sarebbero stati clementi con coloro che parlavano di "speranza". Lovino osservava anche loro, soldati delle terre di Rodrigo.
Poi, che fosse un "sospetto" o una "speranza", pochi mesi prima l'idea era divenuta proclama: gli spagnoli stavano marciando verso Napoli.
Il principe che li guidava era per metà spagnolo, per metà delle terre di Feliciano. Si chiamava Don Carlo e aveva fatto pervenire il più assurdo dispaccio di cui Lovino avesse memoria. Suonava all'incirca:
«Cari napoletani,
Gli austriaci sono brutti e cattivi e noi spagnoli siamo qui per porre fine a questo esecrabile regime del terrore. Vi vogliamo tanto bene! ♡♡♡
P.S. Se ricambierete tutto il nostro amore, non avrete nulla da temere circa i vostri privilegi, e noi saremo così magnanimi da perdonarvi qualsiasi cosa.
P.P.S. No, non vi porteremo l'Inquisizione, giurin giurello!»
D'innanzi a simili parole, i napoletani si erano mostrati... Lovino non sapeva neppure come definirli. Erano molto felici, ecco. Entusiasti, avebbe detto. Le loro voci si erano fatte più forti, le loro parole più decise, il loro passo più fermo, i loro volti più luminosi.
Gli austriaci dichiararono lo stato di guerra, chiamarono i loro soldati, ma i rinforzi che furono inviati erano una cifra irrisoria. Gli austriaci furono gli unici a preparare le difese. I napoletani stavano solo aspettando.
Fu per questo che Lovino decise di andare.
La notizia era nell'aria, aveva solo bisogno di una conferma. Per questo lui si era trasferito a Napoli da un anno - Rifiutandosi di incontrare Napoli, evitandolo il più possibile. Era crudele, ne era conscio. Ma, soprattutto in quel momento, non poteva permettersi di fare errori.
Fu strano non dover rubare un cavallo. Prese uno dei più resistenti, eluse la sorveglianza delle guardie austriache e si diresse verso nord.
Nonostante evitasse Napoli, non aveva mancato di informarsi nel dettaglio grazie alle notizie che gli giungevano, tra proclami, avvisi e persino quotidiani.
Gli spagnoli erano ormai arrivati nello Stato della Chiesa. Secondo gli informatori di Napoli, lo zio Petrus e il suo Capo erano stati assolutamente mansueti e ben disposti a farli passare. Era ovvio ci fosse qualcosa sotto, ma a nessuno sembrava importare. L'unico obiettivo degli spagnoli sembrava Napoli.
Il dispaccio era stato mandato da Monterotondo. Probabilmente, sarebbero scesi verso Frosinone. Li attese a Mignano, al confine.
Non poteva commettere un solo errore. Marchiati a fuoco nella sua memoria c'erano i volti e le parole del suo popolo. Marchiato a fuoco dentro il suo petto c'era la consapevolezza di stare aspettando un impero spagnolo che aveva invaso Roma e stava venendo a prendersi Napoli.
Il confine su cui si trovava era dannatamente sottile.


Non era lì per confessare secoli di peccati, ovvio. Anche se, pensandoci bene, aveva commesso un po' tutti quelli capitali.

Gli era giunta voce che la flotta spagnola aveva preso Procida e Ischia. Le navi erano già laggiù, dunque. Il cuore gli saltò nel petto quando scoprì che gli spagnoli non erano soli, sul mare: al loro fianco, sventolava la bandiera inglese.
Lovino isolò qualsiasi emozione. Non era un'effettiva alleanza, gli era stato detto. Era solo un "aiuto" da parte dell'eretica Albione. La guerra con lo stregone aveva avuto un risvolto alquanto inaspettato. Quel che Lovino non voleva pensare, però, era il fatto che Spagna avesse accettato l'aiuto del suo peggior nemico per riprendersi il Sud Italia. Ovviamente, l'aveva pensato. L'aveva pensato, e ci aveva rimuginato fino a sentire il il mal di testa per l'irritazione e il mal di stomaco per l'ansia.
Svuotava la mente guardando l'orizzonte, in attesa.
Qualcuno avrebbe potuto dire che fosse stupido cercare di svuotarsi la mente aspettando ciò che la occupava in gran parte. Quel qualcuno avrebbe avuto torto. Lovino era in ansia per ciò che avrebbero potuto fare gli austriaci, per il modo in cui si sarebbe potuta evolvere quella situazione. Di certo, non sarebbe mai stato in ansia all'idea di rivedere un certo qualcuno.
E poi, assistere in prima fila alla ritirata degli austriaci da Mignano non aveva prezzo. Fu dal loro ordine di arretrare che scoprì dell'arrivo degli spagnoli. Erano arrivati proprio mentre non stava guardando.
Alcune guardie austriache erano rimaste in città. Ingaggiare una battaglia lì sarebbe stata solo una perdita di tempo.
Riuscì a salire sulle mura quasi vuote della città. Guardò in basso. Individuò il gruppo principale. Non fu difficile capire chi fosse questo fantomatico Don. Ancor meno difficile fu notare il bastardo. Lo fissò, e che il suo sguardo gli si marchiasse addosso ovunque.
Antonio alzò la testa verso di lui. Vide i suoi occhi spalancarsi. Un attimo dopo, il suo nome, urlato come non sentiva da tempo.
Non poteva commettere un solo errore. Non distolse lo sguardo, non cambiò espressione. Alzò un braccio e indicò il sud. Poi si dileguò. Doveva scappare, e doveva farlo più velocemente possibile. Doveva essere sempre davanti a loro.
La prima volta, Antonio quasi s'introdusse nella città fortificata per cercarlo.
La seconda volta, Antonio lo inseguì finché non lo perse di vista.
La terza volta, Antonio rimase fermo al suo posto. Aveva capito più in fretta di quanto avesse sperato.
La quarta volta, Antonio non si mosse e Lovino rimase immobile, spettatore silenzioso di quel momento. Erano a Maddaloni, e una delegazione aveva offerto al Don le chiavi della città.
Ogni città, ogni paese, ogni luogo attraversato da quel gruppo di spagnoli risuonava di lodi e applausi. Era per quegli occhi, quelle parole e quelle mani che battevano che Romano non poteva permettersi di compiere il minimo errore.
Mancava poco, ormai. Dovevano solo andare verso la costa.
Per questo Lovino partì prima del previsto. Sapevano già dove andare.


Non era sicuro che bramare pomodori ed essere restio a condividerli fosse un peccato. Forse, ciò che era sbagliato era l'assenza di un limite ai suoi capricci, pretese di poco conto di cui si sarebbe presto dimenticato, ma richieste con una violenza non da poco. Sempre di più, sempre di più, senza mai esserne soddisfatto.
Voleva quella città, voleva quelle terre, voleva suo fratello.
Rispondeva male, aggrediva verbalmente e fisicamente all'incirca chiunque, gridava per quisquilie e la testa gli faceva male perché troppe cose, troppo stupide, gli davano sui nervi.
Odiava sentire Manon parlare troppo bene di Abel. Odiava il fatto che Abel fosse diventato una nazione tanto potente. Odiava sentire quanto fosse forte e potente la Repubblica di Venezia.
Si era lasciato scorrere addosso anni, decenni, secoli. Era rimasto a guardare, mentre gli altri si mettevano in cammino. Era rimasto in disparte, quando due persone a cui voleva bene erano entrate in contrasto. Non aveva mai fatto nulla di importante nella sua vita. Non per gli altri, ma per sé.
Si era concesso ad un uomo, senza neppure la scusa del matrimonio tra nazioni. O meglio, l'uomo era sposato. Ma non con lui.
Era entrato nel cuore dello Stato della Chiesa, beffandosi del pericolo, mettendo a rischio troppe persone, solo per compiacersi di sfuggirgli.

Quando tornò a Napoli, la situazione era descrivibile solo come "surreale".
Gli austriaci si erano barricati in alcune fortezze. E niente, questo era il loro apporto alla resistenza. Il gruppo di spagnoli arrivato dal mare aveva posizionato dei cannoni davanti ai fortini e, di tanto in tanto, lanciava qualche palla, quasi con pigrizia.
I napoletani osservavano la scena. C'era chi si affacciava alla finestra, chi si portava una sedia per assistere più da vicino. Alcuni parlottavano, altri avevano aperto un giro di scommesse non sul vincitore, ma su quanti giorni ci avrebbero messo a far capitolare ciascuna fortezza. Lovino era più preoccupato che gli rovinassero il Maschio Angioino.
Con un certo stupore, notò che Inghilterra non era presente. Se quello era il battaglione venuto dal mare, sarebbe stato quasi scontato si fosse portato dietro soldati inglesi, se non direttamente Inghilterra. A quanto pareva, no. Lovino ne fu stupito. Era davvero un "aiuto", un "aiuto" effettivo?
Un signore napoletano si avvicinò ad un soldato spagnolo. Non ci fosse stato sullo sfondo il Maschio Angioino assediato e una fila di cannoni intenta a sparare, non avrebbe avuto lo stesso effetto.
«Uè, guagliò.» disse l'uomo: «Comm sta andando?»
Il soldato si voltò verso di lui. «Hola, buen hombre.» rispose, cortese: «Tenemos una clara ventaja y esperamos la rendición de los austriacos.»
«Interessànt.» L'uomo annuì, soddisfatto. «O' vulite nu' piatto e' maccheròn col pummarola?»
Diversi soldati spagnoli si girarono nella sua direzione, postura impettita ma sguardo vorace e interessato. Il soldato a cui si era rivolto fece da loro portavoce. «Estaríamos encantados.»
I maccheroni col pomodoro arrivarono sul serio. Al pranzo improvvisato si unirono persone a caso - napoletani, spagnoli, gente di nazionalità sconosciuta che passava di lì per sbaglio -, facendo sorgere serie domande sul quantitativo di pasta preparato. Lovino era tra gli astanti, ovviamente. Solo un idiota avrebbe rifiutato pasta gratis.
Era strano. Surreale, sì, era proprio la parola perfetta. Non poteva appartenere alla realtà quella visione di italiani e stranieri che mangiavano insieme, ridevano e scherzavano, come se non ci fosse nessuna differenza, come se non si dovesse avere paura di qualcuno che veniva da fuori, come se quelli non dovessero per forza essere "invasori".
Era un ricordo lontano. Il ricordo di una domanda nella penombra, e le immagini sfocate di un tempo ancora più distante. Vedere concretizzarsi di nuovo quel desiderio era davvero surreale.


Dopo una panoramica simile, poteva dirsi una persona orribile.
Non che gli piacesse essere iroso, invidioso o insaziabile. Rimpiangeva la sua accidia. Non si sarebbe mai pentito della sua avarizia, della sua lussuria e della sua superbia.
Anche dopo averci ripensato, Lovino concluse di non poter essere altro che una persona orribile.

Arrivarono il Dieci Maggio.
Era la parata reale di uno dei racconti di nonno Roma. Don Carlo era passato sotto il grande arco bianco incassato tra i due bastioni rotondi, tra due ali di folla festante. Attorno a lui, soldati di rango superiore, i suoi consiglieri e la sua nazione; dietro di lui, i cavalieri lanciavano monete. Di certo, sapevano come farsi benvolere.
Applausi, boati, cori, grida di giubilo. Mancavano solo la corona di alloro e le prese per il culo al generale e sarebbe stato un perfetto trionfo romano. Lovino non applaudì. Non emise un suono. Rimase a guardare il corteo, mentre tutta Napoli inneggiava al Don spagnolo e toscano. Scrutò quell'uomo, tra le braccia, le monete e lanci casuali di fiori. Non doveva avere neppure vent'anni e già indossava una ridicola parrucca bianca riccioluta. Aveva un viso rotondo e non scorgeva l'aria da scemo che invece accompagnava sempre il cretino poco dietro di lui.
La processione raggiunse il Palazzo Reale. Lì, Lovino quasi trasalì nell'intravedere un ragazzo dai capelli castani, con un ciuffo troppo simile al suo per non poter essere la persona che aveva evitato fino a quel momento. Si costrinse a portare lo sguardo sul Don, accolto dai nobili, dai consiglieri, dai politici e da Napoli stesso.
Lovino si appoggiò alla parete. Sarebbe stato bello. Aveva paura di sperarci, perché la delusione sarebbe stata terribile.
Finiti i discorsi di rito, il Don e le persone a lui più strette furono fatte entrare nel Palazzo. Prima di varcare la soglia, Spagna si guardò intorno. Romano si infilò in un vicolo. Non era ancora finita. Non era ancora il momento. Non poteva ancora pensare di poter sperare, almeno per
loro.

Ma, del resto, non era lui il fratello buono. Soltanto un coglione avrebbe potuto dire il contrario. Gli venne da ridere.

Gli austriaci avevano ricevuto rinforzi più sostanziosi dalla madrepatria e da Croazia, uno degli accoliti di Rodrigo. Si erano riuniti sulla costa adriatica ed erano pronti a lanciare una controffensiva.
Lovino se l'era aspettato. Austria lo teneva soltanto per capriccio, ma non avrebbe lasciato andare le sue terre tanto facilmente. Era quello l'ultimo ostacolo.
... Tuttavia, una cosa di cui Lovino poteva continuare a dirsi sicuro era la natura surreale di tutta quella vicenda. Al momento della battaglia, scoppiò un temporale così violento da costringere tutti alla ritirata, e a rimandare lo scontro al giorno successivo. Quando finalmente riuscirono a combattere, lo fecero per nove ore. Gli austriaci finirono poi con l'asserragliarsi a Bitonto e Bari. Quando però i cannoni spagnoli arrivarono a Bitonto, gli austriaci si arresero.
Il generale spagnolo avrebbe voluto punire gli abitanti di Bitonto per l'aiuto che avevano dato agli austriaci. Prima che Romano avesse potuto anche solo spaventarsi per una simile ipotesi, la vicenda aveva avuto un'evoluzione surreale. La più surreale che Lovino avrebbe mai potuto pensare.
«Don España! Don España!» Il generale quasi ruzzolò da cavallo. Era pallido, l'espressione sconvolta.
Spagna gli si avvicinò, preoccupato. «Cosa succede, Don Montemar?»
L'uomo strabuzzò gli occhi. Parlava quasi boccheggiando. «Mi è apparsa la Madonna!»
«... Eh?» L'unica reazione che si poteva avere ad un'affermazione simile.
«Mi ha detto che, se oserò fare del male ai cittadini, mi gonfierà di botte!»
«Ha detto esattamente così?» Spagna, poverino, era troppo tonto per avere una normale scala di priorità.
«Beh, no, ma vi assicuro che il senso era quello!»
Antonio annuì, pensieroso. Nascosto in cima ad un albero, Lovino mosse lo sguardo in direzione della città. Per sicurezza, si fece il segno della croce e recitò dieci Ave Maria.
«Notizie da Bari!» Un messo giunse al galoppo. Sembrava impaziente, pronto ad urlare la notizia al primo che glielo avesse chiesto. Date le condizioni del generale, fu Spagna a farlo.
«I baresi hanno imposto agli austriaci di arrendersi perché non sono sicuri di avere la possibilità di una seconda apparizione mariana che interceda per loro!»
«Già è arrivata la notizia?»
Lovino scese a terra. Aveva bisogno di un supporto più stabile di un ramo. Cosa stava succedendo. Ma era possibile? Era un'allucinazione di massa? Non voleva essere blasfemo, ma... che cazzo?
Scosse la testa. Era tutto troppo surreale. Era quasi divertente. Sì, un po' gli veniva da ridere.
Austria era stato scacciato dal Regno di Napoli. Qualcosa - Interventi dall'Alto, allucinazioni, un cambio d'idea mascherato da misticismo, funghi con sorpresa - aveva difeso le vite dei suoi abitanti.
Soprattutto, sui volti di quelle persone c'era felicità.
Romano si lasciò andare contro il tronco. Sarebbe stato bello, davvero bello.
Incontrò lo sguardo di Antonio.
Ogni suo gesto, ogni sua parola silenziosa, ogni sua occhiata si lasciava alle spalle la rabbia e la rassegnazione. Era per quei gesti, quei ricordi e quelle speranze che Romano non poteva permettersi di compiere il minimo errore.
I suoi conterranei erano al sicuro, ora. Almeno, osava sperarlo.
Era il suo turno, adesso.
Portò un pugno al cuore. Indicò il bastardo, poi se stesso, quindi il nord.
Non dubitava della stupidità di quell'individuo, ma confidava nella sua testardaggine. Quando scomparve alla sua vista, la mano sul suo petto si strinse sulla stoffa.
Napoli era felice. Presto lo sarebbe stata anche Sicilia, se i suoi sentimenti non erano cambiati. Loro sarebbero stati bene.
Chissà se Roma sarebbe stata capace di perdonarlo per la sua assenza.
Chissà se sarebbe stato capace di riconoscersi nel suo nome.


Mormorò un unico Atto di Dolore. Uno solo, per scusarsi di essere entrato in un luogo sacro senza avere intenzione di parlare con Lui. Non in quel momento, perlomeno. Fece il segno della croce e si rialzò. Gettò un'ultima occhiata al baldacchino e si diresse verso l'uscita della basilica.
Chissà se lo zio Petrus sapeva della sua presenza in quel luogo. Probabilmente no. Ironico, dato che ne portava il nome.



Una frase che aveva sentito spesso era «Le grandi città sorgono sopra altre città». Avrebbero dovuto precisare: «Le grandi città sorgono sopra altre grandi città».
I Fori erano stati lasciati a loro stessi e la natura se li era ripresi, stringendoli in un abbraccio di terra. Il fascino della terra del nonno non si era piegato a quella stretta soffocante: quel campo in cima alla collina offriva uno dei paesaggi più bizzarri che gli occhi avrebbero mai potuto incontrare. Gli archi trionfali, le colonne dei templi, quel poco di soffitto che ne rimaneva, tutto ciò che restava di quello che un tempo era il luogo di ritrovo dei compaesani del nonno spuntava dalla terra come margherite pietrificate. Ed era pieno di vacche. Qualche artista in preda ai fumi dell'ispirazione l'avrebbe interpretato come un fine richiamo al nome dell'Italia, Lovino vedeva un mucchio di vacche.
Non aveva saputo come reagire. Lo trovava inquietante, affascinante, triste, diverso. Inquietante, perché concretizzava in modo troppo doloroso un'assenza non poi così improvvisa, che aveva fatto piangere lui e quell'altro piagnone più piccolo. Affascinante, perché non capitava tutti i giorni di vedere una città antica affiorare nella terra di una collina - Le vacche, poi, davano un tocco in più. Triste, perché significava che quel ricordo non importasse a nessuno. Diverso, perché aveva cambiato profondamente l'immagine nella sua testa. Se in modo positivo o negativo, non sapeva dirlo.
Era quasi il tramonto. La gente iniziava a ritirarsi nelle case, i pastori recuperavano i loro bovini, quel campo che sorgeva sopra i Fori andava svuotandosi. L'aria si faceva più fredda, l'estate la rendeva piacevole. Lovino si era allontanato dalla zona del pascolo il più possibile, apposta per evitare il delicato effluvio del concime animale - Le vacche vaccheggiavano lontane da lì, e lui ancora si chiedeva come potessero i romani trovare piacevole usare come luogo di ritrovo il tavolo-latrina dei bovini. Doveva essere la scenografia. Sì, era senza dubbio quella.
Lovino posò la schiena contro un arco trionfale. Settimo Severo, forse? Ricordava i nomi solo vagamente. Lì l'aria sapeva solo di terra e pietra. La pietra aveva un odore ben specifico, soprattutto se rimasta a lungo sotto il sole. Lo diceva sempre, e la gente si stupiva nel notarlo. L'aveva sempre detto di essere circondato da idioti.
Giocherelleva con il pugnale, lanciandolo e recuperandolo al volo per il manico. Quando voleva impressionare qualcuno, lo recuperava al volo per la lama, incastrandola tra due dita. Ci aveva messo mesi ad imparare entrambi i giochetti, ma gli sguardi ammirati che riceveva - soprattutto dalle fanciulle - l'avevano ripagato. Ovviamente, nessuno aveva mai visto gli squarci sulle mani e sulle dita nel periodo di allenamento, ma non c'era bisogno che qualcuno lo venisse a sapere. Aveva imparato ad usare un pugnale, era stato in grado di contrastare banditi e gente losca, perché non usare quell'arma anche per pavoneggiarsi un po'?
Chissà cosa avrebbe detto Manon. Avrebbe voluto sorridere al pensiero, ma una morsa allo stomaco lo bloccava. Qualsiasi cosa fosse, sentiva le sue radici gelide fin nel petto, la sentiva rallentargli il respiro, fargli tremare le braccia. Doveva concentrarsi sul pugnale. Se fosse riuscito a compiere quel movimento ormai meccanico, quella morsa non l'avrebbe avuta vinta.
Alzò lo sguardo.
Recuperò al volo il pugnale e lo tenne fermo.
Spagna era solo, come gli aveva detto.
Era solo, indossava abiti civili e non la sua uniforme, né quella giusta, né quella sbagliata. Però, dietro la sua schiena c'era ancora l'alabarda.
Serrò la presa sul manico del pugnale.
«Sei riuscito a tornare.» Antonio parlò per primo. Il suo tono era gentile, il suo sguardo intenerito. «Ce l'hai fatta, Lovi.»
Romano annuì. Non disse nulla. Gli sembrava che qualcuno gli avesse afferrato il collo e cercasse di soffocare ogni sua parola, ogni suo respiro. Il suo sguardo rimase duro. Sperò che quell'inquietudine non trapelasse nella sua espressione.
«Gracias.»
Fu tentato dal chiedere il perché, ma si trattenne. Tanto l'idiota l'avrebbe spiegato lo stesso.
«Ci hai indicato la strada più sicura.» Spagna sorrise. «Come una stella nella più buia delle notti.»
Va bene, doveva parlare, o avrebbe vomitato lo stomaco per intero. «Era quello che volevano i miei conterranei.» Incastonò lo sguardo nel suo. «L'ho fatto per loro.»
«L'hai comunque fatto.» Li separavano due metri scarsi. Antonio non diede cenno di volersi avvicinare. «Non dovrete più avere paura di Rodrigo.»
«Non ho mai avuto paura di quel damerino.»
«Sei stato molto coraggioso nel farci strada.» Quel tono era troppo gentile. «E hai rischiato molto tornando a Roma. Ma ce l'hai fatta. Tuo zio non ti ha trovato. Hai rivisto la tua città, dopo tutto questo tempo.»
Lovino annuì. Le nocche sbiancarono sull'elsa.
«Nápoles è al sicuro. Preso lo sarà anche Sicilia.»
La morsa divenne più forte. Pregò che i colori rossastri del tramonto bruciassero qualsiasi cosa lo stesse facendo tremare.
Spagna gli tese la mano. «È ora di tornare a Madrid.»
Non c'era vento. Non c'era neppure un blando frinire di cicale, grilli o qualche altro insetto notturno. Forse non li stava sentendo lui. Avrebbe voluto sentirli, gli avrebbero confermato che non si fosse tutto bloccato in quell'istante.
«Non hai cambiato idea.» disse, solo, in un sussurro.
Antonio non ritrasse la mano. Scosse la testa. «Neppure tu.»
«L'hai visto.» Voleva provare, un'ultima volta. Sapeva quanto fosse inutile, ma voleva provare comunque. «Vi ho guidato fino a Napoli, senza mai farmi prendere. Se sei qui, con me, è perché l'ho voluto io.»
«Ma certo, Lovi!» Il sorriso di Spagna voleva essere incoraggiante. «E sei stato bravissimo, davvero! Tuttavia,» Ma era più compassionevole. «noi siamo dalla tua parte. Non siamo invasori. L'impero che stavi accompagnando non ti vedeva come una preda. Non aveva le armi spiegate.»
Lovino alzò il mento. «Non volevi catturarmi, tu?»
«Non come vorrebbero catturarti altri.»
«No.» Sapeva che sarebbe stato inutile. «Tu vuoi fare ben di peggio.»
«Di peggio, Lovi?»
«Sei felice, ora che hai ripreso Napoli e stai per riprendere Sicilia?»
«Non quanto lo sarò quando ti saprò al sicuro.»
Aveva chiesto al rosso del tramonto di bruciare i suoi tremori, non i suoi occhi. Romano inspirò. «Domini Spagnoli nel Sud Italia.» Un sussurro.
«Arriverà il momento in cui potrai essere indipendente, Lovi.» Una filastrocca odiosa che aveva imparato a memoria, contro la sua volontà.
Non aveva idea di come fosse il suo sguardo. Sapeva solo di non poter commettere alcun errore. Odiava gli imperi.
«Se proprio devo tornare con te» La voce uscì decisa. «portami via da nazione.»
Antonio sgranò gli occhi, confuso.
Romano prese la pistola e la gettò lontano. Puntò il pugnale contro di lui. «Ti sfido, Spagna.»
«Cosa...?» Spagna ritrasse la mano, piano. Forse non l'aveva fatto con consapevolezza.
«Uno scontro all'arma bianca.» specificò Romano: «Se vincerai tu, tornerò con te, a Madrid, senza una sola protesta. Non cercherò mai di scappare.» Non poteva permettere alla sua voce di spezzarsi. «Se vincerò io, dovrai esaudire una mia richiesta. Qualsiasi essa sia. Senza proteste.»
Antonio era disorientato, quasi stordito. Dopo qualche secondo, parve riprendersi. «Cosa stai dicendo, Lovi?» Fece un passo avanti, ma si fermò subito. «Non dire sciocchezze! Non puoi pensare di-»
«Affrontami seriamente, Spagna.»
Era terrorizzato. Non da Antonio, ma dall'esito di quello scontro. Le sue possibilità di vittoria rasentavano il nullo. Però...
«Sono anch'io una nazione.» sussurrò Romano: «Se proprio devo essere portato via dalla mia terra, dammi la dignità di uno sconfitto.»
Spagna non disse niente. Solo dopo qualche istante mormorò: «Perché ti opponi fino a questo punto?»
La risposta era di una banalità troppo noiosa. «Perché voglio rimanere qui tanto quanto tu vuoi portarmi via.»
«Pur di rimanere...» La voce di Spagna era seria. «Mi volgi contro la lama, pur di rimanere in un luogo dove ti succederanno cose ben peggiori?»
Era terrorizzato. E, al tempo stesso, sereno. Era ciò che aveva deciso. «Una nazione condivide il destino del proprio popolo.»
Spagna chiuse gli occhi. Prese la pistola, la estrasse dalla fondina e la lanciò come aveva fatto Romano. Sfilò la croce da sotto i vestiti e la portò alle labbra. La baciò per qualche secondo, forse una preghiera. Lasciò che ricadesse sotto la stoffa. Riaprì gli occhi. Il suo sguardo era gelido.
«Va bene, Italia Romano.» La lama dell'alabarda fendette l'aria con un suono sinistro, mentre si parava d'innanzi a lui, puntata verso il suo avversario. «Come desideri.»
Forse ci sarebbe dovuto essere un momento in cui i due avversari si studiavano, per capire le mosse dell'altro, per decidere cosa fare.
Ma Lovino si vide arrivare la cuspide acuminata all'altezza della gola e dovette gettarsi a terra, il clangore del metallo contro la roccia esplose vicino al suo orecchio. Dovette piegare le ginocchia per evitare che la scure si abbattesse sulle sue caviglie, il fischio dell'aria squarciata gli ferì i timpani. Approfittò dello slancio per rotolare e riavere i piedi a terra. Si alzò appena in tempo per vedere lo scintillio della lama. Invece di buttarsi, scappò.
Non era impossibile. Poteva sopravvivere, in qualche modo. Faticava a star dietro a quei movimenti troppo veloci, ma Spagna non era agile come lui. Era certo che potesse usare quel vantaggio.
Certo, Spagna aveva una fottuta alabarda di due metri, con una cuspide in grado di trapassare, una lama in grado di affettare e uno spunzone arcuato in un uncino, adatto a tirar fuori le interiora. Lui aveva poco più di venti centimetri di lama in grado di sbucciare la frutta.
C'era un dettaglio, in quel caos di fallimento incombente, che lo aveva al tempo stesso turbato e irritato.
Il bastardo gli aveva insegnato le basi di un po' tutte le armi a sua disposizione, sia come usarle che come contrastarle.
Ma non gli aveva mai insegnato nulla a proposito dell'alabarda.
«Bastardo.» Aveva corso abbastanza da seminarlo. La curva della collina, la luce che veniva meno e la disposizione casuale di colonne e pezzi di edificio gli permisero di buttarsi dietro una roccia, per poi scappare in tutt'altra direzione rimanendo rasoterra. Quando riemerse, si accorse di essere di nuovo nelle vicinanze dell'arco di trionfo. I fregi erano abbastanza sporgenti e le crepe abbastanza profonde, così riuscì ad issarsi sulla cima. Di certo Spagna non sarebbe mai riuscito ad arrivare fin lassù. Era un buon momento per ideare un piano. E per riprendere fiato. Si lasciò cadere in ginocchio. Non sentiva passi sul terreno o sull'erba. Non sentiva il rumore del metallo contro qualsiasi cosa - Né lo sentiva strisciare a terra, come trascinato. Rabbrividì. Non aveva idea di dove fosse Spagna. Doveva essersi nascosto. Aveva deciso di tendergli un agguato, quindi. Per precauzione, si voltò. No, non era salito, come sospettava.
Spagna era più forte, ma lui era più agile. L'alabarda era un'arma per scontri di media distanza, diventava inutile una volta troppo vicini al nemico - Il suo pugnale era l'arma perfetta per uno scontro ravvicinato.
In teoria era semplice: evitare i colpi di Spagna e, sfruttando la propria agilità, avvicinarsi abbastanza da poterlo colpire con il pugnale.
In pratica, faceva appena in tempo a vederli, i colpi di Spagna.
Trasse un respiro profondo. Il sole era ormai tramontato. La luce non sarebbe durata ancora a lungo. Spagna sarebbe anche potuto andare in giro roteando la sua alabarda e sperando di colpirlo per caso, lui non poteva pensare di vincere senza sapere dove fosse la lama che avrebbe potuto fargli molto male.
Guardò in basso. L'aveva voluto lui. Non si sarebbe tirato indietro.
Era pronto a pagare per la sua sconfitta. Sarebbe stato distrutto, ma non avrebbe pianto.
Serrò la presa sul pugnale. C'era qualcosa per cui era disposto ad arrivare a tanto. Un unico desiderio per cui rischiare tutto.
Era tornato a Roma. Era entrato a San Pietro.
Non poteva fermarsi ora.
Si calò dall'arco. Si fermò a metà, si guardò intorno. Spagna continuava a non vedersi. Doveva essere cauto, una volta messi i piedi a terra. Quegli stessi nascondigli che gli avevano permesso di dileguarsi ora stavano difendendo l'altro.
Arrivò a terra e si accucciò. Nessun movimento. Si rialzò, piano. Quasi trattenne il respiro, le orecchie in cerca del minimo suono fuori posto. Il buio stava calando. Il silenzio era opprimente. Si sentiva quasi troppo piccolo, in un luogo così grande, vuoto, sotterrato. L'idea di essere l'unico essere vivente in vista non gli piaceva. Non gli piaceva, perché l'unica altra persona lì presente non stava aspettando altro che trovarlo.
Lovino si allontanò dalla pietra. Non sapeva se camminare dritto o curvo, non sapeva se correre o meno, non sapeva se fosse il caso di strisciare. Non si era mai dovuto scontrare con qualcuno di diverso da un bandito umano. Non si era mai dovuto scontrare con un impero che combatteva da secoli.
Un fischio. Alle sue spalle. Le gambe tremarono.
Romano saltò e si voltò appena in tempo per vedere la lama tornare indietro. Arretrò e l'uncino di ferro non potè catturargli le caviglie.
Stava puntando a quelle, allora. Adeguato. Spagna gli avrebbe riattaccato i piedi una volta sicuro che non sarebbe scappato.
Gettò uno sguardo alle spalle dell'altro. Trattenne una risata amara. Si era nascosto sotto l'arco. Gli aveva attaccato la stupidità, eccone l'ennesima prova.
La parte più affilata dell'alabarda tornò a fendere l'aria, una falce che miete il grano.
Era il momento.
La lama fu a pochi centimetri dai suoi piedi. Si scagliò contro il suo avversario. Affondò il pugnale.
Il respiro venne meno. Lo stomaco si schiacciò. Forse le costole s'incrinarono.
Il pugno che l'aveva colpito si abbattè sulla mano che ancora stringeva il pugnale, costringendolo a lasciarlo. Una tenaglia gli afferrò il polso e sentì la terra sotto i piedi venire meno. La schiena sbattè contro qualcosa di terribilmente duro, che gli strappò un gemito strozzato.
Cadde seduto ai piedi dell'arco trionfale, le mani allo stomaco. Un clangore metallico contro la pietra.
La lama fredda dell'alabarda incastonata nell'arco, premuta di piatto contro la guancia e il suo orecchio.
Spagna era davanti a lui, gli occhi verdi e glaciali inchiodati nei suoi, tanto da fare male.
«Ho vinto.»
Il silenzio tornò a coprire la collina. I colori erano prossimi all'essere mangiati dal buio.
«Sei davvero migliorato.» Spagna s'inginocchiò.
Le gambe distese di Romano furono bloccate dal suo ginocchio a terra e dalla sua caviglia. Non sarebbe riuscito a scappare neppure volendo. Ad ogni respiro, lo stomaco mandava una fitta. Il polso era quasi indolenzito, ma era più sopportabile.
«Però dovresti rivedere le tue strategie.» Spagna sorrise. Ma non gli piaceva quel sorriso. «Ora su.» Non gli porse la mano. Una era ancora stretta all'asta dell'alabarda. L'altra, chinatosi in avanti, era troppo vicina al suo fianco. «Torna a casa.»
Neppure in un momento del genere si degnava di usare parole diverse. Era davvero stupido. Ecco perché si sentiva come se il pugno fosse arrivato al petto, piuttosto che allo stomaco.
«Non essere triste. E non arrabbiarti.» Di nuovo, così conciliante. «Arriverà il momento in cui potrai tornare!»
Nessun errore. Ecco cosa si era detto, ripetuto, per giorni, mesi. Serrò le labbra. Si afferrò i polsi.
«Per te quel momento non arriverà mai.» Romano scosse la testa, piano. «Per me è arrivato da un po'.»
Quegli occhi verdi si spalancarono. Un gemito di dolore gli squarciò le orecchie.
Romano ruotò il polso e si scagliò in avanti, la testa si abbattè sulla fronte dell'altro. Lo spinse all'indietro con tutto il suo corpo e si ritrovò sopra di lui.
Ruotò di nuovo il polso ed estrasse lo stiletto dall'addome, con un gesto secco. C'era qualcosa di bagnato, caldo e viscido sulla mano, sul polso indolenzito. L'odore del ferro schiacciava il respiro, invadeva i polmoni, impastava la lingua. Portò la lama dello stiletto alla gola di Spagna. La penombra mischiò la metà scurita con il nero della terra.
«Ho vinto.»
Quegli occhi verdi erano ancora sgranati. Per lo stupore, per la sorpresa, per il dolore.
Era impallidito. Forse aveva già perso abbastanza sangue. Doveva sbrigarsi a dire qualcosa, se voleva essere curato in fretta.
Lovino non si mosse. Non poteva permetterselo.
Anche se voleva piangere, e urlare, e imprecare, e insultare quell'emerito coglione, lui e la sua fottutissima alabarda di due metri, e il suo cervello piccolo come un uovo di quaglia rotto, e la sua stupidità pari a quella degli insetti che si lanciavano in acqua.
Un braccio di Antonio si mosse, per un istante. Qualsiasi cosa volesse fare l'idiota, aveva cambiato idea.
«Quindi...» La sua voce era roca. Solo in quel momento Lovino realizzò di essersi estraniato dai suoi ringhi di dolore. «È questo lo sguardo di Italia.»
Qualcosa scosse il petto di Spagna. Una risata smorzata sul nascere dalla ferita all'addome - Una ferita che avrebbe ucciso qualsiasi essere umano.
Qualcos'altro scosse il petto di Romano. Ma evitò di lasciarlo trasparire in qualsiasi modo.
«È proprio vero.» Un sorriso. «Sei ingovernabile.» Un sorriso che non vedeva da vent'anni, un volto conosciuto che finalmente poteva rivedere. Antonio si lasciò andare contro il suolo. «Hai vinto.» mormorò: «Fammi la tua richiesta.»
Romano rimase immobile. Sperò che il suo sguardo fosse di pietra.
«Dammi un re.»
Spagna sbattè le palpebre. «Cosa-»
«Quel tuo Don Carlo.» spiegò Romano: «Piace a tutti. Dammelo come re. Fai risorgere il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia, dalli a Don Carlo e incoronalo in queste terre.» La lama era ferma contro la gola di Spagna. «Dammi che un re che possa darmi un'identità.»
Non Domini Spagnoli nel Sud Italia.
Regno di Napoli e Regno di Sicilia. Le Due Sicilie unite sotto un unico uomo.
Il re italiano e spagnolo di una terra italiana che respirava aria spagnola.
Un uomo che era stato mandato dalle terre di Feliciano e da quelle di Antonio.
Qualcuno, lassù, aveva un curioso senso dell'umorismo. Ma, se scherzava così con lui, forse non era una persona così riprovevole.
Antonio continuava a fissarlo, lo sguardo stupido, terribilmente stupido, ma terribilmente da Antonio.
«Ho fatto come mi hai detto.» sussurrò Lovino: «Ti ho usato. Ti ho indicato la strada fino a Napoli per farti togliere di mezzo Austria. Stai andando a fare altrettanto in Sicilia. E ora ti sto usando per avere una corona solo per me. Che ridia lustro a Napoli e Sicilia, che identifichi me.»
«Lovi...» Di nuovo quel sorriso. «Ti ricordi?»
Quasi gli cadde il pugnale, ma riuscì a rimanere fermo. «Mi ricordo tutte le tue cazzate. Sono troppo epocali per scordarsele.»
Era ovvio che Antonio avrebbe voluto ridere. Ma si limitò ad espirare con appena più forza. «Mi hai usato...» Uno sguardo divertito. «Mi hai guidato per la strada più sicura. Mi hai sempre tenuto d'occhio. Hai preferito rassicurarmi circa le tue capacità piuttosto che ordinarmi di darti una corona.»
«Sono stato costretto.» Sperava che il buio gli coprisse per bene il volto, perché lo sentiva troppo caldo. «Odio voi imperi, ma ho dovuto parlare la vostra lingua perché tu ti rifiutavi di comprendere la mia.»
Spagna avvicinò una mano al suo volto. Forse era questo ciò che voleva fare prima. Cambiò di nuovo idea e lasciò ricadere il braccio a terra. «Lo siento.»
«Vaffanculo.»
«Esaudirò la tua richiesta.» Poteva ancora scorgere il verde nei suoi occhi. «Lo juro.»
Lovino sentì le spalle cedere. Tutto il suo corpo cedette. Faceva male, faceva malissimo. Gli occhi erano umidi, la gola secca.
Sarebbe stato bello essere davvero padrone di se stesso.
Poteva sperarci. Poteva fidarsi.
Non si era pentito un solo istante.
Voleva riversare addosso a quel coglione tutta l'ansia che l'aveva schiacciato fino a quel momento. Ma avrebbe dovuto aspettare, c'era una ferita abbastanza grave da curare - Le nazioni finivano il sangue o avrebbe continuato ad innaffiare la collina all'infinito?
Prima, però, c'era un'ultima cosa. Litro più litro meno, ormai non faceva troppa differenza.
«Stai fermo.»
«Non è che possa-»
«Taci.»
Premette appena la lama contro il collo, senza però recidere la pelle. Si chinò su di lui. Aveva aspettato per vent'anni di poterlo baciare di nuovo.

.

Note:
* "Sbrago": "Squarcio" in romanesco.
* Il dialogo tra l'uomo napoletano e il soldato spagnolo:
«Ehi, ragazzo. Come sta andando?»
«Salve, buon uomo. Siamo in netto vantaggio e stiamo aspettando la resa degli austriaci.»
«Interessante. Lo volete un piatto di maccheroni col pomodoro?»
«Ne saremmo lieti.»
* Il nome di Langobardia viene da quello della regina Teodolinda (o, appunto, Teodelinda), LA regina longobarda per antonomasia.
* La scultura antropomorfa longobarda ha senza dubbio splendidi esempi ma, personalmente, trovo alcune incisioni abbastanza inquietanti. Tipo l'Altare di Rachis.
* La mappa del tesoro con una X è un elemento entrato nell'immaginario collettivo da L'isola del tesoro, di Robert Louis Stevenson. Non ho però ben capito se questo stereotipo divenne popolare grazie al libro, o se lo inventò Stevenson. Dato che ci sono esempi precedenti, seppur non perfettissimamente uguali e limitati alla sola mappa in sé, passatemelo pls- [ 1 ]
* Miscellanea di curiosità circa le cosenomianimalicittà romane nominate: il Colosseo fu per decenni usato come fonte per materiale da riciclare; in epoca romana, la Bocca della Verità era un tombino; l'angelo di Castel Sant'Angelo (Adrianeum) è stato cambiato sei volte; il Tevere non ha mai brillato per la purezza delle sue acque; monte Mario è uno dei punti più alti di Roma - Difatti ora vi sorge un osservatorio astronomico.
* Discorso a parte per i Fori. A causa dell'incuria in cui versarono da dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, vennero sepolti dalla terra. Il luogo così creato fu chiamato Campo Vaccino, non per meriti sanitari ma perché ci portavano le vacche.
Una particolarità di questo luogo era il fatto che dal terreno spuntassero pezzi di Foro - Svariati artisti dell'epoca hanno riprodotto il bizzarro panorama, vi basta googlare "campo vaccino roma" per trovare vari dipinti. I ruderi vennero riportati alla luce solo a partire dall'epoca napoleonica. [ 1, 2 ]
* La parte storica non si merita nessuna nota: seppur romanzata, un po' velocizzata e molto più "spensierata", è riportata con estrema accuratezza e vi invito ad andare a leggerla sulla kiwipedia.
Sì, pare che i napoletani "osservassero incuriositi" gli spagnoli che bombardavano "gentilmente" gli austriaci. Sì, pare che il 90% della popolazione sud italiana fosse fanboy/fangirl di Don Carlo. Sì, a Bitonto apparve la Madonna e i baresi si arresero perché non erano sicuri sarebbe apparsa anche da loro. [ 1, 2 ]
* La conquista borbonica della Sicilia andò come quella del Regno dei Napoli, tranne che a Messina e Trapani - che si arresero rispettivamente intorno a Marzo e Giugno 1735. Don Carlo, già Re di Napoli dal Maggio 1734, fu incoronato Re di Sicilia a Luglio 1735.
* Regno di Napoli e Regno di Sicilia. NON Regno delle Due Sicilie. *Sarà spiegato meglio nel prossimo capitolo.*


Se un'alabarda ti sorprende, sorprendila con una testata! [non-cit.]
Era stato nominato uno stiletto. Gli era pure stato dedicato un paragrafo. Doveva essere usato, prima o poi. *Forse Spagna non concorda troppissimo con questa affermazione.*
Può sembrare esagerato, ma spero che le parole di Lovino abbiano reso chiaro perché l'ha fatto - Spero si noti anche che, comunque, prima di sfidare Spagna, prova un'ultima volta a parlargli. Tutto ciò riprende pure ciò che gli aveva detto Manon all'inizio: "«Io preferisco risolvere le cose parlando. Ma Abi non mi ha mai ascoltato, quindi non ho potuto fare a meno di provare anche la via meno piacevole.»".
Magari è una precisazione superflua, ma volevo farla lo stesso.

Ad ogni modo, eccoci giunti al penultimo capitolo! ☆
... ((゚□゚;)) *realizzazione* *Considerando che il prossimo è pure un epilogo-*
Se qualcosa non vi torna, tranquilli, sarà spiegato nel prossimo capitolo! *... Se non vi tornerà neppure nel prossimo capitolo, vuol dire che dovrò inginocchiarmi sui ceci e riflettere sul senso della vita.*

In questo capitolo, Lovino dà prova della sua affinita con Willy Er Cojone Il Coyote, esplicitando ancora una volta la sua semitotale incapacità di ideare strategie sensate. Ricordarsi che un arco di pietra ha la parte inferiore vuota avrebbe senz'altro aiutato.
Non so se lo scontro abbia un senso. ヽ ( ꒪д꒪ )ノ Non so descrivere le botte, ci ho provato, oh! quindi qualsiasi domanda tecnica avrà come risposta "Sono nazioni e hanno superforza supervelocità ma non superastuzia". *Si è vista un po' di video di lotte tra spade e alabarde, ma Lovino non ha le capacità di fonteggiare Spagna, quindi niente-*

Cos'è successo dopo che Lovino e Antonio hanno riverniciato la collina? Semplicemente, Lovino ha trascinato Antonio nella locanda più vicina ed è scappato infrangendo la barriera del suono, con Antonio che ha garantito che nooo, quel ragazzo era così braaaavo, l'aveva soccorso! Romano si è eclissato in fretta perché, tipo, forse lo zio Petrus si sarebbe un po' insospettito nello scoprire Spagna ferito a casa sua e palesemente intento a coprire il suo aggressore - Chi sarebbe mai potuto essere?
Avevo una mezza idea di scrivere la scena ma, di certo, qui non ci sarebbe stata e l'epilogo contiene già troppe cose per aggiungerci pure questa. (?)

Altre cose che avrei voluto inserire: in una prima versione, Lovino avrebbe effettivamente visto Antonio ed Arthur insieme. Tuttavia, la geografia me l'ha impedito e niente, Lovino è venuto a sapere del coinvolgimento inglese per vie traverse. *Si allontana abbracciando una barbabietola da zucchero* *Torna*
Ah, siete tutti autorizzati a pensare a Lovino che prima fa il figo (?) facendo il navigatore satellitare (??) per poi fuggire con le gambe disegnate a spirale e lasciandosi dietro una nube di polvere. (???)
Non credo di avere altro da dire, se non che lo spagnolo allo spiedo è stata una delle primissime cose a cui ho pensato quando ho recuperato la storia. *Spagna ne sarà felicissimo!*

Spero che questo ameno capitolo semifinale colmo di innocenti dimostrazioni di buoni sentimenti (???????) sia stato di gradimento!
  
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